Gli strumenti della scienza e la loro produzione
Il termine strumenti scientifici è estremamente vago ed è difficile darne una definizione precisa e valida nel corso di una storia millenaria. Per es., in inglese l’espressione scientific instrument fu utilizzata solo a partire dalla seconda metà del 19° sec. mentre comuni erano in precedenza espressioni quali strumenti ottici, strumenti matematici o, per quelli di fisica, strumenti filosofici. Utilizzeremo in questo contesto il termine in modo molto ampio per indicare tutti quegli oggetti tecnologici necessari all’avanzamento e all’insegnamento delle scienze nonché quelli propri a professioni o ad attività il cui svolgimento implica operazioni di misura, di calcolo, di osservazione o di controllo.
Strumenti medievali e rinascimentali
Alcuni strumenti scientifici erano conosciuti sin dall’antichità e fra essi possiamo ricordare bilance, ferri chirurgici, semplici strumenti per le misurazioni lineari e la topografia, orologi solari. Esistevano anche strumenti più complessi, come il celeberrimo meccanismo di Antikythera risalente al 1° sec. a.C., una sorta di calcolatore analogico a ruote dentate capace di fornire varie indicazioni astronomiche relative al calendario. Poche, però, sono le tracce rimaste di tali congegni. Nel tardo Medioevo diversi erano gli strumenti più o meno sofisticati utilizzati per lo studio e l’insegnamento dell’astronomia e dell’astrologia, nonché per operazioni di calcolo e di misurazione. L’astrolabio, il quadrante, l’orologio solare nelle sue più svariate tipologie, il notturnale, i globi, le sfere armillari erano i più importanti strumenti (insieme con altri utili alla navigazione e ai rilevamenti) che, utilizzati nel periodo tardomedioevale, rimasero in uso anche nel Rinascimento.
L’astrolabio fu lo strumento scientifico per antonomasia, emblema stesso della scienza del tempo. Introdotto nell’Europa cristiana dal mondo islamico verso l’11° sec., la sua origine va probabilmente trovata nella Grecia ellenistica. Generalmente l’astrolabio planisferico era composto da un disco (madre) recante sulla periferia (lembo) una o più scale graduate. Le sue due facce avevano funzioni diverse: sul fronte della madre venivano inseriti i timpani sui quali era incisa la proiezione stereografica polare della volta celeste con le coordinate altazimutali relative alla latitudine del luogo in cui ci si trovava. Sopra il timpano era imperniata la rete, una specie di griglia recante (sempre in proiezione) i cerchi più significativi della sfera celeste e una serie di punte indicanti altrettante stelle. Sul dorso dello strumento, dove si imperniava un’alidada, erano riportate altre scale e diagrammi utilizzati per vari usi. L’astrolabio permetteva di mostrare e calcolare il movimento delle stelle e del Sole e di determinare il tempo nel luogo dell’osservatore conoscendo la latitudine e viceversa, poteva essere utilizzato per operazioni topografiche e geometriche quali la misura delle altezze di luoghi inaccessibili, e dava indicazioni relative al calendario. Era uno strumento estremamente versatile e ciò spiega la sua longevità: fu infatti utilizzato sino al 17° secolo.
Altri strumenti furono preziosi per lo studio e l’insegnamento dell’astronomia, dell’astrologia e per la misurazione del tempo. La sfera armillare, conosciuta sin dal 3° sec. a.C., consiste in una serie di anelli (armille) montati attorno a un asse polare e rappresentanti le coordinate celesti, l’eclittica, l’equatore, i paralleli e i meridiani. Rappresentava il sistema tolemaico e permetteva di mostrare il moto delle stelle e dei pianeti attorno al Sole. Successivamente furono costruite sfere armillari eliocentriche. Il globo celeste forniva un’immagine delle costellazioni, mentre il torqueto, noto già dal 13° sec., era composto da una serie di dischi mobili che rappresentavano i piani di riferimento delle sfere celeste e terrestre e permetteva di risolvere meccanicamente i problemi relativi alle conversioni fra coordinate relative all’orizzonte, all’eclittica e all’equatore. Infine, l’equatorio, simile in apparenza all’astrolabio planisferico, veniva utilizzato per calcolare la posizione del Sole, della Luna e dei pianeti. La realizzazione di questi e altri strumenti, che potevano avere caratteristiche e complessità diverse, richiedeva una notevole padronanza dei concetti dell’astronomia.
Altri strumenti medioevali erano in uso per misurare le posizioni degli astri, ma uno di essi è ben documentato: il bastone di Giacobbe (detto anche balestriglia). Ideato verso la metà del 14° sec., ma derivato da strumenti simili più antichi, nella sua forma più usuale consisteva in un’asta recante una scala graduata lungo la quale poteva scorrere un regolo trasversale. Sfruttando le proprietà dei triangoli simili permetteva di determinare il diametro apparente del Sole o la distanza fra due corpi celesti o due punti sul terreno. Sin dall’inizio del Cinquecento fu utilizzato anche per la navigazione e specialmente per determinare l’altezza del Sole sull’orizzonte. Verso la fine del secolo la balestriglia fu perfezionata e dotata di tre (o a volte quattro) regoli e altrettante scale graduate sull’asta.
Due strumenti importanti sviluppati in Europa nell’alto Medioevo meritano menzione: la bussola nautica e l’orologio meccanico. La prima, fondamentale per la navigazione, ha un’origine complessa e incerta. Fu probabilmente perfezionata sul Mediterraneo tra il 1100 e il 1200, anche se era conosciuta in Cina già in precedenza; nel 1300 era utilizzata insieme allo scandaglio (un semplice peso attaccato a una corda), alle carte nautiche e ai portolani. Per tracciare le rotte erano inoltre necessari righelli e compassi. L’apparizione di orologi meccanici (azionati da pesi) ebbe conseguenze importanti, prima fra tutte l’introduzione delle ore uguali per la misura del tempo. Il loro uso era ormai generalizzato verso la fine del 14° sec. e, oltre a rendere più utile l’uso delle clessidre (orologi a sabbia), rese necessarie alcune modifiche nel design degli orologi solari in modo che anche questi potessero indicare ore uguali. Ciò era possibile, per es., inclinando lo gnomone parallelamente all’asse terrestre (ciò implicava la conoscenza della latitudine) e orientando l’orologio lungo il meridiano (cosa che veniva fatta con l’ausilio di una piccola bussola). L’uso di orologi solari verticali, orizzontali, equinoziali, poliedrici, a quadrante o cilindrici (per citare solo alcuni dei tipi più comuni) continuò a lungo anche dopo l’introduzione nel Cinquecento di orologi da persona azionati a molla. Il 13° sec. vide anche l’apparizione dei primi occhiali utilizzanti lenti convergenti per ingrandire le immagini e correggere la presbiopia.
Alla fine del 14° sec. erano pertanto già disponibili alcuni strumenti sofisticati, anche se in numero relativamente limitato, la cui realizzazione era spesso stata il frutto della collaborazione fra studiosi e abili artigiani. Nel Rinascimento, molti fra gli strumenti menzionati, ideati o perfezionati nel Medioevo, continuarono a rivestire un ruolo fondamentale. I bisogni dell’astronomia e dell’astrologia richiedevano però misure sempre più precise, ottenibili con l’adozione di nuovi e più grandi strumenti. Le loro dimensioni infatti erano importanti al fine di potervi incidere scale graduate sempre più precise e accurate. Per la loro realizzazione si distinse soprattutto l’astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601) nella seconda metà del 16° secolo. Fra gli strumenti più notevoli da lui realizzati, e in parte utilizzati nel suo osservatorio sull’isola di Hveen in Danimarca, una grande armilla equinoziale e una zodiacale, un quadrante murale, due quadranti altazimutali mobili e grandi sestanti. Tycho fu un innovatore attento a ogni dettaglio che permettesse di migliorare la qualità e le prestazioni dei suoi strumenti, per i quali si adoperò al fine di ottenere un design ottimale. Per aumentare la precisione di lettura sulle scale graduate impiegò trasversali che permettevano di determinare le frazioni di tali graduazioni, un accorgimento non da lui ideato, ma che grazie a lui divenne di uso corrente sino all’avvento di noni e vernieri. Le sue migliori misure avevano una precisione, mai raggiunta prima, di circa 20 secondi d’arco e servirono a Johannes Kepler per stabilire le leggi fondamentali dei moti planetari, dunque per l’affermarsi del sistema eliocentrico copernicano. Tycho non fu l’unico del suo tempo a distinguersi come abile costruttore di strumenti scientifici – un altro fu, per es., Jost Bürgi, attivo a Kassel –, tuttavia nessuno ebbe un’influenza paragonabile alla sua nell’evoluzione di questo tipo di strumentazione.
Le tecniche della navigazione astronomica si perfezionarono soprattutto nei Paesi iberici e verso il 1500 esse erano ben note. Gli strumenti per la navigazione vennero migliorati e a quelli già esistenti se ne aggiunsero di nuovi. Per misurare le altezze del Sole o delle stelle sull’orizzonte e, dunque, per determinare la latitudine, erano disponibili il quadrante, l’astrolabio nautico (diffusosi verso la metà del 15° sec.) e il citato bastone di Giacobbe. Il quadrante graduato munito di filo a piombo era però poco pratico da usare sul ponte di una nave, dove vento e onde disturbavano le osservazioni. L’astrolabio nautico era costituito da un pesante anello zavorrato (il peso ne aumentava la stabilità), il cui bordo superiore era graduato; un’alidada permetteva di mirare l’astro osservato e di determinarne l’altezza. Un nuovo strumento, detto quadrante di Davis (o back-staff), fu ideato alla fine del secolo e successivamente perfezionato con diversi accorgimenti. Combinando i principi del quadrante e quelli della balestriglia, esso permetteva all’osservatore di mirare l’orizzonte e al tempo stesso di rilevare l’altezza del Sole (al quale voltava le spalle) tramite l’ombra che un traguardo mobile gettava su una mira fissa. Lo strumento aveva grandi vantaggi rispetto alla balestriglia: non solo l’osservatore non rischiava di essere accecato dal Sole, ma al tempo stesso non doveva mirare simultaneamente l’astro e l’orizzonte.
Già all’inizio del 1500, la bussola aveva assunto alcune delle caratteristiche che l’avrebbero contraddistinta per i secoli a venire. Protetta da una chiesuola, era montata in un giunto cardanico che ne assicurava l’orizzontalità. L’ago magnetico libero di ruotare su di un perno era spesso fissato al di sotto di un disco di cartone recante i punti cardinali. La discrepanza variabile fra Nord magnetico e geografico era già stata notata nel 15° sec.; le correzioni venivano effettuate grazie a osservazioni solari. Nei primi decenni del 17° sec. entrarono nell’uso anche il rapportatore (una sorta di goniometro munito di bracci mobili) e le righe parallele, come ausili per tracciare le rotte.
Alcuni strumenti, come la balestriglia, erano già utilizzabili non solo in astronomia o durante la navigazione, ma anche per i rilevamenti terrestri, e crebbe la tendenza a idearne specifici per la topografia. Un’attività che si sviluppò notevolmente nel corso del 16° sec. fu infatti quella di agrimensore e di topografo, stimolata dal bisogno di nuove e migliori carte geografiche e dalla necessità di conoscere e gestire meglio il territorio. La ricerca dell’originalità e della novità fu spinta dalla possibilità di sbocchi commerciali. Gli strumenti ereditati in questo campo dal Medioevo erano estremamente limitati e rudimentali: qualche asta agrimensoria, qualche squadra o quadrante per semplici misure di altezze. Utilizzate episodicamente anche in precedenza, le carte geografiche si diffusero fra i possidenti terrieri, amministratori statali e militari soprattutto a partire dalla seconda metà del Cinquecento, stimolando il lavoro di matematici e cartografi alla ricerca di nuovi e più efficaci metodi di rilevamento.
La prima descrizione della tecnica di triangolazione apparve verso il 1530. L’efficacia di questo metodo si basava essenzialmente sulla possibilità di effettuare con precisione la misura di angoli sul terreno. Il verso di un astrolabio con le sue scale e l’alidada poteva essere utilizzato utilmente a tale scopo, ma lo strumento era eccessivamente costoso e inutilmente complesso per un rilevatore che non aveva interesse a eseguire osservazioni e calcoli astronomici. La semplificazione dell’astrolabio portò alla costruzione del grafometro a cerchio intero, antesignano del teodolite: lo strumento consisteva in una corona circolare graduata munita di mire fisse al centro della quale era imperniata un’alidada mobile, anch’essa munita di mire. Alla fine del secolo fu proposto anche il grafometro avente solo mezza corona circolare; tali strumenti potevano essere utilizzati per misurare angoli sia orizzontali sia verticali. Costantemente perfezionati (successivamente si montarono su di essi mire a cannocchiale), i grafometri ebbero grande diffusione e rimasero nell’uso corrente fino al 19° secolo.
Sempre per la misura di angoli, in Italia e Germania si utilizzarono spesso i quadranti geometrici, tavole quadrangolari di legno o d’ottone con scale graduate tracciate su due lati adiacenti; nell’angolo opposto a esse era imperniata un’alidada. I quadranti furono proposti con molte variazioni (impossibili qui da descrivere) che portarono a elaborare il teodolite nella sua forma più semplice, formato essenzialmente da un grafometro a cerchio intero recante al centro dell’alidada un sostegno con un semicerchio verticale mobile graduato munito di mire. Questo strumento universale permetteva di determinare mediante una sola osservazione gli angoli orizzontali e verticali. Generalmente, però, i rilevatori preferivano utilizzare strumenti più semplici e soprattutto meno costosi, come la tavoletta pretoriana, su cui era possibile, senza alcun calcolo, tracciare direttamente le linee di triangolazione determinate con un’alidada a mire.
Altri strumenti introdotti probabilmente nel tardo Cinquecento furono la catena e lo squadro agrimensorio. Quest’ultimo derivava idealmente dalla groma romana formata da una croce orizzontale alle estremità della quale erano appesi quattro fili a piombo; lo squadro, infatti, era formato da 4 mire fisse poste a 90° fra loro. In una versione più sofisticata, proposta verso la metà del secolo, esso consisteva in un cilindro metallico nel quale erano praticate quattro fessure verticali a 90° (o 8 a 45°). Questo tipo di squadro (realizzato anche in forma sferica o prismatica) è rimasto nell’uso sino ai giorni nostri. Accanto a questi strumenti si idearono livelle (generalmente munite di un filo a piombo o di un pendolo zavorrato) e odometri, apparecchi meccanici per misurare le distanze grazie ai giri fatti da una ruota munita di contatore.
Un altro campo in cui apparve tutta l’inventività e l’originalità dei costruttori e inventori rinascimentali fu quello degli strumenti da disegno. Furono proposti un gran numero di compassi: ovali, per disegnare ellissi e iperbole; rapportatori, per riportare linee e proporzioni; topografici, nelle operazioni di rilevamento; a tre o più punte, per riprodurre e disegnare carte geografiche; di riduzione, per dividere linee e disegnare poligoni. Strumenti per copiare, ridurre o aumentare le dimensioni di un disegno furono i pantografi, formati da un parallelogrammo articolato; altri strumenti più complessi furono ideati per il disegno prospettico e topografico. La camera oscura, già utilizzata sin dal 13° sec. per osservare le eclissi, divenne un ausilio per gli artisti e i disegnatori. Gli strumenti summenzionati furono solo alcuni di quelli più comunemente utilizzati nel tardo Medioevo e nel Rinascimento che inoltre furono realizzati con innumerevoli modifiche e varianti. Molti altri ne furono proposti ed ebbero vita effimera e spesso non sono sopravvissuti.
La fabbricazione e il commercio tra il 14° e il 17° secolo
Sino alla fine del 13° sec., la domanda di strumenti fu molto limitata e la loro produzione estremamente ridotta. I pochi studiosi, spesso confinati all’interno di comunità monastiche isolate, cercavano di provvedere personalmente alla loro costruzione o si rivolgevano a un artigiano locale. La situazione cominciò a cambiare soprattutto a partire dalla fine del 14° sec., in seguito al lento sviluppo di una serie di eventi. In particolare, vi fu la nascita in alcune città europee delle prime università e dei primi collegi di studio, l’apparizione di nuove attività sempre meglio definite, quali quella di costruttore o di topografo, il crescente interesse per l’astrologia e di conseguenza per l’astronomia (due discipline all’epoca del tutto inscindibili), nonché un espandersi dei traffici e dei commerci. In seguito, lo sviluppo delle tecniche di rilevamento topografico, dell’arte del costruire, della navigazione, del calcolo e della misura richiesero l’adozione di nuovi strumenti la cui fabbricazione contribuì alla nascita e al lento, ma definitivo affermarsi della figura del costruttore come attività indipendente e a tempo pieno. Inoltre, il commercio di semplici strumenti di uso comune, quali bilance, compassi, squadre ecc., permise ad alcuni abili artigiani di specializzarsi nella realizzazione di strumenti più sofisticati, come quelli astronomici. Infine, la diffusione della stampa nel 15° sec. consentì la pubblicazione di tavole astronomiche, così come quella dei trattati sull’uso degli strumenti sempre più complessi. Le corporazioni di arti e mestieri che si svilupparono in Europa a partire dal 12° sec., quali quella dei fabbricanti di bilance o di specchi, dei fonditori di metalli, dei coltellinai, ebbero un ruolo importante (che, come vedremo, non fu sempre favorevole) nell’evoluzione dell’attività dei costruttori di strumenti, anche se tale fabbricazione, che richiedeva abilità di vario tipo e implicava l’uso di materiali e utensili particolari, rimase spesso nascosta o inglobata da produzioni più importanti e si delineò più chiaramente solo a partire dal 16° secolo. Altri costruttori, invece, lavorarono in modo indipendente senza necessariamente dover entrare in una corporazione. Ci limiteremo dunque a citare alcuni casi che furono particolarmente rappresentativi.
A cavallo fra il Quattro e il Cinquecento, Jean Fusoris (1365 ca.-1436), ecclesiastico e studioso francese, si distinse nella fabbricazione di strumenti destinati a università o a ricchi committenti, combinando conoscenze teoriche di sapere matematico con l’abilità manuale. Fu artefice di pregevoli astrolabi e anche di un orologio meccanico per la cattedrale di Bruges. A partire dalla seconda metà del 15° sec., la costruzione di strumenti era ormai ben radicata in alcune città europee, anche se certamente rappresentava una parte minore dell’attività manifatturiera. Nel Rinascimento si distinsero numerosi eccellenti costruttori. Nella Vienna della seconda metà del Cinquecento, Hans Dorn (1430/1440-1509) fu un costruttore originale e innovativo.
L’attività di artefice di strumenti trovò in Norimberga, centro di commerci in pieno sviluppo, un habitat ideale. Cittadina nota per le pubblicazioni a carattere geografico, nonostante fosse lontana dai porti europei divenne un centro per la fabbricazione di globi e in cui l’arte di lavorare i metalli e dell’incisione fu particolarmente fiorente. A Norimberga si trovava nel 16° sec. l’officina di Georg Hartmann (1489-1564), umanista, astronomo, matematico ed ecclesiastico. Oltre cento sono gli strumenti oggi sopravvissuti provenienti dalla sua bottega, fra cui alcuni astrolabi di eccezionale fattura. Altri strumenti, che rappresentavano una parte molto importante e lucrativa della produzione, furono gli orologi solari (specialmente del tipo dittico) in ottone, legno o avorio prodotti lungo il 16° e il 17° secolo. Augsburg fu uno dei centri di produzione di tali orologi, dove fra i più famosi costruttori si ricordano alcuni membri delle famiglie Troschel, Karner o Reinmann. Sempre a Norimberga si distinse in modo particolare Christoph Schissler (1531 ca.-1608), autore di splendidi compendi (strumenti multipli che spesso racchiudevano orologi solari, calendari, volvelle per il Sole e per la Luna, tavole delle latitudini, bussole ecc.). Figura importante fu anche Tobias Volckmer (1560-1624), matematico e orafo dei duchi di Baviera, capostipite di una dinastia attiva sino alla fine del 17° secolo.
Nel 16° sec. Lovanio, nei Paesi Bassi, fu un altro centro di produzione di strumenti e globi. L’importanza di questi ultimi e delle carte geografiche aumentava costantemente, spinta dalla curiosità per scoperte geografiche, dalle necessità della navigazione, delle esplorazioni e dell’amministrazione del territorio. Qui lavorò il cartografo, matematico e costruttore Rainer Gemma Frisius (1508-1555), che ebbe come discepolo anche Gerardus Mercator (1512-1594), abile matematico, cartografo e costruttore di strumenti fiammingo il cui nome è ancora associato a una proiezione geografica. La sua opera fu continuata da Jodocus Hondius, autore anche di globi celesti e terrestri.
Gualterus Arsenius (m. 1580 ca.), membro più importante di un’altra famosa famiglia di costruttori, fu il nipote di Frisius e ne continuò l’attività. Prolifico artefice, costruì fra l’altro astrolabi, sfere armillari, anelli astronomici. Infine, Michel Coignet (1549-1623) fu attivo ad Anversa e continuò la tradizione della scuola di Arsenius. Queste figure, che è riduttivo definire semplicemente costruttori, furono sovente al tempo stesso cartografi, matematici, astronomi, autori di trattati e di atlanti e possedevano vaste conoscenze nell’arte della navigazione, nelle tecniche dell’incisione, nelle proiezioni geografiche. In questi campi numerose erano le connessioni culturali e specialmente la trasmissione di conoscenze relative alle applicazioni pratiche della matematica e della geometria e dell’arte dell’incisione tra i Paesi Bassi e l’Inghilterra. Ne fu un esempio il fiammingo Thomas Gemini che, dopo aver lavorato nella bottega di Frisius e Mercator, emigrò a Londra dove stabilì la sua attività e, verso la metà del Cinquecento, marcò l’inizio dell’era dei cosiddetti costruttori elisabettiani. Fra essi ricordiamo i nomi di Henry Cole, di cui abbiamo ancora oggi numerosi strumenti, James Kynvyn, Augustine Ryther e Charles Whitwell.
Il 17° e il 18° secolo
Il concetto di rivoluzione scientifica, per quanto vago e tuttora al centro di dibattiti, indica sostanzialmente una profonda trasformazione delle teorie e delle pratiche scientifiche e, più in generale, dell’immagine dell’Universo. La rivoluzione scientifica, che viene a situarsi fra la seconda metà del 16° e la fine del 17° sec., sancì la nascita della scienza moderna e fu marcata non solo da fondamentali progressi dell’astronomia, della fisica, della matematica, della chimica, della biologia e della medicina, ma anche dal formarsi di una nuova visione della società e della natura.
Coloro che maggiormente segnarono tale periodo furono Nicola Copernico, Brahe, Kepler, Galileo Galilei, Francis Bacon, René Descartes, Isaac Newton e Gottfried Wilhelm von Leibniz. La rivoluzione scientifica fu caratterizzata in particolare dall’affermarsi del metodo sperimentale per la scoperta e lo studio dei fenomeni naturali, dall’impiego sistematico della matematica per la loro interpretazione e dalla nascita e dall’utilizzo di utensili di indagine completamente nuovi. Fra questi, vi furono strumenti scientifici, come telescopi e microscopi, che aumentarono enormemente la capacità di osservazione permettendo di penetrare assai più profondamente nel macro e nel microcosmo. Altri strumenti, come termometri e barometri, permisero di quantificare (e nel caso della pressione atmosferica anche di scoprire) grandezze che sino ad allora erano rilevabili soltanto qualitativamente. Infine, strumenti quali pompe pneumatiche e macchine elettriche furono in grado, per la prima volta, di produrre fenomeni nuovi, a volte non osservabili normalmente in natura, e dunque di ampliare grandemente l’orizzonte di indagine dei filosofi.
L’astronomia della fine del Cinquecento aveva praticamente raggiunto un limite invalicabile, quello del potere risolutivo dell’occhio umano; l’avvento del cannocchiale permise di oltrepassare tale limite. Come molti strumenti, anche il cannocchiale, composto da una lente convessa e da una concava (detto galileiano), ebbe una storia intricata e non priva di punti oscuri. Nel 1608 lo strumento era ormai conosciuto e proposto da vari occhialai in diverse città europee; l’anno successivo, Thomas Harriot (1560-1621) lo utilizzò per osservare la Luna e Galilei venne a conoscenza di tale nuovo strumento. Nel 1610 lo scienziato pisano pubblicò il Sidereus nuncius, dove illustrava le sue celebri osservazioni sulla morfologia della Luna, sulla natura della Via Lattea e la scoperta di quattro satelliti di Giove. Grazie a tali spettacolari e fruttuose osservazioni, il cannocchiale si diffuse rapidamente fra gli astronomi e altrettanto rapidamente ne vennero proposti miglioramenti.
Kepler ideò uno strumento composto da due lenti convergenti che forniva un’immagine capovolta, la quale poteva essere raddrizzata con l’aggiunta di una o più lenti quando lo strumento era utilizzato per osservazioni terrestri. Il cannocchiale kepleriano, che possedeva il vantaggio di avere un campo di visione assai più ampio rispetto a quello galileiano, soppiantò quasi completamente quest’ultimo in campo astronomico entro la metà del secolo. Negli anni successivi ottici e astronomi si adoperarono per migliorare lo strumento, modificando le combinazioni di lenti, con l’introduzione di oculati composti. La costruzione di lenti era un’arte difficile e tediosa, che richiedeva l’uso di una specie di tornio con il quale si poteva erodere un disco di vetro tramite polveri abrasive sempre più fini sino a che la sua superficie avesse preso la forma voluta (data da una matrice concava o convessa di metallo), per finire con la necessaria politura. Teoricamente semplice, la fabbricazione di una lente richiedeva una grande esperienza e abilità, e in quest’arte si distinsero fra i primi il tedesco Johann Wiesel (1583-1662) e gli ottici romani Giuseppe Campani (1635-1715) ed Eustachio Divini (1610-1685).
Gli astronomi cercarono di realizzare cannocchiali sempre più potenti, capaci di fornire ingrandimenti sempre più grandi, ma tale desiderio si scontrava con le aberrazioni inevitabili generate dalle lenti sferiche. Per ovviare a tale inconveniente si rivelò necessario utilizzare lenti di grande focale che, ovviamente, portarono alla costruzione di telescopi sempre più lunghi. Johannes Hevelius (1611-1687) utilizzò strumenti che potevano avere la lunghezza di 150 piedi e si tentò di andare oltre. Gli elementi ottici (lenti e diaframmi) erano montati in un tubo o lungo un’asse sostenuta da un palo verticale. Christiaan Huygens (1629-1695) eliminò invece il tubo montando l’obiettivo su un palo, mentre l’oculare, nelle mani dell’osservatore, era collegato a esso solo da una corda che permetteva di allineare i due elementi. Ma i cannocchiali di tali lunghezze erano instabili, difficili da manovrare e costosi da costruire. Nella seconda metà del 17° sec. furono proposti vari tipi di telescopi a riflessione nei quali l’obiettivo lenticolare era sostituito da uno specchio metallico concavo, ma, come vedremo, essi entrarono nell’uso corrente solo nel 18° secolo.
I primi tentativi di montare dei cannocchiali su strumenti astronomici di misura vennero effettuati subito dopo l’apparire di tale strumento, ma fu solo verso la metà del Seicento che l’utilizzazione di mire e visori telescopici si generalizzò, non soltanto in campo astronomico, ma anche sugli strumenti topografici, geodetici e di navigazione. Gli astronomi avevano bisogno di misure (altezza, passaggio al meridiano, distanza fra due corpi celesti) sempre più precise per la compilazione di tavole, effemeridi e per tentare di capire le leggi della meccanica celeste. Il cannocchiale da solo era uno strumento di esplorazione e osservazione, ma non di misura. Una nuova generazione di strumenti astronomici venne elaborata utilizzando i cannocchiali e mire telescopiche montati su quadranti, sestanti o altri strumenti già in uso da tempo.
Un importante progresso nella precisione di lettura delle scale graduate di strumenti ottici fu rappresentato dall’adozione di noni e vernieri. Il nonio, proposto sin dalla metà del 16° secolo da Pedro Nunes (1502-1578), era un quadrante recante una serie di scale concentriche ognuna con una divisione in meno della precedente: esso permetteva di leggere frazioni di angoli, ma richiedeva di dividere l’arco con più scale, operazione questa lunga e delicata; inoltre le letture non erano immediate e per ottenere il risultato era necessario passare per il calcolo. Si tentò in diversi modi di semplificare tale sistema e il risultato definitivo fu il verniero, dal nome di Pierre Vernier (1584-1638), che lo descrisse nel 1631: consisteva essenzialmente di un cursore mobile che scorreva a lato della scala graduata principale. Su di esso era incisa una seconda scala graduata di ampiezza complessiva pari a una frazione di quella principale; in tal modo, dopo aver letto i gradi sulla scala principale era possibile leggerne le frazioni su quella secondaria nel punto in cui una delle divisioni delle due scale coincidevano. Il verniero si diffuse lentamente e divenne essenziale quando gli strumenti astronomici e topografici furono dotati di mire telescopiche e le loro parti meccaniche costruite con sufficiente precisione.
Fra i nuovi congegni di misura vi furono i micrometri, che vennero inseriti sui cannocchiali kepleriani e permettevano di determinare il diametro dei corpi celesti o la loro distanza. Numerosi furoni i micrometri ideati a partire dai primi decenni del Seicento da astronomi e costruttori come William Gascoigne, Huygens, Divini, Robert Hooke, Adrien Auzout, Jean Picard e altri. Erano muniti di lamine, di fili di ragno o di reticoli che potevano essere mossi da viti senza fine munite di quadranti graduati. L’uso di micrometri sempre più perfezionati si generalizzò nel corso del secolo. Verso il 1747 Pierre Bouguer propose l’eliometro munito di due oculari paralleli, di cui uno mobile trasversalmente all’asse del cannocchiale, che producevano due immagini dell’oggetto in esame; quando queste erano spostate sino a essere tangenti, il diametro dell’oggetto era proporzionale alla distanza fra i centri degli oculari. Circa nello stesso periodo il costruttore John Dollond propose un altro tipo di eliometro, che consisteva in un cannocchiale che aveva la lente obiettiva divisa in due metà scorrevoli; anch’esso produceva due immagini la cui distanza poteva essere letta su un micrometro. Questo strumento, che poteva essere utilizzato anche su telescopi a riflessione, rimase in uso ancora per tutto il 19° secolo.
L’introduzione di strumenti astronomici muniti di telescopi e micrometro non risolveva il problema delle aberrazioni ottiche, e la loro eliminazione, allungando le focali, generava strumenti poco maneggevoli e non adatti alle misure di precisione. Nella seconda metà del 17° sec. ci si interessò alla possibilità di utilizzare uno specchio concavo in luogo della lente obiettiva. Bonaventura Cavalieri (1598 ca.-1647) aveva già esplorato questa strada, che fu ripresa negli anni Sessanta da James Gregory (1638-1675), il quale propose un telescopio a riflessione munito di uno specchio primario parabolico, un piccolo specchio concavo secondario e un oculare. Difficoltà tecniche nella fabbricazione degli specchi metallici non permisero a Gregory di realizzare il suo strumento. I telescopi a riflessione avevano il vantaggio di essere più corti e maneggevoli dei cannocchiali e di fornire immagini luminose e quasi prive di aberrazioni e dunque le ricerche di Gregory stimolarono Newton a proseguire in questa direzione. Newton, che aveva riconosciuto la natura composta della luce bianca, aveva ben capito che il problema era causato dal fatto che ogni colore era rifratto diversamente, e nel 1668 presentò alla Royal society il telescopio a riflessione da lui ideato e costruito. Un altro telescopio a riflessione simile a quello di Gregory fu proposto quasi contemporaneamente da Laurent Cassegrain, ma nonostante un primo entusiasmo fu trascurato per le difficoltà connesse con la fabbricazione degli specchi metallici e il relativo alto costo.
All’inizio del 18° sec., anche grazie a una serie di descrizioni dello strumento apparse in vari trattati, alcuni costruttori si interessarono ai riflettori e acquisirono le competenze per costruire gli specchi: fra questi, John Hadley e i suoi fratelli George ed Henry, Edward Scarlett e James Short, i quali fabbricarono strumenti in grado di rivaleggiare con i cannocchiali. Short divenne uno specialista nella costruzione di specchi metallici e, verso la metà del secolo, il telescopio a riflessione era entrato a far parte degli strumenti venduti correntemente dai costruttori di strumenti ottici. In Francia e nel resto del continente il loro sviluppo fu meno importante, ma alcuni artefici, come Claude-S. Passemant, cominciarono a produrli regolarmente. I riflettori, anche se apprezzati da ricchi dilettanti e appassionati di astronomia, rimanevano comunque di difficile fabbricazione e l’introduzione e l’uso sempre più diffuso di lenti acromatiche ne limitò la diffusione. Solo nell’ultimo terzo del 18° sec. e grazie essenzialmente a William Herschel, i telescopi a riflessione acquisirono importanza anche presso gli osservatori astronomici per la capacità di fornire immagini luminose e forti ingrandimenti, anche se però si dimostravano più adatti all’esplorazione della volta celeste piuttosto che a misure astronomiche. Per questa ragione il loro uso fu relativamente limitato. I telescopi a riflessione ridivennero molto importanti a partire dalla metà dell’Ottocento, quando fu possibile utilizzare specchi in vetro grazie all’introduzione di tecniche efficaci per la loro argentatura.
La scomposizione della luce bianca effettuata da Newton nel 1666 e la comprensione del fatto che l’aberrazione cromatica deriva da una rifrazione ineguale delle sue diverse componenti cromatiche stimolarono studi e ricerche sulla possibilità di eliminare, o almeno ridurre fortemente, tale difetto nei sistemi ottici. Ciò si rivelò possibile (contrariamente a quanto pensava Newton) combinando due lenti, una concava e una convessa, costituite da vetri dalle caratteristiche ottiche diverse (il comune crown e il denso e molto rifrangente flint). Fu verso il 1730 che Chester Moore Hall (1703-1771), ottico dilettante, riuscì per primo a realizzare tale sistema; per non diffondere la sua invenzione, acquisì le lenti da ottici diversi, ma per una serie di circostanze il costruttore John Dollond venne a conoscenza della scoperta, la brevettò e negli anni Cinquanta cominciò a produrre doppietti acromatici, attività proseguita da suo figlio Paul. Contro tale brevetto molti costruttori intentarono azioni legali, che tuttavia non ebbero successo. All’inizio degli anni Settanta, con lo scadere del brevetto, la superiorità dei doppietti acromatici sulle semplici lenti si era ben affermata, anche se la loro produzione, che contribuì allo sviluppo dell’industria di precisione inglese, rimaneva problematica a causa della difficoltà di reperire vetri ottici di buona qualità.
Infine gli osservatori si dotarono di orologi meccanici di precisione. Essi erano indispensabili per determinare il momento di un evento (ad es., il passaggio di un astro al meridiano) o la sua durata e gli astronomi già da tempo sentivano il bisogno di avere a disposizione tali strumenti, ma essi non furono disponibili fino alla fine del 17° secolo. La storia degli orologi meccanici è un campo troppo vasto e complesso per essere affrontato anche succintamente in questa sede. Comunque basti sapere che fra i vari tentativi fatti vi fu quello di Galilei che aveva scoperto l’isocronismo del pendolo e preconizzato il suo possibile impiego in un orologio a scappamento. Nel 1658 Huygens descrisse un orologio a pendolo di cui furono realizzati diversi esemplari, ma il suo rudimentale scappamento a verga non permetteva la precisione desiderata. Con l’introduzione dello scappamento ad ancora, ma soprattutto di quello ‘a riposo’ che minimizzava le interferenze perniciose fra il pendolo e il meccanismo, e grazie all’adozione del pendolo compensato, fu possibile risolvere i più gravi problemi che contribuivano a rendere gli orologi strumenti poco affidabili.
Nel 18° sec. il loro uso si generalizzò negli osservatori. Grazie, in particolare, all’opera dell’orologiaio John Harrison (1693-1776), nella seconda metà del Settecento fu possibile costruire un cronometro in grado di traversare l’Atlantico su una nave (quindi in condizioni estreme di instabilità) accumulando un ritardo di pochi secondi; ciò permise di risolvere in modo semplice il problema della determinazione della longitudine, sul quale per lungo tempo si erano cimentati astronomi, navigatori e costruttori. Con un cronometro di questo tipo, infatti, bastava determinare l’ora locale della nave (per es., il mezzogiorno solare) e confrontarla con quella del cronometro che manteneva l’ora di riferimento del porto di partenza; sapendo che un’ora di scarto corrispondeva a uno spostamento di 30° di longitudine, la differenza oraria forniva in modo immediato la longitudine stessa.
Il microscopio e il termometro
Il microscopio si diffuse quasi contemporaneamente al telescopio; anche di questo strumento è difficile tracciarne con precisione la genesi. Nonostante quello composto (cioè con due o più lenti) e proposto da Cornelius Drebbel fosse già nelle mani di diversi studiosi verso il 1620, è difficile provare con certezza, come affermano varie fonti, che esso fu ideato già negli ultimi anni del 16° secolo. Galilei fu fra i pionieri nella realizzazione di tale strumento. È curioso notare come probabilmente il microscopio composto fu ideato prima di quello semplice (con una sola lente), per il fatto che esso derivò dal cannocchiale e dai suoi oculari. A ogni modo, per tutto il 17° sec. e per buona parte del 18°, una gran parte delle migliori osservazioni e delle scoperte fu fatta con microscopi semplici. I microscopi dell’olandese Antoni van Leeuwenhoek erano composti da una minuscola lente sferica ottenuta fondendo l’estremità di una bacchetta di vetro e incastonandola fra i fori di due lamine giustapposte di ottone. Grazie a tali strumenti, Leeuwenhoek poté osservare i batteri, gli infusori e gli spermatozoi. Le osservazioni di Hooke, altro pioniere della microscopia, furono effettuate invece con un microscopio composto da lui perfezionato; pubblicate in un voluminoso testo, le immagini ingrandite di insetti contribuirono alla diffusione dello strumento.
I microscopi vennero realizzati ricorrendo a una grandissima varietà di forme, con accessori diversi e differenti caratteristiche costruttive (illuminatori, portaoggetti, sistemi di messa a fuoco, basamenti) e le loro parti meccaniche vennero notevolmente perfezionate nel corso del Seicento e del Settecento. Nonostante alcuni miglioramenti, quali l’introduzione di oculari composti, di una lente di campo fra oculare e obiettivo, restavano i problemi causati dalla cattiva qualità del vetro ottico dell’epoca e dall’inevitabile presenza delle aberrazioni ottiche, che poterono essere corrette solo nel 19° secolo. Per tali ragioni, i microscopi composti fecero grandi progressi dal punto di vista meccanico mentre da quello ottico si evolsero con meno successo e spesso l’aggiunta di lenti addizionali invece di migliorare le immagini le peggiorarono, esasperando le aberrazioni. I microscopi composti, corredati da decine di accessori e costruiti con cura, incontrarono il favore dei naturalisti dilettanti e dei ricchi appassionati di scienza, e furono molto utilizzati in campo didattico.
Nel 18° sec., favoriti anche dalla moda delle dimostrazioni scientifiche, si diffusero i microscopi solari e lucernali, che combinavano alcune caratteristiche delle camere oscure, conosciute sin dall’antichità, e delle lanterne magiche, già descritte da Athanasius Kircher verso il 1670: i primi permettevano di proiettare su uno schermo mediante i raggi solari immagini microscopiche fortemente ingrandite; i secondi, invece, sfruttavano la luce di una sorgente artificiale come una lampada a olio.
Un altro importante strumento che vide la luce nel Seicento è il termometro. Munito di scala graduata fu un’evoluzione diretta del termoscopio, che permetteva semplicemente di rivelare, ma non di misurare, le variazioni di temperatura. Il principio del termoscopio ad aria era conosciuto sin dall’antichità e all’inizio del Seicento tale strumento fu sviluppato da Galilei e da Santorio Santorre e fu trasformato in un termometro utilizzato per le prime misurazioni meteorologiche. Nell’Europa settentrionale, Drebbel e Robert Fludd elaborarono strumenti analoghi dove le dilatazioni e le contrazioni dell’aria dovute alle variazioni di temperatura modificavano il livello di un liquido indicatore. Le indicazioni dei termometri ad aria non sigillati avevano tuttavia lo svantaggio di essere influenzate anche dalle variazioni della pressione atmosferica.
I termometri sigillati basati sulla dilatazione di un liquido furono ideati a Firenze verso la metà del secolo; famosi furono quelli ad alcool, di forme e dimensioni diversi, realizzati dall’Accademia del Cimento. I termometri si diffusero rapidamente nel resto d’Europa. Uno dei problemi fondamentali da risolvere fu quello di disporre di scale comparabili, con la scelta di punti fissi, generalmente le temperature dell’acqua bollente e del ghiaccio fondente, anche se furono utilizzate anche altre temperature (assai più arbitrarie), come quella del corpo umano. Fra le innumerevoli scale di temperatura proposte nel Settecento, si affermarono soprattutto quella centigrada (detta anche di Celsius), quella di René-Antoine Ferchault de Réaumur, divisa in 80 gradi, e quella di Gabriel Farhenheit. Fu lo stesso Farenheit a utilizzare per primo il mercurio come liquido termometrico all’inizio del 18° secolo.
Il barometro, la pompa pneumatica e le macchine elettriche
Le indagini sul peso, sull’elasticità e le proprietà dell’aria portarono all’invenzione del barometro da parte di Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani negli anni Quaranta del 17° secolo. Composto da un tubo chiuso a un’estremità, riempito di mercurio e capovolto in una bacinella contenente lo stesso liquido, il barometro permise di misurare la pressione atmosferica; gli esperimenti in questo campo attirarono immediatamente l’attenzione di Blaise Pascal, di Gilles P. de Roberval e di molti altri studiosi. Si osservò che l’altezza della colonna barometrica era influenzata dalle condizioni atmosferiche e dall’altitudine del luogo in cui si svolgevano le osservazioni.
In Germania, nel 1654, Otto von Guericke, con un celeberrimo esperimento fatto davanti alla Dieta di Ratisbona, mostrò come la forza della pressione atmosferica impedisse a due tiri di 15 cavalli l’uno di separare una coppia di emisferi giustapposti e dai quali era stata estratta l’aria tramite una rudimentale pompa a forma di siringa. La pompa pneumatica si rivelò uno dei più potenti e versatili strumenti della fisica. Quella di Guericke fu seguita da quella ideata da Robert Boyle per i suoi esperimenti, notevolmente migliorata da Hooke: tramite un pistone azionato da una cremagliera essa permetteva, grazie a una valvola e a un rubinetto, di evacuare un pallone di vetro. Le esperienze di Boyle suscitarono un grande interesse e indussero altri scienziati, quali Huygens, Denis Papin, Pieter van Musschenbroek, Willem ’s Gravesande, Jean A. Nollet e molti altri a perfezionare le pompe pneumatiche (a uno o a due cilindri) e a ideare nuove e spettacolari dimostrazioni relative alle proprietà del vuoto. Fra le macchine più efficaci vi fu quella dell’inglese Francis Hauksbee, dotata di due cilindri nei quali mediante un manubrio dentato e due cremagliere venivano mossi i pistoni, mentre il gioco delle valvole era automatico. Pompe meccaniche di questo tipo furono costantemente perfezionate e migliorate al fine di raggiungere vuoti sempre più spinti e, pur se poi soppiantate da macchine pneumatiche di altro tipo, furono molto utilizzate sino alla fine del 19° secolo. I gabinetti di fisica si arricchirono di un gran numero di strumenti che, utilizzati con le pompe, permettevano di eseguire molte esperienze, spesso curiose e divertenti, sui fenomeni relativi al vuoto e alla pressione.
Un altro strumento che caratterizzò lo studio della filosofia sperimentale del Settecento e contribuì grandemente all’interesse che essa suscitò fu certamente la macchina elettrica. Fu Hauksbee che, a partire dalla fine del 17° sec., con una lunga serie di esperienze di elettrostatica elaborò il primo efficace generatore a strofinio, composto da un pallone di vetro (munito di rubinetto) fatto ruotare rapidamente tramite una cinghia da una ruota con manovella. Il pallone strofinato da una mano generava cariche elettriche capaci di attirare o respingere fili e oggetti leggeri, di generare scintille o di produrre bagliori luminosi all’interno del pallone, debitamente evacuato con una pompa pneumatica. La curiosità per questi spettacolari esperimenti portò presto a migliorare le macchine elettriche che, negli anni successivi, si dotarono di conduttori per accumulare le cariche, di cuscinetti per sfregare il globo o il cilindro rotante.
Nel 1745 la bottiglia di Leida venne inventata indipendentemente nei Paesi Bassi e in Germania; rudimentale, ma efficace condensatore elettrico, permetteva di accumulare le cariche prodotte dalle macchine a strofinio. I nuovi e poderosi effetti prodotti dalle bottiglie di Leida (che spesso venivano utilizzate collegate in batteria) contribuirono ulteriormente ad aumentare l’interesse per i fenomeni elettrici. Nella seconda metà del 18° sec. si diffusero anche le macchine elettrostatiche a disco, che rimasero in uso sino al 19° sec. inoltrato. Alcune di esse, particolarmente grandi, se collegate alle bottiglie di Leida potevano produrre scariche molto potenti, capaci, per es., di spezzare spesse lastre di vetro o di far evaporare fili metallici. Famosa fu quella a due dischi di 165 cm di diametro, fatta costruire da Martin van Marum a Leida e accompagnata da quattro batterie composte ognuna da 25 grandi bottiglie di Leida; era capace di produrre scintille di oltre 60 cm di lunghezza. Numerosissimi furono gli accessori e gli apparecchi ideati per mostrare i fenomeni elettrostatici più svariati. L’elettricità rimaneva essenzialmente una scienza qualitativa e fenomenologica, ma dopo il 1750 vennero intraprese nuove ricerche grazie alle quali apparvero i primi semplici strumenti di misura. In questo campo si distinse particolarmente Alessandro Volta (1745-1827) che, grazie ai suoi elettrometri comparabili, riuscì a stabilire la relazione fondamentale che lega carica, tensione e capacità. Volta ideò anche l’elettroforo perpetuo, apparecchio funzionante grazie all’indizione elettrostatica che fu il primo passo verso la realizzazione di generatori a induzione, assai più efficaci di quelli a strofinio. In Francia, Charles-A. Coulomb (1736-1806) alla fine del secolo, grazie a una bilancia di torsione di sua invenzione, dimostrò che la forza elettrostatica (che attira le cariche di segno diverso e respinge quelle di segno uguale) agisce in maniera proporzionale al quadrato della distanza. Anche in Inghilterra, Henry Cavendish fece importantissimi e fruttuosi studi di elettrostatica, ma fu restio a pubblicare i suoi studi, molti dei quali rimasero sconosciuti per circa un secolo. Mentre il Settecento volgeva alla fine, la matematizzazione dell’elettricità era in atto e stava divenendo una scienza quantitativa. Nel 1800 Volta annunciò l’invenzione della pila elettrica, che sanciva la nascita dell’elettrodinamica e dell’elettrochimica. I fenomeni magnetici, invece, studiati da William Gilbert alla fine del Cinquecento, erano soprattutto importanti in relazione al campo terrestre e alla sua azione sulle bussole. Nel 18° sec. i gabinetti di fisica si dotarono di magneti armati (pezzi di magnetite racchiusi in armature metalliche che ne aumentavano l’azione) o calamite artificiali.
Gli strumenti di calcolo
Abbiamo visto in precedenza l’importanza crescente che il calcolo andava acquistando non solo in campo scientifico, ma anche in una serie sempre più ampia di professioni e di attività della vita quotidiana. Un’attenzione particolare merita il compasso di proporzione, un vero e proprio calcolatore analogico tascabile con il quale era possibile eseguire un gran numero di operazioni geometriche e matematiche sfruttando le proprietà dei triangoli simili. Ideato alla fine del 16° sec. e derivato da altri strumenti, fu notevolmente perfezionato da Galilei, anche se l’inglese Thomas Hood aveva proposto contemporaneamente uno strumento simile. Sui bracci dello strumento galileiano erano tracciate linee diverse (aritmetiche, geometriche, stereometriche, dei metalli) che permettevano di eseguire una serie di operazioni (una quarantina in totale), quali la divisione di linee e di circonferenze, la quadratura delle superfici regolari, la somma dei volumi di corpi solidi, l’area di settori circolari, il calcolo dei rapporti fra volumi e pesi di sostanze diverse. Lo strumento, dotato anche di un arco graduato da fissarsi fra i bracci, poteva essere utilizzato anche come inclinometro, per misurazioni topografiche e astronomiche, e come squadra per gli artiglieri. Questi, tra l’altro, si dotarono di calibri per le bocche dei cannoni e dei proiettili, di quadranti con filo a piombo e pendoli per misurare l’inclinazione e, di conseguenza, la gittata delle armi da fuoco.
Ripreso e modificato da altri costruttori, il compasso di proporzione divenne uno strumento standard ampiamente utilizzato in ambiti diversi sino alla fine del 18° secolo. Parte integrante di ogni set di strumenti matematici e da disegno, venne prodotto anche con scale proprie per attività speciali, come la costruzione di fortificazioni, scale di rapporti musicali, scale per la costruzione di speciali elementi architettonici.
Di rilievo furono gli strumenti derivati dall’introduzione dei logaritmi, effettuata da John Napier nel 1614 con immediato successo. Potenti utensili matematici, i logaritmi permettevano di ridurre a semplici somme e sottrazioni operazioni più complesse, quali moltiplicazioni, divisioni, estrazioni di radici ed elevamenti a potenza. Circa dieci anni dopo, Edmund Gunter propose un regolo diviso con scale logaritmiche che veniva utilizzato per moltiplicare e dividere, il quale si diffuse rapidamente e, arricchito da altre scale (per es., trigonometriche), era in uso ancora nell’Ottocento. Attorno al 1630 William Oughtred sviluppò il regolo calcolatore circolare, poi un regolo lineare antesignano del regolo moderno, combinando due regoli di Gunter. Altri costruttori, come il londinese Richard Delamain, idearono nello stesso periodo strumenti simili e ciò suscitò aspre polemiche sulla priorità di tali invenzioni.
Per varie ragioni, i regoli calcolatori nel Seicento non ebbero certo la diffusione dei compassi di proporzione. Proposti con numerose varianti, si affermarono soprattutto a partire dal 19° sec. nel corso del quale, con scale diverse e specializzate, divennero l’ausilio indispensabile di tecnici, ingegneri e scienziati, sino all’avvento delle calcolatrici elettroniche tascabili.
Un altro ausilio per il calcolo furono i ‘bastoncini di Nepero’, illustrati dall’inventore dei logaritmi nel 1617, ma basati su un sistema già conosciuto in precedenza in area mediterranea. Costituiti da asticelle di legno o d’avorio che riportavano i primi multipli di un numero, avevano le cifre delle unità e delle decine separate da una linea diagonale, e permettevano di trasformare moltiplicazioni e divisioni in semplici somme e sottrazioni.
Va infine ricordato che fin dal 17° sec., nel tentativo di facilitare le operazioni aritmetiche in varie professioni laboriose e ripetitive, vennero ideate e costruite innumerevoli macchine da calcolo automatiche. Si cimentarono nella loro ideazione Leibniz, Sir Samuel Morland, Giovanni Poleni, Pascal, Charles Stanhope. La maggior parte di esse erano utilizzate per somme o sottrazioni e in alcuni casi anche per moltiplicazioni e divisioni; altre permettevano di automatizzare calcoli trigonometrici. Tali macchine richiesero soluzioni ingegnose per il loro efficace funzionamento, come quella necessaria per tener conto automaticamente dei riporti. Nonostante l’ingegnosità dell’invenzione, la loro diffusione fu però limitata, anche a causa del costo elevato rispetto ad altri strumenti di calcolo.
Lo sviluppo della produzione e della commercializzazione in Europa
Sino all’inizio del Seicento, la produzione di strumenti scientifici non solo era ancora limitata, ma affidata ad artigiani appartenenti a corporazioni diverse con regole assai rigide, per cui l’uso di materiali e utensili appannaggio di una certa corporazione poteva essere precluso a un’altra, e l’infrazione di tali regole poteva portare alla confisca di quanto non autorizzato; ciò costringeva gli studiosi a realizzare personalmente gli strumenti o a commissionarli a un artigiano di fiducia. Questo sistema fu adottato spesso anche dai nobili committenti e dalle prime accademie scientifiche, che assumevano costruttori, spesso concedendo loro speciali privilegi (vitto e alloggio). Gli strumenti costruiti rimanevano però spesso oggetti da collezione, oppure il loro uso era limitato a una stretta cerchia di persone.
Alla fine del Seicento questa situazione stava però evolvendo e verso la metà del Settecento la costruzione di strumenti scientifici era diventata un’attività a sé stante e molto più strutturata. La crescente matematizzazione della fisica, dell’astronomia, della topografia e di altre attività professionali contribuì a incrementare la collaborazione fra i membri della comunità scientifica e di quella artigianale. La richiesta in aumento e soprattutto regolare degli strumenti più svariati, non solo favorì lo svilupparsi di officine specializzate nella loro costruzione, ma anche l’apparizione di negozi dediti esclusivamente al loro esclusivo commercio.
Una delle ragioni che stimolò tali attività fu il sempre maggiore interesse per la fisica e per le sue scoperte che, a partire dalla fine del 16° sec. e per buona parte del 18°, divenne una vera e propria moda. Il cannocchiale, il microscopio, la lanterna magica e vari giochi ottici, la pompa pneumatica e poi la macchina elettrostatica, con tutta la loro panoplia di apparecchi accessori che permettevano osservazioni e dimostrazioni spesso molto spettacolari, attirarono l’interesse delle classi sociali più agiate e istruite (appartenenti alla cosiddetta polite society), interessate alle più recenti idee filosofiche e alle scoperte scientifiche, per le quali le serate accompagnate da esperienze scientifiche erano stimolate sia da una sincera curiosità intellettuale sia dal fascino di una nuova moda culturale. La possibilità di vedere le meraviglie scoperte dai microscopisti, le novità celesti svelate dagli astronomi, di far scoccare scintille da una macchina elettrica, o di studiare i fenomeni della pressione atmosferica ebbe un grande ruolo nella diffusione degli strumenti. Nei salotti nobiliari di molte città europee ci si divertiva elettrizzando persone, facendo sprizzare acqua dalle fontane nel vuoto, o proiettando immagini ingrandite di minuscoli insetti.
Questo interesse fu una delle ragioni del formarsi dei gabinetti scientifici settecenteschi, nei quali gli strumenti occupavano una parte importante. Ma tali collezioni erano diverse dalle eterogenee Wunderkammer rinascimentali, dove gli strumenti erano curiosità preziose, oggetti inusuali e carichi di significati simbolici. I gabinetti di fisica di nobili o di ricchi scienziati dilettanti erano ordinati seguendo una tassonomia precisa e un ordine logico, e le varie branche della fisica vi erano rappresentate dagli apparecchi capaci di mostrarne i fenomeni e da modelli di macchine che ne illustravano le applicazioni pratiche.
Altre collezioni vennero a formarsi per le necessità di ricerca di singoli studiosi e di accademie e comprendevano sia strumenti di produzione corrente sia apparecchi per specifici studi. Inoltre, a partire dalla fine del Seicento vi fu un notevole incremento nelle collezioni scientifiche per la didattica. L’uso di strumenti non era certo nuovo nell’insegnamento (basti pensare all’astronomia), ma lo sviluppo di attività che richiedevano un numero maggiore di strumenti (la navigazione, la topografia, l’architettura ecc.) e quello rapido e spettacolare della fisica spinse scuole, università e collegi a dotarsi di nuovi apparecchi. L’insegnamento della fisica si affermò non soltanto in Francia, Inghilterra e Paesi Bassi, ma anche in molti altri Paesi europei e, soprattutto nei centri più importanti, vennero a formarsi collezioni di strumenti filosofici.
Per limitarsi al caso dell’Italia, basti pensare, per es., alle ricchissime collezioni private settecentesche dei Lorena o a quella di lord Cowper, entrambe a Firenze, e a quelle universitarie di Padova, Bologna o Pavia. Certamente la diffusione della fisica sperimentale fu molto favorita e stimolata dall’opera di personaggi che potevano essere al tempo stesso studiosi, divulgatori, dimostratori (spesso peripatetici), autori di trattati scientifici e, a volte, anche costruttori di strumenti. Sin dalla seconda metà del Seicento Jacques Rohault (1618-1672) in Francia aveva proposto lezioni di filosofia naturale cartesiana arricchite da dimostrazioni sperimentali; analoghe lezioni di fisica newtoniana erano presentate da John Keill a Oxford e da William Whiston a Cambridge. Nei Paesi Bassi, ’s Gravesande scrisse un trattato sperimentale che ebbe grande diffusione: in esso la fisica di Newton, spogliata di gran parte della matematica, era spiegata grazie a una serie di esperienze illustrate da un gran numero di strumenti, molti dei quali ideati dallo stesso ’s Gravesande. Sempre nei Paesi Bassi, anche Pieter van Musschenbroek (membro di una famiglia di costruttori di strumenti) fu autore di un trattato simile caratterizzato dalla descrizione di molti strumenti. In Francia, le lezioni di Pierre Polinière ebbero molto successo, ma fu certamente l’abate Nollet che con le sue opere, con le sue lezioni dimostrative e con gli strumenti da lui ideati contribuì grandemente alla diffusione di questa disciplina, anche se a Parigi non era facile procurarsi gli apparecchi necessari e costosi per ripetere le esperienze descritte da Nollet. Egli perciò scrisse anche un trattato a carattere squisitamente tecnico nel quale si illustrava con dovizia di dettagli come costruire gli strumenti necessari per ripetere i suoi corsi di fisica; la sua tradizione fu poi proseguita da Jacques Brisson e da Joseph-A. Sigaud de Lafond. In Inghilterra sono da ricordare i trattati e gli strumenti di John T. Desaguliers, Benjamin Martin e James Ferguson. Il ruolo di questi personaggi fu estremamente importante: certamente contribuirono a innescare l’interesse per la fisica, idearono o perfezionarono un gran numero di strumenti per illustrarla, stimolarono la costituzione di gabinetti scientifici pubblici e privati e infine alimentarono il mercato degli strumenti. Inoltre, alcuni di essi, dopo aver fabbricato i propri strumenti, continuarono a produrne anche per terzi. Altri, come Nollet, provvidero a fornire gli strumenti per i loro clienti anche attivando e supervisionando una rete di costruttori e artigiani.
A partire dalla fine del Seicento la fabbricazione e il commercio di strumenti scientifici in Inghilterra si svilupparono in modo tale che alla fine del 18° sec. essa si trovava in posizione di assoluta predominanza. Numerosi furono i fattori che contribuirono a tale successo: l’espansione coloniale e commerciale, la nascente industrializzazione, il moltiplicarsi delle esplorazioni, la domanda di migliori strumenti per determinare la posizione in mare, le ricerche per risolvere il problema della longitudine, l’istituzione di nuovi osservatori astronomici, sia pubblici sia privati. Fra questi si ricordano in modo particolare l’ottante e il sestante da esso derivato.
L’ottante fu ideato negli anni Trenta del secolo da Hadley a Londra e, contemporaneamente, da Thomas Godfrey a Filadelfia; entrambi presentarono i loro strumenti alla Royal society, con un successo immediato, dal momento che tali strumenti permettevano di misurare le altezze e le distanze angolari con una precisione di 1-2 minuti di arco. Furono adottati sulle navi e soppiantarono rapidamente apparecchi più antichi. La loro produzione, velocemente standardizzata, fu essenzialmente monopolio dei costruttori londinesi, presso i quali la domanda di abili artigiani capaci di dividere accuratamente le scale e convenientemente remunerati non fece che crescere. Fra i primi a realizzare tali strumenti si ricordano Jonathan Sisson (1690-1747) e il figlio Jeremiah (1720-1783) e John Bird (1709-1776), per l’eccezionale abilità acquisita nella difficile arte di dividere manualmente e tramite complesse procedure le scale di strumenti graduati e specialmente quelle di grandi quadranti utilizzati negli osservatori astronomici.
Uno dei vantaggi che già dal 17° sec. favorì i costruttori inglesi fu la capacità di produrre vetro ottico di qualità paragonabile a quella dei migliori vetri fabbricati in Germania o a Murano. L’introduzione in Inghilterra di obiettivi acromatici, commercializzati da Dollond e successivamente da altri costruttori, fu un ulteriore fattore che contribuì all’espansione dell’industria di precisione inglese. Durante il secolo, favorita da una crescente richiesta, la produzione di strumenti evolse verso una specializzazione e una divisione del lavoro: infatti, se, per es., Short si specializzò nella produzione di specchi metallici, i tubi d’ottone per i suoi telescopi a riflessione erano prodotti da artigiani non appartenenti alla sua officina. Altri si erano specializzati nella tornitura, o nella produzione di scatole e astucci per gli strumenti, di tubi in vetro per barometri, di lenti.
Verso la metà del 18° sec., quando ormai l’industria degli strumenti londinese aveva una rinomanza internazionale, accanto a costruttori come Short o John Cuff (quest’ultimo costruttore di microscopi) dedicatisi alla produzione di una tipologia ben precisa di strumenti, esistevano grandi officine che, sfruttando una rete di lavoranti e collaboratori esterni, potevano fornire strumenti di ogni tipo.
Il successo dell’industria di precisione inglese e la necessità di produrre un numero sempre più grande di strumenti di questo tipo spinsero a ricercare nuovi metodi di produzione e a ideare nuove macchine utensili. Sino alla metà del 18° sec. i costruttori avevano a disposizione essenzialmente utensili manuali, come lime, seghe, martelli, sgorbie, ceselli, bulini, compassi a punte secche, punzoni, oltre a polveri abrasive per lucidare e altre sostanze. La qualità delle incisioni, la precisione delle linee e delle graduazioni, l’eleganza delle decorazioni e delle iscrizioni dipendevano esclusivamente dall’abilità del costruttore, che affinava la sua arte con anni d’esperienza. Unica macchina utensile era il tornio, che poteva essere di vari tipi, e con il quale, tramite un utensile tagliente tenuto dall’operatore, era possibile lavorare pezzi a simmetria circolare.
La divisione delle scale di quadranti, sestanti, teodoliti e altri strumenti, operazione lunga, delicata e tediosa, era effettuata manualmente (grazie a pochi utensili, quali compassi e righelli) da operai specializzati. Per tracciare le divisioni di grandi strumenti, come i quadranti astronomici, le cose si complicavano ulteriormente per le possibili deformazioni dei cerchi dovute alle escursioni termiche; era perciò necessario operare solo in certe ore del giorno o nei mesi in cui tali variazioni erano minime. Solo pochi abilissimi costruttori, come Bird, Sisson o George Graham erano in grado di eseguire con successo tali complesse operazioni, che spesso richiedevano mesi di lavoro.
Un progresso fondamentale fu rappresentato dall’introduzione delle macchine da dividere, sperimentate con alterni successi sin dai primi decenni del Settecento, fino alla prima veramente efficace e funzionale ideata da Ramsden fra gli anni Sessanta e Settanta. Lo strumento da dividere veniva fissato su un piatto la cui circonferenza era dentata; a essa si adattava tangenzialmente una vite senza fine. La rotazione della vite, di un angolo determinato in funzione delle divisioni da ottenere, provocava una piccola rotazione del piatto; un cursore radiale al piatto e munito di bulino permetteva di tracciare le divisioni sullo strumento a ogni avanzamento di un grado o di una sua frazione. Anche se teoricamente semplice e di concezione non originale, la macchina di Ramsden si dimostrò efficace per la cura con cui il costruttore aveva realizzato le sue parti e in modo particolare la vite tangenziale, per costruire la quale aveva ideato un apposito congegno. La macchina, che permetteva di tracciare divisione di mezzo secondo di arco, ebbe un immediato successo e venne adottata anche da altri costruttori, permettendo di rendere semiautomatica ed eseguibile anche da operai non particolarmente specializzati un’operazione che, fatta manualmente, richiedeva molto tempo e grande esperienza. L’introduzione della macchina da dividere non solo dette ulteriore impulso alla produzione inglese di strumenti, ma fu un primo e importante passo verso la sua meccanizzazione e verso un processo di industrializzazione che continuò per tutto l’Ottocento, con l’introduzione di nuove macchine utensili e tecniche.
Negli anni Ottanta del Settecento l’astronomo Jean D. Cassini (Cassini IV) decise di modernizzare l’Osservatorio astronomico di Parigi e di dotarlo di strumenti migliori e più moderni, ma, dopo alcuni tentativi fallimentari fatti con i costruttori francesi, decise di rivolgersi a Ramsden a Londra. Questa vicenda mostra come la produzione francese di strumenti nel Settecento non fu in grado di svilupparsi e di progredire in maniera simile a quella inglese. Una delle ragioni che ostacolarono il progresso nella produzione di strumenti furono le regole corporative che sino alla loro soppressione, nel 1791, erano assai rigide e applicate con più severità di quanto non avvenisse a Londra. Le briglie corporative e altre circostanze relative, per es., all’organizzazione dell’apprendistato e del commercio portarono a una frammentazione deleteria che non permise a Parigi lo sviluppo di reti di collaborazione e di grandi officine di importanza paragonabile a quelle di Londra. Solo pochissimi costruttori che per privilegio reale lavoravano all’interno del Louvre godevano di ampia libertà di azione e commercio. Certo anche a Parigi alla fine del 17° sec. vi erano alcuni abili artigiani quali Nicholas Bion o Michael Butterfield la cui produzione era variata e importante. Nel Settecento si erano distinti abili artigiani quali Jacques Le Maire, poi Claude Langlois, Jacques Canivet o Louis-Pierre-Florimond Lennel che si succedettero gli uni agli altri. Passemant produsse eccellenti strumenti ottici e, alla fine del secolo, altri quali Pierre-Bernard Megnié, Étienne Lenoir e Nicolas Fortin si erano distinti per la loro abilità e avevano rappresentato un’avanguardia di nuovi costruttori che avrebbero marcato l’inizio di un periodo estremamente fecondo dell’industria francese di precisione. Sino alla fine del 18° sec., tuttavia, gran parte della produzione parigina fu dedicata ad apparecchi dimostrativi utilizzati nelle serate scientifiche alla moda o destinati ad arricchire le collezioni il cui fine era più ostentativo che non utilitario. In tali strumenti, che dovevano rispecchiare il gusto dei loro proprietari e armonizzarsi con l’arredamento delle loro dimore, veniva ricercata l’eleganza, l’ornamento, il fascino estetico più che la precisione e l’accuratezza meccanica o ottica delle loro parti. Inoltre, contrariamente a quanto accadeva in Inghilterra, l’interazione fra costruttori e scienziati era quasi inesistente. L’Académie des sciences, diversamente dalla Royal society, rimaneva un’istituzione d’élite alla quale i costruttori, considerati meri esecutori, non avevano accesso.
Malgrado alcuni infruttuosi tentativi fatti per modificare questo stato di cose, la situazione cominciò a cambiare solo verso la fine del secolo. Con la Rivoluzione scomparvero le corporazioni e la committenza privata cedette il posto a quella pubblica; negli anni successivi furono intrapresi importanti progetti scientifici (come la misurazione dell’arco di meridiano e la susseguente realizzazione del sistema metrico decimale) e fondate nuove istituzioni scientifiche (École polytechnique, Bureau des longitudes, Conservatoire des arts et métiers ecc.). Il sistema educativo francese si sviluppò e fu da esempio per altre nazioni. Questi e altri fattori (come i successi della scienza francese nel periodo fra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento) contribuirono notevolmente al decollo della produzione di strumenti parigina, che si sviluppò con successo ed ebbe il suo periodo d’oro nell’Ottocento.
Anche in altri Paesi europei, come Paesi Bassi, Germania, Russia o Italia, esistevano alcuni ottimi costruttori, ma nessuno fu in grado di rivaleggiare con quelli inglesi; non fu possibile infatti fondare e sviluppare officine capaci di produrre quantità importanti di strumenti grazie anche all’introduzione di una divisione delle produzione, né di tessere la complessa rete di costruttori, di fornitori di parti ed elementi speciali, di rivenditori, come avveniva a Londra. Inoltre, in Germania, Paesi Bassi e Italia la domanda era frammentata in centri diversi e non era concentrata nelle capitali, come accadeva invece in Inghilterra e in Francia. Perciò i costruttori, spesso meccanici e ottici addetti alle specole astronomiche e ai gabinetti di fisica di collegi e università, fornivano essenzialmente strumenti a un mercato locale e limitato. Spesso fabbricavano strumenti relativamente semplici e di uso comune o si rifacevano, non sempre con successo, a quelli più complessi realizzati all’estero.
Nell’Ottocento, la crescente industrializzazione, la nascita e l’affermarsi di nuove professioni tecnico-scientifiche, gli enormi progressi delle scienze e delle loro applicazioni pratiche, lo sviluppo del sistema educativo aperto a un numero sempre più grande di persone, l’incremento dei viaggi, dei commerci, delle esplorazioni coloniali, la realizzazione di grandi opere quali strade, ferrovie e canali generarono un bisogno sempre più capillare e generalizzato di strumenti di tutti i tipi. Ciò ne trasformò radicalmente la produzione e il commercio. Se alla fine del 18° sec. la predominanza dei costruttori inglesi era soverchiante, già verso il 1850 l’industria di precisione parigina, che in poco più di mezzo secolo aveva compiuto notevolissimi progressi, era in grado di fornire un gran numero di strumenti la cui qualità poteva uguagliare, e a volte superare, quelli inglesi. La Germania, salvo alcuni eccellenti costruttori di strumenti astronomici e di rilevamento attivi a partire dall’inizio del secolo, rimase in posizione subordinata, ma dopo l’unificazione nel 1870 vide un considerevole sviluppo economico e industriale che influì notevolmente sulla produzione di strumenti, tanto che già verso il 1900 poteva fare una concorrenza agguerrita ai costruttori inglesi e francesi.
La produzione di strumenti in Italia tra il 15° e il 18° secolo
Nel periodo tardomedioevale e rinascimentale, l’Italia, frammentata in numerose entità politche, ebbe essenzialmente due centri in cui la produzione di strumenti scientifici fu rilevante: Roma e, soprattutto, Firenze. Il fiorire del Rinascimento a Firenze e il crescente interesse per la matematica applicata, la prospettiva, l’architettura, la cartografia e i rilevamenti topografici stimolarono l’interesse per gli strumenti e favorirono le attività di alcuni costruttori che spesso godettero della protezione e del sostegno dei Medici. Fra gli artigiani fiorentini primeggiarono alcuni membri della famiglia della Volpaia.
Lorenzo della Volpaia (1446-1512), attivo negli ultimi decenni del Quattrocento, fu orologiaio, artefice di strumenti, architetto, matematico e orafo. Su commissione di Lorenzo de’ Medici realizzò un complesso orologio dei pianeti. Le attività della sua bottega furono proseguite sino all’inizio del 17° sec. dai figli Camillo, Benvenuto ed Eufrosino e dal nipote Girolamo. Della loro produzione rimangono orologi solari e notturni, sfere armillari, quadranti e strumenti matematici di vario genere.
Egnazio Danti (1536-1586), attivo nel 16° sec., fu il cosmografo di Cosimo I de’ Medici e realizzò le grandi mappe geografiche che si trovano a Palazzo Vecchio. Perfezionò vari strumenti scientifici e scrisse trattati sull’argomento. A lui si devono gli strumenti astronomici istallati sulla facciata della chiesa di S. Maria Novella. Trasferitosi a Bologna e poi a Roma, divenne cosmografo di papa Gregorio XIII.
Antonio Santucci (fine del 16° sec.-1613 ca.), matematico e astronomo, fu al servizio di Ferdinando I e di Cosimo II. È ricordato soprattutto per le due grandi sfere armillari costruite sotto la sua direzione rispettivamente per Filippo II di Spagna e per Ferdinando I. Quella conservata a Firenze fu realizzata fra il 1588 e il 1593 grazie all’opera di abili artigiani quali fabbri, doratori, intagliatori e tornitori. Da ricordare, infine, il costruttore di strumenti Giovan Battista Giusti, attivo nella seconda metà del 16° secolo. Ben poco si sa della sua vita: di lui restano alcuni strumenti firmati (quadranti orari), mentre altri gli sono stati attribuiti.
Carlo Plato fu un abile costruttore che realizzò eleganti strumenti come sfere armillari e orologi solari nella Roma della seconda metà del Cinquecento. Lavorò sempre a Roma, nella prima metà del Seicento, anche Adam Heroldt (1580 ca.-1650 ca.), autore di sfere armillari e compassi di proporzione. La sua tradizione fu continuata nella seconda metà del secolo da Giacomo Lusverg (o Luswergh, 1636 ca.-1689), originario di una famiglia bavarese stabilitasi a Roma. Giacomo, la cui officina era in piazza del Collegio Romano, costruì strumenti matematici, topografici e da disegno, nonché orologi solari. La sua bottega fu continuata dal nipote Domenico (1699-1744) e poi dai suoi successori, che furono attivi sino alla seconda metà dell’Ottocento, realizzando all’epoca anche diversi apparecchi per lo studio e la didattica della fisica.
Nel Seicento, Galilei, i suoi discepoli e i membri dell’Accademia del Cimento realizzarono numerosi strumenti sia personalmente sia con l’ausilio di artigiani spesso rimasti anonimi. Ma due italiani primeggiarono nella costruzione di telescopi e microscopi (e in particolare delle loro lenti): Eustachio Divini (1610-1685) e Giuseppe Campani (1635-1715).
Divini si stabilì a Roma, dove, negli anni Quaranta del Seicento, fu in contatto con alcuni discepoli di Galilei (Castelli e Torricelli) e si specializzò nella costruzione di microscopi composti e telescopi (anche di notevole lunghezza focale) che, grazie alle ottime lenti da lui lavorate, ben presto furono apprezzati e si diffusero in tutta Europa. Con i suoi strumenti fece importanti osservazioni astronomiche, che gli permisero di realizzare una mappa della Luna e di vedere gli anelli di Saturno (di cui rivendicò la scoperta in una famosa diatriba con Christiaan Huygens).
Anche Campani lavorò a Roma, ove apprese l’arte dell’orologeria e la tecnica di molare le lenti presso i fratelli maggiori Matteo e Pier Tommaso, entrambi orologiai. Si dedicò poi essenzialmente alla realizzazione di lenti e di telescopi. Ne migliorò la costruzione dei tubi (che spesso potevano raggiungere la lunghezza di parecchi metri), il sistema di messa a fuoco e ideò un oculare composto che porta il suo nome. Fra i suoi clienti vi furono, oltre al granduca Ferdinando II di Toscana, principi, come Agostino Chigi, e cardinali romani, come Francesco Barberini e Flavio Chigi. La qualità dei suoi cannocchiali fu tale che alcuni di essi furono acquistati dall’Osservatorio di Parigi, appena fondato, e utilizzati dall’astronomo Giovanni Domenico Cassini. Campani fu anch’egli astronomo e con i suoi strumenti osservò, tra l’altro, la rotazione di Giove e la struttura degli anelli di Saturno.
Campani e Divini, i cui cannocchiali vennero esaminati e accuratamente confrontati dall’Accademia del Cimento, furono certamente i migliori costruttori di strumenti ottici della loro epoca e la loro fama valicò i confini della penisola. La loro attività probabilmente marcò l’apice della produzione italiana di strumenti ottici.
È infine necessario ricordare il cartografo ed enciclopedista veneziano Vincenzo Coronelli (1650-1718) che, nella seconda metà del Seicento, fu fra i maggiori costruttori di globi terrestri e celesti, spesso richiesti da principi e ricchi collezionisti di tutta Europa. Celeberrimi sono gli spettacolari globi di quasi 4 m di diametro da lui realizzati per Luigi XIV.
Il Settecento vide una stagnazione nella produzione di strumenti in Italia e nessun costruttore fu veramente in grado di imporsi sul mercato europeo. Con il moltiplicarsi degli apparecchi utilizzati per lo studio e l’insegnamento della fisica e con una crescente sofisticazione degli strumenti ottici, astronomici e topografici, i costruttori di strumenti dovettero acquisire sia nuove conoscenze teoriche sia nuove competenze pratiche per realizzare elementi sempre più complessi e lavorare materiali diversi, abilità che pochi in Italia vollero o poterono acquisire.
Anche nella penisola nel 18° sec. si costituirono nuovi gabinetti di fisica e osservatori astronomici, alcuni dei quali appartennero a università, scuole o a collegi religiosi, altri a privati. Ma la pur crescente richiesta di strumenti non era certo sufficiente a sostenere officine di una certa dimensione. Molti fattori limitavano le possibilità di sviluppo delle loro attività e fra questi: la frammentazione dell’Italia in numerosi Stati, la difficoltà delle comunicazioni, la mancanza di materie prime, l’arretratezza di buona parte del Meridione dove, tra l’altro, l’esistenza del latifondo non incoraggiava le campagne topografiche, e, infine, un generale ritardo nello sviluppo delle attività manifatturiere e protoindustriali, presenti solo in pochi centri importanti.
Fu necessario ricorrere costantemente ai più famosi costruttori di Londra e di Parigi. Ciò appare evidente esaminando le collezioni (e i documenti a esse relativi) dei gabinetti di fisica delle università di Bologna, Pavia, Padova o quelle provenienti dal lorenese Regio Museo di fisica e di storia naturale di Firenze. Le più grandi macchine elettrostatiche, le pompe pneumatiche più sofisticate, i microscopi più perfezionati e i migliori apparecchi didattici e dimostrativi, gli strumenti per i rilevamenti e la navigazione erano quasi invariabilmente acquistati all’estero. Lo stesso può dirsi di quadranti murali, telescopi, macchine parallattiche, planetari e altri strumenti che equipaggiavano i migliori osservatori astronomici, come quelli di Bologna, Padova, Brera, Roma, Napoli e Palermo. Non solo acquistare da costruttori inglesi, quali i già citati Bird, Sisson, Adams, Nairne, Martin, Dollond, Ramsden, dava la garanzia di avere i migliori strumenti reperibili sul mercato, ma la fama di tali nomi contribuiva a dare lustro alle collezioni che da essi si rifornivano. Altri strumenti ottici, soprattutto quelli per le dimostrazioni di fisica, erano acquistati a Parigi. Gli strumenti fatti costruire dall’abate Nollet o dal suo successore Sigaud de la Fond erano apprezzati, anche se, generalmente, quelli londinesi, spesso più costosi, rimanevano i più ambiti.
Anche nell’Italia della seconda metà del Settecento operarono alcuni buoni ‘meccanici’. Generalmente erano al servizio di gabinetti universitari o di osservatori e dovevano provvedere alla manutenzione e alle riparazioni o alle modifiche degli strumenti esistenti e in alcuni casi a costruirne di nuovi, che spesso erano copiati (non sempre con successo) da quelli prodotti all’estero. Anche i migliori artigiani poterono però supplire solo in modo parziale alle richieste di un mercato che rimaneva locale e limitato. Fra questi possiamo citare a titolo d’esempio l’abate Giuseppe Re (m. 1820), che lavorò sotto la guida di Volta per il gabinetto di fisica dell’Università di Pavia, Giuseppe Megele (1740-1816), che fu meccanico della Specola di Brera, o ancora i membri della dinastia anconetana dei Baldantoni e di quella romana dei summenzionati Lusverg, che fornirono strumenti a varie istituzioni quali collegi, università e osservatori.
In area veneziana (dove era possibile reperire vetro di buona qualità) vi furono nel Settecento vari costruttori di cannocchiali e telescopi a riflessione, microscopi semplici e composti e altri strumenti ottici. Tra questi Biagio Burlini (1709-1771), Domenico Selva (m. 1758) e il figlio Lorenzo (1716-1790 ca.), autore di un dettagliato catalogo che illustrava i suoi prodotti e di un trattato sugli strumenti ottici, o Leonardo Semitecolo (18° sec.), artefice di un gran numero di cannocchiali.
Inoltre, fra Sei e Settecento, fu attivo a Milano Pietro Patroni (1676/1677-1744), i cui strumenti ottici di buona qualità presentavano interessanti innovazioni. Infine, ricorderemo che a partire dai primi decenni del 18° sec. numerosi artigiani (detti baromèta) della regione del Lago di Como si specializzarono nella costruzione di strumenti in vetro quali barometri e termometri. Molti di essi percorrevano l’Europa nei mesi invernali (quando i lavori agricoli erano fermi) per vendere i loro prodotti. Altri poi si stabilirono in Inghilterra, in Francia, nei Paesi scandinavi e in alcuni casi furono in grado di fondare ditte che acquisirono una notevole importanza nel corso dell’Ottocento. La produzione di strumenti scientifici rimase tuttavia quantitativamente limitata e, salvo ben poche eccezioni, di qualità piuttosto modesta. Tale situazione continuò per tutto il 19° sec. e la povertà dell’industria di precisione italiana fu costantemente stigmatizzata nei rapporti delle esposizioni nazionali e internazionali.
Unica eccezione fu probabilmente Giovanni Battista Amici (1786-1863), ottico, microscopista e astronomo, che, fra gli anni Venti e Sessanta dell’Ottocento fu in grado di costruire strumenti ottici eccellenti e innovativi la cui fama si diffuse in tutta Europa. Dopo l’Unità vennero fondate a Milano e a Firenze alcune ditte di meccanica e ottica di precisione che assunsero importanza nazionale e produssero un buon numero di strumenti di qualità; tuttavia l’Italia, anche nel 20° sec., rimase essenzialmente importatrice di strumenti scientifici.
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