Gli uomini capitali: il "gruppo veneziano" (Volpi, Cini e gli altri)
Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963 il movimento franoso delle pendici del Toc, già in atto, da tempo, sulla sinistra del Vajont, assumeva un andamento precipite, irruento, irresistibile. L'acqua del lago artificiale, alla quota di 700,42 metri sul livello del mare, subiva una formidabile spinta: con andamento pauroso, si calcola di 50 chilometri all'ora, la frana avanzava, su di un fronte di circa 2 chilometri a monte della diga; raggiungeva, così, la sponda destra, urtava contro questa, vi scorreva sopra, superando, in alcuni punti, di 100 metri la quota iniziale.
La tremenda pressione della massa, che aveva conservato la sua unità, spostava, con violenza mai vista, un volume di 50 milioni di metri cubi di acqua.
Fenomeno apocalittico, un'onda si solleva fino a 200 metri, per ricadere, paurosa, irradiandosi in parte verso la diga, in parte verso il ramo interno del lago.
Non più contenuta, la prima, con un volume di circa 25 milioni di metri cubi, superava la diga, si lanciava nella gola, proiettandosi poi, tumultuosa, verso la valle del Piave. Irrompeva, così, sventagliandosi, flagellando, inesorabile, violenta, rapida - 1.600 metri in quattro minuti circa - sull'ampio scenario, che si schiude, di sotto. Le luci, palpiti di vita, d'industrie feconde, operose, di Longarone, di Pirago, della sponda di Fornace, di Villanova, di Faè, dei borghi di Castellavazzo e di Codissago, della cartiera allo sbocco della gola, improvvisamente si spengono: con esse migliaia di vite umane. Il fiume, improvvisamente ingrossato, assume aspetto di piena mai vista; danneggia Soverzene, Belluno; prosegue, poi, dopo 80 chilometri, placato, a trovar pace verso il mare.
Nell'interno del lago, l'acqua residuata dell'onda investe Pineda: l'onda si riflette, va a colpire S. Martino, risalendo verso il passo di Sant'Osvaldo: case, borghi, abitati da poveri contadini, sono distrutti: con essi, altre vite umane.
Cinque rapidi intensi minuti sono stati sufficienti al compiersi della tragedia(1).
Durante l'ultima guerra, quando i bombardieri, secondo un passo pressoché quotidiano, sorvolavano l'isola [di Venezia] per migrare nel retroterra oppure la circuivano con ripetuti giri lungo il perimetro lagunare per poi precipitarsi proprio come usano i falchi, sugli obiettivi industriali di Porto Marghera, dalle altane e dalle terrazze della città centinaia di persone puntavano gli occhi sul cielo […]. Il 4 novembre 1966, una bomba che fosse scoppiata in Bacino San Marco non avrebbe stupito nessuno. Era in fondo ritornato - con il buio, con l'immobilità forzata nelle case, con l'improvviso assottigliarsi delle scorte alimentari - un 'clima' da tempo di guerra, ma soprattutto, fatto senza precedenti, si era rotta una 'regola', e dunque una certezza psicologica: alle ore 18 di quel giorno erano ormai venti ore consecutive che l'acqua della laguna cingeva la città in un liquido sequestro, sommergendone l'intera estensione. Nessun allarme era durato così a lungo. Nessuna alta marea aveva mai violato l'isola con così prolungata e offensiva insistenza. […] Verso sera, tutti avvertirono che un equilibrio plurisecolare si era rotto, che la città e la laguna avevano smarrito un anello, chi sa quale, del loro delicato ingranaggio. Nessuno, tranne pochi e i pubblici istituti (che in quelle ore parevano essersi diluiti nella marea) sapeva ancora che là, sui litorali, il mare aveva compiuto un disastro che nemmeno la guerra era riuscita a seminare: le difese costiere, tra cui i 'murazzi', erano 'scoppiate'(2).
Tra queste due catastrofi, il disastro del Vajont e l'alluvione di Venezia, assume raffigurazione simbolica e reale la dissoluzione di un progetto che proprio sulle acque aveva fondato gran parte della sua consistenza. Certamente il Vajont del 1963 e la Venezia del 1966 rappresentano due tragedie diverse: la prima con 1.908 morti accertati(3), la seconda con la rottura di un plurisecolare equilibrio antropo-naturale(4); ma entrambe sono accomunate da elementi assimilabili, quali appunto la forza delle acque e la violenza contro natura degli uomini. Sia chiaro, è inammissibile procedere a un forzato, indebito e quanto mai antistorico parallelismo tra la frana del Vajont e l'acqua alta di Venezia(5): ma i due eventi hanno assunto forza di segni e rappresentazione di simboli, potenza delle acque e catastrofe delle acque.
Dalle acque dei monti alle acque del mare, questa forse la definizione di sintesi del dominio che caratterizzò il cosiddetto "gruppo veneziano" nel corso dei primi sette decenni del Novecento, quell'insieme cioè di finanzieri, imprenditori e capitali costantemente proteso alla ricerca della riproposizione aggiornata dell'antico potere di "Stato da mar" e di "dominio da tera" della dominante Serenissima Repubblica(6). Per cogliere la dimensione di tale idea si potrebbe fare ricorso alla metafora dell'acqua che racchiude il "bosco" trasportato dalla montagna alla laguna con la fluitazione lungo il fiume Piave(7), "gli antichi alberi del Cadore, piantati nel ventre della laguna" a sostenere le fondamenta delle case veneziane, "boschi interi, foreste di tronchi" "verticali, regolari, fitti tra loro come nel bosco più fitto"(8); oppure alla metafora dell'acqua dolce e dell'acqua salsa che circondano il "porto industriale di Marghera" con i fiumi del Cadore e la "laguna veneta", come raffigurato nel mosaico di Del Vigi e Grigorin che domina una parete dell'atrio della centrale termoelettrica di Marghera(9); o, ancor meglio, alle allegorie delle acque e del lavoro rappresentate con l'affresco di Walter Resentera nella volta della caverna della sala turbine nella centrale idroelettrica di Soverzene(10). Quasi per paradosso Resentera aveva dipinto nell'affresco di un'altra centrale, quella di Somplago, ideali e catastrofi della storia, come a proporre una sorta di presagio degli eventi(11): una iconografia ben lontana da quella 'ufficiale' con cui il "gruppo veneziano" volle autorappresentarsi nell'idillio del paesaggio del "Dominio Veneto" celebrato dalle acque(12).
Le origini del "gruppo veneziano", che avrebbe costituito nel periodo tra le due guerre un impero finanziario tra i più importanti a livello nazionale e internazionale, erano state piuttosto oleografiche. Giuseppe Volpi e Vittorio Cini, le due personalità fondamentali, avevano cominciato in tono modesto e ridotto. Volpi (1877-1947), di ascendenza bergamasca, negli anni a cavallo tra i due secoli aveva allacciato contatti con i paesi balcanici come venditore di uova, commerciante di maiali e di prodotti agricoli, agente assicurativo e minerario(13). Cini (1885-1977), di nascita ferrarese, aveva operato - prima con l'impresa paterna, poi autonomamente - nei settori delle forniture di materiali da costruzioni, dei trasporti terrestri e marittimi, dei lavori di realizzazioni infrastrutturali(14). Per entrambi però si verificarono due momenti di svolta decisivi per dare un colpo di timone qualificato alle loro attività.
Per il primo fu l'incontro nel 1900 con la finanza internazionale, raffigurata nello specifico dalla Banca Commerciale Italiana e dal suo commis Giuseppe Toeplitz, sin da allora molto attivo nel promuovere iniziative di investimenti nelle sedi affidate alla sua responsabilità, tra le quali ci fu appunto tra il 1900 e il 1903 proprio la filiale di Venezia, da lui diretta prima di passare alla sede centrale all'inizio come condirettore e poi in successione come direttore, amministratore delegato, vicepresidente(15). Il sodalizio tra Volpi e Toeplitz portò fermenti di iniziative in una città che, a dispetto dell'aureola di disfacimento e morte che la circondava nell'immaginario mitico, stava per affrontare una ridefinizione del proprio ruolo collegato alla svolta della grande industrializzazione cui si era decisamente orientato un paese in precedenza segnato da prerequisiti di "arretratezza economica"(16) e contemporaneamente da sacche di sviluppo(17), che ne avevano dettato una configurazione dualistica(18).
Cini invece diede un forte impulso e una precisa accelerazione alle sue iniziative passando risolutamente nel campo imprenditoriale con una serie di investimenti e realizzazioni nei settori marittimo-armatoriale e assicurativo-navale durante la Grande guerra: si trovò così a controllare un'importante area di traffici commerciali nell'Adriatico, nello Ionio, con addentellati nel Mediterraneo orientale(19).
Tempi diversi nell'avvio della costruzione delle proprie fortune, ma confluenze comuni, che portarono nell'immediato primo dopoguerra a individuare in modo unanime un nucleo finanziario, industriale, imprenditoriale che venne denominato appunto il "gruppo veneziano". È indubbio che tale gruppo non si esauriva nelle figure di Volpi e Cini, che senz'altro ne costituirono il midollo generatore e la linfa vitale. Basti pensare per esempio ad una figura come Achille Gaggia, entrato nell'entourage di Volpi nel 1905(20), ritenuto comunemente persona di "fedele servizio", "autentico braccio destro", verace "alter ego", considerato cioè sempre ligio esecutore delle direttive impostegli dal "capo" come non avrebbe mancato di notare Toeplitz(21); oppure a tecnici e amministratori di alta qualità e competenza come Antonio Pitter, Vincenzo Ferniani, Carlo Semenza, Ottaviano Ghetti, Giorgio Dal Piaz, Guido e Antonio Rossi, Paolo Milani, Francesco Villabruna, Mario Mainardis, Alessandro Croce, Nicolò Spada, Mario Alverà, Giovanni Venuti, Angelo Sperti, Aurelio Fracca, Silvio Pellas, Alberto Cottica, Vittore Antonello; ma soprattutto a diversi esponenti che assicuravano coperture molteplici e multiformi in vari ambiti economici e finanziari, come Antonio Revedin, Nicolò Papadopoli Aldobrandini, Alberto e Mario Treves de' Bonfili, Piero Foscari, Giancarlo Stucky, Amedeo ed Edoardo Corinaldi, Nicola e Tito Braida, Carlo ed Enrico Ratti, Gino Toso, Giuseppe Da Zara, Luigi Ceresa, Mario Nani Mocenigo, Giulio Coen. Si costituirono quindi un intreccio e una saldatura tra nuovi ceti finanziari, industriali, imprenditoriali emergenti e vecchie categorie di aristocrazia, proprietà fondiaria, settori mercantili(22).
Per il coagulo di questo insieme di interessi non si partiva dal nulla. Un "gruppo veneto"(23) infatti, imperniato sull'asse Vicenza-Padova-Venezia, alla fine del secolo precedente aveva anticipato l'esperienza del "gruppo veneziano": Vincenzo Stefano Breda, Alessandro Rossi, Luigi Luzzatti avevano tessuto una trama fra finanza, industria, credito, politica, facendo perno sui tradizionali ceti nobiliari, terrieri, commerciali, e cercando di operare una saldatura sul piano di un progetto industriale della regione(24) - in cui inserire Venezia con ruolo di sostegno sussidiario e di rappresentanza funzionale(25) -, direttamente collegato in ambito nazionale con una "industrializzazione senza modernizzazione" basata sul paternalismo conservatore, sulla stratificazione sociale e sulla garanzia dello Stato(26). Una funzione trainante in questa linea era stata assunta per un verso dalla Banca veneta di depositi e conti correnti - sorta a Padova nel 1871, ma ben presto trasferitasi a Venezia dopo l'incorporamento della banca Stabilimento mercantile con principali esponenti i Treves de' Bonfili -, che aveva saputo cementare un coacervo di affari all'apparenza contraddittori con il predominio di una tendenza di investimenti facente riferimento alla forte comunità ebraica veneta, tanto da venire definita giustamente il "'Gotha' della nobiltà e degli israeliti veneziani"(27); e per l'altro dalla Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche, fondata a Padova nel 1872 e trasformatasi in Società veneta per costruzione ed esercizio di ferrovie secondarie (Veneta) nel 1899, braccio forte della realizzazione di alcuni principali tronchi ferroviari italiani, della edificazione di opere pubbliche, edilizie, infrastrutturali a Roma, Napoli, Cadice, e ancor più, attraverso Breda, della nascita della Società degli altiforni, acciaierie e fonderie di Terni(28). Da notare che la Veneta si inserì nella cantieristica veneziana con un proprio stabilimento sin dal 1881(29).
Ciò che caratterizzò sin dall'inizio il "gruppo veneziano" invece fu l'ampliamento dello sguardo a un orizzonte ben più vasto a livello nazionale e, soprattutto, internazionale(30). Basti pensare alle modalità stesse di costituzione delle prime significative società e agli svariati settori di attività. Anzitutto l'emergente aspetto di ciò che venne definita la "conquista della forza", l'idroelettricità(31): nel 1900 e nel 1905 vennero fondate rispettivamente la Società italiana per l'utilizzazione delle forze idrauliche del Veneto - che sarebbe stata conosciuta sempre col nome più semplice e familiare di Cellina, ricavato dal luogo dell'impianto di produzione dell'energia elettrica - e la Società Adriatica di Elettricità (S.A.D.E.) - che dall'iniziale strategia di acquisizione di piccoli impianti e di costruzione di nuovi bacini e centrali si sarebbe ben presto trasformata in holding finanziaria del gruppo elettrico controllato dai veneziani(32). In entrambe le operazioni fu decisivo l'apporto finanziario della Banca Commerciale Italiana, che sottoscrisse oltre il 18% e il 16% del capitale sociale iniziale delle due società(33).
Poi la branca turistico-alberghiera, con la costituzione della Compagnia Italiana Grandi Alberghi (C.I.G.A.) nel 1906, cui ancora una volta la Banca Commerciale Italiana partecipò con quasi il 20% al capitale sociale di base(34). Proprio questa società può essere presa a esempio del progressivo allargamento di orizzonti nelle prospettive del "gruppo veneziano", indissolubilmente collegata alle ramificazioni del suo principale punto di riferimento bancario-finanziario. Da una logica strettamente veneziana, che partiva dalla valorizzazione dell'area privilegiata di soggiorno balneare di lusso, il Lido di Venezia, dove primeggiavano i due alberghi Des Bains e Excelsior, si passò prima, nel 1920, a una dimensione nazionale e poco dopo, nel 1923, a una sfera di influenza internazionale(35).
L'avvio di queste imprese dunque non fu dovuto all'apporto di capitali strettamente ed esclusivamente locali, ma al concorso di iniziative di diversa provenienza, in cui confluirono investimenti collegati alla rendita fondiaria, all'utile mercantile, al reddito finanziario, attingendo indifferentemente a capitali di matrice nazionale o estera, di ascendenza ebraica o cattolica. L'ascesa della borghesia si associava all'imborghesimento dell'aristocrazia(36): un singolare coacervo di vecchio e nuovo su cui si stava muovendo in complesso l'industrializzazione italiana nella sua fase di espansione all'inizio del nuovo secolo(37). L'aspetto del tutto originale della situazione veneziana era fornito da un lato dalla valorizzazione di risorse reperibili in luogo, fossero esse un bene naturale come l'acqua o un'allocazione di servizi come il turismo, dall'altro dalla capillarità della presenza del principale gruppo finanziario di riferimento, la Banca Commerciale Italiana - come si è visto -, infine dalla dimensione non solo regionale, ma sovraregionale dell'operatività.
A questo proposito è significativa l'area di espansione della S.A.D.E., che da un iniziale progetto di accorpamento di piccole imprese già esistenti con competenze ridotte in aree molto delimitate(38), passò ben presto ad assumere responsabilità oltre che nel Veneto - compreso il territorio friulano, secondo la tipologia amministrativa precedente la Grande guerra -, anche lungo quella che viene definita la "regione adriatica", con estensione dal Veneto appunto alla Puglia(39). Da una "completa copertura dei rischi industriale e di mercato"(40), che in ogni caso stava alla base di questa strategia, ci si orientò a una "capitalizzazione dell'effettivo reddito, netto da ogni aggravio, sia di esercizio che di interessi, ammortamenti ecc."(41), con prospettive dilatantisi dalla visuale italiana a un programma di controllo del "dominio adriatico"(42) e di penetrazione nella "regione veneto-adriatica"(43). Questo concetto di "regione", legato a un rinnovato sguardo - oltre che sulle "Venezie" - sull'Europa orientale fino alle propaggini del Medio Oriente, rompe ogni legame di logica sequenza passiva con il precedente "gruppo veneto"(44).
Il sostegno ideologico di tale programma traeva alimento ancora dal mito della tradizione storica della Serenissima Repubblica e dalla funzione che si voleva assegnare a Venezia in rapporto al "mondo slavo": doveva essere "restituito a Venezia il naturale suo impero sull'Adriatico", avrebbe affermato Giuseppe Fusinato nel 1917(45); "Venezia […] ha una parte preponderante, perché consacrata dalla natura e dalla storia a signora indiscussa dell'Adriatico", avrebbe ribadito di rincalzo Augusto Michieli l'anno appresso(46).
E proprio alle due sponde dell'Adriatico si guardò con intensa mira. Da un lato, a quella italiana, per la linea di continuità di controllo della forza energetica idroelettrica, come si è detto; dall'altro, a quella dalmata, per lo sfruttamento delle risorse forestali, di materie prime minerarie, di commercio di prodotti vari primo fra tutti il tabacco, di insediamenti infrastrutturali(47). Il punto di appoggio del progetto di penetrazione sulla sponda orientale dell'Adriatico si fondava non solo, e ancora una volta, sul sostegno della Banca Commerciale Italiana, ma anche su una personalità come Piero Foscari - altro veneziano dalle lontane ascendenze aristocratiche -, che aveva potuto allacciare rapporti d'affari soprattutto in Montenegro dopo il matrimonio con Elisabetta Widmann Rezzonico avvenuto nel 1897(48). La Società commerciale d'oriente, fondata nel 1907, costituì la punta di diamante di queste operazioni. Essa rappresentò una vera e propria filiale montenegrina della Banca Commerciale Italiana(49), quindi perno delle principali attività finanziarie esercitate da altre società, come la Regia cointeressata dei tabacchi del Montenegro (1903), o il Sindacato italo-montenegrino (1903), o, soprattutto, la Compagnia di Antivari (1905)(50); ma allargò successivamente i suoi ambiti di intervento, sino a diventare la rappresentanza della Banca Commerciale a Costantinopoli, dove l'amministratore delegato Otto Joel avrebbe fatto nominare direttore Bernardino Nogara, sodale di Volpi in amicizie e affari(51).
Quest'ultima particolarmente assunse su di sé il progetto di costruire una ferrovia transbalcanica, che avrebbe dovuto essere in nuce un vero e proprio asse di penetrazione dell'"imperialismo italiano" nell'Europa sudorientale(52). Ma, ancor più, procedette tra il 1905 e il 1909 all'insediamento dell'omonimo porto di Antivari, che è stato ritenuto "in qualche modo la prova generale del nuovo porto industriale di Venezia"(53), destinato a sorgere di lì a qualche anno, come si vedrà.
Stratega di queste iniziative può essere ritenuto Volpi, che aveva intensificato viepiù i suoi rapporti di affari e di conoscenze nel mondo balcanico, allargandoli pure all'Impero turco(54), dove aveva cura di presentarsi secondo i più consolidati canoni dei modelli e delle immagini ereditate dalla Repubblica di Venezia, quelli di "mercante, diplomatico, governatore, procuratore, 'doge'"(55), ma anche di "mezzano" di "conquiste galanti", propenso "alla corruzione e ai favoritismi" e "forse ad altre cose"(56). Fu per queste ragioni che Giovanni Giolitti, nel nominare nel 1912 la delegazione italiana alla conferenza di Ouchy per le trattative con l'Impero turco dopo la guerra di Libia, individuò in Volpi la persona più qualificata a ricoprire l'incarico di ministro plenipotenziario per la sua "abilità"(57), tanto da far dire maliziosamente all'altro rappresentante italiano, Pietro Bertolini, che Volpi oltreché nelle simpatie giolittiane rientrava anche in quelle ottomane, e che, "a traverso una filiazione prettamente finanziaria, era stato gradito prima di tutto dal principe ereditario della Turchia"(58). In ogni caso lo stesso Gaetano Salvemini avrebbe riconosciuto in Volpi il "principale deus ex machina" degli accordi(59). Insomma, come altri avrebbero detto, questo intraprendente "enfant gâté un po' dalla fortuna e dagli uomini"(60) - quale Volpi stesso amava definirsi - ricevette una nomina diplomatica "ad honorem"(61).
Volpi dunque era ritenuto ormai un autentico "giolittiano"(62). Ma non furono soltanto i meriti internazionali a farlo considerare tale, bensì soprattutto le compartecipazioni e le responsabilità acquisite in alcuni tra i principali gruppi industriali e finanziari italiani, che avevano modellato ormai il nerbo dei centri di interessi sostenitori della politica giolittiana. Basti ricordare la società Officine Galileo (Galileo) di Firenze - specializzata in strumenti di precisione nell'ottica e nelle comunicazioni -, nella quale la S.A.D.E. entrò nel 1907 con una rilevante partecipazione insieme a una delle maggiori concentrazioni industriali italiane, il trust siderurgico Odero-Orlando, e della quale esercitò il controllo completo con l'assunzione definitiva del pacchetto azionario di maggioranza assoluta nel 1916 e totale nel 1923(63). Oppure la Veneta, che, come si è visto, era stata uno dei perni delle attività del "gruppo veneto" ricordato in precedenza, inserita nell'orbita della S.A.D.E. nel 1912 e divenuta proprietà completa nel 1924(64).
Ma a dare il colpo d'ala alla definitiva ascesa e al riconoscimento probatorio del "gruppo veneziano" fu senz'altro il vento della Grande guerra. Mai come in questa circostanza - è stato più volte indicato - l'incontro fra Stato, finanza e industria fu motore d'impulso tanto pressante(65).
Si può pensare anzitutto ai livelli di crescita del capitale sociale delle società elettriche controllate dal gruppo tra scoppio e fine della guerra. A fronte di un aumento totale dell'86% del complesso del capitale sociale delle società elettriche in Italia, la S.A.D.E. si attestò su posizioni di primo piano in questo rafforzamento finanziario, incrementando il proprio capitale sociale dell'84% e rafforzandosi in terza collocazione per capacità finanziaria nel settore elettrico(66). Se poi si considera un arco più vasto, dall'anteguerra al dopoguerra, il balzo innanzi risultò ancor più cospicuo, addirittura del 200%(67), che, utilizzando i coefficienti moltiplicatori dei valori della lira negli anni presi in considerazione, ammonterebbe in realtà al 958%(68). Non altrettanto clamoroso, ma sempre rilevante, fu l'aumento della consistenza finanziaria delle altre consociate elettriche, come la Cellina o la Società Idroelettrica Veneta (S.I.V.), che in rapporto all'anteguerra alzarono i valori del capitale rispettivamente del 150% e del 73%(69); ma, si sa, la S.A.D.E. funzionava ormai come holding, per cui sviluppò il massimo delle operazioni finanziarie proprio nella congiuntura particolare della guerra.
A testimoniare l'importanza di posizione e di strategia ormai acquisita dal "gruppo veneziano", si possono ricordare le funzioni "ausiliarie" - cioè di primario interesse ai fini della produzione bellica - riconosciute alle società elettriche del gruppo(70) e, soprattutto, la nomina di un proprio esponente, Achille Gaggia, nella Commissione elettrotecnica del Comitato centrale di mobilitazione industriale, incaricata di redigere e predisporre i piani di fornitura energetica essenziali alla continuità della produzione di guerra(71). Del resto l'importanza data agli interventi nell'economia di guerra ad opera del Comitato centrale di mobilitazione industriale è indicata anche dalla nomina di Volpi nel dicembre 1917 prima a "membro civile" del Comitato Veneto, che si costituì autonomamente in quel periodo rispetto al precedente unico Comitato Emilia e Veneto, e poi a "presidente interinale" dello stesso dal marzo 1918(72).
L'operazione in cui più di ogni altra emerse la rendita politica e finanziaria ormai conquistata fu senz'altro quella che vide protagonisti, oltre a Volpi e alla società appositamente costituita per l'occasione - la Società Porto industriale di Venezia, in cui si ritrovavano i consueti nomi (Volpi, Papadopoli Aldobrandini, Treves de' Bonfili, Revedin, Stucky, Ratti, Toso) e le solite società (S.A.D.E., Cellina, Veneta) -, lo Stato, nella persona del presidente del Consiglio Paolo Boselli e del ministro dei Lavori pubblici, Ivanoe Bonomi, e il Comune di Venezia nella figura del sindaco Francesco Grimani: si tratta della convenzione stipulata il 23 luglio 1917 - il "capolavoro di Volpi", come è stata definita(73) -, ratificata a spron battuto dopo soli tre giorni con d.l. 26 luglio, pubblicato nella "Gazzetta Ufficiale" di lì a poco il 2 agosto, con cui si diede avvio all'impresa della "zona industriale" di Marghera. "Lo Stato concede […] alla Società Anonima […] [si diceva nella convenzione] denominata 'Porto industriale di Venezia', la costruzione delle opere del nuovo porto di Venezia, in regione di Marghera" e "cederà alla 'Società Porto industriale di Venezia' a semplice rimborso di spesa, le aree comprese nei confini della detta zona, da esso già espropriati per i lavori […], e quelle che si dovranno ulteriormente espropriare per la esecuzione ed a carico delle opere portuali concesse"(74).
Certamente non si trattò di un'azione improvvisata e dell'ultima ora. Il progetto del porto industriale di Marghera proveniva da lontano, da progetti e preparazioni che risalivano in varie forme e secondo diverse prospettive quanto meno all'inizio del secolo, ma che trovarono una svolta decisiva nel 1905, allorché Foscari pose la questione dell'"avvenire industriale" di Venezia, e una sanzione definitiva nel 1911, quando lo stesso Foscari si pronunciò apertamente per la tautologia secondo cui "porto significa zona industriale"(75). Ma già nel 1904 il nuovo porto di Venezia in terraferma era stato inserito nel piano delle nuove opere marittime italiane(76); nel 1907 poi sarebbe stato approvato dall'apposita Commissione per il piano regolatore dei porti del Ministero dei Lavori pubblici(77); nel 1908 sarebbe stato sanzionato conclusivamente dal piano regolatore del porto, che avrebbe avviato l'escavo del canale di accesso dalla Marittima ai Bottenighi - l'area di insediamento individuata in terraferma(78). Curioso notare come al nuovo porto vennero applicati i meccanismi della legge speciale su Napoli del 1904, che permetteva ampie facoltà di manovra in compravendite, espropriazioni, gestioni, esenzioni fiscali(79).
Non mancò naturalmente in tutto il processo anche una diretta componente speculativa, che portò a una compravendita di terreni a prezzi via via maggiorati da parte di una società immobiliare controllata da Volpi, la Società veneta per imprese fondiarie, nonché ad interventi ben più vasti e rilevanti di acquisizioni e cessioni di aree da parte della Porto industriale nel corso di un quindicennio, tanto da far calcolare in L. 7.180.000 i profitti acquisiti da tali attività(80).
La guerra dunque servì da incentivo e volano nei piani di concentrazione finanziaria e di sviluppo industriale, i cui effetti sarebbero stati esecutivi non nell'immediatezza della contingenza - data anche la situazione che si venne a creare dopo la rotta di Caporetto dell'ottobre 1917 -, ma nel medio-lungo periodo. Diversamente da quanto potrebbe apparire, Caporetto - con la conseguente perdita della maggior parte degli impianti elettrici da parte della S.A.D.E. - non fu una débâcle, anzi funzionò come acceleratore del processo di investimento e pianificazione finanziaria. Del resto la guerra, più in generale, servì proprio a questo scopo: fece adottare cioè un punto di vista lungimirante a quanti erano in grado di valutare bene la situazione, trarne il massimo vantaggio, guardare al futuro con un progetto di industrializzazione di ampio respiro; e fu un motore di impulso del rafforzamento finanziario e di incremento di programmi di incentivazione industriale.
Anche il progetto di Marghera rientrò in questo disegno. Il porto e la zona industriale di Marghera, binomio inscindibile, non possono essere considerati infatti il frutto di una genialità intraprendente di promozione locale, luogo di assorbimento di un surplus di energia idroelettrica a basso costo, iniziativa di apertura di un mercato del lavoro circoscritto a Venezia; in definitiva non si può accogliere l'ipotesi agiografica a lungo diffusa, sintetizzata da uno dei più fedeli collaboratori di Volpi, Mario Mainardis: "Porto Marghera uscì dalla mente del Volpi, vivo e completo in ogni sua caratteristica 'come Minerva uscì armata di tutto punto dal capo di Giove'"(81). L'operazione Marghera cioè non fu il prodotto di un'elementare navigazione di piccolo cabotaggio di capitale e imprenditorialità locali; si configurò invece come l'esito complesso e articolato di investimenti di capitali finanziari e industriali, di iniziative di concentrazioni strutturali e settoriali, di inserimento nei mercati nazionali e internazionali(82).
Il porto di Venezia continuava a restare la "porta dell'Oriente" in Adriatico e, più in generale, nel Mediterraneo orientale, ma ora con l'integrazione rilevante di un'area industriale; e come tale poteva essere prospettato come passaggio obbligato per il transito verso un entroterra di esclusiva competenza, che andava dal contesto nordorientale dell'Italia alla più vasta sfera dell'Europa centro-orientale. In poche parole Venezia avrebbe dovuto assumere una funzione autonoma, simile a quella che esercitavano Marsiglia per l'Europa centro-occidentale e mediterranea e Rotterdam per l'Europa settentrionale e nordica(83).
Questa potenzialità venne intuita subito dai grandi centri finanziari e industriali italiani, che intravidero in Marghera una felice sintesi di attrazione di un'area industriale che permetteva ampi insediamenti, rilevanti esenzioni e agevolazioni fiscali, utilizzazione di servizi a esborso zero, disponibilità di forza energetica a basso costo, riduzione di spese di produzione e trasporto nella unitarietà della produzione (rifornimento di materie prime, lavorazione, fornitura al mercato), raggruppamento delle diversificazioni delle fasi di produzione nella convergenza del trinomio nave-industria-treno(84).
Esemplare è il caso della società Cantieri Navali e Acciaierie di Venezia (C.N.A.V.), che, sorta nel settembre 1917, avrebbe iniziato la produzione nel 1922. Si verificò in tale iniziativa un singolare insieme di concorsi industriali e finanziari, a ulteriore testimonianza degli obiettivi di concentrati territoriali, insediativi, produttivi cui la nuova zona industriale doveva rispondere: alla promozione delle ormai tradizionali società del "gruppo veneziano" - come la S.A.D.E., la Cellina, la Veneta -, si affiancarono i consueti partners locali, ma soprattutto i principali gruppi della siderurgia, della meccanica e della cantieristica italiana - dall'Ansaldo alla Terni, dagli Alti forni di Piombino alla Ferriere piemontesi, dalla Tosi di Legnano alla Odero di Sestri Ponente -, e in prima persona Max Bondi, Giuseppe Orlando, Rocco Piaggio, Pio Perrone, Eugenio Tosi, Dante Ferraris(85). Mancavano all'appello soltanto Ernesto Breda e la sua industria, che preferirono installarsi autonomamente a Marghera, con avvio della produzione sempre nel 1922(86).
Ben presto l'area di Marghera si popolò di imprese, dando vita concretamente a una vera e propria zona industriale. Sul piano delle infrastrutture operarono alacremente la Società italiana di costruzioni (Sitaco) e la Veneta. L'insediamento delle fabbriche invece passò da un inizio alquanto lento ad una rapida accelerazione. Dalla sola azienda presente nel 1920, si raggiunsero 16 imprese nel 1922, 27 nel 1924(87). Lo spaccato del 1928 risulta estremamente significativo: 55 erano le industrie collocatesi con 4.880 addetti; la prevalenza spettava al settore chimico, sia per numero di aziende (15) che per quantità di addetti (1.820); seguivano poi in ordine di dimensioni la cantieristica (2 aziende con 880 occupati) e il petrolifero (4 imprese con 535 addetti)(88).
E fu proprio nel 1928 che a Marghera si operò un vero e proprio salto di qualità nella struttura produttiva. Si affacciò infatti la prima industria elettrometallurgica per la produzione di alluminio, la Società Alluminio Veneto Anonima (S.A.V.A.) - filiazione del gruppo svizzero Alluminium Industrie Aktien Gesellschaft (A.I.A.G.) supportato da un imprenditore locale di nascita cadorina, Alessandro Marco Barnabò(89) - che impiegò subito una mano d'opera di 260 unità. Seguì l'anno appresso la Società Italiana di Alluminio (S.I.A.), sorta con il concorso del gruppo tedesco Vereinigte Alluminium Werke (V.A.W.) e della Montecatini(90). Ben presto poi si stabilirono anche la società Lavorazione Leghe Leggere (L.L.L.) (1929), controllata dalla S.A.D.E., dalla Società Idroelettrica Piemonte (S.I.P.), dalla S.A.V.A., dalla Montecatini, e la San Marco elettrometallurgica (San Marco) (1931), società in cui confluirono gli apporti della S.A.D.E., della S.A.V.A., della S.I.P.(91). Fra il 1930 e il 1935 poi il quadro si sarebbe completato con l'avvio della produzione di allumina da parte prima della S.I.A. e poi della S.A.V.A.(92). Dunque tra il 1928 e il 1931, a cavallo della grande crisi, si formò a Marghera uno dei nodi principali della produzione elettrometallurgica italiana, che tanto avrebbe caratterizzato la struttura industriale dell'economia di guerra(93).
Superata la congiuntura della grande crisi, a metà degli anni Trenta la zona industriale di Marghera appariva ormai configurata nelle sue fondamentali caratteristiche di polo elettrometallurgico, chimico, metallurgico, cantieristico, petrolifero, pronta a proporsi come uno dei perni dell'economia autarchica(94). L'insieme dei settori indicati concentrava il 37,7% delle imprese presenti a Marghera, con una struttura di grande e media dimensione, e occupava ben l'81,7% degli addetti. Alla vigilia della guerra poi le imprese dei settori indicati erano pressoché stabili al 37,4% sul complesso, mentre gli addetti salivano all'85,9% sul totale della zona(95). Estremamente significativo il concentrato dei gruppi finanziari e industriali presenti nelle aziende dei settori indicati: si andava dal "gruppo veneziano" naturalmente (la S.A.D.E. con la fornitura di energia idroelettrica, la presenza della centrale termoelettrica, la partecipazione a imprese elettrometallurgiche come la L.L.L. e la San Marco) alla Montecatini (nella chimica con la Veneta fertilizzanti prodotti chimici; nell'elettrometallurgia con la S.I.A., trasformatasi nel 1936 in Industria Nazionale dell'Alluminio - I.N.A. -, e la L.L.L.), dall'Ilva alla Breda (rispettivamente nella metallurgia e nella cantieristica), dalla S.I.P. (nell'elettrometallurgia con la partecipazione nella San Marco) alla Fabbrica Italiana Automobili Torino (F.I.A.T.), nella chimica con la Vetrocoke, dalla A.I.A.G. (nell'elettrometallurgia con la S.A.V.A.) all'Azienda Generale Italiana Petroli (A.G.I.P.) nel petrolifero(96).
Nella nascita e nello sviluppo del porto e della zona industriale di Marghera si possono rintracciare delle costanti caratteristiche e significative. Anzitutto la forte concentrazione finanziaria, industriale, territoriale che vide presenti i principali gruppi protagonisti dello sviluppo economico italiano tra le due guerre, alcuni dei quali fortemente collegati alla finanza internazionale(97). Poi il ruolo trainante esercitato dalla Porto industriale, che funse da guida in tutte le tappe dell'operazione: ogni iniziativa era controllata dalla società e doveva passare attraverso il suo assenso(98). Quindi l'ininterrotta copertura svolta dallo Stato, che avallò e ufficializzò ogni fase sia con l'esposizione diretta sulle opere pubbliche, anche attraverso il Comune di Venezia, sia, e soprattutto, con l'approvazione di una serie innumerevole di "convenzioni", "concessioni", "autorizzazioni", "sottomissioni", "proroghe", "modificazioni" succedutesi tra il 1919 e il 1944(99). Infine la qualità della forza lavoro impiegata, che non fu certamente tratta dalla manodopera specializzata proveniente dalle tradizionali industrie di Venezia, come era stato proclamato all'inizio, ma per la quale si attinse copiosamente e abbondantemente a un mercato del lavoro - quello di origine rurale - a completa disposizione, ad alta concorrenza interna, a basso costo d'utilizzo, a sicura resa fisica: l'impiego di operai di origine contadina era da preferirsi data "la maggior forza fisica, la costanza nel lavoro ed il più alto senso della disciplina"(100).
L'esempio di Marghera dunque non poteva rimanere isolato, anzi fu considerato "come felice esperimento da prendersi a modello"(101), tanto da essere assunto a riferimento per la creazione di altre zone industriali, come Bolzano o Ferrara, tanto per citarne alcune(102). Solo che l'integrazione tra queste aree e il territorio circostante si saldò sin dall'inizio: Marghera invece paradossalmente nella fase iniziale si integrò più in linea subalterna a Venezia che in linea funzionale col contesto regionale(103).
Lo spazio di manovra rafforzatosi per Volpi durante la Grande guerra, si consolidò nel dopoguerra anzitutto a Roma con la nomina voluta direttamente da Vittorio Emanuele Orlando a membro della sezione "ricostruzione della ricchezza nazionale nelle province invase" nell'ambito della cosiddetta "commissionissima"(105); quindi a Versailles, dove il rinnovato "diplomatico" venne nominato nel 1919 dal governo italiano membro del Consiglio supremo economico, che affiancò i lavori della conferenza di pace per le questioni relative all'economia, alla finanza, alle riparazioni dei danni di guerra, alle comunicazioni e ai trasporti(106); e a Rapallo poi nel 1920 alla conferenza sulla vicenda slava in relazione allo spinoso problema di Fiume, quando Volpi preferì, più che partecipare alla delegazione ufficiale, tessere le sue trame di negoziatore attraverso i consolidati rapporti e le relazioni personali, giocando le carte soprattutto a Belgrado con il ministro degli Esteri jugoslavo Milenko Vesnič, da lui ben conosciuto, tanto da farlo ritenere da Carlo Sforza un abile trattatore di una "concessione d'affari" più che un mediatore diplomatico(107).
Del resto proprio i collegamenti informali e individuali avevano consentito alla S.A.D.E. di mirare alle nuove risorse acquee e territoriali e all'incipiente nuovo mercato che si stava aprendo in Venezia Giulia, Istria e nei paesi slavi. Si era stabilito in pratica tra i principali gruppi elettrici del Nord Italia un accordo esplicito, ancorché segreto, di spartizione dei territori acquisiti a Versailles e Rapallo, in base al quale il Trentino e il Sud-Tirolo sarebbero rientrati nella sfera di competenza della Edison, con un addentellato per la S.I.P., mentre alla S.A.D.E. sarebbe stata riservata tutta l'area annessa nella parte orientale, dall'Istria alla valle dell'Isonzo(108).
È indubbio che il primo dopoguerra conferì a Volpi, dopo il prestigio economico-finanziario e gli intrecci delle personali relazioni diplomatiche acquisiti nei due decenni antecedenti il conflitto, il sigillo definitivo del cursus honorum, premessa indispensabile al riconoscimento della copertura di cariche ufficiali nella politica. Il conferimento della dignità aristocratica, con l'assunzione nobiliare a conte nel dicembre 1920 "per grandi servigi resi al paese", e l'acquisizione dello scanno senatoriale, con la nomina regia nell'ottobre 1922 per la XXI categoria (censo)(109), costituirono i due poli di riferimento per collocare la prima carica di effettivo prestigio politico ottenuta da Volpi nel luglio 1921, il governatorato della Tripolitania(110). La vicenda costituisce anche una chiave di lettura efficace per comprendere il passaggio e la transizione dall'Italia liberale all'Italia fascista. La questione della sistemazione della Libia, dopo la perdita della maggior parte dei territori conseguente al quasi completo ritiro italiano connesso alle necessità militari della Grande guerra, venne affrontata da Giovanni Giolitti nei primi mesi del 1921 e portata a compimento con lineare sequenzialità da Benito Mussolini alla fine del 1924: tra i due estremi confluirono punti di contatto e di riferimento comuni e senza soluzioni di continuità, come l'individuazione di una persona pratica di "affari"(111) capace di operare con fermo polso amministrativo per la soluzione del problema della colonia, la carta bianca e la mano libera lasciate ai comandi militari per la riconquista del territorio cruenta nella strategia bellica e violenta nella pratica degli armamenti impiegati, il piano di "colonizzazione" come premessa fondamentale per il controllo delle terre e dei commerci in tutta la regione(112). Tutto ciò consentì a Volpi di ottenere, non soltanto l'acquisizione di 2.000 ettari di terreno a Misurata, ma anche il riconoscimento alla fine dell'opera nel luglio 1925 del predicato "di Misurata" aggiunto al titolo nobiliare(113).
Nel frattempo naturalmente Volpi non cessò di interessarsi alle proprie vicende finanziarie e di occuparsi del proprio legame ormai di interdipendenza con Venezia. A quest'ultimo proposito vale la pena di ricordare i primi finanziamenti elargiti al fascismo veneziano già nel corso del 1920 - nel pieno della crisi di Fiume, quando il Fascio veneziano era controllato da Piero Marsich, acceso sostenitore di quel filodannunzianesimo che aveva avuto in Foscari il suo antesignano - come "strumento di pressione" e "capacità di mobilitazione in ordine agli 'interessi italiani' nell'Adriatico per essere più forte al tavolo delle trattative": un doppio gioco, questo di Volpi, che non poteva non venire alla luce in coincidenza con le carte dei contatti personali giocate direttamente a Belgrado, come si è notato in precedenza, e che venne giudicato un vero e proprio "'tradimento' di Fiume"(114).
Quanto all'aspetto finanziario, va sottolineato che tra il 1921 e il 1922 Volpi deteneva la carica di presidente o vicepresidente di 20 società: in primis di 3 principali società elettriche del gruppo, la S.A.D.E., la Cellina, la S.I.V., poi di concentrazioni finanziarie come il Credito Industriale, la Porto industriale, la Compagnia di Antivari, la Società nazionale per lo sviluppo delle imprese elettriche (Sviluppo), l'Associazione fra le società italiane per azioni, quindi di industrie altamente specializzate quali la C.N.A.V., la Galileo, la C.I.G.A.; faceva parte poi dei consigli di amministrazione di 46, tra cui la Banca Commerciale Italiana, le Assicurazioni Generali, l'Unione esercizi elettrici, la Società strade ferrate meridionali, le Officine di Battaglia, la Veneta(115). I controlli societari avrebbero toccato l'apice nel 1931 diminuendo gli impegni diretti ma aumentando i poteri indiretti: 22 presenze in diverse società, 9 delle quali come presidente e come vicepresidente, 11 come consigliere; sarebbero poi via via ribassati nel tempo non soltanto in conseguenza dei processi di ristrutturazione e concentrazione messi in atto all'inizio degli anni Trenta in coincidenza con l'impatto della grande crisi(116), ma anche per fare posto a centri di potere e controllo ben più qualificati e accentrati, come si vedrà.
E venne il tempo della politica, si potrebbe dire, a definitivo riconoscimento della dimensione di "plutocrate internazionale"(117) ormai unanimemente riconosciutagli. Certamente la nomina di Volpi a ministro delle Finanze, avvenuta il 13 luglio 1925, si inseriva in un contesto ben più vasto e complesso di alleanze tra il fascismo, ormai avviato irreversibilmente verso la trasformazione dello Stato, e i gruppi del potere economico, che erano rimasti fortemente insoddisfatti dalla politica messa in atto dal predecessore Alberto De' Stefani specialmente in seguito agli interventi nei settori bancario e finanziario(118). La chiamata di Volpi, come quella del tecnico legato agli ambienti elettrici Giuseppe Belluzzo, al Ministero dell'Economia nazionale(119) - "due tipici fiancheggiatori che con il vero fascismo nulla avevano a che fare", come li definisce forse con troppa convinzione Renzo De Felice, o, come meglio nota Gianni Toniolo, simboli di "continuità con la classe dirigente giolittiana"(120) - segnò un punto a favore dell'irreprensibile gradimento dei gruppi industriali e finanziari nei confronti del regime fascista in costruzione(121), che sarebbe stato gratificato di lì a poco - il successivo 2 ottobre - dall'accordo di palazzo Vidoni tra Confederazione generale dell'industria e Confederazione delle corporazioni fasciste, inteso a regolamentare e controllare il mercato del lavoro(122).
Le prime misure protezionistiche adottate dal nuovo ministro delle Finanze non delusero le attese dei suoi patrocinatori: il dazio sul grano apriva la campagna della "battaglia del grano", che, al di là degli obiettivi dichiarati dell'autosufficienza della nazione, si configurava come un'autentica macchina di propaganda di massa e un primo importante veicolo di organizzazione del consenso(123).
Ma furono soprattutto la sistemazione dei debiti di guerra verso gli Stati Uniti e l'Inghilterra e l'operazione di "quota 90" a ratificare decisamente la posizione di Volpi. L'impegno per la soluzione degli indebitamenti contratti in occasione della guerra, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, che proprio in conseguenza della Grande guerra avevano assunto la preponderanza dei flussi di capitali in Italia sostituendo la precedente egemonia tedesca(124), costituiva per il regime fascista una specie di "missione 'nazionale'" intesa non tanto a saldare un "debito d'onore", quanto a ottenere un riconoscimento internazionale di favore del ruolo che l'Italia avrebbe potuto esercitare nel contesto europeo e internazionale(125); per gli Stati Uniti poi il superamento della questione segnava uno dei percorsi incisivi, subito dopo la definizione del piano Dawes nell'agosto 1924, per un ritorno sulla scena della politica europea mediante l'imposizione di "rapporti di subordinazione" finanziaria(126).
Il piano di sistemazione venne definito tra Volpi e il segretario al Tesoro americano, Andrew Mellon, alla metà del novembre 1925 a Washington, dove il ministro italiano si era recato in compagnia di Alberto Pirelli, Dino Grandi, ma anche di tecnici della finanza come Mario Alberti e Alberto Beneduce(127). Si trattava infatti non soltanto di consolidare il debito italiano ammontante a 2.042 milioni di dollari - il cui risarcimento venne definito nel tempo di sessantadue anni con un tasso di interesse massimo del 2%, che indicava una rinuncia pratica da parte degli Stati Uniti ai quattro quinti del proprio credito -, bensì anche di concludere una trattativa condotta con i maggiori rappresentanti della Banca Morgan di New York, Thomas Lamont e Dwight Morrow, per definire l'elargizione di un "prestito di stabilizzazione" inizialmente di 100 milioni di dollari(128), salito nei tre anni successivi a oltre 300 milioni di dollari, di cui avrebbero goduto in primo luogo le società elettriche e i maggiori gruppi industriali italiani, come F.I.A.T., Montecatini, Pirelli, Società di Navigazione Italo-Americana (S.N.I.A.), Terni, Breda(129).
Conseguentemente, di lì a qualche mese - nel successivo gennaio 1926 - Volpi avrebbe ottenuto anche la sanatoria con l'Inghilterra, che di fatto avrebbe abdicato all'85% dei propri crediti verso l'Italia(130).
Strettamente collegate a queste iniziative di aperture del mercato finanziario internazionale, che avrebbero comportato un eccesso di offerta di moneta italiana, si posero le misure di politica deflazionistica, che sarebbero state precedute dall'intervento di unificazione degli istituti di emissione nella Banca d'Italia nell'agosto 1927 e si sarebbero concluse il successivo 21 dicembre con la definizione di "quota 90" e il conseguente intervento nel mercato dei cambi e nella parità aurea che la stessa Banca d'Italia avrebbe dovuto garantire(131). Anche se, va ricordato, la definizione di alcuni elementi tecnici di tale linea, come il livello di rivalutazione e stabilizzazione della lira, videro Volpi in una posizione critica di fronte alle pretese prosopopeiche di Mussolini condensate nell'espressione di propaganda politica che "la sorte del regime è legata alla sorte della lira". Il ministro delle Finanze infatti - ancora una volta portavoce dei maggiori ambienti finanziari e industriali italiani, come attestano gli interventi diretti di Giuseppe Toeplitz, Antonio Stefano Benni o Riccardo Gualino - riteneva più che sufficiente ad assicurare la stabiltà dei cambi sul piano internazionale il raggiungimento del cambio della lira con la sterlina a 120-125 o, tutt'al più, 100-110(132).
In ogni caso, dopo questa esperienza, Mussolini da un lato valutò la posizione di Volpi all'interno del governo di eccessivo ingombro rispetto all'esercizio indiscutibile della "disciplina"(133); Volpi d'altro canto ritenne di dover concludere questo passaggio(134), per dedicarsi più direttamente al consolidamento della dimensione internazionale dei suoi riferimenti finanziari e riprendere in mano saldamente le redini degli 'affari', anche se - come è stato osservato da Sergio Romano ‒- ormai "la vita pubblica era diventata per lui […] un naturale prolungamento della vita privata"(135).
Ma non si pensi che una divergenza di valutazioni, come quella manifestatasi su "quota 90", potesse significare per Volpi, o più in generale per il mondo finanziario e industriale, presa di distanza e scissione di responsabilità verso il regime fascista da parte di chi intendeva muoversi "nel solco della più tradizionale prassi della grande industria italiana" che aveva chiesto sempre protezione allo Stato(136), e di chi si era affrettato rapidamente a "inquadrarsi" con la scelta definitiva di campo assumendo ufficialmente la qualifica "fascista" - è il caso della Confederazione dell'industria - contemporaneamente all'avvio della costruzione del nuovo Stato(137).
Il processo di allineamento si era imposto ormai in modo consolidato e in forme irreversibili, tanto che Volpi accettò di assumere la presidenza della Confederazione fascista degli industriali nel novembre 1934 (l'avrebbe tenuta fino al maggio 1943), nel momento in cui l'economia italiana stava cominciando a intravedere gli elementi di superamento della lunga ondata provocata dall'impatto della grande crisi e a impostare le linee della politica autarchica e dell'economia di guerra(138) sotto il profilo degli incentivi finanziari e dell'autodisciplina indotta(139). In questa posizione egli dovette affrontare tra l'altro nel 1938 la non semplice questione dell'applicazione delle leggi razziali sul controllo e sulle limitazioni delle attività economiche e patrimoniali degli ebrei; si può presumere che le direttive da lui impartite non si scostassero dall'atteggiamento tenuto nei confronti della maggiore società finanziaria controllata da ebrei, le Assicurazioni Generali, del cui consiglio di amministrazione egli faceva parte sin dal 1915: Volpi venne nominato presidente della compagnia assicurativa in sostituzione di Edgardo Morpurgo già dal settembre 1938(140), anticipando così l'imposizione coercitiva introdotta dalla legge del successivo novembre sulla "difesa della razza italiana", in modo da preparare i passaggi nel modo più indolore e meno traumatico per il capitale finanziario(141). Forse anche nel mondo finanziario Volpi adottò quella tattica del "mediatore", del "travestimento" e della "regia", che il suo biografo Romano gli riconosce pure nell'adozione del simbolo nobiliare, una "volpe rampante"(142).
Anche per Vittorio Cini, l'altra figura di rilievo del "gruppo veneziano", la Grande guerra segnò il salto di qualità per l'ascesa nel contesto finanziario. L'attività di Cini era iniziata nel 1905 all'interno dell'impresa paterna specializzata in costruzioni infrastrutturali. Assunta l'effettiva direzione dell'azienda nel 1910, Cini aveva operato anzitutto una ristrutturazione dell'assetto organizzativo, realizzando un sistema integrato di funzioni in grado di garantire autonomamente la copertura dei vari settori di attività, dalla fornitura di materie prime al trasporto delle merci, dall'apertura di cantieri alla conduzione diretta dei lavori(144). Vanno ricordati a questo proposito almeno gli interventi realizzati tra il 1910 e il 1912 per la costruzione delle dighe all'imbocco del porto di Chioggia, quanto meno per il lungo contenzioso apertosi col Ministero dei Lavori pubblici per il saldo dei conti e trascinatosi fino alla regolazione della controversia avvenuta soltanto nel 1920(145).
Morto il padre nel maggio 1917, Cini procedette a una serie di profonde e radicali ristrutturazioni non soltanto della società paterna, cui nel frattempo si era collegata anche una propria ditta formalmente indipendente, ma anche dell'assetto e della strategia dei settori operativi, attuando una vasta e fitta serie di smobilizzi, diversificazioni, reinvestimenti, e, soprattutto, riassetti e ridistribuzioni finanziari. Nella congiuntura di crescita ed espansione delle iniziative mercantili venne privilegiato anzitutto il settore dei trasporti marittimi, la cui potenzialità di traino Cini aveva intuito in primo luogo nelle aree dell'Adriatico e del Medio Oriente(146). Furono proprio queste attitudini imprenditoriali, unitamente alla costituzione di un forte assetto finanziario posto alla base delle imprese, gli ambiti di competenza territoriale dell'esercizio delle attività, a favorire l'inserimento di Cini nel gruppo dell'imprenditoria e della finanza che faceva riferimento a Venezia: con il suo ingresso si configurarono definitivamente l'assetto, la morfologia e, soprattutto, la denominazione del "gruppo veneziano".
All'inizio il ruolo assunto da Cini fu collegato alle competenze sino allora acquisite nei settori delle costruzioni e dei trasporti. Nel maggio 1919 infatti, all'atto della fondazione della Sitaco - nata col compito di procedere in collaborazione con la Porto industriale a opere infrastrutturali nella costituenda zona industriale di Marghera e all'edificazione del quartiere urbano di Marghera che sarebbe sorto a ridosso della zona medesima -, gli fu assegnata la presidenza della stessa(147). Le indubbie capacità imprenditoriali e finanziarie già espresse gli valsero la progressiva acquisizione di responsabilità via via rilevanti nel contesto del "gruppo veneziano". Basti pensare ai compiti sempre più ampi svolti all'interno delle imprese del gruppo: nel 1925 Cini risultava presente in 19 società, in 4 delle quali in qualità di presidente o vicepresidente e in 15 di consigliere; tra queste, gruppi finanziari o assicurativi (come la Porto industriale, il Credito Industriale, la Sviluppo, le Assicurazioni Generali, il Lloyd Siciliano), ditte di costruzioni, trasporti, comunicazioni (come la Veneta, la Società di navigazione San Marco, la Società di navigazione interna, la Società di navigazione libera triestina, il Lloyd Mediterraneo, la Società telefonica delle Venezie [Telve]), industrie siderurgiche, meccaniche e cantieristiche (come la Alti forni e acciaierie della Venezia Giulia, la C.N.A.V., le Officine di Battaglia, le Officine meccaniche italiane di Reggio Emilia), imprese elettriche (come la S.A.D.E.)(148).
Il culmine delle cariche finanziarie e industriali sarebbe stato raggiunto nel 1931, quando Cini ricoprì incarichi in 33 società, occupando la qualifica di presidente in 8, di vicepresidente in 1, di consigliere in 24(149).
Senza il riferimento all'appartenenza di Cini come componente fondamentale ormai del "gruppo veneziano" difficilmente si comprenderebbe il proposito maturato nei primi mesi del 1921 in "ambienti industriali e finanziari" di affidargli "l'incarico dell'assestamento dell'Ilva"(150), la società siderurgica che alla fine della guerra si era venuta a trovare in una grave situazione di immobilizzi di capitali e di indebitamenti bancari, dipendenti dalla concentrazione di molteplici attività che spaziavano dai settori finanziari a quelli minerari, metallurgici, meccanici, cantieristici, marittimi, oltreché dalla crisi di liquidità, dal continuo ricorso obbligato al credito bancario, per di più aggravati dall'insolvenza debitoria nei confronti dello Stato per i mancati pagamenti dei sovraprofitti sugli utili di guerra e per la rescissione delle commesse di guerra già anticipate. Nominato nel consiglio di amministrazione dell'Ilva nel marzo 1921 e poi nel comitato direttivo della società, Cini procedette subito alla verifica della situazione patrimoniale e contabile, proponendo non la liquidazione dell'impresa, come chiedeva con facile soluzione la maggior parte dei creditori, ma puntando su un'operazione di vasto respiro che incidesse profondamente sulla struttura finanziaria, produttiva e organizzativa. I cardini dell'intervento consistettero anzitutto nel mettere in luce l'ammontare delle perdite totali sia di esercizio che di patrimonio, quantificate in un passivo reale di quasi 285 milioni di lire; poi in un concordato coi creditori per ottenere una moratoria sul pagamento dei debiti, e in una transazione con lo Stato per la riduzione del debito da 118 a 12 milioni di lire(151); quindi nella costituzione transitoria nel giugno 1921 di un'apposita impresa, la Società esercizi siderurgici e metallurgici - il cui capitale sociale iniziale di 5 milioni venne sottoscritto in pari misura dalla Banca Commerciale e dal Credito Italiano -, cui concedere in affitto temporaneamente gli impianti di produzione dell'Ilva(152); infine nella riduzione del capitale sociale da 300 a 15 milioni mediante la riduzione del valore nominale di ogni azione a 15 lire(153).
In riconoscimento delle decisive funzioni svolte per il risanamento dell'Ilva, già nel febbraio 1922 a Cini sarebbe stata offerta la presidenza della società, che egli declinò accettando invece la carica di vicepresidente - tenuta in un primo momento fino al successivo gennaio 1923 -; in assenza della nomina di un presidente, ciò gli permise di agire di fatto con pieni poteri, quasi come "commissario straordinario" della società stessa(154).
L'operazione, avviata inizialmente con la copertura del governo Giolitti, si sarebbe conclusa definitivamente nel dicembre 1922, grazie alle "vigorose e sane direttive del governo che per le fortune dell'Italia oggi ne regge le sorti, intese ad armonizzare i fattori della produzione" - come si affermava nella relazione del consiglio di amministrazione dell'Ilva nel marzo 1923(155) -, mediante la fusione con incorporazione della società esercente, che aveva concluso i suoi compiti a termine, nella società madre ormai risanata - con la conseguente ricostituzione del capitale sociale a 150 milioni di lire - e la ripresa integrale delle attività siderurgiche dell'Ilva stessa(156).
Tutto il quadro naturalmente si inserisce nel contesto complessivo dei salvataggi bancari e industriali che vide protagonista nel dopoguerra lo Stato con flussi di sovvenzioni discriminanti, le cui scelte portarono tra l'altro ad interventi favorevoli anche per l'Ansaldo e il Banco di Roma - non però per la Banca italiana di sconto -, tuttavia senza un piano di interventi di carattere organico e strutturale(157).
Nell'aprile 1930 Cini avrebbe accettato nuovamente la vicepresidenza della società, affiancando prima la presidenza di Giuseppe Toeplitz e poi dall'aprile 1933 quella di Oscar Sinigaglia(158), in un periodo strategico per la definizione dei rapporti tra industria siderurgica e Stato e per l'impostazione di un progetto di vaste dimensioni per una siderurgia a ciclo integrale(159). Nel 1935 infine egli assunse finalmente la presidenza dell'Ilva, incarico che tenne fino al 1939(160). Cini si trovò quindi a dirigere una delle più importanti industrie siderurgiche italiane ormai controllata dallo Stato attraverso l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (I.R.I.), pochi mesi dopo aver aspramente criticato in Senato - come si dirà - "l'intervento [dello Stato] sotto forma di gestione", causa del "formarsi di un'economia 'sui generis' ed equivoca": ma si trattava forse di un modo per rivendicare nella pratica il ruolo dello Stato in economia inteso "sotto forma di disciplina e di controllo"(161).
Le sue origini ferraresi, unite alla buona considerazione ormai acquisita a pieno titolo negli ambienti governativi fascisti, meritarono a Cini nel settembre 1927 l'affidamento dell'incarico di "commissario straordinario per la bonifica integrale nella provincia di Ferrara", o meglio di "fiduciario del governo"(162) per i provvedimenti da adottare sul riassetto politico, economico e sociale della provincia di Ferrara, in cui, nonostante la presenza di uomini di sicuro prestigio e fiducia come Italo Balbo, il fascismo non era riuscito ancora ad incidere radicalmente e a fondo(163). L'obiettivo consisteva in un intervento forzato per modificare completamente nell'arco di un decennio la struttura produttiva in un'area in cui l'assetto della grande proprietà terriera e la configurazione della mano d'opera agricola non avevano certo favorito una composizione armonicamente controllata delle forme di proprietà e dei modi di conduzione della terra: la soluzione proposta sarebbe dovuta consistere in una "bonifica integrale" - e non si può trascurare il rilievo da dare a questa espressione usata con più di un anno di anticipo sulla legge della "bonifica integrale" del dicembre 1928 - e in una trasformazione fondiaria basata sull'appoderamento medio e sull'unità aziendale familiare. Tutto ciò si sarebbe risolto non con la "solita ricetta dello 'intervento statale'" fornendo "troppe medicine e non buone", ma con un radicale "atto chirurgico" apportatore di un "ottimo affare" per lo Stato(164). Ma il commissariato straordinario, istituito nel 1928 a conclusione del progetto elaborato da Cini per darne attuazione, in realtà ne avrebbe stravolto completamente i termini, dando vita a un programma di migrazione forzata di popolazione contadina dalla provincia di ben 19.000 unità verso le aree di bonifica integrale e, soprattutto, la Sardegna(165).
Tuttavia Cini non avrebbe smesso di fare altri "ottimi affari". Nella marineria anzitutto, quando nel 1932, nel pieno dell'impatto della grande crisi che coinvolse naturalmente anche il sistema dei trasporti, procedette alla fusione di 6 società di navigazione in un unico complesso, la Compagnia adriatica di navigazione, che per dimensioni strutturali, competenze di traffici, capacità marittimo-armatoriale poté assumere il controllo dei transiti nell'Adriatico, nel Mediterraneo orientale e anche verso l'Oriente. Nel dicembre 1936 poi, in occasione della istituzione della Finmare, la finanziaria creata dall'I.R.I. per la gestione delle società di navigazione rilevate dallo Stato, Cini non si lasciò sfuggire l'opportunità di far intervenire il finanziamento pubblico anche nella Compagnia adriatica, ponendo in liquidazione la società e facendola rilevare dall'istituto pubblico per la quasi totalità del capitale con la nuova denominazione Adriatica di navigazione. Condizione della trattativa fu il mantenimento della presidenza della rinnovata società da parte di Cini(166).
Nella finanza poi, in particolare nel Credito Industriale, valorizzò la banca del "gruppo veneziano" che era stata fondata nell'ottobre 1918 e che esercitò la funzione di holding del gruppo stesso. A Cini, cui venne affidata la presidenza dell'istituto dal 1931 al 1943, spettò tra l'altro l'incombenza di procedere nell'agosto 1936 - all'indomani della riforma bancaria che intervenne radicalmente nel settore del credito e alla vigilia della svalutazione della lira che venne di fatto sganciata dalla parità aurea e commisurata all'oro(167) - ad una incisiva ristrutturazione della banca, che, a causa delle eccessive partecipazioni, si era trovata ad affrontare troppo onerosi impegni ed era entrata in una fase di gravosi immobilizzi, con una conseguente necessità di limitare le esposizioni e di ridurre le cointeressenze. Si procedette quindi ad un radicale smobilizzo del portafoglio titoli e ad una riduzione dei tre quarti del capitale sociale, con cui si fornì liquidità ad esempio al programma di nuovi investimenti che vide coinvolta la S.A.D.E. proprio nella fase dell'autarchia(168). Ben a ragione dunque a metà degli anni Trenta le voci ricorrenti attribuivano a Cini la "rappresentanza effettiva per le direttive finanziarie" del "gruppo veneziano"(169).
Anche Cini ebbe i suoi riconoscimenti onorifici: senatore nel gennaio 1934 per la XXI categoria(170), conte nel maggio 1940 col predicato "di Monselice" riferito al castello di proprietà provenuto da eredità avita(171). La prima nomina da lui non fu molto onorata, come attesta la rara partecipazione alle attività del Senato. In una sola occasione Cini ebbe modo di far notare la sua presenza nell'istituzione parlamentare, il 1° aprile 1935, quando intervenne nel dibattito sullo stato di previsione della spesa del Ministero delle Corporazioni, in realtà per pronunciare un chiaro discorso, pacato nella forma quanto aspro nel contenuto, su quelle che vennero bollate come le "deformazioni", le "degenerazioni", gli "estremismi del corporativismo": fu un buon pretesto per porre in chiaro un progetto di intervento pubblico dello Stato che coinvolgeva non soltanto l'oratore, ma senz'altro il "gruppo veneziano" e larga parte del mondo industriale, che era stato scosso dall'urto della grande crisi e aveva trovato nello Stato fascista la più organica partecipazione mai verificatasi nell'esperienza statale dall'Unità in poi. Lo Stato - questa era la vera e propria formulazione ideologica di Cini - doveva intervenire nell'economia soltanto in modo transitorio e contingente, regolando la "disciplina", favorendo "lo spirito altissimo dei produttori", mai però assumendo modi diretti di "gestione". Compito dello Stato cioè sarebbe stato quello di "assolvere la funzione di supremo regolatore dell'economia" mediante un "programma" volto al "perfezionamento tecnico della produzione" e alla "riduzione dei costi". "Equilibrio" e "ordine" erano i parametri di riferimento anche per l'ordinamento corporativo dello Stato fascista, che, a giudizio di Cini, presentava tutti i requisiti per garantire un equilibrio armonioso dei fattori, "organico e rivolto all'interesse generale", capace di difendere allo stesso tempo "produttori" e "risparmiatori"(172).
La presa di posizione di Cini provocò l'entrata nel campo della discussione anche di Giuseppe Bottai, che in "Critica Fascista", pur dando atto a Cini di essere un buon "camerata ed amico", tuttavia non gli lesinava epiteti quali "buon polemista", "impetuoso", preso dalla "foga giovanile", agitato da un "concitato squarcio oratorio"(173). In realtà anche nella circostanza dell'intervento al Senato Cini espresse quella caratteristica che quasi vent'anni dopo gli avrebbe riconosciuto Guido Piovene: "la presenza del mito della mano di velluto nel guanto di ferro"(174).
Ma le capacità e le doti finanziarie di Cini da tempo ormai erano unanimemente riconosciute e apprezzate. Nell'ottobre 1936 si parlò di lui come possibile successore di Alberto Beneduce alla presidenza dell'I.R.I.(175). In realtà il nome di Cini fu in predicato per un'altra ipotesi. Quando si presentò per l'Italia l'opportunità di divenire sede di un'esposizione universale dopo la ricomposizione diplomatica sancita dalla revoca delle sanzioni economiche da parte della Società delle Nazioni, la personalità in grado di impostare un programma organico e articolato venne individuata proprio in Cini, che nel dicembre 1936 - subito dopo l'istituzione dell'ente Esposizione Universale di Roma (E.U.R.) - venne nominato appunto commissario generale dell'Esposizione Universale(176). Una volta assunta la carica, Cini formulò - com'era nella sua consuetudine - un piano e un progetto complessivi, che modificarono dalle basi quanto sino allora era stato abbozzato. Al di là delle formule e dei motti - come ad esempio quello di "Olimpiade della civiltà" -, l'Esposizione, che avrebbe dovuto svolgersi nel 1942 e che appunto per questo assunse ben presto la sigla E42, avrebbe dovuto anzitutto avere i connotati non della provvisorietà ma della "definitività" delle opere, in modo da evitare sprechi di costi senza utili a lunga scadenza e lasciare un segno indelebile e definitivo nel tempo. L'area di insediamento venne individuata nella zona adiacente all'abbazia delle Tre Fontane immediatamente a sud-ovest di Roma, nella direttrice verso il mare, che avrebbe costituito una saldatura senza soluzione di continuità tra il centro storico e il nuovo insediamento. Accanto agli edifici monumentali, che avrebbero dovuto essere sede delle esposizioni e delle manifestazioni - si ricordi fra tutti il palazzo della Civiltà del lavoro (o "Colosseo quadrato", come venne definito), che sarebbe divenuto il simbolo dell'E42 insieme ad un'altra opera, un arco di vasta luce (dai 200 ai 300 metri) in lega avional o in acciaio, mai realizzato -, sarebbe sorto un vero e proprio quartiere urbano con funzioni dirigenziali e residenziali. Accanto al rinvigorimento dei fasti della Roma imperiale, della "Roma caput mundi", si trattava di dare vita ad una "città nuova", ad una "metropoli" dotata dei "più moderni servizi": per questo motivo venne istituita una commissione di architetti e urbanisti sotto la guida di Marcello Piacentini, incaricata di predisporre un piano regolatore, che sarebbe stato redatto nel marzo 1938(177).
Lo scoppio della guerra avrebbe ridimensionato di molto la possibilità di attuazione completa del progetto iniziale, ma non le sue linee guida e l'impianto di fondo. A parte l'ipotesi di trasformare l'esposizione da "universale" a "nazionale" o "continentale" e - una volta entrata in guerra l'Italia - di sottoporla all'insegna del "novus ordo", già in una lettera scritta a Mussolini una decina di giorni dopo l'inizio del conflitto, Cini indicava con precisione l'impostazione da seguire adottando una soluzione "intermedia" in grado di assicurare l'integrità delle opere già realizzate, garantire gli interventi necessari per non incorrere in perdite degli investimenti compiuti, predisporre la smobilitazione dell'ente trasferendone l'amministrazione al governatorato di Roma (ciò che avvenne nel febbraio 1943)(178). Dopo la sospensione dei lavori contemporanea al passaggio delle competenze, il progetto urbanistico sarebbe stato ripreso alla cessazione delle ostilità, stravolgendone però necessariamente il primitivo delineamento, puntando soprattutto, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, all'edificazione di complessi amministrativi ministeriali e residenziali benestanti sotto l'incentivo della pressione di insediamenti e collegamenti infrastrutturali determinati dall'"anno santo" del 1950 e dalle Olimpiadi del 1960. Non si può trascurare il fatto però che al quartiere Eur arrivò nel 1955 la prima linea ferroviaria metropolitana in Italia, la cui costruzione era stata iniziata sin dal 1938(179).
Ma la carica di commissario dell'E42 offrì l'occasione a Cini anche di svolgere compiti ben più complessi rispetto a quelli strettamente inerenti alle sue funzioni, come quando a metà del giugno 1939 si recò negli Stati Uniti ufficialmente per visitare la fiera mondiale di New York, in realtà per effettuare sondaggi ben più mirati e approfonditi sulle posizioni americane verso gli eventi che stavano per precipitare in Europa. Cini ebbe un colloquio col presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, che risultò una vera e propria missione diplomatica informale, da cui egli ricavò l'impressione che l'atteggiamento americano di fronte a una minaccia di guerra in Europa fosse quello improntato ad uno spirito di pura resa economica secondo lo slogan "cash and carry"(180).
Insomma, anche in questa circostanza, Cini non smentiva le sue principali prerogative di attento "uomo d'affari", che gli sarebbero state riconosciute senza reticenze da Gino Luzzatto, estensore nel settembre 1945 della relazione finale della commissione d'inchiesta nominata dal Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto (C.L.N.R.V.), in cui lo si qualificava come uomo da collocare "in primo rango tra i finanzieri italiani"(181).
Altri, come si è ricordato all'inizio, operarono nel "gruppo veneziano"; altri poi agirono formalmente al di fuori del gruppo, ma intrecciando di fatto stretti collegamenti e accordi con esso.
Tra i primi sembra opportuno richiamare la figura di Achille Gaggia (1875-1953)(182) - feltrino di origine -, unanimemente definito, come già ricordato, "uomo di fiducia" del "gruppo veneziano", del quale sarebbe stato al fedele servizio: considerandolo "mero e sicuro esecutore delle direttive" impartite, il gruppo gli affidò sempre compiti di attuazione e di rappresentanza nelle principali partecipazioni delle società controllate o cointeressate. A Gaggia vennero assegnate cioè le funzioni tecniche del gruppo, che egli seppe puntualmente mettere in pratica, tanto da guardare agli interessi e al mondo della "famiglia veneta" come incondizionatamente prioritari(183). Per questo pure Gaggia riuscì ad ottenere alcuni onori, certamente di poco conto rispetto ai suoi maggiori, come ad esempio la nomina a senatore nell'agosto 1939, sempre per la XXI categoria(184).
Gaggia era stato introdotto nell'entourage di Volpi sin dal 1905, quando venne chiamato a coprire la carica di direttore generale della S.A.D.E. subito dopo la nascita della società elettrica. Se si pensa che egli rimase sempre all'interno della S.A.D.E. fino alla sua morte, si può dire che si impersonò devoto testimone della parabola della maggiore società del gruppo, di cui fu vicepresidente dal 1925 al 1942 e di cui divenne presidente in due periodi, dal dicembre 1943 al settembre 1945 e poi dal 1947 al 1953. Proprio per le sue competenze tecniche unanimemente riconosciute, Gaggia nel dicembre 1917 fu nominato - come già detto - membro della Commissione elettrotecnica del Comitato centrale di mobilitazione industriale, di cui facevano parte anche elettrici del calibro di Giacinto Motta e Angelo Omodeo(185).
Inoltre nel periodo in cui la S.A.D.E. operò un salto di qualità, cercando di assumere le dimensioni di una holding finanziaria internazionale - come si vedrà in seguito -, a Gaggia venne affidata la presidenza della banca del gruppo, il Credito Industriale, da lui mantenuta tra il 1925 e il 1930(186).
Nel 1931 complessivamente Gaggia era presente a vari livelli in ben 66 società. Di 25 di queste egli era presidente o vicepresidente (13 nel settore elettrico, tra le quali primeggiavano la S.A.D.E. appunto, la Cellina, la S.I.V.; 4 in quello elettrochimico, elettrometallurgico - la San Marco -, meccanico - la Galileo -; 3 nell'ambito delle costruzioni e dei trasporti - si ricordi la Veneta -; 2 in quello dei servizi e delle comunicazioni - la Compagnia generale degli acquedotti d'Italia (Cogea), la Telve -; 2 in quello turistico - come la C.I.G.A. - e immobiliare). Di 41 poi egli risultava consigliere (in 2 anche amministratore delegato o unico)(187).
Ma le due società in cui il gruppo gli concesse la piena delega operativa furono la Veneta e, soprattutto, la C.I.G.A. Nella prima Gaggia ricoprì la carica di presidente dal 1924 al 1944, orientandone l'attività non solo nei settori consueti delle costruzioni anzitutto ferroviarie e della gestione dei trasporti, ma anche nella realizzazione di infrastrutture ed edificazioni nella zona industriale di Marghera e in opere collegate ai settori elettrico e turistico(188). Della seconda - che egli considerò sempre "la sua creatura primogenita" e "la sua figlia prediletta"(189) - fu presidente in due tempi, dal 1925 al 1944 e dal 1948 al 1953: particolarmente rilevante nel primo ventennio di presidenza fu il balzo di qualità della C.I.G.A., il cui raggio di azione - per evidente impulso di Volpi, precedente presidente - si dilatò dall'orizzonte iniziale strettamente limitato all'ambito veneziano a quello di ben più estese dimensioni nazionali(190).
Tra coloro invece che seguirono una direttrice formalmente autonoma dal "gruppo veneziano", ma di fatto strettamente correlata ad esso e spesso in rapporti di interdipendenza e di subordinazione, quasi a svolgere funzioni che il gruppo aveva accettato di delegare tenendole sempre sotto controllo, emerge senz'altro la figura di Alessandro Marco Barnabò (1886-1971)(191).
Anche Barnabò aveva iniziato le sue attività nel settore dei trasporti e delle costruzioni, contribuendo tra l'altro nel 1912 ai lavori di potenziamento del porto di Tripoli. Ma l'avvio di iniziative imprenditoriali di largo respiro da parte di Barnabò avvenne a metà degli anni Venti, quando, partendo da ipotesi di sviluppo delle proprie attività, egli entrò in contatto con un gruppo finanziario inglese che puntava sullo sviluppo di alcune lavorazioni elettrochimiche, e, soprattutto, con una importante concentrazione finanziaria e industriale svizzera, la A.I.A.G., la maggiore produttrice di alluminio in Europa insieme alla società tedesca V.A.W. Questi tipi di lavorazioni necessitavano di disporre di risorse energetiche indipendenti e a basso costo, che vennero individuate nell'autofornitura di energia elettrica mediante la costruzione di nuovi impianti idroelettrici nell'alto Bellunese e nel Trentino orientale, rispettivamente ad opera della Società Forze Idrauliche Alto Cadore (S.F.I.A.C.) e della Società idroelettrica Val Cismon (Val Cismon). La S.A.V.A., cui venne data vita nel dicembre 1926, si insediò nella zona industriale di Marghera, avviando dal 1928 la produzione appunto di alluminio, che raggiunse di colpo il 34% del totale nazionale, e, insieme alla S.I.A. appartenente alla Montecatini, cinque anni dopo ne superò il 50%, contribuendo in modo decisivo a qualificare Marghera come punta di diamante dell'elettrochimica e dell'elettrometallurgia(192).
Al successo subito arriso alla S.A.V.A. concorsero una serie di fattori coincidenti. Anzitutto l'esordio avvenuto alla vigilia della grande crisi del 1929, il cui impatto determinò l'aumento nel mercato nazionale di un prodotto sganciato da ogni forma di dipendenza estera(193). In secondo luogo il fatto che la politica autarchica e l'economia di guerra, definitivamente imboccate dal regime fascista dopo la guerra d'Etiopia, provocarono un incremento e un'accelerazione di questo prodotto considerato "nazionale"(194). Infine gli accordi subito intercorsi per l'utilizzazione dell'energia, la spartizione delle quote di produzione e di mercato, la simbiosi delle forze in società elettrometallurgiche a compartecipazione. Sotto quest'ultimo aspetto vanno ricordate le intese allacciate da una parte con la S.A.D.E. e la S.I.P., e dall'altra con la Montecatini. Con tale società la S.A.V.A. attuò immediati collegamenti: specificamente attraverso la S.I.A. prima e l'I.N.A. dopo, di proprietà della società chimica milanese, per la conquista nella fase di superamento della grande crisi di fette di un mercato nazionale e internazionale di un prodotto altamente competitivo e in grande espansione, di cui nel 1935 a Marghera si produceva il 50,8% del totale italiano e l'Italia esportava il 41,5% del proprio prodotto; realizzò quindi dal 1930 patti di partecipazione paritetica per la produzione di semilavorati nella società L.L.L. a Marghera(195). La S.I.P. poi fu un'interlocutrice privilegiata della S.A.V.A. e un'ottima mediatrice con la S.A.D.E., tanto che da un lato nel 1928 acquisì la totalità del pacchetto azionario della S.F.I.A.C., rilevato successivamente dalla società elettrica veneziana nel 1933, e dall'altro si promosse a referente fisso per la predisposizione di accordi finalizzati agli scambi di energia elettrica: basti pensare alla vicenda delle compensazioni reciproche, che vide protagoniste nel passaggio tra gli anni Venti e Trenta appunto la S.A.D.E., la S.I.P., la S.A.V.A. con i loro impianti di produzione e di trasmissione collegati tra il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, il Trentino-Sud-Tirolo, l'Emilia Romagna, la Lombardia, il Piemonte, la Liguria(196).
L'ipotesi prima e lo scoppio della guerra poi, quindi l'entrata nel conflitto dell'Italia, videro pienamente consenziente il mondo finanziario e industriale italiano, che ritenne di poter ripetere quanto già utilizzato nella Grande guerra, facendo leva per di più sull'esperienza acquisita e maturata per evitare gli errori di sopravvalutazione commessi: la guerra cioè poteva ripresentarsi come un ottimo serbatoio di risorse per incrementare produzione e sovraprofitti in un'economia di eccezionale contingenza e di particolare transizione. Tale piena consonanza poté durare e mantenersi finché le sorti non segnarono un'inversione di tendenza coincidente con le sconfitte dell'Asse nell'Africa settentrionale e in Russia tra la fine del 1942 e l'inizio del 1943. Nel dicembre 1942 la rivista "Life" notava il desiderio all'interno di alcuni ambienti del fascismo "di liberarsi di Mussolini e dei filotedeschi ma di conservare il sistema" e di procedere a una trasformazione del "fascismo filotedesco in fascismo filoalleato"; "oggi questa [concludeva il periodico] è l'idea dei grandi industriali italiani, con a capo, a quanto si dice, Ciano, il conte Volpi, e il senatore Pirelli"(197).
Ma già nel settembre 1942 il rappresentante personale di Roosevelt presso la Santa Sede, Myrom Taylor, si era premurato di riferire gli orientamenti raccolti ufficiosamente intorno alla Segreteria di Stato sulle eventuali soluzioni ipotizzabili per la direzione politica dell'Italia nella "prospettiva di una vittoria alleata in Europa": tra le varie possibilità veniva individuato anche l'incarico da affidare a un esponente rappresentativo degli ambienti industriali, escludendo però personaggi non affidabili, come Volpi, "noto in generale per il suo carattere troppo furbo"(198). Il riferimento però risulta significativo per cogliere lo strappo e la lacerazione ormai avviatisi tra il mondo economico e la persona di Mussolini, ma apertisi in spiraglio già dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti nel dicembre 1941(199). In precedenza, sin dallo scoppio del conflitto e dall'entrata in guerra dell'Italia si era espresso - per esempio da parte di Volpi - qualche pessimismo, si era manifestata qualche riserva sull'"impreparazione militare", al massimo si erano formulati "giudizi severi sulle persone" oppure "critiche" e "acidi commenti"(200). Ma una volta ufficializzate le dichiarazioni di guerra da parte dell'Italia il "partito degli affari" ritenne di "ridar slancio all'apparato industriale"(201); "ora che la guerra è dichiarata [si espresse Alberto Pirelli] non c'è che da fare il proprio dovere e collaborare per la vittoria"(202); Ettore Conti aggiungeva: "Siamo in guerra: 'Sileant praecordia, pateat cor'. Taccia il ragionamento. Subentri l'obbedire"(203). La collaborazione sarebbe stata indiscutibilmente intensa, tanto che ad esempio Volpi, dopo l'annessione della Slovenia all'Italia e la costituzione della Croazia come Stato autonomo nella primavera del 1941, fu nominato presidente della Commissione economica italo-croata, posizione dalla quale poté definire i termini della presenza italiana nello Stato 'satellite' croato, come punto di riferimento per una decisa ulteriore penetrazione economica nei Balcani, che non poteva non suscitare sospetti e reazioni da parte della Germania, gelosa delle proprie prerogative sulle quali non intendeva venire limitata in alcun modo da rivendicazioni italiane rispetto alle prime aree slave occidentali e alle coste dalmate(204). Sta di fatto che Volpi riuscì a negoziare le precise modalità di controllo in Croazia della Banca Commerciale Italiana, delle Assicurazioni Generali e, naturalmente, della S.A.D.E.(205).
Può suscitare stupore che Cini accettasse la carica di ministro delle Comunicazioni nel rimpasto governativo avvenuto all'inizio del febbraio 1943(206), dopo che egli si era espresso già con riserve piuttosto forti nei confronti della situazione: nel dicembre 1942 Cini aveva parlato "molto esplicitamente dei pericoli imminenti e della necessità di radicali mutamenti nell'indirizzo del Governo"(207). Egli in più occasioni volle mettere in evidenza di non essere stato preventivamente consultato da Mussolini e, una volta comunicatagli la nomina, di aver cercato di addurre ragioni di incompatibilità. Alla fine Cini accettò l'incombenza, giustificandola - ma a posteriori - con il proposito di "reagire alla disastrosa situazione nella quale versava il nostro Paese" e con la convinzione di poter "riuscire in quel tragico frangente di qualche utilità al Paese". L'"adempimento di un dovere" dunque sarebbe stata la molla per far scattare l'assenso di Cini(208). La presa di distanza dal fascismo mussoliniano, nonostante la continuità della collaborazione, si accompagnava strettamente con il proposito di "salvare il salvabile", divenuto ormai parola d'ordine condivisa unanimemente dagli ambienti industriali di fronte alla costatazione dell'ormai irrimediabile disfatta(209). Del resto Cini non avrebbe mancato di manifestare privatamente in più di qualche occasione i suoi dissensi: nel marzo 1943 durante un incontro avvenuto a Roma con Hermann Göring egli espresse con "una scena impressionante" - come affermò in seguito Eugen Dollmann - aperte accuse di "promesse mai mantenute dai tedeschi"(210); nel successivo aprile manifestò la convinzione della necessità di "sganciarsi dalla Germania" e di "trattare con l'Inghilterra"(211); infine il 19 luglio, dopo il bombardamento di Roma, si sarebbe lasciato andare al giudizio confidenziale che "Mussolini era pazzo" e che "bisognava avere il coraggio di mandarlo via"(212).
L'attività ministeriale di Cini fu improntata al consueto criterio delle verifiche tecniche della situazione, con il palese scopo però di "trasferire sul terreno politico l'azione […] del Ministero delle comunicazioni"(213). Effettivamente Cini tra il marzo e l'aprile convocò una serie di riunioni allo scopo di "affrontare l'esame della situazione con senso realistico" nei vari settori delle comunicazioni in modo che ogni organismo assumesse "le proprie responsabilità"(214), suscitando spesso lo stupore e la meraviglia in Mussolini, che si dichiarò "grato" d'aver ascoltato per la prima volta una "chiara ed esplicita esposizione"(215). In tali circostanze Cini non si trattenne certamente dall'esprimere le sue valutazioni e dal manifestare le proprie certezze sulla drammaticità in cui versavano le condizioni del paese e sul catastrofismo ritenuto ormai irreversibile della situazione, culminate nella dichiarazione espressa nella riunione del Consiglio dei ministri del 19 giugno, in cui egli manifestò la ferma convinzione che l'unica via d'uscita sarebbe stata "fare la pace" e, anzitutto, "prepararsi a farla"(216). Di lì a qualche giorno, il 24 giugno, Cini avrebbe presentato le dimissioni dal Ministero, che sarebbero state accettate però soltanto il 23 luglio, alla vigilia della riunione del Gran consiglio del fascismo che segnò di fatto la fine del regime fascista(217).
Cini nelle settimane precedenti la svolta del 25 luglio aveva tenuto intensi contatti con i principali promotori della 'dissidenza' interna al fascismo, primi fra tutti Dino Grandi e Galeazzo Ciano, con ambienti della Santa Sede e con la stessa casa reale, tanto da essere ricevuto dal re Vittorio Emanuele III nel tardo pomeriggio del 24 luglio(218). Volpi invece non sembra essersi mosso, limitato com'era probabilmente dalle condizioni di salute, ma più plausibilmente prostrato dal continuo "pessimismo" che lo attanagliava e da "sentimenti di assuefazione, di stanchezza, di torpore"(219).
Una parabola significativa, questa di Cini, come del resto quella di Volpi: ministri entrambi nei momenti estremi dello Stato fascista, l'uno - Volpi - nella fase di costruzione del nuovo Stato, l'altro - Cini - nella fase del crollo. La loro attività politica lambì le sponde di una navigazione che da una parte - come si è visto per Volpi - era stata avviata ben prima e dall'altra - sarebbe stato il caso di Cini - sarebbe successivamente approdata a porti distinti dalla poltica.
Dopo la caduta del regime fascista, la proclamazione dell'armistizio, l'occupazione tedesca, la formazione della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), alcuni esponenti del mondo industriale continuarono a prestare intensa collaborazione col neofascismo repubblicano e con l'amministrazione militare tedesca, non disdegnando tuttavia di allacciare intensi contatti e stretti collegamenti anche col movimento della Resistenza: fu il gioco dei due fronti, reso obbligatorio per un lato dalla preoccupazione di garantire la continuità della produzione e l'integrità degli impianti, sia per ottenere la fiducia tedesca sia per arrivare alla fine della guerra in condizioni idonee alla ripresa; e imposto per un altro verso dall'obiettivo di intrecciare saldi rapporti e ottime relazioni con emissari alleati mediante colloqui segreti svoltisi soprattutto in Svizzera, o più semplicemente con rappresentanti di missioni alleate che agirono in zone operative dell'alta Italia, e di acquisire la definitiva sicurezza delle forze antifasciste. Il caso più conosciuto è quello della F.I.A.T. - e di riflesso dei suoi maggiori responsabili, da Giovanni Agnelli a Vittorio Valletta a Giancarlo Camerana - e dei finanziamenti alla Resistenza, ascrivibili ad una somma di 55-56 milioni di lire(220).
Ma sulla stessa linea, anche se in tono minore data l'entità del personaggio, si attestò pure Gaggia, che, divenuto presidente della S.A.D.E. nel dicembre 1943, operò sino all'aprile 1945 per mantenere indenni gli impianti di produzione ed elargì complessivamente al C.L.N.R.V. tra i 10 e i 13 milioni(221). Egli agiva quasi per interposta persona, poiché il suo 'maggiore' Volpi, dopo essere stato arrestato il 24 settembre a Roma dalle SS, poi ricoverato in una clinica a Roma, infine definitivamente liberato nel febbraio 1944 per interessamento di personaggi di spicco della R.S.I. quali Guido Buffarini Guidi e Rodolfo Graziani, riparò alla fine del luglio successivo in Svizzera, dove sarebbe rimasto sino all'ottobre 1947, quando, una volta assolto e amnistiato da varie accuse in sede istruttoria nel gennaio di quell'anno dalla sezione speciale della Corte d'assise di Roma in seguito al deferimento avvenuto nel marzo 1945 all'Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, fece ritorno in Italia per breve tempo, poiché sopraggiunse ben presto la morte nel novembre 1947(222).
In Svizzera Volpi aveva tentato di giocare le ultime carte, quelle dell'allacciamento di rapporti e relazioni con i nuovi 'emergenti', da un lato erogando al movimento di Resistenza complessivamente la somma di 20 milioni, e dall'altro - aspetto ben più rilevante - nei primi mesi del 1945 convogliando definitivamente la cessione del pacchetto azionario di proprietà della Società editoriale San Marco, editrice del quotidiano "Il Gazzettino" di Venezia, ad uno dei maggiori esponenti della Democrazia Cristiana dell'alta Italia, Pietro Mentasti, con cui erano stati avviati contatti fin dall'estate precedente attraverso emissari operanti tra Como e Milano(223): Volpi aveva fatto una nuova scelta di campo in cambio dell'immunità, intuendo la soluzione vincente di una formazione politica che operava a diretto contatto con l'unica istituzione capace di superare tutte le contingenze politiche e strutturali in Italia e uscire indenne e rafforzata da ogni fase congiunturale: la Chiesa cattolica(224).
Anche Cini era stato arrestato dalle SS a Roma il 24 settembre, in coincidenza con la nascita del governo della R.S.I.: quasi un atto simbolico manifestato da Hitler a Mussolini, per attestare solidarietà contro chi aveva operato con "disfattismo"(225). Dopo essere stato trasferito nel campo di concentramento di Dachau, Cini - per interessamento di Joseph Goebbels, che aveva provato sempre ammirazione per la sua capacità imprenditoriale e sensibilità culturale - ottenne prima di essere ricoverato in una clinica e poi di venire lasciato libero sotto la parvenza di una fuga in aereo organizzata dal figlio Giorgio(226). Rimasto in una casa di cura presso Padova nell'estate 1944, egli allacciò contatti col presidente del C.L.N.R.V., Egidio Meneghetti, mettendo a disposizione del movimento di Resistenza un notevole finanziamento, che sarebbe stato erogato anche durante il suo soggiorno in Svizzera (dove Cini si rifugiò nel settembre 1944), e avrebbe raggiunto alla fine la somma di 60 milioni di lire(227). Cini ritornò in Italia nel dicembre 1946, dopo che tra il febbraio e il marzo precedenti la sezione speciale della Corte d'assise di Roma prima e l'Alta corte di giustizia poi lo avevano sollevato da ogni addebito mossogli nell'ottobre 1944 di "attiva cooperazione col governo fascista" e di aver contribuito "con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista"(228). Ma di lui si erano interessati direttamente all'inizio del marzo 1946 alcuni tra i principali esponenti del governo, in primo luogo il presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi e il presidente della Consulta Carlo Sforza(229).
Nei finanziamenti alla Resistenza si erano incontrati i diversi interessi delle parti. Quelli del C.L.N.R.V., che nel febbraio 1945 aveva redatto un elenco di contribuenti "obbligatori" sulla base di valutazioni patrimoniali "prudenziali", classificando ai primi posti con oltre 500 milioni di patrimonio rispettivamente Cini, Volpi, Gaggia(230). Ma l'obbligatorietà sarebbe rimasta lettera morta, se non si fosse sposata con la disponibilità e la volontà dei principali esponenti del mondo economico e finanziario, pronti a mettere i piedi sulle staffe dei cavalli vincenti. E questi ultimi interessi vennero ratificati dallo stesso C.L.N.R.V., che, su richiesta di precisi mandatari, sottopose all'indagine di due commissioni d'inchiesta prima Cini, poi Volpi, rispettivamente tra il luglio e il settembre 1945 e tra il marzo e l'ottobre 1946. Le due indagini, sollevate dal figlio di Cini - Giorgio - e dal procuratore di Volpi Fausto Grisi, avrebbero anticipato le complete assoluzioni del febbraio 1946 e del gennaio 1947 cui sarebbero pervenuti i procedimenti aperti in sede centrale a Roma. Le conclusioni andarono ben oltre ogni più ottimistica previsione, confermando che erano state poste in campo non tanto istanze inquisitorie da parte del C.L.N.R.V., quanto piuttosto semplici "indagini" o "inchieste". Per Cini la commissione presieduta da Gino Luzzatto dichiarò la "perfetta sincerità dell'atteggiamento politico" e la "volontà di partecipare intensamente con gravi sacrifici finanziari e con più gravi rischi della persona alla lotta contro i tedeschi"(231). Per Volpi, pur rinunciando alla fine il C.L.N.R.V. a emettere un giudizio finale in seguito a dissensi insorti sulla procedura e sulla stessa funzione dei Comitati di Liberazione dopo il loro scioglimento e la temporanea trasformazione in uffici stralcio(232), si possono evidenziare le opinioni espresse dal demolaburista Mario Baltieri e dal democristiano Francesco Semi: il primo dichiarò che Volpi "non può ritenersi un collaboratore ma anzi fu spesso in antitesi con la direttiva fascista"; il secondo affermò che Volpi "fu nemico della guerra e si trovò in strettissime relazioni di amicizia e di affari con uomini di Francia, d'Inghilterra e d'America"(233).
Nessuna commissione invece venne nominata dal C.L.N.R.V. per esaminare la posizione di Gaggia, perché nessuno aveva sollecitato l'esame della situazione. Tuttavia il C.L.N.R.V., richiesto dall'Alta corte di giustizia, non si ritrasse dall'esprimere una valutazione non sulla "condotta e attività politica" di Gaggia - pur riconoscendone le responsabilità -, ma sull'"attività a favore dei partigiani, finanziando gli stessi nella lotta di liberazione"(234).
Si trattava ormai di capitoli ordinari della 'normalizzazione', attraverso i quali sarebbero passati i maggiori esponenti dei gruppi economici collegati al regime fascista(235).
Nemmeno la S.A.D.E.(236) poté rimanere esente dall'essere sottoposta a verifiche e accertamenti da parte del C.L.N.R.V., perché espressione di un "grande gruppo finanziario" con "aspetti e responsabilità anche politici", come si espresse nel luglio 1945 il presidente del C.L.N.R.V., Egidio Meneghetti. Ma tale impostazione venne subito corretta da parte di altri membri dello stesso organismo, che ritennero di "poter superare qualsiasi pregiudiziale di carattere politico, ma di natura contingente"(237). E qualche mese più tardi, nel marzo 1946, alcuni esponenti del Comitato di Liberazione proposero di assegnare alla S.A.D.E. uno dei tanti "certificati di benemerenza per la campagna insurrezionale", in riconoscimento "di una benemerenza di milioni"(238). Veniva accolta del tutto quindi l'apologia che la S.A.D.E. aveva fatto di se stessa, che in un promemoria redatto dal suo direttore, Mario Mainardis, si era presentata come promotrice autonoma già "prima dell'8 settembre 1943" di "gruppi di volontari", di "nuclei di fedelissimi", che avevano preso "accordi con le brigate di patrioti"(239): una rivendicazione di "resistenza" ante litteram, che appare palesemente eccessiva, mentre ben più realistica si manifesta la collaborazione prestata alla missione alleata inviata a Venezia per coordinare le azioni nell'imminenza dell'arrivo degli alleati(240).
Per di più la società elettrica veniva considerata unanimemente un pilastro di sostegno "di fronte ai gravi problemi ricostruttivi"(241). Nella ripresa del dopoguerra la S.A.D.E. avrebbe fatto valere la sua grande capacità di adeguamento alla situazione, di rafforzamento dell'assetto finanziario, di condizionamento dei processi di ricostruzione economica. La fornitura di energia elettrica infatti si presentava come risorsa assolutamente necessaria per il riavvio dell'economia, tant'è vero che nel 1948 la produzione idroelettrica superò del 43% il livello dell'anteguerra, arrivando poi nel 1953 al 90,7%(242). Nello stesso 1948 il "sistema elettrico veneto", riconducibile quasi integralmente alla S.A.D.E., produceva il 26,5% del totale rispetto al 21% del 1938, mentre nel 1953 saliva al 31,5%(243). Il capitale sociale della S.A.D.E. poi venne adeguatamente e progressivamente rivalutato coll'elevare gratuitamente il valore delle azioni o coll'aumentare mediante conversione di azioni o nuove sottoscrizioni, passando da 1.280.000.000 del 1945 a 42 miliardi del 1953, con uno scarto di ben il 3.281%(244), che si moltiplicherebbe ulteriormente per 2,5 applicando i coefficienti del valore della lira(245). La S.A.D.E. dunque continuava ad essere il vero gioiello di famiglia del "gruppo veneziano", passato in eredità nelle mani dell'unico superstite Cini dopo le morti di Volpi nel 1947 e di Gaggia nel 1953(246).
Anche il passaggio attraverso la congiuntura critica della guerra poté essere superato agevolmente, e, anzi, la società elettrica riuscì a trarre dalla soluzione nuovo stimolo per riprogettare le proprie funzioni ed allargare le capacità operative, senza presentarsi impreparata nella nuova situazione venutasi a creare. Del resto i periodi di contesto critico avevano rappresentato sempre impulsi di crescita o quanto meno stimoli di programmi futuri per la società elettrica. Lo si è visto per la Grande guerra. Un altro salto di qualità si era proposto durante la "grande depressione", quando l'industria elettrica si era dimostrata "uno dei pochi settori direttamente produttivi che riuscirono a espandere la propria produzione"(247), e la S.A.D.E. aveva contribuito a farlo con crescita costante, senza le battute di pausa che avevano caratterizzato invece altre società elettriche tra il 1929 e il 1933(248).
Pure la transizione tra seconda guerra mondiale e dopoguerra si presentò foriera di notevole sviluppo, soprattutto se si considera che la maggior parte dei progetti di espansione della S.A.D.E. risalivano al "piano autarchico" elaborato nel 1936, soltanto in parte avviato, e portato a piena esecuzione e compimento tra il 1947 e la metà degli anni Cinquanta(249). "Negli ultimi anni [scriveva a mo' d'esempio la S.A.D.E. nell'aprile 1940] il solo consumo di Venezia e del porto industriale di Marghera ha sorpassato il mezzo miliardo di kWh […], con tendenza ad ulteriori rapidissimi incrementi, in conseguenza delle richieste delle industrie"(250): ciò veniva detto alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia, proiettando le previsioni anche sul dopoguerra. Del resto - dalla formulazione del programma autarchico di ampliamento degli impianti e della produzione elettrica fino alla guerra - il potenziamento della S.A.D.E. era risultato evidente, tanto da incrementare la produzione del 58% e da qualificare in prospettiva il "sistema veneto" come il "più dinamico" e con "un buon livello di modernizzazione e di efficienza degli impianti"(251); anche se va osservato che sotto l'aspetto finanziario l'aumento del capitale sociale non seguì lo stesso tasso di crescita, attestandosi sul 45%, e va rilevato che tale misura di rafforzamento della finanza fu collegata all'ondata di fusioni e incorporamenti societari che caratterizzò i "processi di verticalizzazione" societari dopo il 1938(252).
Per di più la S.A.D.E. godeva di un'integrazione finanziaria sul piano internazionale, che la rendeva assai competitiva nei mercati azionari, tanto che i suoi titoli erano particolarmente appetiti nelle borse(253). Anzitutto si basava su una solidarietà venutasi a saldare ben presto con la Bank für elektrische Unternehmungen (Elektrobank) di Zurigo, che si sarebbe rinforzata alla vigilia e nel corso della Grande guerra, e che sarebbe stata foriera di una lunga e reciproca fedeltà, tanto che la holding svizzera specializzata proprio in finanziamenti elettrici sarebbe stata "il partner finanziario privilegiato di Volpi in tutte le operazioni su scala internazionale"(254). Di riflesso si presentavano i collegamenti con la Société financière de transports et d'entreprises industrielles (Sofina) di Bruxelles, collegata alla Elektrobank(255), e la Sviluppo di Milano, "una specie di sub-holding per l'Italia" della Elektrobank, com'è stata definita(256).
Poi si rafforzava col dare vita a cavallo tra gli anni Venti e Trenta a una serie di società finanziarie internazionali, quali la Compagnie italo-belge pour entreprises d'électricité et d'utilité publique (Cibe) di Bruxelles, la Compagnie européenne pour entreprises d'électricité et d'utilité publique (Europel) di Bruxelles, la European electric corporation (European) di Montreal(257), ma, soprattutto la Italian superpower corporation (Superpower) di Dover, Delaware. Particolarmente interessante quest'ultima esperienza, in cui comparvero come attori principali ancora una volta la S.A.D.E. e la Banca Commerciale. Entrambi gli organismi finanziari erano accomunati dall'idea della necessità di dare vita a una forte holding elettrica internazionale con lo scopo di attingere investimenti e compartecipazioni nel mercato finanziario americano. L'operazione è stata interpretata da un lato come una velleità della S.A.D.E. di affermare un totale affrancamento e una completa autonomia finanziaria, e, per converso, come un tentativo della Banca Commerciale di attingere liquidità fresca attraverso un alleggerimento del portafoglio titoli(258).
Sta di fatto che la S.A.D.E. poté trovare nelle holdings ricordate nuovi punti di forza per collocare i suoi titoli nel mercato finanziario internazionale e allargare gli intrecci delle partecipazioni anche a "vecchi" e "nuovi" amori collaterali, come nel settore delle acque sfruttate non a fini energetici ma di servizi - in primo luogo la Compagnia generale degli acquedotti d'Italia -, o nel campo dei trasporti di privilegio - ad esempio la Compagnie financière pour les communications internationales et le tourisme (Wagonfina)(259).
Ma si può dire che il "gruppo veneziano" non esistesse più nella sostanza sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Di fatto continuò a sopravvivere a se stesso, nonostante le morti di Volpi e Gaggia, che chiusero la parabola del dopoguerra segnata dal riconsolidamento di "una forte omogeneità fra proprietà e management" e da un riassestamento controllato delle concentrazioni verticalizzate che assicurarono alle "grandi famiglie" (intese non soltanto in senso parentale di consanguineità ma anche in modo collaterale di acquisizioni e compartecipazioni finanziarie) una garanzia di continuità di presenza e dominio, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta(260). I gruppi elettrici rimasero ai vertici di un vero e proprio oligopolio anche negli anni Cinquanta, nonostante la forzatura obbligata - ma razionale e modernizzante - della unificazione delle frequenze imposta per legge nel dicembre 1942 ma attuata soltanto alla metà degli anni Cinquanta: si fece di tutto cioè per ritardare il processo di omologazione, preferendo permanere nel sistema delle interconnessioni che assicuravano attraverso gli accordi diretti quote di mercato più utili e tariffe direttamente controllate, a scapito anche di una minore efficienza e redditività; la stessa omogeneità delle tariffe venne introdotta soltanto con provvedimento del Comitato interministeriale prezzi nel 1961(261).
Ci pensarono definitivamente la riforma di struttura della nazionalizzazione, il ristagno di una cultura industriale e di una strategia d'impresa ormai obsolete, il nuovo assetto di rimodellamento finanziario e tecnologico interno e internazionale, i processi di decentramento produttivo e di dislocazione territoriale, l'espansione sempre più massiccia di forme di incentivi e di investimenti pubblici, a fare piazza pulita di strategie puramente difensive e non progettuali e a favorire l'emergere di nuove imprenditorialità spesso rampanti e presuntuose(262).
Ma, ancora negli anni Cinquanta, c'era chi vedeva nella S.A.D.E. la panacea taumaturgica di ogni problema, considerandola più per l'aspetto assistenziale che avrebbe potuto offrire che per la sua reale potenza proprietaria. È il caso di Giorgio La Pira, che nella sua qualità di sindaco di Firenze e di deputato dovette affrontare tra il 1953 e il 1959 la questione della crisi delle Officine Galileo insieme a quella di altre industrie fiorentine - la Pignone, la Richard Ginori, la Manetti & Robert's -, per le implicazioni sociali che ne conseguivano sul piano dell'occupazione(263). La Pira muoveva dai presupposti di ispirazione cristiana dell'"attesa della povera gente" e della "santità" del lavoro secondo cui, "nel suo ordine, una fabbrica è sacra, come è sacra la Cattedrale"(264), e si faceva forte di reciproche stima e fiducia saldatesi con incontri personali avvenuti nella Fondazione Giorgio Cini, nel cui progetto Vittorio Cini l'aveva in qualche modo coinvolto(265). Egli quindi si rivolse a Cini per ottenere un intervento decisivo della S.A.D.E. al fine di scongiurare il pericolo paventato di un migliaio di licenziamenti alla Galileo: "Non licenziare [lo scongiurava] ne avrai benedizione dal Cielo e dalla terra"; ancora: "Ritira i licenziamenti della Galileo: farai cosa grata a Dio (Gesù considera fatta a Lui stesso: lo avete fatto a me! Matteo 25, 35), grata alla Vergine, grata a tuo figlio morto, grata a Firenze, grata a tutti gli operai, grata a tutta l'Italia e grata al governo!". E aggiungeva: "Ascolta: dimentica di essere capo presidente della SADE: pensati capo di una grande famiglia (una città, una nazione): cosa faresti? […] Non mi richiamare le 'leggi economiche': tu sei troppo intelligente ed hai esperienza politica ed economica molto vasta per fare, con serietà, tali richiami". Cini rispondeva sostenendo la distinzione del piano spirituale da quello laico: "Sensibile ai richiami del Vangelo, io credo di essere tra coloro che maggiormente avvertono le esigenze sociali ed umane: ma penso che in una società bene ordinata è funzione dello Stato creare le condizioni necessarie perché il diritto al lavoro possa essere esercitato, o di provvedere alle conseguenze di una eventuale disoccupazione". E non risparmiava una freccia di amarezza nei confronti di La Pira: "Nelle tue lettere personali tu invochi il Vangelo (dove del resto non si insegna soltanto la carità ma anche la prudenza) mentre nelle pubbliche dichiarazioni mi ferisci, sia pur non nominandomi, con accuse tanto gravi quanto infondate. Ammetti che questo duplice comportamento non è certo evangelico!"(266). Cini non poteva dimenticare di essere presidente della S.A.D.E., vincolato dall'impegno di "amministrare rettamente i beni che gli azionisti hanno affidato alla Società" e dal precetto che "non si possono violentare a lungo le leggi economiche"(267), e come tale ratificò nei primi mesi del 1959 l'allontanamento di oltre 530 operai su 2.350 occupati(268).
Nel dopoguerra la S.A.D.E. non rinunciò a riproporre la sua qualificazione di sistema tra i più dinamici, anche se dopo il 1955 gli investimenti complessivi, le costruzioni di impianti, l'efficienza tecnica diminuirono di intensità: la società elettrica si ritrasse quasi in difesa delle rendite di posizione acquisite nel periodo tra le due guerre, puntando - come si è visto - alla realizzazione, all'aggiornamento e al completamento di piani già formulati in precedenza(269). Si deve tenere presente che questa era ormai una tendenza generale per l'industria elettrica, che avvertì gradualmente la crescente e forte concorrenza del settore petrolifero; alla metà degli anni Cinquanta infatti "ai profondi cambiamenti nella composizione delle disponibilità di fonti energetiche fecero riscontro altrettanti profondi cambiamenti nella struttura dei consumi"(270).
Non deve ingannare il non indifferente aumento del capitale sociale, che tra il 1953 e il 1962 crebbe del 162% in conseguenza di ulteriori fusioni, incorporazioni e adeguamenti monetari. In realtà la produzione del sistema elettrico veneto salì leggermente del 4% attestandosi al 10,5% sul totale nazionale(271). Ma i maggiori incrementi per la S.A.D.E. si realizzarono sino alla metà degli anni Cinquanta con i nuovi impianti del Tagliamento - in cui spiccavano le centrali di Ampezzo, dedicata a Giuseppe Volpi, e di Somplago -, del Cordevole - caratterizzato soprattutto dal bacino di Fedaia ai piedi della Marmolada - e del Piave - qualificato dalla diffusa asta Piave-Boite-Maè-Gallina cui si sarebbe aggiunta l'appendice del Vajont(272). Dopo di che la società mirò a un piano di realizzazione di impianti di notevoli dimensioni e di grandi concentrazioni, che giustifica una ripresa degli investimenti tra il 1957 e il 1959(273). Programma questo esemplarmente ritratto nella diga del "grande Vajont", come la definì il progettista Carlo Semenza(274).
Singolare vicenda quella del Vajont, che rivela rapporti e connessioni estremamente significativi tra interessi privati e acquiescenze pubbliche in Italia. Una storia 'lunga' almeno quarant'anni da quando era iniziata, che avrebbe lasciato strascichi per ulteriori quaranta. Una diga che attraverso i vari progetti redatti si alzò dai 130 metri di altezza del progetto iniziale a ben 261,60 metri della realizzazione finale, elevando la capacità di invaso da quasi 34 milioni di metri cubi d'acqua a poco meno di 167 milioni(275). Una diga i cui lavori di costruzione erano cominciati all'inizio del 1957 e sarebbero stati ultimati nei primi mesi del 1963, affrettando la conclusione sotto l'urgenza della procedura di collaudo nell'imminenza del passaggio dell'impianto all'Enel in seguito alla legge di nazionalizzazione 6 dicembre 1962, nr. 1643(276). Una diga passata attraverso un "normale capitolo della procedura" che era stato avviato all'indomani dell'entrata in guerra dell'Italia fascista, ratificato dagli apparati istituzionali della R.S.I., sancito dagli organi della Repubblica italiana. Una diga la cui imponenza e i cui problemi facevano "tremare le vene e i polsi" - come si espresse il geologo Giorgio Dal Piaz - ma che doveva essere innalzata nel più breve tempo possibile, perché "il tempo corre ancora più velocemente dei nostri pensieri", così disse il progettista Semenza. Una diga progettata e autorizzata senza il supporto di un'indagine geologica sulle sponde del bacino che avrebbe dovuto richiudere, ma costruita "scocciando amici e uffici" - secondo l'espressione del responsabile dell'ufficio studi della S.A.D.E. Dino Tonini - e con la remissione di uno Stato "disposto ad abdicare ai propri diritti e ai propri obblighi"(277).
La sera del 9 ottobre 1963 il disastro. Resistette la diga - la diga ad arco allora più grande al mondo, un vero e proprio "nastro azzurro" di primato, un "vanto dell'ingegneria italiana", un "segno inconfondibile della perfezione tecnica", una "creazione umana, gloria della tecnica italiana", una "meravigliosa e sfortunata creazione del genio italiano"(278) -, l'acqua seminò distruzione e morte.
Le acque irruppero - citò la Genesi il giudice istruttore di Belluno Mario Fabbri per descrivere il disastro - […] ingrossarono e crebbero grandemente e andarono aumentando sempre più sopra la terra […] e sorpassarono le vette dei monti. E ogni carne che si muove […] tutto quello che era sulla terra asciutta e aveva alito vitale nelle narici, morì(279).
Catastrofe naturale? Evento imprevedibile? Fatalità tragica? Eppure c'erano stati chiari ed evidenti segni precorritori: una frana precedente tre anni prima, uno studio geotecnico premonitore di più di due anni antecedente, interventi palliativi per salvare in ogni caso l'impianto, lo scivolamento dell'enorme massa causato dalla rottura dell'equilbrio geostatico dovuto alla forte spinta idrodinamica e alle ingenti infiltrazioni acquee conseguenti alle prove di carico del bacino; tutto aveva concorso a rendere "prevedibile e probabile un evento catastrofico"(280). Ciononostante il meccanismo messo in moto non poteva essere arrestato, pena il pericolo di interruzione delle pratiche di collaudo e di perdita della qualifica di "bene elettrico" dell'impianto: "le cose sono probabilmente più grandi di noi" commentava sconsolato il progettista Semenza nell'aprile 1961, e aggiungeva preoccupato che la situazione "per le sue dimensioni mi sembra sfuggire dalle nostre mani"; pertanto, di fronte all'accelerazione dei fenomeni, non restava che invocare la protezione divina, come fece alla vigilia del disastro il progettista Alberico Biadene subentrato a Semenza dopo la morte di questi alla fine del 1961: "che Iddio ce la mandi buona". E fu così che quasi 2.000 persone si trovarono morte "senza sapere il perché"(281). Ma il cordoglio dovette riversarsi più sui vivi che sui morti, come disse Silvio Guarnieri: "Questo è il nostro inutile compianto per i morti della diga del Vajont, ma questo, e forse ancor più doloroso, è il nostro compianto per i vivi, per chi resta e non sa più per chi sia sopravvissuto"(282).
Seguirono processi penali e civili. I primi si conclusero in otto anni, i secondi si trascinarono per quasi quarant'anni(283). Mera colpa dei tecnici? Nessuna responsabilità degli amministratori? I lavori del Vajont crearono una doppia realtà: una 'ufficiale', da presentare alle istituzioni pubbliche, agli enti locali, ai politici, volta a minimizzare e tranquillizzare ogni segnale allarmistico; l'altra 'non ufficiale', interna e riservata alla S.A.D.E., consapevole della gravità della situazione almeno sino dalla fine del 1960(284). Per la S.A.D.E. la "storia" si sarebbe arrestata al "16 marzo 1963, data del trasferimento all'Enel della […] impresa elettrica e cioè degli impianti, del personale, degli archivi e di quanto altro afferente alla impresa stessa". Nessun "senso di mortificazione" dunque, ma una "profonda tristezza" e un "sentimento di solidarietà", che avrebbero spinto il presidente Cini a proporre un'immediata e urgente assistenza ai superstiti e ai paesi distrutti con l'erogazione di una notevole somma di denaro; ma la sua proposta venne subito bloccata da amministratori e tecnici della società elettrica, che temevano un'interpretazione di tale misura come implicita ammissione di colpe(285). In sede processuale a Cini venne riconosciuta l'assenza di ogni responsabilità per il suo compito di conduzione puramente finanziaria della S.A.D.E., che egli aveva accettato per "ragioni sentimentali" quale erede spirituale dei predecessori Volpi e Gaggia(286).
I processi penali misero in evidenza la condiscendenza, l'inerzia, la collusione degli apparati statali, della classe politica dirigente, dell'accademia universitaria verso un reale potere economico(287). I processi civili, alcuni dei quali non ancora del tutto conclusi alla fine del secolo, riconobbero a vario titolo la corresponsabilità di Enel e Montedison(288), subentrate alla S.A.D.E. dopo la nazionalizzazione rispettivamente nell'assunzione degli impianti elettrici e nel conferimento del patrimonio finanziario. Per quest'ultimo aspetto va ricordato che la S.A.D.E. confluì come finanziaria nella Montecatini nel 1964, anticipando di due anni la fusione tra la Edison e la stessa società chimica, che diede vita appunto alla Montedison(289).
A eccezione di Volpi, nessuno del "gruppo veneziano" era nato a Venezia, ma Venezia fu per tutti la sede privilegiata degli affari e della rappresentanza. Perché proprio Venezia? Certo non fu estraneo il mito della Serenissima Repubblica: ma era un'utopia della sopravvivenza fine a se stessa, rinverdita dalla ricerca della "vita privata" di Pompeo Molmenti e delle "curiosità" di Giuseppe Tassini; non fu alieno il fascino della città storica unica al mondo: ma era un'attrattiva della decadenza celebrativa, esaltata dai simbolismi delle "pietre" di John Ruskin, dalla celebrazione della morte di Thomas Mann e dalla sacralità della scena di Richard Wagner; non fu immune la malia della nuova cultura aperta alla modernità: ma era un faro riservato a pochi esclusivi raccolti intorno alla Esposizione internazionale d'arte o alla nuova forma di spettacolo cinematografico(290). Ma altre furono le lusinghe allettatrici, ben più reali e concrete. Anzitutto la prospettiva dell'Oriente, che significava non il semplice ripristino di antiche tendenze veneziane ma il collegamento alle nuove tendenze delle penetrazioni economiche nell'Europa balcanica e nel bacino dell'Adriatico e del Mediterraneo orientale. Poi l'ascesa della finanza, che aveva consolidate tradizioni assicurative e bancarie a Venezia - dalle Assicurazioni Generali alla Banca Veneta -, ma che si presentava rinnovata nella solidità con i nuovi istituti delle banche miste, prima fra tutte la Banca Commerciale Italiana. Quindi lo stimolo del turismo, caratteristico di una singolare città d'arte e di monumenti ma che si era manifestato anche con inusuali impostazioni collegate a iniziative imprenditoriali e a gestioni finanziarie. Ancora, la prospettiva dell'industrializzazione, intesa come spinta ineluttabile dei tempi ma soprattutto come via modernizzante dello sviluppo che poteva basarsi su privilegi singolari di una città portuale con un entroterra tutto da scoprire e con un bacino di dimensioni inusuali. Infine il definitivo reinserimento nel contesto nazionale e internazionale, da cui l'ex capitale era stata espulsa una volta sottrattole il privilegio di Stato e immessa in un circuito di dipendenza da altri contesti interni od esteri, ma in cui ambiva reimmettersi con il sostegno di spinte concorrenziali(291).
Sta di fatto che tutti i membri del gruppo stabilirono Venezia centro degli affari, come si è visto. Per realizzare meglio tale funzione, essi scelsero Venezia anche come patria di elezione, tanto da ricercarvi la dimora di rappresentanza che non poteva essere altro che nella via d'acqua maestra della città, il Canal Grande. Volpi lasciò la casa paterna in campo dei Frari per trasferirsi nel 1917 nel cinquecentesco palazzo Pisani a S. Beneto vicino a Rialto; Cini nel 1919 si insediò nel cinquecentesco palazzo Loredan a S. Vio nei pressi dell'Accademia; Gaggia soltanto nel 1938 riuscì ad acquistare un anonimo palazzetto ottocentesco nei pressi di S. Moisè quasi all'ingresso del Canale. Per di più si aggiunsero anche le appendici di campagna, secondo la più classica tradizione veneziana: villa Barbaro a Maser, costruita da Andrea Palladio e affrescata da Paolo Veronese, e villa Morosini Gatterburg a Marocco, per Volpi; Ca' Marcello a Monselice, carica della storia di Ezzelino da Romano, dei Carraresi, dei Marcello, e villa Duodo Balbi Venier costruita da Vincenzo Scamozzi, per Cini; villa Pagani a Socchieva - tipica residenza di campagna di signorotti arrivati - per Gaggia(292).
Si configurò così una specie di raffigurazione simbolica delle gerarchie anche nei luoghi, sia a Venezia che in campagna(293). Del resto questa tendenza all'esposizione visiva nel cuore della città sarebbe stata seguita e imitata negli anni del trionfo dell'immagine e della spettacolarità mediale da altri epigoni del tutto estranei al tessuto veneziano. Soltanto uno di questi però, il più arrampicatore e attivistico Raul Gardini, nel 1986 comprò per casa seppure occasionale un palazzo sul Canal Grande, Ca' Dario nei pressi della Salute(294), proprio quando, in seguito alla scalata alla Montedison e all'operazione del polo chimico Enimont, proclamava senza ritegni "la chimica sono io" e si autorappresentava nei fasti dell'imbarcazione da regata competitiva "Moro di Venezia" dal costo di 250 miliardi di lire(295). Gli altri invece preferirono prestigiose sedi di rappresentanza. Fu il caso della F.I.A.T., che per interessamento diretto di Gianni Agnelli sbarcò a Venezia nel 1984 - due anni dopo essere stata mediante proprie consociate tra le promotrici del Consorzio Venezia Nuova costituitosi allo scopo di realizzare gli interventi per la salvaguardia di Venezia e della sua laguna(296) - in palazzo Grassi a S. Samuele, subentrando nella proprietà che era stata di Cini e di Franco Marinotti, e installando, al posto dei precedenti Centro delle arti e del costume e Centro culturale di Palazzo Grassi, una Società Palazzo Grassi con l'intenzione di assegnarle funzioni espositive non strettamente collegate alla tradizione artistica veneziana ma insediate in un palazzo veneziano, città definita "al centro delle correnti culturali del mondo", insomma una specie di Beaubourg veneziano affidato alla direzione artistica di Pontus Hulten(297). Oppure il gruppo Benetton, che per mano di Luciano e Gilberto Benetton nel 1992 con un'operazione finanziaria della Edizione Holding prelevò dalle Assicurazioni Generali il complesso del Ridotto, a ridosso di S. Marco, con il proposito di installarvi un "sistema" di "grande centro polifunzionale per spettacoli teatrali e cinematografici, incontri, manifestazioni, convegni, riunioni, esposizioni", poi modificato dalla subentrata Edizione Property in un piano di megastore(298). La Venezia della rappresentazione di fine Novecento però sembra assomigliare più a quella di sussidiario strumentale del "gruppo veneto" del secolo precedente che non alla Venezia simbolo del mondo del "gruppo veneziano".
Il credito nel tempo di questa idea della città-immagine risale quanto meno al giugno 1934, quando proprio a Venezia - luogo ideale e simbolico di convegni - si tenne il primo incontro ufficiale tra Mussolini e Hitler, ospitati sotto la regia di Volpi negli spazi scenografici di villa Pisani a Stra, nell'esclusivo circolo del golf agli Alberoni del Lido, e, naturalmente, nel cuore di piazza S. Marco denso della simbologia di potere e di folla(299). Nel tempo della decadenza invece si scartò Venezia, non più coincidente con la visione di grandezza imperiale ormai in dissoluzione, per riparare nella villa di campagna di Gaggia a Socchieva presso Belluno: qui infatti significativamente si tenne il 19 luglio 1943 l'ultimo incontro tra Hitler e Mussolini prima della disfatta di quest'ultimo, che rimase allucinato e ossessionato dall'"edificio-labirinto", un "labirinto di sale e salette", un "'gioco di parole incrociate' pietrificato in una casa", il cui solo ricordo gli avrebbe suscitato un "incubo"(300).
Ma Venezia era divenuta anche e soprattutto un progetto. Venne elaborata una funzione di Venezia ancorata alla rinascita della sua collocazione nel contesto nazionale e conforme alla ripresa della sua dimensione a carattere internazionale. Venezia, si può dire, in realtà venne riprogettata, ponendola anzitutto in un vitale circuito europeo e mondiale, dal quale era stata sottratta. Prima di tutto fu individuata la sua partecipazione attiva al processo di industrializzazione, cogliendo a fondo le opportunità e le potenzialità implicite nei binomi acqua-terra, mare-porto, industria-prodotti, finanza-mercato. La zona industriale di Marghera nacque appunto come porto con annessa area industriale, come si è visto, utilizzando tutte le possibilità inerenti ai collegamenti, ai trasporti, alle lavorazioni, alla mano d'opera, che apportavano notevoli risparmi sui costi. Ma l'industria collocata sulla gronda della terraferma significava anche una precisa distinzione di compiti tra la città storica, centro di comando e di direzione, e la città economica fornitrice di nuova ricchezza. In realtà questa integrazione non si realizzò mai, come si è detto, e anzi perpetuò nel tempo una separazione e una dicotomia che non riuscì mai ad avvicinare non soltanto la struttura industriale alla città ma nemmeno il nuovo contesto della periferia urbana - Marghera e Mestre - alla città storica. Marghera fu per Venezia un'appendice, anzi una protesi che non si saldò mai al corpo principale. Il collegamento invece avvenne con il contesto delle risorse energetiche del territorio regionale delle Venezie ai fini di semplice sfruttamento, e, soprattutto, con le strutture finanziarie e produttive nazionali e internazionali in qualità di interdipendenza. Marghera cioè guardò al mondo con occhi propri, indipendentemente dalla maternità fisica veneziana(301).
E non servì certo tentare di creare cordoni ombelicali di collegamento come il ponte automobilistico translagunare inaugurato nel 1933, soluzione modernizzante e avveniristica che, dopo il ponte ferroviario del 1846, completava l'accesso da terra a Venezia sino allora raggiungibile esclusivamente attraverso la via acquea; oppure come il canale chiamato rio Nuovo (che significativamente assumeva la grafia italiana abbandonando quella tradizionale veneziana della denominazione toponomastica), con cui si congiunse il terminale automobilistico di piazzale Roma, vero e proprio cul de sac, con il Canal Grande in "volta de Canal" e, attraverso questo, col centro direzionale di S. Marco(302).
Gli anni Trenta portarono a compimento quel piano di "grande Venezia", che era stato avviato con le aggregazioni e incorporazioni territoriali - anzi "conurbazioni" come vennero chiamate - avvenute tra il 1917 e il 1926 e che diede vita a un vasto comune in funzione metropolitana - caratteristica del resto tipica nel periodo indicato anche di altre importanti città italiane, come ad esempio Genova e Milano(303). Ma il programma sotto il profilo urbanistico rimase monco tranne che per gli interventi tra loro contrastanti attuati negli anni Trenta da un lato delle grandi opere nella città storica - come i nuovi ponti in sostituzione di quelli ottocenteschi in ferro, quello in pietra degli Scalzi e quello "provvisorio" in legno dell'Accademia, e la monumentale e scenografica riva dell'Impero lungo il bacino lagunare di S. Marco -, e dall'altro dell'insediamento di "villaggi rurali" nell'immediato entroterra, cui con sadico eufemismo si diede il nome di Ca' (Ca' Emiliani, Ca' Sabbioni, Ca' Brentelle) - cioè dei palazzi delle famiglie patrizie veneziane -, veri e propri ghetti sociali di concentramento di infimi gruppi emarginati espulsi dalla città(304). Basti pensare che il piano urbanistico proposto per Mestre nel 1937 sarebbe rimasto lettera morta, per essere ripreso in qualche modo e stravolto completamente dopo la guerra(305).
Ben più articolato e attuato invece il piano culturale di Venezia, che fra il 1930 e il 1934 produsse nell'ambito della Biennale tre creature: il Festival della musica contemporanea, il Festival del teatro, e, soprattutto per la novità assoluta in campo mondiale, l'Esposizione d'arte cinematografica divenuta poi Mostra internazionale d'arte cinematografica(306). Come dimenticare a questo proposito che, oltre alla promozione imprenditoriale di Volpi come presidente della Biennale stessa, entrò senz'altro in campo la passione culturale di Cini, che nel 1918 aveva sposato una delle più importanti attrici italiane, Lyda Borelli, poi ritiratasi a vita privata ma rimasta sempre legata con filo di nostalgia al teatro e al cinema(307)?
Proprio Cini nel 1935 aveva formulato una visione organica di Venezia, mettendo insieme i vari aspetti della questione e indicando la complessità delle diverse facce. "Il problema veneziano", egli aveva detto nella riunione del Consiglio provinciale dell'economia corporativa dell'11 maggio, "non comprende soltanto gli aspetti portuale ed edilizio, sebbene importantissimi; comprende anche quello marinaro, commerciale, industriale, dell'artigianato, del turismo; l'aspetto culturale e infine quello sociale". Si imponeva anzitutto un obiettivo primario, quello artistico e culturale, seguito di riflesso da quello sociale:
Venezia ha il suo diritto di far valere la sua situazione di città unica al mondo e la sua funzione di rappresentanza; ed è giusto che in relazione a queste funzioni, a questa caratteristica di città unica al mondo, chieda che questo suo impareggiabile patrimonio artistico sia conservato con il contributo di tutti. Viene poi il problema culturale; Venezia non deve essere unicamente la sede di Uffici pubblici e di comando, ma anche di Istituti di cultura, di accademie ecc.; dovrebbe essere la città degli studi per eccellenza. […] E per ultimo, ma non in ordine di importanza, il problema sociale. Si tratta di dare sistemazione morale e materiale ad una parte della popolazione veneziana trasferendola nel quartiere del lavoro, si tratta di compiere la bonifica umana.
In tale contesto si chiarivano anche i reciproci rapporti tra Venezia e Marghera, affidando a quest'ultima la funzione di sostegno e ricchezza materiale per la prima, cui non si poteva più chiedere una dimensione attiva nel sistema di produzione economica se non limitatamente alle industrie tradizionali e alle imprese artigianali: Marghera - continuava Cini - avrebbe dovuto
servire da salvaguardia artistica di Venezia e provvedere alle sue fortune economiche. Potenziare Marghera significa fare il grande interesse di Venezia. Marghera non è soltanto un grande interesse nazionale, è anche un grandissimo interesse veneziano. Ed è soprattutto proiettata nel tempo che va veduta Marghera, per le sue praticamente illimitate possibilità; e se molto essa ha già dato a Venezia poco è in confronto di quello che potrà dare in avvenire se si vorrà e saprà continuare la nostra opera di sviluppo industriale.
"È infatti soprattutto ai margini della Laguna [concludeva Cini] che Venezia ha la possibilità di ripristinare le sue grandi fortune economiche, è al margine lagunare che avrà la possibilità di espandersi quando saranno esaurite le sue possibilità insulari ed è quì [sic] soltanto che potrà risolvere il suo problema sociale". E Cini chiosava alla fine: "a fatti e non a parole noi abbiamo aiutato la rinascita di Venezia"(308).
A distanza di oltre venticinque anni Cini, pur in situazioni cambiate, avrebbe ribadito le sue convinzioni sul supporto economico necessario e fondamentale di Marghera nei confronti di Venezia:
Per la vita intensa di lavoro [egli affermò nel convegno internazionale sul "problema di Venezia" nel 1962] è stata provvidamente creata da quell'uomo geniale che fu Giuseppe Volpi, Marghera, la Venezia di terraferma con il suo vasto retroterra, con i suoi nodi ferroviari e stradali, con le sue vie marittime, fluviali e aeree, con le possibilità praticamente illimitate di sviluppo che fanno di Marghera uno dei centri più importanti del mondo in piena e continua espansione. […] Bisogna smettere dal guardare Marghera con occhio sospettoso, quasi ostile. Non solo non vi è conflitto ma vi è complementarità fra le due parti, ed è soprattutto per virtù della terraferma che Venezia insulare potrà economicamente prosperare. […] Marghera, ricordiamolo, fu creata non soltanto per la salvezza di Venezia economica ma anche per la salvezza di Venezia artistica: questo ripeteva sempre il mio grande, fraterno amico Volpi.
Ma, ribadita la convinzione della sussidiarietà di Marghera a Venezia, Cini poneva l'accento anche sulla irrepetibilità di Venezia, facendo quindi un'autocritica sul "problema di Venezia"; rovesciando i termini della questione, egli procedeva ora dal diverso presupposto dell'assoluta preminenza della conservazione di Venezia. "Venezia è unica!", proclamava Cini, ribadendo con forza: "o Venezia rimane così o finisce". "La integrità di Venezia e la tutela estetica [egli aggiungeva] possono essere assicurate solo salvaguardando la sua insularità, che potrebbe essere compromessa da ulteriori vie translagunari. Venezia insulare rappresenta, lo sappiamo, il più splendido paradosso e solo come tale ha ragione di esistere". E rilanciava il ruolo primario culturale e la vocazione principale umanistica di Venezia: "Infine un grande contributo alla vita veneziana può essere dato dalle iniziative a carattere culturale, per le quali teoricamente non vi sono limiti. Nessuna città al mondo ha come Venezia titolo e presupposti favorevoli per essere Centro di vita culturale, sede ideale di istituti nazionali e internazionali di cultura, di università, di Accademie, di Fondazioni, di Istituti di educazione, sede naturale di convegni, di congressi, di esposizioni, di manifestazioni artistiche di ogni genere".
E nel dire ciò additava a modello l'isola di S. Giorgio, luogo della fondazione dedicata al figlio, indicata come "l'esempio in atto di quello che si possa realizzare in questo campo di attività"(309).
Ma mentre così si esprimeva, la S.A.D.E. di cui egli era presidente aveva operato in diversa direzione, procedendo accanto alla Edison, alla Montecatini e alla F.I.A.T. ad acquisire la totalità delle aree destinate alla seconda zona industriale di Marghera, che avrebbe affiancato la prima conformemente a un progetto predisposto nel 1953 e perfezionato nel 1962 con l'adozione del piano regolatore di Venezia; piano questo che contemplava nella stesura originale del 1958 anche una programmazione pubblica di controllo delle aree come premessa fondamentale per una gestione selezionata degli insediamenti, poi ridotta a semplice ratifica della situazione stabilitasi di fatto nella stesura finale siglata dal commissario prefettizio che reggeva il Comune dopo la crisi di giunta della fine del 1958. Quando poi all'inizio degli anni Sessanta si presentò l'ipotesi di una terza zona industriale di Marghera con gran parte di terreni ricavabili da interramenti lagunari - anche in questo caso sotto la direttiva di una programmazione pubblica affidata non a istituzioni locali ma a un organismo anomalo, un "consorzio obbligatorio", di cui gli enti locali coinvolti avrebbero dovuto fare parte -, si venne a sapere che i terreni già esistenti erano in mano della Edison e della Montecatini, mentre questa volta la S.A.D.E. si era disinteressata della faccenda puntando invece su un'alternativa di porto e di zona industriale sul Po di Levante in provincia di Rovigo: la S.A.D.E., divenuta S.A.D.E. Finanziaria dopo la nazionalizzazione, non solo era già proprietaria dei territori in Polesine, ma aveva attuato anche uno sganciamento da Marghera, ritenuta ormai non più redditizia senza la propria fornitura elettrica. Per di più la nuova gerarchia delle fonti energetiche, che aveva privilegiato definitivamente il petrolio, e la crescente importanza della lavorazione dei prodotti derivati dagli scarti di raffinazione avevano indirizzato gli obiettivi a puntare su un altro bersaglio, il multipolo chimico-petrolifero imperniato sul quadrato Marghera-Mantova-Ferrara-Ravenna: si tenga presente per di più che a questo punto la S.A.D.E. era ormai confluita nella Montecatini(310); i maggiori azionisti, come Cini, si erano già liberati accortamente del proprio pacchetto di titoli(311) e avevano assunto quasi un atteggiamento di nonchalance, tanto da far sollevare paradossalmente il dubbio a un responsabile della Montecatini di rischio "d'andar in galera per circonvenzione d'incapace"(312). Ma stava cambiando anche la struttura industriale, che aveva imboccato decisamente la strada del decentramento e della diffusione, connessa agli incentivi e alla piccola e media industria. Marghera si avviava alla decadenza: il centro Marghera sarebbe stato destinato a soccombere di fronte all'emergenza della periferia industriale del Nord-Est, il nucleo dell'accentramento industriale e territoriale avrebbe dovuto cedere alla marginalità della "terza Italia"(313). E tutto ciò rientrava nei giochi di una ristrutturazione globale dei rapporti di produzione e dei mercati a livello mondiale(314).
Fine della S.A.D.E., fine della Venezia industriale, fine del "gruppo veneziano": sono fattori coincidenti, facce diverse di una stessa medaglia.
Ad avvalorare tali coincidenze sta anche la mancanza di ogni continuazione e di ogni proselitismo da parte del gruppo, che non lasciò eredi né naturali né designati. O meglio, uno ce ne sarebbe stato, Giorgio Cini il figlio di Vittorio: era intelligente, era abile, era ricco, era bello, aveva cioè tutte le qualità dell'intraprendenza e del successo. Aveva dato già ottimi e promettenti risultati come imprenditore alla presidenza della Società italiana di armamento e come finanziere nei consigli di amministrazione del Credito Industriale e del Cotonificio Veneziano. Ma un incidente aereo nel 1949, quando egli aveva 31 anni, sottrasse questa unica possibilità(315). Non lo fu invece il figlio di Volpi, Giovanni, non solo perché troppo giovane, essendo nato da padre ormai sessantenne, ma perché al posto di attività finanziarie, imprenditoriali o culturali preferì non discostarsi molto dalla sua residenza svizzera di Losanna e dedicarsi appena poté nei suoi fugaci soggiorni veneziani alla consegna delle "coppe Volpi" ai migliori attori della Mostra del cinema o alle "targhe Volpi" a tornei di tennis, all'apoteosi del calcio veneziano in serie A, alle corse automobilistiche, all'organizzazione di feste mondane nel palazzo ereditato in Canal Grande o ad altri episodici appuntamenti di una supposta high society coincidenti perlopiù con le scadenze della Mostra del cinema, del riesumato fatuo Carnevale veneziano, delle offerte ad aste di Sotheby's(316). Forse un prosecutore era stato trovato in Mario Valeri Manera, che aveva dato alcune buone prove di sé, non solo perché aveva sposato una figlia di Gaggia, Maria Vittoria, ma perché aveva operato egregiamente in alcuni aspetti, come ad esempio le presidenze delle associazioni degli industriali di Venezia e del Veneto, la vicepresidenza della Confindustria, o, soprattutto, la promozione del premio letterario Campiello sorto nel 1963 appunto durante tali presidenze: ma in fin dei conti egli dimostrò di sapersi districare meglio in cariche di ordinaria amministrazione, come la presidenza dell'Associazione calcio Venezia o quella della Camera di commercio, prima di finire in bancarotta per un affare di materassi cui era stata aperta la strada da connessioni con Roberto Calvi e il Banco Ambrosiano(317).
Del "gruppo veneziano", o meglio di uno dei suoi componenti - Cini -, sopravvivono nel tempo i lasciti del collezionismo e della cultura. Per il primo aspetto basti menzionare le raccolte di mobili e armi del castello di Monselice, di arazzi e tessuti, ma soprattutto di quadri - in particolare le notevoli collezioni dei pittori toscani e ferraresi - per le quali Cini si affidò prima alle competenze di Nino Barbantini e poi a quelle di Federico Zeri(318).
Per la cultura, basti ricordare le origini della Fondazione dedicata alla memoria del figlio Giorgio, insediata nell'isola demaniale di S. Giorgio Maggiore nel bacino di S. Marco con un abile intervento imprenditoriale con cui Cini seppe coinvolgere nella sua iniziativa anche lo Stato mediante l'istituto giuridico della convenzione e contributi finanziari per il ripristino dei complessi monumentali dell'isola, affidandosi dapprima alla collaborazione di antichi consiglieri culturali come il già ricordato Barbantini e Gino Damerini(319), e allargando poi l'orizzonte a livello internazionale con Vittore Branca, fatto arrivare nel 1953 da Parigi dove operava con l'Unesco, ma soprattutto strettamente legato a don Giuseppe De Luca con cui Cini ebbe intensi contatti a partire dal 1949 per finanziare la pubblicazione dell'"Archivio Italiano per la Storia della Pietà" e per un progetto di studi sulla pietà veneta(320).
E forse la frase che meglio sintetizza questa permanenza nel tempo è quella apposta sulla lapide dedicata alla memoria di Cini stesso a S. Giorgio: "Si monumentum requiris, circumspice".
1. Ministero dei Lavori Pubblici, Commissione di inchiesta sulla sciagura del Vajont. Relazione al Ministro dei lavori pubblici, [15 gennaio 1964], pp. II-III.
2. Giulio Obici, Venezia fino a quando?, Padova 1967, pp. 11-12.
3. Il Grande Vajont, a cura di Maurizio Reberschak, Longarone-Venezia 1983; Maurizio Reberschak, Il Grande Vajont. Documenti, Longarone-Venezia 1983.
4. Comune di Venezia, Ripristino, conservazione ed uso dell'ecosistema lagunare veneziano, Venezia s.a. [ma 1981], pp. 20-27; Luigi Scano, Venezia terra e acqua, Roma 1985, pp. 19-20. Cf. Sergio Escobar, Il controllo delle acque: problemi tecnici e interessi economici, in Storia d'Italia, Annali, 3, Società e tecnica della cultura dal Rinascimento a oggi, a cura di Gianni Micheli, Torino 1980, pp. 104-107, 119-125 (pp. 85-153); Silvano Avanzi, Il regime giuridico della laguna di Venezia. Dalla storia all'attualità, Venezia 1993; Piero Bevilacqua, Venezia e le acque. Una metafora planetaria, Roma 1998.
5. Cf. Sandro Meccoli, La battaglia per Venezia, Milano 1977, p. 30.
6. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 78-79, 265-267; Michael Knapton, Tra dominante e dominio (1517-1630), in Gaetano Cozzi-Michael Knapton-Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992, pp. 326-332, 397-402 (pp. 201-549); Bernard Doumerc, Il dominio del mare, in Storia di Venezia, IV, Il Rinascimento. Politica e cultura, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1996, pp. 113-118 (pp. 113-180).
7. Comunità montana Cadore Longaronese Zoldano, Dai monti alla laguna. Produzione artigianale e artistica del bellunese per la cantieristica veneziana, a cura di Giovanni Caniato-Michela Dal Borgo, Venezia 1988.
8. Paolo Barbaro, Venezia l'anno del mare felice, Bologna 1995, p. 28.
9. Società Adriatica di Elettricità, Centrale termoelettrica di Marghera, Venezia 1952.
10. Anselmo Bucci, Una piccola Venezia rupestre e un duomo nelle viscere del monte, "Corriere della Sera", 25 agosto 1955; Vittorio Beonio Brocchieri, L'affresco nella centrale elettrica, "Elettricità e Vita Moderna", 3, 1956, nr. 3, pp. 10-13; Richard Zürcher, L'arte e la tecnica nella costruzione delle centrali elettriche. Impressioni dopo un viaggio, dattiloscritto cit. in Walter Resentera. 16 settembre-13 ottobre 2000. Retrospettiva antologica a cinque anni dalla scomparsa, Schio 2000, p. 87.
11. Giuditta Guiotto, Ricordo del pittore Walter Resentera, "El Campanón", 18, 1995, nrr. 101-102, pp. 41-43; Ead., Il pittore feltrino Walter Resentera (1907-95): vita e opere, "Dolomiti", 19, 1996, nr. 3, pp. 29-30.
12. Gino Damerini, Monti, valli, acque del Dominio Veneto nella grande pittura veneziana, Venezia 1955; Dario Giordani, Monti, valli, acque del Dominio Veneto nella grande pittura veneziana, "Elettricità e Vita Moderna", 2, 1955, nr. 8, pp. 20-24; Venetia MCCCCC. La Società Adriatica di elettricità nel cinquantenario della sua fondazione. 1905-1955, Venezia 1955.
13. Richard A. Webster, L'imperialismo industriale italiano. 1908-1915. Studio sul prefascismo, Torino 1974, p. 380; Sergio Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano 1979, pp. 11-13.
14. Maurizio Reberschak, Cini, Vittorio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, pp. 626-627 (pp. 626-634).
15. Guido Montanari, Introduzione, in Banca Commerciale Italiana, Archivio storico. Collana inventari, ser. II, 1, Segreteria dell'amministratore delegato Giuseppe Toeplitz (1916-1934), Milano 1995, pp. I-LIX. Cf. Ludovico Toeplitz, Il banchiere. Al tempo in cui nacque, crebbe, e fiorì la Banca Commerciale Italiana, Milano 1963.
16. Alexander Gerschenkron, Il problema storico dell'arretratezza economica, Torino 1965, pp. 3-30.
17. Valerio Castronovo, La storia economica, in Storia d'Italia, 4/I, Dall'Unità a oggi, Torino 1975, pp. 5-10 (pp. 3-506); Gianni Toniolo, Storia economica dell'Italia liberale. 1850-1918, Bologna 1988, pp. 170-176; Valerio Castronovo, L'industria italiana dall'Ottocento a oggi, Milano 1990, pp. 86-98; Vera Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell'Italia. 1861-1981, Bologna 1990, pp. 101-114; Valerio Castronovo, Storia economica d'Italia. Dall'Ottocento ai giorni nostri, Torino 1995, pp. 3-10.
18. Vera Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia. Bilancio dell'età giolittiana, Bologna 1978, pp. 208-217; Luciano Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d'Italia, Venezia 1989, pp. 187-220.
19. M. Reberschak, Cini, Vittorio, p. 627.
20. Id., Gaggia, Achille, in Dizionario Biografico degli Italiani, LI, Roma 1998, p. 218 (pp. 218-222).
21. Milano, Archivio storico della Banca Commerciale Italiana, Copialettere Toeplitz, nr. 61, fg. 175, lettera di Giuseppe Toeplitz ad Achille Gaggia, Milano 14 dicembre 1928; Roland Sarti, Giuseppe Volpi, in Uomini e volti del fascismo, a cura di Ferdinando Cordova, Roma 1980, p. 527 (pp. 521-546); Luciano Segreto, Imprenditori e finanzieri, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 1, Le origini. 1882-1914, a cura di Giorgio Mori, Roma-Bari 1992, p. 313 (pp. 239-347); Antonio Vitiello, La grande famiglia degli elettrici, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 3, Espansione e oligopolio. 1926-1945, a cura di Giuseppe Galasso, Roma-Bari 1993, p. 434 (pp. 399-504).
22. Maurizio Reberschak, L'economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 242 (pp. 227-298).
23. Silvio Lanaro, Genealogia di un modello, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Id., Torino 1984, p. 86 (pp. 5-96).
24. Giorgio Roverato, La terza regione industriale, ibid., pp. 170-172 (pp. 163-230); Id., L'industria nel Veneto. Storia economica di un 'caso' regionale, Padova 1996, pp. 78, 104-110.
25. Cf. Maurizio Reberschak, Capitale mercantile e capitale industriale. Rossi, Cantoni, Breda e i magazzini generali di Venezia, in Schio e Alessandro Rossi. Imprenditorialità, politica, cultura e paesaggi sociali del secondo Ottocento, I, a cura di Giovanni Luigi Fontana, Roma 1985, pp. 639-648.
26. Guido Baglioni, L'ideologia della borghesia industriale nell'Italia liberale, Torino 1974, pp. 244-274, 297-308.
27. Tullio Bagiotti, Venezia da modello a problema, Venezia 1972, p. 61; Angelo Ventura, Padova, Roma-Bari 1989, pp. 137-141; G. Roverato, L'industria nel Veneto, pp. 87-89.
28. Franco Bonelli, Lo sviluppo di una grande industria. La Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975, pp. 3-93; G. Roverato, La terza regione industriale, pp. 170-171; A. Ventura, Padova, pp. 142-171; G. Roverato, L'industria nel Veneto, pp. 95-103.
29. Venezia città industriale. Gli insediamenti produttivi del 19° secolo, Venezia 1980, p. 106.
30. Maurizio Reberschak, L'industrializzazione di Venezia (1866-1918), in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 376-377, 380 (pp. 369-404).
31. Francesco Saverio Nitti, La conquista della forza. L'elettricità a buon mercato. La nazionalizzazione delle forze idrauliche, in Id., Scritti di economia e finanza, III/2, a cura di Domenico Demarco, Bari 1966 [1905].
32. Rolf Petri-Maurizio Reberschak, La Sade di Giuseppe Volpi e la 'nuova Venezia industriale', in Storia dell'industria elettrica in Italia, 2, Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, a cura di Luigi De Rosa, Roma-Bari 1993, pp. 317-322 (pp. 317-346).
33. Antonio Confalonieri, Banca e industria in Italia. 1894-1906, III, L'esperienza della Banca Commerciale Italiana, Milano 1976, p. 239; Id., Banca e industria in Italia dalla crisi del 1907 all'agosto 1914, II, Crisi e sviluppo dell'industria italiana, Milano 1982, pp. 328-330.
34. Id., Banca e industria in Italia. 1894-1906, III, p. 599.
35. Milano, Archivio della Ciga Hotels, Compagnia Italiana Grandi Alberghi. Verbali del Consiglio, registro 2, 6 marzo 1913-19 luglio 1920, sedute 9 maggio 1920, 21 giugno 1923.
36. Alberto M. Banti, Storia della borghesia italiana. L'età liberale, Roma 1996, pp. 61-64.
37. V. Castronovo, Storia economica d'Italia, pp. 129-130.
38. Milano, Archivio storico della Banca Commerciale Italiana, Segreteria generale, cart. 13, fasc. 2, sottofasc. 1 "Exposé confidenziale per la costituzione della Società adriatica di elettricità (Capitale 1.000.000)", s.d.; promemoria, s.d.
39. Società adriatica di elettricità, s.l. [ma Venezia] 1912.
40. A. Confalonieri, Banca e industria in Italia. 1894-1906, III, p. 257.
41. Milano, Archivio storico della Banca Commerciale Italiana, Segreteria generale, cart. 13, fasc. 2, sottofasc. 1, promemoria, s.d.
42. Cf. Piero Foscari, Il porto di Venezia nel problema adriatico, Venezia 1904; Id., In difesa dell'Adriatico, "Gazzetta di Venezia", 4 giugno 1912; Id., Per il più largo dominio di Venezia. La città e il porto, Milano 1917.
43. Società Adriatica di Elettricità, Il gruppo Società adriatica di elettricità ed il progresso dell'industria elettrica nella regione veneto-adriatica durante l'ultimo decennio, Venezia 1924.
44. Cf. S. Lanaro, Genealogia di un modello, p. 88.
45. Giuseppe Fusinato, Prefazione a Piero Foscari, Per il più largo dominio di Venezia, Milano 1917, p. 20 (pp. 1-21).
46. Adriano A. Michieli, Il porto di Venezia e il suo avvenire, Venezia 1918, p. 20. Cf. Roberto Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953; Sergio Anselmi, Storie di Adriatico, Bologna 1996.
47. Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del 'problema di Venezia', Venezia 1979, pp. 77-85; R.A. Webster, L'imperialismo industriale italiano, pp. 384-396.
48. Carte d'archivio Piero Foscari. Inventario, a cura di Giorgetta Bonfiglio Dosio, Venezia 1984, p. 7; Cesco Chinello, Foscari, Piero, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma 1997, p. 338 (pp. 338-340).
49. Banca Commerciale Italiana, Archivio storico. Collana inventari, ser. III, 1, Segreteria generale (1894-1926) e fondi diversi, Milano 1994, pp. 19-26; Antonio Confalonieri, Banca e industria in Italia dalla crisi del 1907 all'agosto 1914, I, Il sistema bancario in una economia di transizione, Milano 1982, pp. 246, 406-407, 415-420; G. Montanari, Introduzione, pp. X-XI.
50. Angelo Tamborra, The Rise of Italian Industry and the Balcans (1900-1914), "The Journal of European Economic History", 3, 1974, nr. 1, pp. 87-120; A. Confalonieri, Banca e industria in Italia dalla crisi del 1907 all'agosto 1914, I, pp. 406-411; Gianni Toniolo, Cent'anni, 1894-1994. La Banca Commerciale e l'economia italiana, Milano 1994, pp. 47-48.
51. S. Romano, Giuseppe Volpi, p. 40.
52. R.A. Webster, L'imperialismo industriale italiano, pp. 357-436.
53. C. Chinello, Porto Marghera, p. 85.
54. R.A. Webster, L'imperialismo industriale italiano, pp. 437-542.
55. S. Romano, Giuseppe Volpi, p. 8.
56. R.A. Webster, L'imperialismo industriale italiano, pp. 384, 390.
57. Dalle carte di Giovanni Giolitti. Quarant'anni di politica italiana, III, Dai problemi della grande guerra al fascismo. 1910-1928, a cura di Claudio Pavone, Milano 1962, pp. 74, 87; Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, Milano 1962, pp. 264-268.
58. Gino Bertolini, 'Italia', II, L'ambiente fisico e psichico. Storia sociale del secolo ventesimo, Venezia 1912, p. 835.
59. Gaetano Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di Augusto Torre, Milano 1963, p. 335.
60. A. Confalonieri, Banca e industria in Italia. 1894-1906, III, p. 258.
61. Edoardo Savino, La Nazione operante. Profili e figure di ricostruttori, Milano 1928, p. 27.
62. Franco Gaeta, La crisi di fine secolo e l'età giolittiana, Torino 1982, p. 414.
63. Firenze, Archivio di Stato, Officine Galileo, Verbali delle assemblee degli azionisti. Registro 1907-1924, Costituzione della Società anonima Officine Galileo in Firenze, Firenze 4 aprile 1907; verbale di assemblea generale ordinaria 20 luglio 1909; verbale della Società anonima Officine Galileo 18 luglio 1916; verbale dell'assemblea generale ordinaria 31 luglio 1923; Relazioni e bilancio. Registro 1907-1948, Esercizio 1907-1908; Esercizio 1916-1917; Esercizio XVIII dal 1° dicembre 1923 al 31 dicembre 1924; Le Officine Galileo nell'anno II dell'Impero. 1937, Firenze 1937, pp. 14-15; Giulio Martinez, Notizie sulla vita della e nella 'Galileo' dall'origine al 1943, Firenze 1959, pp. 15, 62; Giuliano Procacci-Giovanni Rindi, Storia di una fabbrica. Le 'Officine Galileo' di Firenze, "Movimento Operaio", n. ser., 6, 1954, pp. 5-49; Franco Foggi, Le Officine Galileo di Rifredi, in Le Officine Galileo. La filigrana, i frammenti, l'oblio, a cura di Marco Dezzi Bardeschi-Franco Foggi, Firenze 1985, pp. 57, 70 (pp. 57-153); Giorgio Mori, Dall'unità alla guerra: aggregazioni e disgregazioni di un'area regionale, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Toscana, a cura di Id., Torino 1986, p. 292 (pp. 3-342).
64. Padova, Archivio di Stato, Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche. Società veneta per costruzione ed esercizio di ferrovie secondarie italiane, Libri processi verbali del Consiglio di amministrazione, Registro P/8, seduta 12 aprile 1912; Registro P/9, seduta 8 maggio 1924; Società Veneta per Costruzione ed Esercizio di Ferrovie Secondarie, Assemblea generale ordinaria degli azionisti 12 aprile 1912, Padova 1912; Ead., Assemblea generale degli azionisti. Esercizio 1919, Padova 1920; Ead., Assemblea generale degli azionisti. Esercizio 1924, Padova 1925; A. Ventura, Padova, pp. 247-248.
65. Alberto Caracciolo, La crescita e la trasformazione della grande industria durante la prima guerra mondiale, in Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell'economia italiana negli ultimi cento anni, III, Studi di settore e documentazione di base, a cura di Giorgio Fuà, Milano 19752, pp. 199-205 (pp. 195-248); Franco Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali d'interpretazione, in Storia d'Italia, Annali, 1, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino 1978, p. 1231 (pp. 1193-1255); Bruno Bottiglieri, La funzione dello Stato, in Storia dell'economia italiana, III, L'età contemporanea: un paese nuovo, Torino 1991, p. 294 (pp. 279-328).
66. Credito Italiano, Società italiane per azioni. Notizie statistiche. 1920, Milano 1921, p. 1072; Id., Società italiane per azioni. Notizie statistiche. 1925, Milano 1926, p. 777; Sedici anni di attività della Associazione fra le Società italiane per azioni. 1911-1927, Roma 1927, p. 26; Giorgio Mori, Le guerre parallele. L'industria elettrica in Italia nel periodo della grande guerra (1914-1919), in Id., Il capitalismo industriale in Italia. Processo d'industrializzazione e storia d'Italia, Roma 1977, pp. 141-215; cf. A. Caracciolo, La crescita e la trasformazione della grande industria, pp. 195-204.
67. R. Petri-M. Reberschak, La Sade di Giuseppe Volpi, pp. 321-322; M. Reberschak, L'industrializzazione di Venezia, p. 397.
68. Istituto Centrale di Statistica, Il valore della lira dal 1891 al 1998, Roma 1999.
69. Credito Italiano, Società italiane per azioni. 1920, pp. 1085, 1153; Id., Società italiane per azioni. 1925, p. 784. Cf. Claudio Pavese-Pier Angelo Toninelli, Anagrafe delle società elettriche: documentazione statistica di base, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 1, Le origini. 1882-1914, a cura di Giorgio Mori, Roma-Bari 1992, pp. 783, 815 (pp. 761-827); Idd., Anagrafe delle società elettriche: documentazione statistica di base, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 2, Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, a cura di Luigi De Rosa, Roma-Bari 1993, p. 743 (pp. 719-804). Cf. Luigi De Rosa, L'economia italiana fra guerra e dopoguerra, ibid., pp. 86-90.
70. Archivio Centrale dello Stato, Ministero per le armi e munizioni, Decreti di ausiliarietà, Inventario, a cura di Aldo G. Ricci-Francesca Romana Scardaccione, Roma 1991, pp. 132, 198, 202; Marina Giannetto, L'industria elettrica nella mobilitazione bellica, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 2, Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, a cura di Luigi De Rosa, Roma-Bari 1993, pp. 131-134 (pp. 105-199).
71. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero delle armi e munizioni, Comitato centrale per la mobilitazione industriale, b. 153, Comitato centrale di mobilitazione industriale, Commissione elettrotecnica, verbale della riunione dell'11 dicembre 1917. Cf. M. Giannetto, L'industria elettrica nella mobilitazione bellica, p. 152.
72. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero delle armi e munizioni, Comitato centrale per la mobilitazione industriale, b. 299, fasc. "Costituzione Comitato Veneto-Emilia", Decreto di nomina del Comitato Veneto 15 novembre 1917; b. 189, verbale del Comitato Veneto, 9 marzo 1918; M. Giannetto, L'industria elettrica nella mobilitazione bellica, p. 149.
73. Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura, storia, interessi nella questione della città e della laguna, Roma 1973, p. 163.
74. D.l. 26 luglio 1917, nr. 1191. Cf. Gianni Toniolo, Cento anni di economia portuale a Venezia, "CO.S.E.S. Informazioni", 2, 1972, nr. 3, pp. 55-58 (pp. 33-73); Santo Peli, Le concentrazioni finanziarie industriali nell'economia di guerra: il caso di Porto Marghera, "Studi Storici", 16, 1975, nr. 1, pp. 182-204; C. Chinello, Porto Marghera, pp. 190-194.
75. C. Chinello, Porto Marghera, pp. 121, 140.
76. L. 25 luglio 1904, nr. 523.
77. L. 14 luglio 1907, nr. 542.
78. D.m. 15 maggio 1908, nr. 603.
79. Rolf Petri, La frontiera industriale. Territorio, grande industria e leggi speciali prima della Cassa per il Mezzogiorno, Milano 1990, p. 23.
80. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, pp. 165, 170-172, 203, 207-211.
81. Mario Mainardis, La creazione del porto industriale di Marghera, in Giuseppe Volpi. Ricordi e testimonianze, a cura dell'Associazione degli industriali-Rotary club di Venezia, Venezia 1959, p. 38 (pp. 25-54).
82. M. Reberschak, L'industrializzazione di Venezia, pp. 385-386.
83. Ibid., pp. 382-383.
84. Id., L'economia, p. 256.
85. S. Peli, Le concentrazioni finanziarie, pp. 199-200.
86. Fabio Ravanne, Gli insediamenti industriali a Porto Marghera, in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, p. 135 (pp. 133-161).
87. Ibid., p. 136.
88. Porto Industriale di Venezia, Assemblea generale ordinaria e straordinaria degli azionisti. Relazione sul bilancio 1928, Venezia 1929; Antonio Agustoni, Le industrie a Porto Marghera, "Rivista Mensile della Città di Venezia", 7, 1928, pp. 573-604; D. G., Gli stabilimenti industriali di Porto Marghera, "Le Tre Venezie", 8, 1932, pp. 385-391; F. Ravanne, Gli insediamenti industriali, pp. 139-140, 151, 153.
89. Maurizio Reberschak, Barnabò, Alessandro Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIV, Roma 1988, pp. 258-264.
90. La Società Montecatini e il suo gruppo industriale nel venticinquesimo anno di amministrazione dell'on. ing. Donegani, Milano 1936, p. 219; F. Ravanne, Gli insediamenti industriali, p. 138; Francesca Tonon, L'industria dell'alluminio a Porto Marghera. Produzione, tecnologia, lavoro. 1928-1940, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1983-1984, p. 160.
91. F. Ravanne, Gli insediamenti industriali, pp. 137, 151, 153; M. Reberschak, Barnabò, Alessandro Marco, pp. 259-262.
92. Bruna Bianchi, L'economia di guerra a Porto Marghera: produzione, occupazione, lavoro. 1935-1945, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 169-177 (pp. 163-233); Rolf Petri, Acqua contro carbone. Elettrochimica e indipendenza energetica italiana negli anni trenta, "Italia Contemporanea", 38, 1987, nr. 168, p. 80 (pp. 63-96).
93. Rolf Petri, La zona industriale di Marghera. 1919-1939. Un'analisi quantitativa dello sviluppo tra le due guerre, Venezia 1985, p. 10; Id., L'industrie italienne de l'aluminium à la veille de la seconde guerre mondiale, "Cahiers d'Histoire de l'Aluminium", 1988, nr. 3, pp. 15-17 (pp. 15-24); Maurizio Rispoli, L'industria dell'alluminio in Italia nella fase di introduzione. 1907-1929, "Annali di Storia dell'Impresa", 1987, nr. 3, p. 299 (pp. 279-322).
94. R. Petri, La frontiera industriale, pp. 70-75.
95. F. Ravanne, Gli insediamenti industriali, pp. 142-143, 147-148, 151, 154-155. M. Reberschak, L'economia, pp. 259-261.
96. R. Petri, La frontiera industriale, pp. 95-101.
97. Cesare Sartori, Un aspetto del capitale finanziario italiano durante la grande crisi: il caso del gruppo Volpi-SADE, in Industria e banca nella grande crisi. 1929-1934, a cura di Gianni Toniolo, Milano 1978, pp. 134-184; Rolf Petri-Maurizio Reberschak, La SADE e l'industria chimica e metallurgica tra crisi ed autarchia, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 3, Espansione e oligopolio. 1926-1945, a cura di Giuseppe Galasso, Roma-Bari 1993, pp. 763-765 (pp. 751-780).
98. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, pp. 194-199; R. Petri, La zona industriale di Marghera, pp. 25-27.
99. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, pp. 203-204; C. Chinello, Porto Marghera, pp. 194-199.
100. Francesco Piva, Il reclutamento della forza-lavoro: paesaggi sociali e politica imprenditoriale, in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Id.-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, pp. 331-337 (pp. 325-463); Giuseppe Tattara, Il mercato del lavoro veneziano, ibid., p. 120 (pp. 91-129); Francesco Piva, Contadini in fabbrica. Il caso Marghera 1920-1945, Roma 1991, pp. 55-59.
101. "Il Piccolo", 9 febbraio 1939.
102. R. Petri, La frontiera industriale, pp. 131-190.
103. W. Dorigo, Una legge contro Venezia, p. 201; Id., Venezia e il Veneto, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 1054-1055 (pp. 1037-1065).
104. Nonostante le richieste ripetutamente da me avanzate al figlio di Volpi, Giovanni, e all'amministrazione Volpi a Venezia, non sono stato mai autorizzato a consultare l'archivio privato di Giuseppe Volpi.
105. Anna Maria Falchero, La 'Commissionissima'. Gli industriali ed il primo dopoguerra, Milano 1991, pp. 30, 470.
106. Paolo Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica (1919-1920), Milano 1959, p. 91; S. Romano, Giuseppe Volpi, pp. 72-73. Cf. Federico Curato, La conferenza della pace. 1919-20, I, Gli armistizi. Questioni generali. Problemi europei e coloniali, Milano 1942, p. 125.
107. Carlo Sforza, L'Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Roma 19452, p. 96; S. Romano, Giuseppe Volpi, pp. 68-70.
108. Leopold Steurer, Die Südtirolfrage und die deutsch-italienischen Beziehungen vom Anschluß (1919) bis zu den Optionen (1939), "Annali dell'Istituto Storico Italo-Germanico in Trento", 4, 1978, pp. 388-392 (pp. 387-418); Id., Südtirol zwischen Rom und Berlin. 1919-1939, Wien-München-Zürich 1980, p. 53; Id., Südtirol 1918-1945, in Handbuch zur neueren Geschichte Tirols, 2.1, Zeitgeschichte. Politische Geschichte, a cura di Anton Pelinka-Andreas Maislinger, Innsbruck 1993, p. 191 (pp. 179-311).
109. Elenchi storici e statistici dei Senatori del Regno dal 1848 al 1° gennaio 1940, Roma 1940, pp. 38, 55, 209, 221.
110. S. Romano, Giuseppe Volpi, pp. 98, 103.
111. Ettore Conti, Dal taccuino di un borghese, Bologna 1986 [Milano 1946], p. 164.
112. La rinascita della Tripolitania. Memorie e studi sui quattro anni di governo del conte Giuseppe Volpi di Misurata, Milano 1926; Oreste Mosca, Volpi di Misurata, Roma 1928, pp. 137-140.
113. S. Romano, Giuseppe Volpi, pp. 120, 126.
114. Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia: 1919-1922, Venezia 1977, pp. 140-148; Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Padova 2001, pp. 70-75.
115. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. 11 "Presidenza. Pratica Volpi", fasc. "Verbali della commissione esaminatrice della questione Volpi", sottofasc. "Volpi, Elenco delle cariche che il conte Volpi ricopriva al 30 giugno 1921"; fasc. "Volpi", sottofasc. "Presidente, Cariche nell'industria, finanza e commercio"; fasc. "Volpi G.", sottofasc. "Allegati, Cariche nell'industria, finanza e commercio"; S. Romano, Giuseppe Volpi, pp. 124-125.
116. Biografia finanziaria italiana. Guida degli amministratori e dei sindaci delle società per azioni. Edizione 1931, Roma 1931, pp. 840-841. Cf. dello stesso repertorio anche le edizioni del 1929 (p. 699), 1933-1934 (pp. 792-793), 1935 (p. 1060).
117. Gianni Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, Roma-Bari 1980, p. 78.
118. Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari 1974, p. 548; G. Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, p. 78.
119. Enzo Pozzato-Piero Melograni, Belluzzo, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 14-16.
120. Renzo De Felice, Mussolini il fascista, II, L'organizzazione dello Stato fascista. 1925-1929, Torino 1968, p. 90; G. Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, p. 79.
121. Piero Melograni, Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Milano 1972, p. 123; R. Sarti, Giuseppe Volpi, pp. 535-536.
122. Roland Sarti, Fascismo e grande industria. 1919-1940, Milano 1977, pp. 94-95.
123. V. Castronovo, La storia economica, p. 276; Id., Storia economica d'Italia, pp. 265-272.
124. Giorgio Mori, Per una storia dell'industria italiana durante il fascismo, in Id., Il capitalismo industriale in Italia. Processo d'industrializzazione e storia d'Italia, Roma 1977, p. 247 (pp. 219-249).
125. S. Romano, Giuseppe Volpi, p. 134.
126. Gian Giacomo Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell'egemonia americana in Italia, Milano 1980, p. 175.
127. John P. Diggins, L'America, Mussolini e il fascismo, Bari 1972, p. 198; Claudia Damiani, Mussolini e gli Stati Uniti. 1922-1935, Bologna 1980, pp. 108-109; G.G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo, pp. 126, 131.
128. G. Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, p. 106; Antonio Confalonieri, Banche miste e grande industria in Italia. 1914-1933, I, Introduzione. L'esperienza della Banca Commerciale Italiana e del Credito Italiano, Milano 1994, pp. 174-178.
129. G.G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo, pp. 154-160; Marcello De Cecco, Introduzione, in L'Italia e il sistema finanziario internazionale. 1919-1936, a cura di Id., pp. 54-70.
130. G. Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, pp. 106-107.
131. Paolo Baffi, La rivalutazione del 1926-27, gli interventi sul mercato e l'opinione pubblica, in Nuovi studi sulla moneta, Milano 1973, pp. 101-102; Giancarlo Falco-Marina Storaci, Il ritorno all'oro in Belgio, Francia e Italia: stabilizzazione sociale e politiche monetarie (1926-1928), "Italia Contemporanea", 28, 1977, nr. 126, pp. 32-43; John S. Cohen, La rivalutazione della lira del 1927, in L'economia italiana. 1861-1940, a cura di Gianni Toniolo, Roma-Bari 1978, pp. 313-336; Franco Cotula-Luigi Spaventa, Introduzione, in La politica monetaria tra le due guerre. 1919-1936, a cura di Idd., Roma-Bari 1993, pp. 138-194.
132. R. De Felice, Mussolini il fascista, pp. 242-251; G. Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, pp. 119-121; Mauro Marconi, La politica monetaria del fascismo, Bologna 1982, pp. 61-64; A. Confalonieri, Banche miste e grande industria in Italia. 1914-1933, I, pp. 564-565; Michele Fratianni-Franco Spinelli, Storia monetaria d'Italia. Lira e politica monetaria dall'Unità all'Unione Europea, Milano 2001, pp. 285-305.
133. R. De Felice, Mussolini il fascista, p. 364; R. Sarti, Giuseppe Volpi, p. 540.
134. Giuseppe Volpi, Finanza fascista, Roma 1929.
135. S. Romano, Giuseppe Volpi, p. 168.
136. G. Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, p. 79.
137. R. De Felice, Mussolini il fascista, pp. 265-266; P. Melograni, Gli industriali e Mussolini, p. 155.
138. Renato Filosa-Guido M. Rey-Bruno Sitzia, Uno schema di analisi quantitativa dell'economia italiana durante il fascismo, in L'economia italiana nel periodo fascista, a cura di Pierluigi Ciocca-Gianni Toniolo, Bologna 1976, p. 63 (pp. 51-101); G. Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, pp. 272-304.
139. Confederazione Fascista degli Industriali, L'industria dell'Italia fascista, Roma 1939; R. Sarti, Fascismo e grande industria, pp. 131-134; V. Castronovo, Storia economica d'Italia, p. 318.
140. Anna Millo, L'élite del potere a Trieste. Una biografia collettiva. 1891-1938, Milano 1989, p. 342; Silvia Bon, Gli ebrei a Trieste. 1930-1945. Identità, persecuzione, risposte, Gorizia 2000, p. 100.
141. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. 11 "Presidenza. Pratica Volpi", fasc. "Volpi", sottofasc. "Presidente", rapporto della presidenza delle Assicurazioni Generali, Trieste 15 giugno 1946.
142. S. Romano, Giuseppe Volpi, pp. 21, 81.
143. La consultazione dell'archivio privato di Vittorio Cini non mi è stata mai concessa dagli eredi, ad eccezione di due buste di fotocopie di documenti selezionati dallo stesso Cini ancora in vita.
144. Maurizio Reberschak, Cini, Vittorio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, p. 627 (pp. 626-634).
145. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dei Lavori Pubblici, Direzione Generale Opere Marittime. 1903-1937, b. 38, fasc. 82, contratto 3 settembre 1910; lettera di Vittorio Cini al magistrato alle Acque, Venezia 22 maggio 1920.
146. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. 32 "Corrispondenza varia", fasc. "Vittorio Cini", memoriale di Giorgio Cini, Venezia 4 giugno 1945.
147. M. Reberschak, Cini, Vittorio, p. 628.
148. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. 32 "Corrispondenza varia", fasc. "Vittorio Cini", relazione di Giuseppe Cudini, Venezia 19 settembre 1945.
149. Biografia finanziaria italiana. […] Edizione 1931, pp. 218-219. Cf. anche le edizioni dello stesso repertorio del 1929 (pp. 175-176), 1933-1934 (p. 198), 1935 (pp. 268-269).
150. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Senato. Memorie difensive 1944-1947, b. 1, fascc. 41-42 "Cini", memoriale di Vittorio Cini, Roma 1946, p. 38; altra copia in Venezia, Archivio Vittorio Cini, b. "Documentazioni generali".
151. Genova, Archivio storico Ansaldo, Ilva, Relazioni di bilancio. Esercizi 1918-1944, R. 63, Assemblea generale ordinaria e straordinaria degli azionisti del 30 maggio-2 giugno 1922. Bilancio al 31 dicembre 1921, Roma 1922; Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 23 marzo 1923. Bilancio al 31 dicembre 1922, Genova s.a. [ma 1923]; Assemblea generale ordinaria del 19 marzo 1924. Bilancio al 31 dicembre 1923, Genova s.a. [ma 1924]; Verbali assemblee degli azionisti. 1923-1925, R. 2, verbale assemblea ordinaria e straordinaria 23 marzo 1923; verbale assemblea generale ordinaria 19 marzo 1924; Verbali consiglio di amministrazione. 1920-1923, R. 13, seduta 30 aprile 1921; Verbali del comitato direttivo. 1921-1924, R. 40, sedute 4 maggio 1921, 28 luglio 1921, 7 novembre 1922; Roma, Archivio storico della Banca d'Italia, Sconti. Anticipazioni, Depositi. Corrispondenti, Pratica 119, fasc. 1 "Operazioni di sconto speciali. Roma. Società anonima Ilva alti forni acciaierie d'Italia dal febbraio 1921 al 6 giugno 1925", dichiarazione dei creditori della Società Ilva, 1921 [maggio].
152. Genova, Archivio storico Ansaldo, Ilva, Società esercizi siderurgici e metallurgici, Verbale assemblee azionisti. 1921-1922, R. 45, Assemblea generale ordinaria 18 agosto 1921, Assemblea generale straordinaria 20 dicembre 1922; Verbali del consiglio di amministrazione. 1921-1922, R. 46, sedute 29 giugno 1921, 23 luglio 1921, 10 giugno 1922; Verbali del comitato esecutivo. 1921-1922, R. 47, seduta 15 luglio 1922.
153. Ilva. Alti forni e acciaierie d'Italia. 1897-1947, Bergamo 1948, p. 94.
154. Genova, Archivio storico Ansaldo, Ilva, Verbali del consiglio di amministrazione 1921-1923, R. 13, sedute 25 febbraio 1922, 4 gennaio 1923.
155. Ibid., Relazioni di bilancio. Esercizi 1918-1944, R. 63, Assemblea generale ordinaria e straordinaria del 23 marzo 1923. Bilancio al 31 dicembre 1922, Genova s.a. [ma 1923]; Verbali assemblee azionisti. 1923-1925, R. 2, verbale assemblea ordinaria e straordinaria 23 marzo 1923.
156. Ibid., Verbali consiglio di amministrazione, R. 13, seduta del 4 gennaio 1923; Ilva, Relazioni di bilancio. Esercizi 1918-1944, R. 63, Assemblea generale ordinaria e straordinaria degli azionisti del 30 maggio-2 giugno 1922; Verbali assemblee azionisti, R. 2, verbale assemblea ordinaria e straordinaria 23 marzo 1923.
157. Rosario Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, Bologna 1972, pp. 128-132; V. Castronovo, L'industria italiana, pp. 158-162; Luigi De Rosa, Storia del Banco di Roma, II, Roma 1983, pp. 299-398; Marco Doria, Ansaldo. L'impresa e lo stato, Milano 1989, pp. 145-155; Anna Maria Falchero, La Banca italiana di sconto. 1914-1921. Sette anni di guerra, Milano 1990, pp. 185-244; Gianni Toniolo, Il profilo economico, in La Banca d'Italia e il sistema bancario. 1919-1936, a cura di Giuseppe Guarino-Gianni Toniolo, Roma-Bari 1993, pp. 19-39 (pp. 5-101); Anna Maria Falchero, L'estromissione dei Perrone, e Luciano Segreto, La nuova Ansaldo tra pubblico e privato, in Storia dell'Ansaldo, 5, Dal crollo alla ricostruzione. 1919-1929, a cura di Gabriele De Rosa, Roma-Bari 1998, pp. 25-40 e 41-71.
158. Genova, Archivio storico Ansaldo, Ilva, Verbali del consiglio di amministrazione 1923-1931, R. 14, seduta 9 aprile 1930; Verbali del consiglio di amministrazione 1931-1934, R. 15, seduta 20 aprile 1933.
159. Torino, Fondazione Luigi Einaudi, Archivio Agostino Rocca, 51.4, relazione sulla siderurgia di Bocciardo-Cini, Roma 18 ottobre 1935; Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, b. 38, fasc. "Cini sen. Vittorio", nota sulla siderurgia di Cini, 19 febbraio 1926 [1936]; Gianni Toniolo, Protagonisti dell'intervento pubblico. Oscar Sinigaglia, "Ricerche Economiche", 5, 1975, nrr. 8-9, pp. 20-22 (pp. 15-25); Id., Oscar Sinigaglia (1877-1953), in I protagonisti dell'intervento pubblico in Italia, a cura di Alberto Mortara, Milano 1984, pp. 405-430; Laura Scalpelli, L'Ilva alla vigilia del piano autarchico per la siderurgia (1930-1936), "Ricerche Storiche", 8, 1978, nr. 1, pp. 245-247 (pp. 241-249); Antonia Carparelli, I perché di una 'mezza siderurgia'. La società Ilva, l'industria della ghisa e il ciclo integrale negli anni Venti, in Acciaio per l'industrializzazione. Contributi allo studio del problema siderurgico italiano, a cura di Franco Bonelli, Torino 1982, pp. 106-116 (pp. 3-158).
160. Genova, Archivio storico Ansaldo, Ilva, Verbali del consiglio di amministrazione 1934-1935, R. 16, seduta 15 ottobre 1935; Verbali del consiglio di amministrazione 1937-1939, R. 18, seduta 24 marzo 1939.
161. Atti parlamentari della Camera dei senatori. Discussioni. Legislatura XXIX. Ia sessione, I, Sedute dal 28 aprile 1934 al 31 maggio 1935, Roma 1935, pp. 1024, 1026.
162. R.d.l. 3 novembre 1927, nr. 2096; Opera omnia di Benito Mussolini, XL, Appendice IV. Carteggio III. 1926-1927, Firenze 1979, p. 457.
163. Atti del VII congresso del fascismo ferrarese 12 febbraio 1928, Ferrara 1928; Aldo Berselli, Balbo, Italo, in Dizionario Biografico degli Italiani, V, Roma 1963, pp. 409-414; Paul Corner, Il fascismo a Ferrara. 1915-1925, Roma-Bari 1974, pp. 291-316; Giorgio Rochat, Italo Balbo e gli agrari ferraresi, in Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e della Guerra di Liberazione in Emilia Romagna, Le campagne emiliane in periodo fascista. Materiali e ricerche sulla battaglia del grano, a cura di Massimo Legnani-Domenico Preti-Giorgio Rochat, Bologna 1982, pp. 307-345; Claudio G. Segrè, Italo Balbo, Bologna 1988, pp. 141-173; Giorgio Rochat, Italo Balbo, Torino 1986, pp. 185-190.
164. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, b. 38, fasc. "Cini sen. Vittorio", memoria sulla situazione della provincia di Ferrara, Ferrara 5 ottobre 1927; Paolo Fortunati, La provincia di Ferrara, in Gaetano Pietra-Paolo Fortunati-Alfredo De Polzer, Primi lineamenti di statistica, II, Il problema demografico-agrario del Veneto e del Ferrarese, Padova 1935, pp. 45-81; G. Rochat, Italo Balbo, pp. 155-161.
165. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1929, b. 158, fasc. "Anno 1929", C1. Ordine pubblico. Ferrara, nota del prefetto di Ferrara al Ministero dell'Interno, Ferrara 3 novembre 1928; Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, 1934-36, fasc. 8.3.3246, promemoria Razza 18 novembre 1933; P. Fortunati, La provincia di Ferrara, p. 81.
166. Roma, Archivio Centrale dello Stato, IRI. Numerazione nera, b. 45, atto costitutivo dell'"Adriatica", Roma 20 novembre 1936; b. 74, Riservatissimo. Riordino dei servizi marittimi. La nuova società "Adriatica", Roma 20 novembre 1936; Ministero dell'Industria e del Commercio, L'Istituto per la ricostruzione industriale. I.R.I., III, Origini, ordinamenti e attività svolta (Rapporto del prof. Pasquale Saraceno), Torino 1955, pp. 24-28.
167. G. Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, pp. 294-295, 338-339; Id., Il profilo economico, pp. 94-101.
168. Roma, Archivio storico della Banca d'Italia, Sconti. Anticipazioni. Depositi. Corrispondenti, pratica 580, fasc. 1 "Corrispondenze relative alle operazioni di sconto nella provincia di Venezia (1935/38)", il direttore della sede di Venezia al governatore, Venezia 7 maggio 1937; Venezia, Archivio della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, Registro ditte, Credito Industriale. 11591, verbale dell'assemblea generale straordinaria 11 agosto 1936; Credito Industriale di Venezia, Relazioni e bilancio dell'esercizio 1936. Assemblea generale straordinaria 11 agosto 1936. Assemblea generale ordinaria 31 marzo 1937, Venezia 1937.
169. Torino, Fondazione Luigi Einaudi, Archivio Thaon di Revel, 29.16. relazione nr. 26, Roma 2 settembre 1936. Cf. Edoardo Savino, La Nazione Operante. Albo d'oro del fascismo, profili e figure, Novara 19373, p. 288.
170. Elenchi storici e statistici dei Senatori del Regno, pp. 41, 53, 97, 277.
171. M. Reberschak, Cini, Vittorio, p. 631.
172. Atti parlamentari della Camera dei senatori. Discussioni. Legislatura XXIX. Ia sessione, I, pp. 1021-1027.
173. Gi.[useppe] Bot.[tai], Approvazioni e disapprovazioni, "Critica Fascista", 13, 1935, pp. 237-238.
174. Guido Piovene, Viaggio in Italia, Milano 1957, p. 32.
175. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, b. 38, fasc. "Cini Vittorio", nota di D.B. alla segreteria particolare del capo del governo, Roma 27 ottobre 1936; Franco Bonelli, Beneduce, Alberto, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 455-466; Id., Alberto Beneduce (1877-1944), in I protagonisti dell'intervento pubblico in Italia, a cura di Alberto Mortara, Milano 1984, pp. 344-356.
176. R.d. 31 dicembre 1936, nr. 2771; Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, 1937-39, fasc. 14.1.2000, sottofasc. 2, nomina del commissario generale e dei commissari aggiunti; E42, b. 39, fasc. 27, sottofasc. 3, primo rapporto al 31 dicembre 1936.
177. E42. Programma di massima, Roma 1937; Invito al mondo, s.n.t. [ma Roma 1937]. Cf. E42. Utopia e scenario del regime, I, Ideologia e programma dell'Olimpiade delle Civiltà, a cura di Tullio Gregory-Achille Tartaro, Venezia 1987; Riccardo Mariani, E42. Un progetto per l''Ordine Nuovo', Milano 1987.
178. Roma, Archivio Centrale dello Stato, E42, b. 39, fasc. 27, sottofasc. 2, promemoria di Vittorio Cini al duce, [Roma] 21 luglio 1940; Venezia, Archivio Vittorio Cini, b. "E42", lettera di Vittorio Cini a Benito Mussolini, Roma 11 settembre 1939; Esposizione universale di Roma. Revisione del "programma di massima" del 1937, Roma 12 dicembre 1940; resoconto di Vittorio Cini a Benito Mussolini, Roma 3 giugno 1941; promemoria di Vittorio Cini a Benito Mussolini, Roma 1° dicembre 1942; Esposizione universale di Roma. Rapporto sull'attività del commissario e dell'ente al 31 dicembre 1942.
179. Italo Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica. 1870-1970, Torino 1993, pp. 184-186, 234-245; Id., Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, Roma-Bari 1980, p. 386; Luigi Di Majo-Italo Insolera, L'Eur e Roma dagli anni Trenta al Duemila, Roma-Bari 1986, pp. 85-116.
180. Venezia, Archivio Vittorio Cini, b. "E42", promemoria di Vittorio Cini, 27 giugno 1939.
181. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. 32 "Corrispondenza varia", fasc. "Vittorio Cini", relazione della commissione d'inchiesta sul caso Cini al C.L.N. regionale veneto, s.l. s.d. [ma Venezia, 20 settembre 1945].
182. Ripetute richieste di consultazione dell'archivio privato di Achille Gaggia furono da me avanzate agli eredi e all'amministrazione competente: nessuna risposta è stata mai data.
183. L. Segreto, Imprenditori e finanzieri, p. 313; R. Petri-M. Reberschak, La Sade di Giuseppe Volpi, pp. 334-335; Anna Maria Falchero, 'Foto di gruppo': gli elettrici dopo la 'marcia su Roma', Castellanza 1994, p. 7; Maurizio Reberschak, Gaggia, Achille, in Dizionario Biografico degli Italiani, LI, Roma 1998, p. 219 (pp. 218-222); Marco Doria, Gli imprenditori tra vincoli strutturali e nuove opportunità, in Storia d'Italia, Annali, 15, L'industria, a cura di Franco Amatori-Renato Giannetti-Luciano Segreto, Torino 1999, p. 666 (pp. 617-687).
184. Elenchi storici e statistici dei Senatori del Regno, pp. 42, 54, 127, 233.
185. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero delle armi e munizioni, Comitato centrale di mobilitazione industriale, b. 153, Comitato centrale di mobilitazione industriale, Commissione elettrotecnica, verbale della riunione dell'11 dicembre 1917; M. Giannetto, L'industria elettrica nella mobilitazione bellica, p. 152.
186. M. Reberschak, Gaggia, Achille, p. 219.
187. Biografia finanziaria italiana. […] Edizione 1931, pp. 360-361. Cf. anche le edizioni dello stesso repertorio del 1929 (pp. 298-299), 1933-1934 (pp. 338-339), 1935 (pp. 454-455).
188. Padova, Archivio di Stato, Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche. Società veneta per costruzione ed esercizio di ferrovie secondarie, Libri processi verbali del consiglio d'amministrazione, Registro P/9. Seduta 9 dicembre 1924; I cento anni della 'Veneta', Padova 1972, p. 48.
189. Milano, Archivio Ciga hotels, Ciga, Verbali del consiglio, Registro 7, 6 aprile 1948-26 ottobre 1954, verbale 10 aprile 1953.
190. Ibid., Bilanci a stampa, Registro dal 1906 al 1929, Esercizio 1925, Venezia 1926; Registro dal 1930 al 1954, Esercizio 1934, s.n.t. [ma Venezia 1935]; Compagnia italiana grandi alberghi, Verbali del consiglio, Registro 4, 25 luglio 1925-11 dicembre 1931, seduta 29 ottobre 1925; Registro 5, 25 gennaio 1932-29 luglio 1939, seduta 7 dicembre 1935.
191. La richiesta di consultazione dell'archivio privato di Alessandro Marco Barnabò, da me avanzata al figlio Alessandro, non ebbe risposta positiva.
192. Ministero delle Corporazioni-Direzione Generale dell'Industria e del Commercio-Corpo Reale delle Miniere, Relazione sul servizio minerario, Roma 1929 e 1933; Giovanni Lasorsa, La ricchezza privata della provincia di Venezia, Padova 1934, pp. 152-153; M. Rispoli, L'industria dell'alluminio in Italia, pp. 309-314; M. Reberschak, Barnabò, Alessandro Marco, pp. 257-264; F. Tonon, L'industria dell'alluminio a Porto Marghera, pp. 79-129; B. Bianchi, L'economia di guerra a Porto Marghera, pp. 166-168.
193. R. Petri, L'industrie italienne de l'aluminium, pp. 15-24.
194. Luigi Manfredini, L'industria dell'alluminio, "Alluminio", 1, 1932, nr. 4, pp. 213-236; Id., La produzione dell'alluminio, problema italiano, ibid., 6, 1937, nr. 3, pp. 101-126; Id., L'alluminio, metallo nostro, ibid., 9, 1940, nr. 1, pp. 1-7.
195. Ministero delle Corporazioni-Direzione generale dell'Industria e del Commercio-Corpo Reale delle Miniere, Relazione sul servizio minerario, Roma 1936.
196. Maurizio Reberschak, Una centrale, una società elettrica: Cardano e la SIDI, "Rivista di Storia Contemporanea", 22, 1993, pp. 441-442.
197. Gaetano Salvemini-Giorgio La Piana, La sorte dell'Italia, New York 1943, ora in Gaetano Salvemini, L'Italia vista dall'America, I-II, a cura di Enzo Tagliacozzo, Milano 1969, p. 183 (pp. 161-394).
198. Ennio Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti. 1939-1952 (dalle carte di Myrom C. Taylor), Milano 1978, pp. 54, 199.
199. Valerio Castronovo, Giovanni Agnelli. La Fiat dal 1899 al 1945, Torino 1977, p. 467; Piero Bairati, Vittorio Valletta, Torino 1983, pp. 86-87, 91-92.
200. Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943, a cura di Renzo De Felice, Milano 1980, p. 524; Alberto Pirelli, Taccuini 1922/1943, a cura di Donato Barbone, Bologna 1984, p. 228.
201. V. Castronovo, Giovanni Agnelli, p. 442; P. Bairati, Vittorio Valletta, p. 121.
202. A. Pirelli, Taccuini, p. 264.
203. Ettore Conti, Dal taccuino di un borghese, Bologna 1986 [Milano 1946], p. 453.
204. Renzo De Felice, Mussolini l'alleato. 1940-1945, I, L'Italia in guerra. 1940-1943, 1, Dalla guerra 'breve' alla guerra lunga, Torino 1990, pp. 382-387.
205. S. Romano, Giuseppe Volpi, pp. 220-227.
206. Mario Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del Regno d'Italia, Roma 1978, p. 151; R. De Felice, Mussolini l'alleato. 1940-1945, I, 1, p. 1048.
207. A. Pirelli, Taccuini, p. 381.
208. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Senato, Memorie difensive, b. 1, fascc. 41-42 "Cini", memoriale di Vittorio Cini, Roma 1946, pp. 15-16.
209. Roberto Battaglia, Un aspetto inedito della crisi del '43: l'atteggiamento di alcuni gruppi del capitale finanziario, "Il Movimento di Liberazione in Italia", 1955, nrr. 34-35, pp. 29-36 (anche in Id., Risorgimento e Resistenza, a cura di Ernesto Ragionieri, Roma 1964, pp. 163-173).
210. Eugen Dollmann, Roma nazista, Milano 1951, pp. 135-138.
211. Enrico Caviglia, Diario (aprile 1925-marzo 1945), Roma 1952, p. 398.
212. Filippo Anfuso, Da palazzo Venezia al lago di Garda (1936-1945), Bologna 19573, p. 284.
213. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Senato, Memorie difensive, b. 1, fascc. 41-42 "Cini", memoriale di Vittorio Cini, Roma 1946, p. 16.
214. Venezia, Archivio Vittorio Cini, b. "Documentazioni generali", nota di Cini sulla situazione della flotta mercantile, Roma 3 marzo 1943.
215. Ibid., verbale di riunione del duce sulla situazione marina mercantile, Palazzo Venezia 10 marzo 1943.
216. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Senato, Memorie difensive, b. 1, fascc. 41-42 "Cini", documenti del memoriale di Vittorio Cini, Roma 1946, p. 21. Cf. Ruggero Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre, Milano 1964, p. 133; Gianfranco Bianchi, Perché e come cadde il fascismo. 25 luglio crollo di un regime, Milano 19722, pp. 754-755; Renzo De Felice, Mussolini l'alleato. 1940-1945, I, L'Italia in guerra, 2, 1940-1943. Crisi e agonia del regime, Torino 1996, pp. 1204-1205.
217. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Senato, Memorie difensive, b. 1, fascc. 41-42 "Cini", documenti del memoriale di Vittorio Cini, Roma 1946, pp. 23-25; G. Bianchi, Perché e come cadde il fascismo, pp. 756-757; Giuseppe Bottai, Diario. 1935-1944, a cura di Giordano Bruno Guerri, Milano 1982, p. 404; R. De Felice, Mussolini l'alleato. 1940-1945, I, 2, p. 1195; M. Missori, Governi, p. 151. L'intervento di Cini nel Consiglio dei ministri del 19 giugno non venne verbalizzato (cf. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Verbali del Consiglio dei Ministri e verbali del Governo sedicente R.S.I. dal 23 settembre 1943 al 19 gennaio 1945. Dall'8 maggio 1943 al 19 giugno 1943, riunione del 19 giugno 1943).
218. Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale. Le Saint Siège et la guerre mondiale. Novembre 1942-décembre 1943, Città del Vaticano 1973, p. 423; G. Bottai, Diario, pp. 402-403; Alfredo De Marsico, 25 luglio. Memorie per la storia, a cura di Maria A. Stecchi de Bellis, Bari 1983, pp. 78-79; Dino Grandi, 25 luglio. Quarant'anni dopo, a cura di Renzo De Felice, Bologna 1983, p. 96; R. De Felice, Mussolini l'alleato. 1940-1945, I, 2, p. 1245.
219. A. Pirelli, Taccuini, p. 417; S. Romano, Giuseppe Volpi, p. 232.
220. V. Castronovo, Giovanni Agnelli, p. 661; P. Bairati, Vittorio Valletta, pp. 119-125; Valerio Castronovo, Fiat. 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano 1999, p. 673.
221. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Senato, Memorie difensive, b. 2, fasc. 71 "Achille Gaggia", memoria del sen. ing. Achille Gaggia, Roma 1945, p. 18; Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. 49 "Sezione giustizia. Disposizioni CLNAI. Ditte a gestione commissariale. CLN vari", fasc. "Elenchi Enti e Ditte da sottoporre a gestione commissariale", memoria, s.d. [ma luglio 1945]; Ernesto Brunetta, Introduzione, in Il governo dei C.L.N. nel Veneto. Verbali del Comitato di liberazione nazionale regionale veneto. 6 gennaio 1945-4 dicembre 1946, a cura di Id., Vicenza 1984, p. 13; Maurizio Reberschak, Tra il vecchio e il nuovo. Gruppi dirigenti e forme di potere: due casi, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, p. 318 (pp. 295-331); Id., Gaggia, Achille, p. 220.
222. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. 11 "Presidenza. Pratica Volpi", fasc. "Volpi", sottofasc. "Presidente, Giuseppe Volpi. Venezia ottobre 1945", sintesi cronologica della vita di lavoro di Giuseppe Volpi, s.d.; Il conte Volpi prosciolto, "Il Gazzettino", 31 gennaio 1947; S. Romano, Giuseppe Volpi, pp. 236-239; Maurizio Reberschak, Il Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto e il caso Volpi, in Non uno itinere. Studi storici offerti dagli allievi a Federico Seneca, Venezia 1993, pp. 319-329 (pp. 319-361); Sandro Satta, Profughi di lusso. Industriali e manager di Stato dal fascismo alla epurazione mancata, Milano 1993, pp. 48-49, 62.
223. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. 11 "Presidenza. Pratica Volpi", fasc. "Volpi", sottofasc. "Presidente, Giuseppe Volpi. Venezia ottobre 1945", sintesi cronologica della vita di lavoro di Giuseppe Volpi, s.d.; relazione di Mario Baltieri, Venezia 15 giugno 1946; Maurizio De Marco, Il Gazzettino. Storia di un quotidiano, Venezia 1976, pp. 123-132; Maurizio Reberschak, La proprietà fondiaria nel Veneto tra fascismo e resistenza, in Società rurale e Resistenza nelle Venezie. Atti del convegno, Milano 1978, pp. 143-144 (pp. 135-158); E. Brunetta, Introduzione, pp. 31-32; M. Reberschak, Tra il vecchio e il nuovo, pp. 301-303; Id., Memoria della resistenza e dintorni, in Ugo Facco De Lagarda. 1896-1982. La vocazione inquieta di uno scrittore veneziano. Atti del convegno, a cura di Alessandro Scarsella, Venezia 2000, pp. 32-46.
224. Maurizio Reberschak, I cattolici veneti tra fascismo e antifascismo, in Movimento cattolico e sviluppo capitalistico. Atti del convegno, Venezia-Padova 1974, pp. 171-174 (pp. 145-183).
225. Opera omnia di Benito Mussolini, XXXIV, a cura di Edoardo-Duilio Susmel, Firenze 1962, p. 287.
226. Ettore Tolomei, Memorie di vita, Milano 1948, pp. 715, 726, 729-730; M. Reberschak, Cini, Vittorio, p. 631.
227. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Senato, Memorie difensive, b. 1, fascc. 41-42 "Cini", documenti del memoriale di Vittorio Cini, Roma 1946, pp. 64, 75; Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. "Verbali", vol. II, Registro 2, verbale 28 settembre 1945. Cf. Ernesto Brunetta, Correnti politiche e classi sociali alle origini della Resistenza nel Veneto, Vicenza 1974, p. 54; M. Reberschak, La proprietà fondiaria nel Veneto, p. 144; Id., Cini, Vittorio, pp. 631-632; E. Brunetta, Introduzione, pp. 12 ss.; Id., Dalla grande guerra alla Repubblica, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, p. 999 (pp. 911-1035); S. Satta, Profughi di lusso, pp. 50-51, 62.
228. M. Reberschak, Cini, Vittorio, pp. 631-632; Id., Giustizia straordinaria? I verbali della commissione d'inchiesta del Comitato di liberazione nazionale regionale veneto sul caso Cini, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 461-474.
229. Archivio Centrale dello Stato, Verbali del Consiglio dei ministri. Luglio 1943-maggio 1948, a cura di Aldo G. Ricci, VI, 1, Governo De Gasperi. 10 dicembre 1945-13 luglio 1946, Roma 1996, p. 547.
230. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. I, b. 1 "Documenti clandestini. Comitati", fasc. 1, elenco di nominativi di cui al decreto del C.N.L.A.I. in data 14.12.44.
231. M. Reberschak, Giustizia straordinaria?; Id., Epurazioni. Giustizia straordinaria, giustizia ordinaria, giustizia politica, "Venetica", n. ser., 12, 1998, nr. 1, pp. 53-54 (pp. 47-68); Romano Canosa, Storia dell'epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Milano 1999, pp. 287-290.
232. M. Reberschak, Il Comitato di liberazione nazionale regionale veneto e il caso Volpi, pp. 319-361.
233. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. 11 "Presidenza. Pratica Volpi", fasc. "Riservata G. Volpi", relazione del dott. Mario Baltieri membro del C.L.N.R.V., Venezia 15 giugno 1946; relazione del prof. Francesco Semi del C.L.N.R.V. sulla posizione politica del conte Volpi, Venezia 16 luglio 1946.
234. Ibid., b. 32 "Corrispondenza varia", fasc. "Ing. Achille Gaggia. Società adriatica di elettricità", lettera del C.L.N.R.V. al presidente dell'Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo, [Venezia] 27 luglio 1945; M. Reberschak, Tra il vecchio e il nuovo, pp. 306-320.
235. Cf. Romolo Gobbi, Note sulla commissione d'epurazione del CLN regionale piemontese e sul caso Valletta, "Il Movimento di Liberazione in Italia", 1967, nr. 89, pp. 57-73; V. Castronovo, Giovanni Agnelli, pp. 510-514; P. Bairati, Vittorio Valletta, pp. 139-146; V. Castronovo, Fiat, pp. 689-713.
236. L'archivio societario della S.A.D.E. risulta irreperibile (Maurizio Reberschak, Alla ricerca dell'archivio perduto. Le carte degli elettrici veneti, "Archivi e Imprese", 1992, nr. 5, pp. 14-28).
237. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. "Verbali", vol. I, Registro 1, verbale 4 luglio 1945.
238. Ibid., b. "Verbali", voll. IV-V, Registro 4, verbale 5 marzo 1946.
239. Ibid., b. 32 "Corrispondenza varia", fasc. "Ing. Achille Gaggia. Società adriatica di elettricità Venezia", La S.A.D.E. dall'8 settembre 1943 al 28 aprile 1945, Mario Mainardis, s.d.; b. 51 "Sezione giustizia. Pubblicazioni ufficiali", fasc. "Pubblicazioni ufficiali", Società Adriatica di Elettricità, Difesa impianti elettrici, Mario Mainardis, Venezia 10 maggio 1945.
240. M. Reberschak, Tra il vecchio e il nuovo, pp. 313-315. Cf. Le missioni militari alleate e la Resistenza nel Veneto. La rete di Pietro Ferraro dell'OSS, a cura di Chiara Saonara, Venezia 1990, p. 329.
241. Padova, Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza, Sez. II, CLNRV, b. "Verbali", vol. I, Registro 1, verbale 4 luglio 1945.
242. Bruno Bottiglieri, L'industria elettrica dalla guerra agli anni del 'miracolo economico', in Storia dell'industria elettrica in Italia, 4, Dal dopoguerra alla nazionalizzazione. 1945-1962, a cura di Valerio Castronovo, Roma-Bari 1994, pp. 61-87.
243. Renato Giannetti, Una transizione mancata. Lineamenti dei sistemi elettrici italiani dal 1946 al 1953, "Annali di Storia dell'Impresa", 1986, nr. 2, pp. 439, 441 (pp. 415-449); Fonti statistiche, a cura di Andrea Giuntini, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 3, Espansione e oligopolio. 1926-1945, Roma-Bari 1993, p. 1243 (pp. 1157-1258).
244. Associazione fra le Società Italiane per Azioni, Società italiane per azioni. Notizie statistiche. 1949, Roma 1949, p. 462; Ead., Società italiane per azioni. Notizie statistiche. 1953, Roma 1954, p. 686; cf. Claudio Pavese-Pier Angelo Toninelli, Anagrafe delle società elettriche: la documentazione di base, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 4, Dal dopoguerra alla nazionalizzazione. 1945-1962, a cura di Valerio Castronovo, Roma-Bari 1994, p. 734 (pp. 727-761).
245. Istituto Centrale di Statistica, Il valore della lira.
246. Impianti della Società adriatica di elettricità. 1905-1955, s.n.t. [ma Venezia 1955], p. XVII.
247. G. Toniolo, L'economia dell'Italia fascista, p. 165.
248. Fonti statistiche, pp. 1238-1240.
249. Società adriatica di elettricità. 1905-1963, Venezia s.a. [ma 1963], pp. XIV-XVII; Maurizio Reberschak, Acqua e luce. Risorse idriche e industria elettrica nel bellunese, in Storia contemporanea del bellunese. Guida alle ricerche, a cura dell'Istituto storico bellunese della resistenza, Feltre 1985, pp. 288-290 (pp. 278-297).
250. Belluno, Archivio del Genio civile, Grandi derivazioni, b. "Grandi derivazioni, A. Alto Piave ed affluenti (fino a Perarolo)", 31, la Società adriatica di elettricità al Ministero dei lavori pubblici, Venezia 16 aprile 1940; cf. Sade, Gli impianti del piano autarchico nella regione veneta, Venezia 1941.
251. Renato Giannetti, La conquista della forza. Risorse, tecnologia ed economia nell'industria elettrica italiana (1883-1940), Milano 1985, p. 63; Id., I 'sistemi' elettrici italiani. Struttura e prestazioni dalle origini al 1940, in Energia e sviluppo. L'industria elettrica italiana e la Società Edison, a cura di Bruno Bezza, Torino 1986, pp. 316, 328 (pp. 287-330).
252. R. Petri-M. Reberschak, La Sade e l'industria chimica, pp. 757, 773; Claudio Pavese-Pier Angelo Toninelli, Anagrafe delle società elettriche: la documentazione statistica di base, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 3, Espansione e oligopolio, 1926-1945, a cura di Giuseppe Galasso, Roma-Bari 1993, p. 1077 (pp. 1065-1156).
253. Luciano Segreto, Gli assetti proprietari, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 3, Espansione e oligopolio, 1926-1945, a cura di Giuseppe Galasso, Roma-Bari 1993, p. 142 (pp. 89-173).
254. A. Confalonieri, Banche e industria in Italia dalla crisi del 1907 all'agosto 1914, II, pp. 330-331, 356-358; L. Segreto, Imprenditori e finanzieri, p. 414. Cf. C. Sartori, Un aspetto del capitale finanziario, p. 180 n. 117.
255. Peter Hertner, Il capitale tedesco in Italia dall'unità alla prima guerra mondiale. Banche miste e sviluppo economico italiano, Bologna 1984, p. 159.
256. Id., La lotta tra i grandi gruppi, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 2, Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, a cura di Luigi De Rosa, Roma-Bari 1993, p. 456 (pp. 451-464).
257. C. Sartori, Un aspetto del capitale finanziario italiano, pp. 142-143; Id., Giuseppe Volpi di Misurata e i rapporti finanziari, pp. 426-438.
258. Id., Un aspetto del capitale finanziario italiano, p. 142; Id., Giuseppe Volpi di Misurata e i rapporti finanziari, p. 416; L. Segreto, Gli assetti proprietari, pp. 141-143.
259. S. Romano, Giuseppe Volpi, pp. 192-193; Banca Commerciale Italiana, Archivio storico. Collana inventari, ser. VI, 3, Società finanziaria industriale italiana (Sofindit), Milano 1991, p. 88.
260. Franco Amatori-Francesco Brioschi, Le grandi imprese private: famiglie e coalizioni, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di Fabrizio Barca, Roma 1997, pp. 125-127 (pp. 117-153). Cf. Giorgio Mori, L'economia italiana tra la fine della seconda guerra mondiale e il 'secondo miracolo economico' (1945-58), in Storia dell'Italia repubblicana, I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni cinquanta, Torino 1994, pp. 168-171 (pp. 129-230); Rolf Petri, Dalla ricostruzione al miracolo economico, in Storia d'Italia, 5, La Repubblica. 1943-1963, a cura di Giovanni Sabbatucci-Vittorio Vidotto, Roma-Bari 1997, pp. 313-315 (pp. 313-440).
261. R. Giannetti, La conquista della forza, pp. 62-67; Id., Una transizione mancata, pp. 425-426; B. Bottiglieri, L'industria elettrica dalla guerra agli anni del 'miracolo economico', p. 72.
262. Giovanni Bruno, Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-75), in Storia dell'Italia repubblicana, II, 1, Le trasformazioni dell'Italia: sviluppo e squilibri. Politica, economia, società, Torino 1995, pp. 414-418 (pp. 353-418); F. Amatori-F. Brioschi, Le grandi imprese private, pp. 133-150; Augusto Graziani, Lo sviluppo dell'economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Torino 1998, pp. 86-96.
263. Paolo Bagnoli, I giorni di Firenze. Politica e cultura dal 1944 al 1974, "Città e Regione", 7, 1981, nr. 3, pp. 211-242; Mario G. Rossi, Il secondo dopoguerra: verso un nuovo assetto politico-sociale, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Toscana, a cura di Giorgio Mori, Torino 1986, pp. 706-707 (pp. 675-707); Giorgio Spini-Antonio Casali, Firenze, Roma-Bari 1986, pp. 157-158, 267.
264. Giorgio La Pira, L'attesa della povera gente, Firenze 1977; Libro Bianco sulle Officine Galileo, Firenze 1959, p. VII.
265. Firenze, Fondazione Giorgio La Pira, Archivio Giorgio La Pira, lettera di Vittorio Cini a Giorgio La Pira, [Roma] 18 marzo 1953.
266. Ibid., lettere (copie) di Giorgio La Pira a Vittorio Cini, [Firenze] S. Giovanni Evangelista 1958 (27/XII), [Firenze] 7 gennaio 1959; lettere di Vittorio Cini a Giorgio La Pira, Venezia 5 gennaio 1959, Venezia 16 gennaio 1959.
267. Ibid., lettere di Vittorio Cini a Giorgio La Pira, Venezia 5 gennaio 1959, Venezia 16 gennaio 1959.
268. Firenze, Archivio della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, Registro ditte, Officine Galileo 104.304, verbale dell'assemblea degli azionisti 25 novembre 1959; Libro Bianco, pp. 206-208; Franco Foggi, L'epilogo, in Le Officine Galileo. La filigrana, i frammenti, l'oblio, a cura di Marco Dezzi Bardeschi-Franco Foggi, Firenze 1985, pp. 144-152.
269. R. Giannetti, Una transizione mancata, pp. 419-420, 425; Id., Investimenti e tariffe, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 4, Dal dopoguerra alla nazionalizzazione. 1945-1962, a cura di Valerio Castronovo, Roma-Bari 1994, pp. 114-116, 121, 125, 162 (pp. 113-165).
270. Fabio Silari, L'industria elettrica e i problemi energetici, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 4, Dal dopoguerra alla nazionalizzazione. 1945-1962, a cura di Valerio Castronovo, Roma-Bari 1994, pp. 280, 298 (pp. 275-333).
271. C. Pavese-P.A. Toninelli, Anagrafe delle società elettriche: la documentazione di base, p. 734; Fonti statistiche, a cura di Andrea Giuntini, in Storia dell'industria elettrica in Italia, 4, Dal dopoguerra alla nazionalizzazione. 1945-1962, a cura di Valerio Castronovo, Roma-Bari 1994, p. 785 (pp. 763-791).
272. Impianti della Società adriatica di elettricità. 1905-1955, pp. XV-XVI; Società adriatica di elettricità. 1905-1963, pp. XIV-XVI; Maurizio Reberschak, Il carbone bianco, ovvero l'industria idroelettrica, in Opere nel tempo. Le tradizioni dell'industria e dell'artigianato tra i monti della provincia di Belluno, a cura di Stefano De Vecchi, Belluno 1991, pp. 146-148, 154 (pp. 138-158).
273. R. Giannetti, Investimenti e tariffe, p. 115.
274. Scritti di Carlo Semenza, a cura dell'Ufficio studi della Società adriatica di elettricità, Venezia 1962, pp. 433-439, 461, 485-489, 503, 525-527.
275. Maurizio Reberschak, Una storia del 'genio italiano': il Grande Vajont, in Il Grande Vajont, a cura di Id., Longarone-Venezia 1983, p. 11 (pp. 7-20).
276. Id., Il Grande Vajont. Documenti, pp. 77, 121.
277. Senato della Repubblica, IV Legislatura, Commissione parlamentare d'inchiesta sul disastro del Vajont (Legge 22 maggio 1964, n. 370), Relazione finale. Comunicata alle presidenze delle Camere il 15 luglio 1965. Documento nr. 76 bis. Allegato 1, Roma 1965, pp. 6, 157 (altra copia stampata dalla Camera dei Deputati, Documento XVII nr. 1-bis. Allegato 1); Tribunale di Belluno, Sentenza del giudice istruttore Mario Fabbri, nr. 85/64 G.I., 20 febbraio 1968, pp. 76, 83, 159; M. Reberschak, Il Grande Vajont. Documenti, pp. 61, 63, 68, 88.
278. Scritti di Carlo Semenza, pp. 525-527; Procura della Repubblica di Belluno, Requisitoria del pubblico ministero Arcangelo Mandarino, nr. 818/63, 22 novembre 1967, p. 184; Ministero dei Lavori Pubblici, Commissione di inchiesta sulla sciagura del Vajont. Relazione al Ministero dei lavori pubblici [15 gennaio 1964], p. IV; Corte d'Appello de L'Aquila. Sezione Penale, Sentenza nella causa penale a carico di Biadene Alberto + 6, nr. 288/70, 3 ottobre 1970, pp 7, 415; M. Reberschak, Una storia del 'genio italiano', p. 16.
279. Tribunale di Belluno, Sentenza del giudice istruttore, p. 41; M. Reberschak, Il Grande Vajont. Documenti, p. 43.
280. Senato della Repubblica, Commissione parlamentare d'inchiesta sul disastro del Vajont, Allegato 1, p. 24; M. Reberschak, Il Grande Vajont. Documenti, p. 195.
281. Senato della Repubblica, Commissione parlamentare d'inchiesta sul disastro del Vajont, p. 83; Tribunale di Belluno, Sentenza del giudice istruttore, pp. 245, 260; M. Reberschak, Il Grande Vajont. Documenti, pp. 85, 128, 134.
282. Silvio Guarnieri, Compianto per i morti del Vajont, in Id., Cronache feltrine, Vicenza 1969, p. 175 (pp. 167-175).
283. Vajont: l'Enel dovrà pagare 22 miliardi, "Il Gazzettino" (ed. di Belluno), 28 ottobre 1995; Vajont, 55 miliardi 33 anni dopo, "Il Gazzettino", 25 febbraio 1997; Maurizio Bait, Vajont, l'Enel s'è decisa a pagare, ibid., 26 febbraio 1998; Flavio Olivo, Longarone-Montedison, storico accordo, ibid., 24 giugno 1999.
284. Società Adriatica di Elettricità, Verbali del consiglio d'amministrazione, X, seduta del 29 marzo 1961; Tribunale di Belluno, Sentenza del giudice istruttore, p. 337; M. Reberschak, Il Grande Vajont. Documenti, p. 81.
285. Società Adriatica di Elettricità, Verbali del consiglio d'amministrazione, X, seduta del 30 ottobre 1963; Maurizio Reberschak, Un Doge illuminato tra cultura e finanza, "La Nuova Venezia", 23 novembre 1987.
286. L'Aquila, Archivio del Tribunale penale, nr. 112/69, fasc. "Vajont. Minute originali del verbale dibattimento (parti)", Sen. Cini 14.5.69 udienza, deposizione a G.I. Belluno f. 958 vol. V, deposizione a P.M. di Venezia f. 74 fasc. allegato; Fiorello Zangrando, Il lungo viaggio attraverso la colpa, in Il Grande Vajont, a cura di Maurizio Reberschak, Longarone-Venezia 1983, p. 85 (pp. 73-97).
287. F. Zangrando, Il lungo viaggio attraverso la colpa, pp. 73, 95-96.
288. Vajont: l'Enel dovrà pagare 22 miliardi, "Il Gazzettino" (ed. di Belluno), 28 settembre 1995; Gianluca Amadori, Vajont. Mille miliardi i danni del disastro, "Il Gazzettino", 24 gennaio 1996; Id., Montedison deve risarcire Longarone, ibid., 25 febbraio 1999.
289. Società Adriatica di Elettricità, Assemblea straordinaria 6 agosto 1964, s.n.t. [ma Venezia 1964]; Franco Amatori, Montecatini: un profilo storico, in Montecatini 1888-1966. Capitoli di storia di una grande impresa, a cura di Id.-Bruno Bezza, Bologna 1990, p. 67 (pp. 19-68).
290. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 386-387, 395-396, 415-416, 430-436 (pp. 381-482).
291. M. Reberschak, L'economia, pp. 229-237, 243-254; Giuseppe Galasso, L'Italia come problema storiografico, Torino 1979, p. 177.
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294. Vittorio Sgarbi, Ca' Dario. Mito e storia di Giovanni Dario e del suo palazzo tra Oriente e Venezia, Milano 1984.
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316. L'alta società internazionale al tradizionale ballo di casa Volpi, "Il Gazzettino", 5 settembre 1961; Il grande ballo in casa Volpi, ibid., 8 settembre 1962; Rinnova una tradizione il ballo di casa Volpi, ibid., 7 settembre 1963; Riaperta casa Volpi per il ballo della Biennale, ibid., 8 settembre 1966; Piero Capello, Mio padre, l'ultimo doge di Venezia, "Gente", 2 ottobre 1981; Orietta Gandini, Nel salotto romano salvato del conte Volpi, "Il Gazzettino", 11 dicembre 1998; Ricavati sei miliardi a Londra dall'asta della collezione Volpi, ibid., 17 dicembre 1998; La Biennale-Comune di Venezia, Cinquant'anni di cinema a Venezia, p. 218; Roberto Ferrucci, Giocando a pallone sull'acqua, Venezia 1999, p. 150.
317. L'avv. M. Valeri Manera eletto presidente dell'Ass. Industriali, "Il Gazzettino", 1° febbraio 1958; Valeri Manera presidente degli industriali, ibid., 21 maggio 1964; Le cariche della Confindustria. Valeri Manera vice presidente, ibid., 3 marzo 1967; Mario La Ferla, Valeri Manera non c'è più, anzi c'è sempre, "L'Espresso", 13 maggio 1979; Piero Capello, Valeri Manera: a Venezia la cultura è viva, "Gente", 20 luglio 1979; Valeri Manera succede all'avvocato Giavi, "Il Gazzettino", 22 gennaio 1980; Manera, il re di Venezia, "La Repubblica", 21 maggio 1981; Toni Jop, Ecco Mario Valeri Manera ultimo erede dei Krupp, "L'Unità", 24 maggio 1981; Aldo Santin, Soldi e cultura a nozze, "Oggi", 30 giugno 1982; Ivo Prandin, Dialogo col patron, "Il Gazzettino", 25 luglio 1982; L'ombra di Calvi, "La Nuova Venezia", 29 novembre 1986; Pier Mario Fasanotti, C'era una volta un doge, "Panorama", 7 dicembre 1986; Giannantonio Stella, C'è un buco nel Banal Grande, "Europeo", 13 dicembre 1986; R. Ferrucci, Giocando a pallone sull'acqua, p. 149.
318. Nino Barbantini, Il castello di Monselice, Venezia 1940; Francesco Valcanover, Venezia. Conte Vittorio Cini, in Le grandi collezioni private, a cura di Douglas Cooper, Milano 1963, pp. 87-95; Fondazione Giorgio Cini, Opere d'arte dalle raccolte della Fondazione G. Cini esposte nel ventennio dell'istituzione. Isola di San Giorgio, 4 settembre-14 novembre 1971, s.n.t. [ma Venezia 1971]; L'armeria del castello di Monselice. Catalogo, a cura di John Howard, Vicenza 1980; Dipinti toscani e oggetti d'arte dalla collezione Vittorio Cini, a cura di Federico Zeri-Mauro Natale-Alessandra Mottola Molfino, Vicenza 1984; La collezione Cini dei Musei Civici veneziani. Catalogo, a cura di Doretta Davanzo Poli, "Bollettino dei Civici Musei Veneziani d'Arte e di Storia", n. ser., 33, 1884, nrr. 1-4, pp. 1-191; Dipinti ferraresi dalla collezione Vittorio Cini, Vicenza 1990; Collezione Cini, in La leggenda del collezionismo. Le quadrerie storiche ferraresi, a cura di Grazia Agostini-Jadranka Bentini-Andrea Emiliani, Venezia 1996.
319. Nino Barbantini, La Fondazione Giorgio Cini, Venezia 1951; Gino Damerini, L'Isola e il Cenobio di San Giorgio Maggiore, Venezia 1956; Id., Barbantini, Nino (Eugenio), in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 37-39; Giannantonio Paladini, Damerini a Venezia, in Gino Damerini, D'Annunzio e Venezia, Venezia 1992, pp. 314-315 (pp. 301-318).
320. Giuseppe De Luca, Letteratura di pietà a Venezia dal '300 al '600, a cura di Vittore Branca, Firenze 1963; La Fondazione Giorgio Cini nell'isola di S. Giorgio Maggiore, Venezia 1951; Venezia 1951-1971. Venti anni di attività della Fondazione Giorgio Cini, Venezia s.a. [ma 1971]; Luisa Mangoni, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino 1989, pp. 304, 353-356, 391-395, 406-407; Romana Guarnieri, Don Giuseppe De Luca. Fra cronaca e storia, Cinisello Balsamo 1991 [Bologna 1974], pp. 22-23, 189-190.