Vedi GLITTICA dell'anno: 1960 - 1994
GLITTICA (v. vol. III, p. 956; vol. VII, p. 88, s.v. scarabeo e p. 285, s.v. sigillo)
Le gemme. - Lo studio delle gemme antiche, oltre agli aspetti più squisitamente artistici legati alla g. come espressione di una raffinatissima cultura figurativa, offre lo spunto per una serie di indagini relative ai materiali impiegati, alla loro diffusione, ai problemi di estrazione e commercio e infine al gusto che determinò, presso ogni civiltà, una predilezione particolare per certi tipi di pietre o per certe destinazioni decorative.
In effetti, proprio per il loro carattere speciale e per la possibilità di individuare in molti casi i luoghi di estrazione, le gemme rappresentano un elemento di grande importanza per la ricostruzione dei modelli commerciali che governarono la diffusione di questi particolari beni di lusso nel mondo antico. In questo senso appare sempre più importante che alle analisi di carattere storico-artistico si affianchino quelle prettamente specialistiche da eseguire sui singoli reperti da parte di esperti gemmologi, in modo da poter localizzare i giacimenti d'origine. La diffusione di tali metodologie potrà fornire, anche a livello statistico, un importante contributo sul piano della storia economica e commerciale nelle varie epoche e regioni.
Un esempio emblematico, che contribuisce a far luce sull'ampia rete di rapporti commerciali necessari per lo scambio di questi materiali preziosi, può essere offerto dal lapislazzuli.
La rarità del minerale in natura, che viene estratto solo in zone ben circoscritte e, nello stesso tempo, il largo uso che se ne fece per l'arte decorativa in regioni anche molto distanti da quelle zone, permettono infatti di intuire - e, in alcuni casi, anche di individuare scientificamente - lunghi percorsi che presuppongono organizzazioni commerciali notevolmente complesse.
Nel mondo antico questa preziosa pietra blu veniva estratta anche vicino al lago Baikal, nella Siberia orientale, ma le principali fonti sfruttate nell'antichità sono da individuare nell'impervia regione del Badakhšan, nell'attuale Afghanistan, a Ν di Kabul. Le miniere, situate in una zona montuosa a una quota compresa tra i 1800 e i 4200 m, vennero sfruttate almeno a partire dal IV millennio a.C. Da lì, percorrendo vie carovaniere che attraversavano l'altipiano iranico, il lapislazzuli raggiungeva i ricchi e potenti centri della Mesopotamia, dove veniva utilizzato per sigilli, gioielli, piccole sculture a tutto tondo, elementi di intarsi e per ricavare iridi, sopracciglia e capigliature di statue. Particolarmente significativi, sia per qualità che per quantità, risultano i materiali provenienti dalla necropoli reale di Ur e da Mari (metà del III millennio a.C.) che testimoniano un periodo di straordinaria floridezza dei commerci, oltre all'altissimo livello raggiunto dall'artigianato artistico. Nello stesso periodo il lapislazzuli conosce una particolare fortuna anche in Egitto, dove giungeva tramite la Mesopotamia, con la quale l'Egitto era legato da intensi rapporti. Prova ne sia che per un periodo di due secoli circa, all'inizio del III millennio, la diffusione della pietra subisce una brusca interruzione contemporaneamente nelle due regioni, dovuta forse a gravi problemi negli scambi con i popoli dell'altipiano iranico.
Anche a Ebla, nella corte del c.d. Palazzo Reale G (fase Mardikh II Β I) il rinvenimento di una consistente quantità di minerale grezzo (c.a 20 kg) attesta l'ampia diffusione di questo materiale presso tutte le civiltà del Vicino
Oriente antico e ha fatto persino pensare alla possibilità di un ruolo di mediazione commerciale svolto da Ebla tra la Mesopotamia da una parte e l'Egitto e l'Anatolia dall'altra.
Una fortunata esplorazione archeologica condotta dall'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente in un sito dell'Iran orientale, Šahr-e Sokhta, ha permesso di individuare uno dei centri di smistamento della pietra situato lungo la via carovaniera che collegava i luoghi di estrazione a quelli di utilizzazione. Si sono rinvenute infatti, in strati databili nell'ambito del III millennio a.C., consistenti prove di una vera e propria attività intensiva di lavorazione del lapislazzuli (e con esso anche di turchese e corniola). Tali attestazioni consistono oltre che in residui di lavorazione del minerale grezzo, anche negli strumenti litici che servivano a separare la lazurite dal materiale calcareo insieme al quale viene estratta e in quelli utilizzati per forare le perle che venivano poi levigate e lucidate.
A dimostrazione dell'ininterrotto successo di questa pietra come prezioso materiale decorativo e dell'altissimo valore mantenuto nel corso dei secoli, si può citare l'importante ritrovamento effettuato ad Ai Khānum, capitale della Battriana orientale. Nella Tesoreria del palazzo di età ellenistica è stata scoperta una notevole quantità di materiali preziosi, sia lavorati che grezzi, e fra questi ultimi almeno 130 kg di lapislazzuli in piccoli blocchi. La regione del Badakhšan costituisce il retroterra montuoso della piana di Ai Khānum e le cave, in epoca ellenistica, dovevano essere sotto il diretto controllo dell'autorità greca stabilita nel palazzo. I Greci abbandonarono la città intorno al 145 a.C.
In ogni modo la mediazione esercitata dai popoli iranici nel commercio di questo raro materiale deve aver mantenuto inalterato per secoli il suo carattere di esclusività: ancora nel periodo di Plinio (Nat. hist., XXXVII, 120) si credeva che i migliori sappiri (questo è il termine usato per indicare i lapislazzuli) si trovassero tra i Medi.
Un altro periodo di grande fascino per una ricerca sulla fortuna delle pietre preziose nel mondo antico è quello immediatamente successivo alla spedizione in Oriente di Alessandro Magno. La millenaria tradizione decorativa orientale, così legata da una parte all'uso dei materiali preziosi, dall'altra al vivace effetto cromatico creato dall'accostamento di elementi di varia natura e di sgargianti colori, avrà un'influenza fondamentale nel determinare nell'arte occidentale un periodo di notevole successo delle pietre colorate. Il fecondo contatto con i regni orientali verificatosi durante il viaggio di Alessandro provocò una più approfondita conoscenza delle antiche civiltà incontrate, nelle loro espressioni artistiche e culturali, ma anche uno spontaneo desiderio di emulazione delle manifestazioni di lusso strabiliante che circondavano i sovrani di quelle terre. Fu immediatamente percepito da parte dei condottieri greci - ai quali per cultura quel lusso doveva risultare estraneo - che si trattava di un linguaggio particolare e particolarmente efficace, espressione esteriore di un potere sconfinato. Insieme a questo, le conquiste orientali di Alessandro facilitarono gli scambi commerciali con l'Oriente e l'approvvigionamento di questi materiali preziosi.
Non è forse un caso che proprio in questo periodo si collochi l'opera di Teofrasto, il filosofo allievo e successore di Aristotele, vicino alla corte macedone, che, nell'ambito di una produzione letteraria volta allo studio della natura, scrive un trattato sulla formazione della terra e dei minerali, inserendo molte informazioni sulle gemme di origine orientale. La conoscenza diretta di quelle lontane regioni ha sicuramente stimolato l'indagine scientifica sull'origine dei loro preziosi prodotti oltre che un nuovo interesse per il loro valore decorativo.
E così, insieme a uno straordinario sviluppo della g. e al notevole incremento nell'uso delle gemme nella gioielleria ellenistica, le pietre preziose conoscono in questo periodo un uso eccezionale anche in sontuosi apparati decorativi e in oggetti d'arredo. Le colonne che sostenevano il padiglione di Alessandro, fatto a imitazione di quello dei re persiani erano περίχρυσοι καί διάλιθοι καί περιάργυροι (Ath., XII, 538 d ss.); il sontuoso carro funebre che condusse il suo corpo da Babilonia ad Alessandria, dove fu sepolto, aveva un baldacchino λιθοκόλλητον (Diod. Sic., XVIII, 26,5). Sulla nave di Tolemeo Filopatore esisteva un ambiente dedicato a Dioniso, nel quale era ricavato un sacello destinato a contenere i ritratti della famiglia reale, fatto di «vere pietre» (Ath., V, 205 f). È così pure, insieme alle decorazioni architettoniche, la stessa profusione di pietre si trova anche nelle suppellettili: i ricchi servizi da mensa possono essere composti da vasi ricavati da un unico blocco di pietra dura o d'oro e decorati da pietre (Ath., V, 197 c) oppure incrostati di pietre (Theophr., Char., 23,3) oppure ancora in onice montati in oro (App., Mithr., XII, 17, 115).
Con le guerre di conquista orientali la passione per le gemme fu trasmessa anche al mondo romano dove prima le grandi famiglie della Repubblica e poi i personaggi della casa imperiale divennero collezionisti e successivamente committenti di opere di glittica. Fu ereditato anche il gusto per i sontuosi apparati nei quali le gemme avevano una parte importante: al di là delle numerose attestazioni letterarie, il ritrovamento di disiecta membra di uno di questi costituisce una testimonianza positiva e concreta dell'esistenza di questo genere di Wunderkammer.
Così a Roma, nella residenza imperiale degli horti Lamiani sull'Esquilino, è stata rinvenuta la fastosa decorazione di un ambiente dove, tra lamine di bronzo dorato, sbalzate e lavorate a giorno, erano inserite numerosissime gemme di diverse varietà e forme. Tutto il complesso decorativo può essere attribuito - in base a confronti con pitture di II e IV stile, e anche in relazione alla storia del complesso architettonico ricostruibile dalle fonti - all'età giulio-claudia.
Tra le 415 gemme rinvenute si trovano peridoti, ametiste, granati, lapislazzuli, quarzi microcristallini verdi, calcedoni di diversi colori, cristalli di rocca, corniole, agateonici, zaffiri, quarzi citrini, berilli verdi, quarzi avventurina, acquamarine. Esse sono, nella maggior parte, tagliate a cabochon semplice o doppio in forme diverse: ovali, circolari, a goccia, oppure subtriangolari o subrettangolari. Insieme a esse lastrine di cristallo di rocca lavorate a incavo, elementi globulari dello stesso materiale, molte lastrine di agata e infine due corniole incise.
L'importanza del ritrovamento, oltre alla possibilità di individuare un filone finora inesplorato dell'antica arte decorativa, risiede nell'ulteriore conferma delle fonti antiche sulla strabiliante concentrazione a Roma di materiali preziosi e, in questo caso, di gemme. La richiesta pressante di beni di lusso, e non solo da parte della casa imperiale, ma anche e soprattutto della classe emergente che ne faceva simboli di status, deve aver sviluppato un mercato particolarmente ricco e vivace, anche a livello dei materiali grezzi.
Sulla scorta delle fonti, e soprattutto del libro xxxvii della Naturalis Historia di Plinio che rimane, nonostante alcune difficoltà di interpretazione, uno strumento fondamentale XXXVII qualsiasi ricerca in questo campo, sappiamo che le migliori gemme erano considerate quelle provenienti dall'Oriente e soprattutto dall'India. L'approvvigionamento di questi beni di lusso era condizionato quindi dalle grandi distanze da percorrere e dai conseguenti enormi problemi organizzativi. Il commercio si svolgeva, sicuramente insieme a quello delle spezie, lungo percorsi sia terrestri che marittimi. Le vie di terra che dall'India, attraverso l'Afghanistan e l'Iran raggiungevano le grandi città carovaniere e da queste proseguivano fino ai porti del Mediterraneo, non furono mai abbandonate nonostante grandi difficoltà di carattere sia logistico che politico.
Ma un impulso straordinario al commercio con l'Oriente deve essere venuto dalla «scoperta» dei monsoni. Sia stato Eudosso di Cizico (Strab., II, 3, 4) oppure Ippalo (Plin., Nat. hist., VI, 100-101; Peripl. M. Eryth., 57) il primo scopritore occidentale del segreto di questi venti costanti dell'Oceano Indiano che spirano per un periodo da SO, permettendo di raggiungere le coste occidentali dell'India e girano poi da NE in modo che le flotte commerciali possono tornare indietro nello stesso anno, il periodo di questa scoperta si deve aggirare intorno alla fine del II sec. a.C. Il Periplo del Mare Eritreo, preziosissimo portolano ricco di informazioni e databile, nonostante numerose perplessità, alla metà del I sec. d.C., rappresenta una straordinaria testimonianza delle possibilità commerciali offerte da questa rotta. Con il favore dei venti le navi provenienti dall'India potevano scegliere, a seconda delle specifiche esigenze di scambio, di imboccare il Golfo Persico, per poi scaricare le merci che avrebbero proseguito via terra per i porti del Mediterraneo, oppure di risalire il Mar Rosso dove, sulla costa egiziana, si trovavano organizzatissimi scali commerciali che convogliavano le merci fino ad Alessandria, vero centro nevralgico del commercio orientale nel Mediterraneo.
Con l'età augustea il traffico con l'Oriente conobbe un notevole sviluppo, soprattutto grazie alla pace e alla stabilità politica instauratesi nel Mediterraneo che favorirono lo svilupparsi degli interessi commerciali. Strabone (II, 5, 12) ricorda lo straordinario incremento nel numero delle navi che nell'età augustea, rispetto a quella tolemaica, lasciavano i porti egiziani per l'Oriente.
Non è ancora stata compiutamente analizzata l'incidenza che le pietre preziose di origine indiana - o genericamente orientale - ebbero sul volume totale di questo complesso sistema commerciale. Plinio stesso sottolinea (Nat. hist., VI, 101) la notevole portata di questo traffico, stabilendo in 50.000.000 di sesterzi all'anno il valore delle merci importate dall'India, vendute poi a Roma a un prezzo cento volte superiore. Generalmente come principali voci tra queste importazioni vengono considerate le spezie, indispensabile complemento del sistema alimentare antico, e la seta cinese, altro bene di lusso estremamente ricercato: la riconsiderazione delle gemme antiche dal punto di vista della loro provenienza porterà determinanti argomenti per la ricostruzione di questo affascinante capitolo di storia economica.
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(M. Cima)
Creta e Micene. - Solo l'edizione, avviata nel 1965, del Corpus dei sigilli minoici e micenei sparsi nelle collezioni di tutto il mondo ha creato una base per lo studio sistematico di questi importanti reperti dell'Età del Bronzo, il cui numero è in costante aumento grazie all'attività di scavo.
Le origini della g. risalgono, a Creta e nella Grecia continentale, fino alla prima Età del Bronzo (III millennio a.C.). Tra i primi esempi si contano sigilli dall'insediamento di Myrtos-Pyrgos, poi dalle necropoli di Lenda, Archanes-Phourni e Mochlos; invece dalle Cicladi abbiamo solo testimonianze isolate, nonostante numerosi scavi. Poiché la grande maggioranza dei primi sigilli cretesi proviene dalle tombe a thòlos della Messarà, usate a lungo e costantemente per inumazioni, ma la cui stratigrafia non è quasi mai chiara, un ordinamento cronologico convincente fra i periodi Antico Minoico II-Medio Minoico IA (2900-1930 a.C.) risulta fino a questo momento estremamente arduo. Il gran numero di forme e motivi dei primi sigilli cretesi è stato sistemato complessivamente da un punto di vista tipologico da P. Yule. Ricerche comparate, condotte tenendo conto di materiali, forme, motivi, luoghi di provenienza e dei pochi altri agganci cronologici possibili, hanno condotto a isolare un'officina o un gruppo di officine, attive presumibilmente nel periodo Medio Minoico IA ai margini della piana della Messarà. La ricchezza di forme dei primi sigilli cretesi era straordinaria. Come materiali venivano impiegati soprattutto steatite, serpentino, osso, avorio e si suppone anche una «pasta». Dopo le più recenti ricerche di O. Krzyszkowska oggi siamo in grado di distinguere con relativa certezza sigilli in osso, in zanne di cinghiale e in avorio; questi ultimi venivano intagliati quasi unicamente su denti di ippopotamo, perciò si pensa che la materia prima dovesse essere importata dall'Egitto. Di particolare importanza sono i sigilli, in gran parte ancora inediti, di Archanes-Phourni: da un lato servono a completare il repertorio di forme e motivi già noto, dall'altro testimoniano in maniera univoca che, contrariamente all'opinione sinora prevalente, anche nella parte settentrionale di Creta osso e avorio venivano largamente adoperati per la produzione di sigilli. Accanto a essi per il periodo sino alla conclusione del Medio Minoico IA (c.a 1930 a.C.), sono note anche alcune cretule con impronte di sigillo, provenienti da Myrtos-Pyrgos e Cnosso, a dimostrazione del loro impiego a scopi amministrativi.
Testimonianze analoghe del periodo Antico Elladico II (2400-2300) si hanno sul continente, soprattutto dalla c.d. Casa delle tegole di Lerna, e da Tirinto, Asine, Kea. Sinora conosciamo scarsamente gli originali dei motivi ornamentali sugli stampi del medesimo periodo da Lerna, abbastanza fini e talvolta davvero complessi, con scarsi paralleli nella g. cretese. Invece i pochi sigilli noti del periodo Antico Elladico sono per lo più lavorati in maniera grossolana e presentano motivi più semplici. Per quanto riguarda la media Età del Bronzo, non sono documentati sigilli dal continente, ma ciò non deve significare che in quell'epoca non fossero noti in Grecia. Sino a oggi conosciamo soltanto poche tombe e insediamenti del periodo Medio Elladico, e nuovi scavi potrebbero modificare rapidamente la scena.
A Creta la g. continuò a svilupparsi nel periodo Medio Minoico. L'innovazione più significativa per la produzione di sigilli fu senza dubbio l'uso, iniziato nel Medio Minoico II, delle c.d. pietre semi-preziose; pressoché contemporaneamente venne introdotto quello che si ritiene fosse un trapano fisso con punte intercambiabili. Da allora in poi usando un mezzo abrasivo (il corindone di Nasso?) fu possibile incidere motivi straordinariamente fini anche sulle pietre dure. A Mallia ci è nota la bottega di un intagliatore di gemme, e ricerche, ulteriori della scuola francese nel complesso di edifici già precedentemente riportati alla luce hanno appurato da poco che essa era attiva verso la fine del periodo Medio Minoico IIB (1750-1700 a.C.). Da ciò si ricava che un grande gruppo di prismi triangolari va datato considerevolmente più tardi di quanto si fosse supposto finora. Nel Medio Minoico II e Medio Minoico III forme caratteristiche dei sigilli sono la discoidale, a prisma a tre o quattro lati e quelle «a timbro» a cuscino. Le prime impronte di sigilli anulari ovali sono testimoniate da cretule del periodo Medio Minoico IIB, provenienti dall'antico palazzo di Festo; i sigilli del Medio Minoico II recano anche le testimonianze più ricche della scrittura geroglifica minoica. In questa fase si incontrano le prime raffigurazioni naturalistiche: linee del terreno, zone sassose e piante delimitano talvolta il campo della composizione; all'occasione compaiono persino gruppi di più figure. Di importanza capitale sono le ricerche compiute sul retro delle cretule, in quanto possono fornire indicazioni sul tipo di segnatura e sugli oggetti così contrassegnati, dunque sul genere di controllo che si aveva sulle merci.
Al contrario dello sviluppo sul continente, dove verso la fine del Medio Minoico III - sotto l'influenza di Creta - si inizia nuovamente una tradizione g., sull'isola il passaggio dalla g. del periodo Medio Minoico a quella del Tardo Elladico si compie senza soluzione di continuità. Vengono incise ancora soprattutto pietre locali morbide, pressoché ignote sul continente sin quasi alla fine del periodo Tardo Elladico III AI (c.a 1400 a.C.). Comunque, in entrambe le zone, dall'inizio della tarda Età del Bronzo fino c.a al 1350 a.C. vengono lavorate gemme di minerali duri, come agate, ametiste, cristalli di rocca, ematiti, diaspri, corniole e lapis lacedaemonius. Talvolta vengono intagliati sigilli sia in vetro sia in pietra; in seguito li si pressò in stampi. Le forme più diffuse della g. nella tarda Età del Bronzo sono quella lentoide, l'amigdaloide, il cuscino e il prisma a tre lati; saltuaria è la presenza del sigillo cilindrico. Si aggiungano inoltre anelli con castoni ovali, prodotti in diversi modi e tipi. Nel periodo Tardo Elladico I (c.a 1560-1470 a.C.) a Creta fu adoperato un numero relativamente alto di cretule per sigillare. I temi della g. egea nella tarda Età del Bronzo sono eminentemente di tipo figurativo. Prevalgono quelli di animali isolati, per lo più leoni, caproni e tori. Inoltre s'incontrano creature fantastiche quali grifi, sfingi e fusioni di vario genere fra uomini e bestie. Queste ultime talora sono disposte specularmente in composizioni araldiche; inoltre, al principio della tarda Età del Bronzo, sia a Creta sia sul continente, compaiono scene di lotta e di caccia, nonché assalti di fiere, principalmente di leoni e bovini. Infine, di valore particolare sono le scene di culto con più figure. I tentativi di separare, in base allo stile, le immagini della tarda Età del Bronzo su sigilli in pietra dura originarie di Creta da quelle della regione greca, finora non hanno condotto a esiti convincenti; del resto scambi commerciali in entrambe le direzioni rendono difficile rilevare una possibile differenziazione stilistica. In generale si potrà affermare che la g. micenea fino c.a al 1350 a.C. mostra una certa tendenza alla monumentalizzazione dei temi figurativi realizzati mediante un contemporaneo trattamento accurato dei dettagli, mentre tali caratteristiche si riscontrano più raramente sulle gemme di Creta, lavorate in maniera più sintetica e frettolosa.
Verso la metà del XIV sec. a.C. la produzione di sigilli in materiale duro cessa per cause finora sconosciute, e da allora nella regione egea ne vengono incisi solamente in pietra locale morbida, principalmente vari tipi di steatite e fluorite. I motivi figurati si restringono quasi interamente a rappresentare singoli animali, mentre si incontrano abbastanza spesso motivi ornamentali. La produzione pare interrompersi quasi interamente sullo scorcio del XIII sec. a.C. All'interno di questa g. tarda e fortemente stilizzata è possibile distinguere nuovamente in maniera univoca i lavori cretesi da quelli della Grecia continentale. È strano che nel XIII sec. a.C. nei centri tardo-micenei come Micene, Pylos e Tebe per sigillare venissero usati quasi esclusivamente sigilli e anelli-sigillo notevolmente più antichi. Forse i sigilli coevi in pietra morbida, spesso appena usciti di bottega, non erano più usati per questo scopo, analogamente a quelli di vetro pressati negli stampi, bensì impiegati come oggetti decorativi, offerte funerarie e oggetti votivi. In contesti del XII sec. sono stati trovati soltanto rari sigilli in pietra morbida, in prevalenza di età più antica. In seguito il loro uso, stando alle nostre conoscenze attuali, non è più testimoniato fino al periodo geometrico (v. anche minoica-micenea, civiltà e arte).
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(I. Pini)
Etruria e mondo italico. - Grazie a studi recenti, si può affermare che, intorno all'anno 540 a.C., immigrati greci fondarono in Etruria centri per la lavorazione delle pietre preziose, o, per meglio dire, quasi esclusivamente di scarabei. I soggetti raffigurati sono di carattere mitologico, ispirati principalmente al ciclo epico troiano. Miti greci sono rappresentati anche su scarabei di stile severo, tra i quali possono essere annoverati gli esemplari più pregiati della glittica etrusca, come p.es. la famosa gemma Stosch.
Gli artigiani etruschi si appropriarono di motivi greci con metodo compilatorio; ma via via, nella lavorazione delle piccole superfici delle pietre, si fece strada uno stile autonomo; di particolare rilievo è la ricchissima decorazione della parte posteriore degli scarabei. Tali prodotti possono essere reputati, insieme a quelli greci e fenici, tra i più sofisticati lavori di g. in assoluto.
A partire dalla seconda metà del V sec., gli scarabei figurati presentano figure più sciolte caratterizzate da un più libero ritmo di movimenti e da un modellato dalla ricca articolazione (stile libero). Nel repertorio figurativo primeggiano ancora i motivi greci, tuttavia non mancano scene tratte dalla vita quotidiana; si affacciano inoltre temi direttamente correlati con l'ambiente italico.
Dalla metà del IV sec. in avanti, gli scarabei figurati mostrano sempre maggiori affinità con quelli del tipo «a globulo», tecnica di cui
è ormai accertata l'origine etrusca. Lo stile delle figure è animato da rotondità e incavi che spesso contrastano con il pronunciato linearismo del lavoro d'intaglio. Fortemente puliti e incastonati in anelli d'oro più o meno lussuosi, gli scarabei rappresentano adesso un tipo di ornamento ambito e richiesto dal pubblico: scarabei «a globulo» furono esportati fino in Crimea e per un lungo periodo dominarono i mercati del Mediterraneo. Come è ben comprensibile, in concorrenza con i laboratori etruschi sorsero ben presto centri per la lavorazione delle gemme anche nel Lazio, Campania e Apulia, e quindi, oltre a quelle greche, compaiono' le prime iscrizioni latine.
Agli anelli d'oro degli scarabei etruschi P. Zazoff ha dedicato un intero capitolo, nell'ambito dello Handbuch der Archäologie: le numerose varianti di questo genere di ornamenti, sicuramente molto ricercati, sono in armonia con quanto ci resta dell'arte orafa etrusca, che appare altamente sviluppata. Anch'essi denotano la mentalità peculiare agli artigiani della regione, caratterizzata da uno spiccato senso della precisione. L'anello d'oro accresce l'effetto delle gemme colorate - soprattutto la corniola, ma anche l'agata policroma, usata dall'epoca arcaica in modo particolare nella varietà a striature trasversali.
In quest'ultima fase, che prende avvio dalla metà del IV sec., si producono scarabei che non seguono più l'antico e codificato repertorio figurativo greco. Emerge in essi, invece, un nuovo stile che preferisce immagini figurate di minori dimensioni entro uno spazio libero. Tali Scarabei si distinguono nettamente da quelli etruschi e sono considerati opera di laboratori non etruschi.
Le gemme etrusche discoidali, incastonate in anelli metallici, si rivelano fedeli imitazioni degli scarabei di stile severo e libero. W. Martini ha dedicato loro una monografia; tuttavia l'inizio di questa nuova tradizione etrusca resta incerto. I temi prediletti nel III-II sec. a.C. mostrano un accentuato carattere religioso oppure rappresentano scene di genere; dal punto di vista stilistico tradiscono inizialmente un'impronta ellenistica, per avvicinarsi più tardi al gusto romano. Un ruolo di rilievo vi ha la sardonica marrone; diffusa è anche il calcedonio chiaro, ma fino a epoca repubblicana la pietra più frequentemente impiegata è la sardonica a striature trasversali.
La valutazione della g. del Mediterraneo occidentale, che non può considerarsi né strettamente etrusca, né tantomeno ellenistica, ma esposta alle influenze di entrambe le tradizioni e, comunque, punto di partenza dell'arte di intagliare le pietre preziose d'epoca romana augustea, pone alcune difficoltà. A tale problema sono stati dedicati studi approfonditi. M.-L. Vollenweider si è occupata dei laboratori tardo-repubblicani, rivolgendo speciali attenzioni agli intagli di particolare pregio; successivamente, soprattutto G. Sena Chiesa e A. Krug hanno studiato gemme rinvenute durante scavi archeologici. P. Zazoff ha proposto, nello Handbuch der Archäologie, un raggruppamento su basi territoriali. Vi è infine un gruppo di autori di cataloghi (G. Sena Chiesa, E. Zwierlein-Diehl, M. Maaskant-Kleibrink), che hanno tentato di evidenziare differenziazioni stilistiche.
I temi attualmente dominanti sono quelli legati ad ambiente italico; p.es. i soggetti dionisiaci in Campania, o i miti concernenti le origini di Roma, nel Lazio. Ma una posizione di assoluta preminenza è occupata dai ritratti, spesso veri capolavori; notevolmente diffuse sono anche scene di culto, p.es. i motivi di Diana Nemorensis o di Otriada, e inoltre soggetti tratti dal mondo artigianale o bucolico.
La gamma dei tipi di pietre impiegate è ricca (ametista, topazio, granata, almandino e prasio), mentre la pasta vitrea assume un ruolo di crescente importanza nell'ambito della produzione glittica di massa.
Bibl.: Scarabei: A. Furtwängler, Antike Gemmen, III, Lipsia-Berlino 1900, p. 170 ss.; P. Zazoff, Zur ältesten Glyptik Etruriens, in Jdl, LXXXI, 1966, p. 63 ss.; id., Etruskische Skarabäen, Magonza 1968; P. G. Guzzo, Le gemme a scarabeo del Museo Nazionale di Napoli, in MEFRA, LXXXIII, 1971, p. 326 ss.; M.-L. Vollenweider, Die Porträtgemmen der römischen Republik, I-II, Magonza 1972-1974; P. Zazoff, Die antiken Gemmen (HdArch, IV), Monaco 1983, p. 214 ss.
Pietre da anello: Α. Furtwängler, op. cit., p. 216 ss.; E. Zweierlein-Diehl (ed.), Antike Gemmen in deutschen Sammlungen, II, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Antikenabteilung Berlin, Monaco 1969, p. 121 ss.; W. Martini, Die etruskische Ringsteinglyptik (RM, Suppl. 18), Heidelberg 1971; E. Zweierlein-Diehl (ed.), Die antiken Gemmen des Kunsthistorischen Museums in Wien, I, Die Gemmen von der minoischen Zeit bis zur frühen römischen Kaiserzeit, Monaco 1973, p. 61 ss.; P. Zazoff, Die antiken ..., cit., p. 250 ss.
Gemme italiche e romane repubblicane: A. Furtwängler, Studien über die Gemmen mit Künstlerinschriften, in Jdl, III, 1889, p. 46 ss.; id., op. cit., pp. 112 ss., 173 ss., 216 ss., 289 ss.; G. Sena Chiesa, Gemme del Museo Nazionale di Aquileia, 2 voll., Roma 1966; M.-L. Vollenweider, Die Steinschneidekunst und ihre Künstler in spätrepublikanischer und augusteischer Zeit, Baden Baden 1966; ead., Die Porträtgemmen ..., cit., passim; G. Sena Chiesa, Gemme di Luni, Roma 1978; M. Maaskant-Kleibrink, Catalogue of the Engraved Gems in the Royal Coin Cabinet The Hague, L'Aia 1978, p. 99 ss.; E. Zweierlein-Diehl (ed.), Die antiken Gemmen des Kunsthistorischen Museums in Wien, II. Die Glasgemmen. Die Glaskameen. Nachträge zu Band I. Die Gemmen der späteren römischen Kaiserzeit, I, Götter, Monaco 1979, p. 118 ss.; A. Krug, Antike Gemmen in Römisch-Germanischen Museum Köln, Francoforte 1981; G. Platz-Horster, Die antiken Gemmen in Rheinischen Landesmuseum Bonn, Bonn 1984; E. Zweierlein-Diehl, Glaspasten im Martin von WagnerMuseum der Universität Würzburg, Monaco 1986; A. R. Mandrioli-Bizzarri, La collezione di Gemme del Museo Civico Archeologico di Bologna, Bologna 1987; P. Zazoff, Archaische Werkstätten in Etrurien, in Die Welt der Etrusker, Berlino 1990, pp. 287-290.
(P. Zazoff)
Grecia e Roma. - Negli ultimi due decenni la g. si è arricchita di nuovi studi, che riguardano varie classi di materiali e abbracciano quasi tutte le epoche in cui quest'arte è stata praticata. Se per l'età arcaica poche sono state le nuove scoperte segnalate, tuttavia sono stati chiariti i rapporti tra le fasi che sono andate man mano succedendosi, così come le relazioni tra le diverse regioni. Si conoscono meglio oggi i legami con la g. minoica e micenea, o con la produzione insulare (cfr. le pubblicazioni di J. Boardman); è stato ugualmente messo in evidenza il prestito di elementi tecnici dalla g. cipriota (Vollenweider, 1983, III, n. 69).
D'altra parte, le affinità con la Ionia e Sardi e, tramite queste, con la Persia achemenide, sono incontestabili. Il sigillo piramidale di Ginevra (Vollenweider, 1983, III, n. 36, fig. 1), p.es., con toro sotto un'iscrizione lidia manelim appartenuto probabilmente a un magistrato persiano di stanza a Sardi, si collega per lo stile allo scarabeo con leone inciso a firma Aristotaiches (Boardman, 1970, tav. CCCLXXXVIII).
Capolavori di grande raffinatezza videro la luce nella bottega di Epimenes, che ha firmato uno scarabeoide in calcedonio, lungo 17 mm, attualmente nel Museum of Fine Arts di Boston (Beazley, 1920, n. 28, tav. 11/9; Boardman, 1970, tav. CCCLV); un giovane nudo, visto di spalle, trattiene il suo cavallo che si impenna. L'incisione si distingue per le delicate sfumature dei volumi, delle linee degli elementi globulari dell'immagine. L'arciere del Metropolitan Museum lo eguaglia appena. Ricordiamo anche lo scarabeoide in calcedonio (alt. 11 mm, largh. 15 mm, prof. 8,5 mm) che ha recentemente arricchito il Museo di Ginevra (Vollenweider, 1983, III, n. 212): un caprone accompagnato dal nome del proprietario, ΗΕΣΛΑΓΟΡΟ EMI.
La stessa raffinatezza caratterizza un gruppo di pietre, una delle quali, a Berlino, porta il nome di Semon, considerato in genere quello del proprietario: raffigura un personaggio femminile accovacciato che riempie la sua idria da una fontana con bocca a protome di leone (Zwierlein-Diehl, 1969, n. 88).
Non è affatto semplice individuare le botteghe di questi capolavori, il cui luogo di rinvenimento solo raramente coincide con i luoghi di produzione. Si pensi alla lontananza geografica di siti quali Naukratis (per la pietra firmata da Epimenes e per l'altra a lui attribuita) e Troia (per la giovane che attinge acqua alla fontana). Bisogna nondimeno ammettere che la costa dell'Asia Minore, le isole greche, le colonie d'Egitto e infine Cipro costituivano attorno al 500 a.C. una koinè artistica.
Per la g., fu Dexamenos di Chio che durante il periodo classico incarnò la perfezione. Le sue opere erano diffuse non solo ad Atene, ma fino in Crimea, dove sono state scoperte due gemme con la sua firma: due aironi, uno che prende maestosamente il volo, l'altro che si pulisce l'ala, entrambi al Museo dell'Ermitage (Neverov, 1976, nn. 19 e 20, fig. 2). Al ritratto firmato del museo di Boston, raffigurante un uomo maturo, E. Zwierlein-Diehl ha aggiunto una testa di adolescente, conservata a Berlino (Zwierlein-Diehl, 1976). La mano dello stesso incisore si riconosce anche su due studi di cavallette (Vollenweider, 1974, p. 142 s.).
A partire dalla fine del V sec., le botteghe si diffusero in Magna Grecia, a Siracusa, dove alcuni maestri scrissero i loro nomi su splendidi coni monetari. Si confronterà pertanto il calcedonio del museo di Boston (Beazley, 1920, n. 55; Boardman, 1970, tav. DLXI) con i decadrammi firmati da Euainetos del 432 a.C.: stessa volata di cavalli al galoppo, stessa posa dell'auriga, Artemide Arethusa. Con il suo stile vivo e raffinato e con il suo dinamismo, questo artista annuncia una nuova epoca: ci si avvia verso un mondo in movimento, un mondo aperto all'esterno.
L'età ellenistica. - A partire da Alessandro, nuovi stili penetrano nel mondo greco e italico, irradiandosi fino in Oriente. L'aspirazione alla monumentalità, uno dei caratteri essenziali, è percepibile già sull'anello d'oro del Metropolitan Museum (Richter, 1956, n. 81; Boardman, 1970, tav. DCCLXI) con l'effigie del reeroe con il capo coperto dalla leontea. I tratti incisivi, duri, intensi, annunciano un'epoca in cui regnerà la forza, percettibile negli occhi resi da globuli prominenti.
Il ritratto, come espressione della personalità, costituisce uno dei principali soggetti dei sigilli e delle gemme ellenistiche. Le dimensioni di questi manufatti sono spesso considerevoll. L'Alessandro dell'anello (25 mm) è di pari monumentalità di quello della gemma di Oxford (Boardman, Vollenweider, 1978, n. 280) o di Berenice J, sposa di Tolemeo I, sull'emblema d'oro (ibid., n. 282). L'ametista di Tolemeo II Filadelfia (ibid., n. 285) misura 25,5 mm; la grande sardonica dell'Ermitage (Neverov, 1976, n. 55), che raffigura Tolemeo III, raggiunge 3,5 cm.
I ritratti dei sovrani si distinguono spesso per l'alta qualità, una tenera e dolce eleganza, una penetrazione fine dei tratti del viso. Così è per la corniola con l'immagine di una dea o di una regina che porta una cornucopia sul braccio sinistro e versa l'offerta su un thymiatèrion, identificabile forse con la «decima Musa», Arsinoe II, il cui ritratto compare sull'ametista di Ginevra (Vollenweider, 1979, II, n. 40, fig. 3). Un opale della Collezione Merz raffigura probabilmente Tolemeo II (Vollenweider, 1984, n. 258), uno smeraldo della Collezione Velay ritrae forse Berenice III. Ricordiamo ancora la corniola del Cabinet des Médailles con l'effigie di Tolemeo VI (?).
Alcuni artisti firmarono le loro opere, come Nikandros, per un ritratto di regina inciso in un giacinto bruno della Walters Art Gallery (Richter, 1968, n. 636) e Lykomedes per un'effigie di Berenice II, assimilata a Iside, nel museo di Boston (ibid., n. 635). Databili al passaggio tra il III e il II sec. a.C., abbiamo due granati che portano il nome di Apollonios: quello del museo di Atene raffigura Antioco III ancora giovane, quello di Baltimora, montato in un pesante anello d'oro, il ritratto a mezzo busto di un cortigiano (Richter, 1968, nn. 678 e 677). La firma di Nikias compare su un altro granato (Vollenweider, 1983, III, n. 219) con l'effigie di un principe pontico. Un incisore ancora sconosciuto, di nome Demetrios, ha ritratto Mitridate VI, re del Ponto, su un granato incastonato in un anello d'oro. Athenion, Boethos, Gaios, Protarchos, appartengono alla stessa generazione.
A tutti questi eccezionali capolavori si aggiunge una serie di anelli di bronzo del III sec., scoperti nelle necropoli di diversi siti greci della sponda settentrionale del Ponto Eusino (Neverov, 1974). Notiamo anche l'insieme degli anelli ritrovati nell'Antro Coricio nel 1970 e 1971, pubblicati da M. A. Zagdoun. Si tratta di un lotto di 807 anelli e 207 frammenti, dei quali i più antichi risalgono al periodo geometrico, i più recenti datano all'età ellenistica.
È opportuno menzionare infine i diversi ritrovamenti di impronte di sigillo, alcune delle quali ci tramandano dei ritratti rari, come quello di Seleuco IV al Cabinet des Médailles. Oltre alle impronte del Royal Ontario Museum di Toronto, provenienti dall'Egitto e pubblicate da J. G. Milne (1916), ricordiamo il gruppo di Doliche, nel Cabinet Royal dell'Aja (Maaskant-Kleibrink, 1971, p. 23 ss.) e quello di Cirene (Maddoli, 1965, p. 38 ss.). Le cretule conosciute oggi si contano a decine di migliaia: H. Kyrieleis sta preparando la pubblicazione dei materiali di Paphos e Cipro; M. F. Boussac e altri sono impegnati sui materiali di Delos; A. Invernizzi sta lavorando su circa ventimila cretule del periodo seleucide da Seleucia sul Tigri. Pregevole è l'opera redatta da P. A. Pantos sulle impronte di sigillo della città etolica di Kallipolis.
La glittica romana. - Posta al centro dell'Italia, Roma ha subito in misura eguale l'influenza del Nord e del Sud della penisola. Gli Etruschi, essi stessi formati alla scuola greca, le trasmisero un genere di gemme che possono essere ricondotte alla storia romana o che riflettono dei riti religiosi, quali le immagini di Diana Nemorensis e le scene di sacrificio. La leggenda di Otriada è probabilmente romana, come quella del pastore Faustolo.
In contrasto con questi piccoli sigilli, opere di incisione decisa e di plasticità vigorosa, il contatto di Roma con la Magna Grecia produsse un altro stile, caratterizzato da un realismo pittorico, come quello mostrato dalla scena di coniuratio (cfr. Vollenweider, 1972-1974, tav. XL/I). Quest'ultima non compare solo su una serie di sigilli convessi in pasta vitrea, ma anche su alcune monete. Già da molto tempo prima del 269-266 a.C., la testa di Eracle e, sul rovescio, i gemelli allattati dalla lupa ornavano i didrammi emessi a Roma. Il motivo sarà uno di quelli più frequentemente attestati nella g., e queste diverse testimonianze della storia e dell'arte romana si troveranno nei numerosi cataloghi dei musei e delle collezioni private pubblicati ormai da qualche decennio.
Nel corso della seconda guerra punica iniziò la diffusione delle paste vitree con l'immagine del vincitore o dell'uomo politico che garantì la salvezza di Roma in un momento di grande pericolo. Conosciamo sette paste vitree di Scipione l'Africano (cfr. Vollenweider, 1972-1974, tav. XXXVIII s.), che fanno riscontro alle monete emesse a Canusium all'inizio del II sec. a.C. Con Giulio Cesare, il numero di paste vitree sale a una trentina; innumerevoli sono quelle di Ottaviano, che si possono1 confrontare con le monete degli anni dal 44 al 35 a.C. e che si arricchiscono di simboli politici di vittoria e di felicità.
A fianco di questi sigilli di piccole dimensioni, spesso inferiori a 12 mm di altezza, gli esemplari dei maestri testimoniano una stilizzazione più avanzata. Ricordiamo Demostene, su un'ametista firmata Dioskourides, Cesare e, su una gemma monumentale, il giovane Ottaviano assimilato a Hermes. Nel I e nel II sec. d.C. scorre davanti ai nostri occhi una vera e propria galleria di ritratti imperiali.
Frequenti nel I sec. a.C., i nomi degli incisori divengono in seguito più rari. Ma i capolavori rimangono numerosi sotto la dinastia degli Antonini: Traiano, Adriano, Antinoo, uno dei cui ritratti è firmato Antoninianus. Un'ametista al museo di Napoli mostra un'immagine commovente di Antonino Pio. Un altro capolavoro è il berillo con le effigi di Faustina II e dei membri della sua famiglia; più tardi, ancora su un berillo, abbiamo il ritratto di Giulia Domna (Metropolitan Museum of Art). Un'ametista dell'Ermitage, raffigurante Lucio Vero, fornisce la prova della maestrìa e della capacità di penetrazione psicologica degli incisori di questo periodo (Neverov, 1976, n. 137, fig. 6).
Dopo ciò assistiamo a un rapido declino, anche se la produzione non diminuisce come quantità. Le gemme di buona qualità divengono una rara eccezione, quale il grande nicolo della Collezione Merz, in cui Caracalla viene raffigurato come Eracle (Vollenweider, 1984, n. 312). La decadenza si manifesta, p.es., su una corniola di Firenze, dove l'abbandono della forma risalta in modo crudele. Bruttezza e rozzezza caratterizzano in questo periodo molti sigilli di piccolo formato, in cui vediamo tutti i tipi di divinità e di altre figure dell'epoca: la maggior parte di essi proviene da regioni periferiche dell'Impero, dal Danubio, dal Reno, dalla Britannia, dalla Gallia, dalla Palestina.
La g. conoscerà un nuovo slancio sotto Costantino, in particolare con le effigi di Elena, madre dell'imperatore, e di Costantino stesso (grande zaffiro di Firenze); così pure con quelle di Costantino II a Berlino, e di Costantino Gallo, su un berillo chiaro del Cabinet des Médailles.
Eclettica e sempre più sporadica, l'arte della g. finirà per disperdersi nell'espressione barbarica.
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(M.-L. Vollenweider)
Egitto. - I sigilli egiziani possono essere divisi in due gruppi principali, cilindrici e a stampo. I primi appaiono diffusamente già in tombe della I dinastia, inseriti in un telaio di legno o di metallo entro il quale potevano rotolare, oppure infilati in collane o bracciali. Realizzati per lo più in steatite nera o serpentino, ma anche in legno o avorio, sono in un primo tempo abbastanza corti e spessi, con iscrizioni a grandi caratteri e raffigurazione del proprietario, ma poi progressivamente si fanno più alti e sottili, con testi sempre più estesi e segni geroglifici più piccoli. La diffusione dei sigilli ufficiali e privati sin dagli inizi dell'Antico Regno è il segno di un sistema amministrativo perfettamente organizzato; ancora nel Medio Regno i sovrani continuarono a sigillare i documenti ufficiali con questo tipo di oggetto. I sigilli cilindrici furono usati fino al tardo Medio Regno, epoca in cui vennero quasi del tutto sostituiti da quelli a forma di scarabeo, che si svilupparono con ogni probabilità dai sigilli a stampo del I Periodo Intermedio. Infatti, a fianco dei sigilli cilindrici, nella VI dinastia fece la sua comparsa un nuovo tipo di sigillo di forma circolare, ovale o rettangolare, con base piatta e superficie superiore convessa; tuttavia, benché la maggior parte di questi oggetti rechi inciso sulla faccia inferiore un disegno, è probabile che essi non fossero usati come veri e propri sigilli, ma venissero portati come ornamenti o amuleti.
Dalla VI alla X dinastia si svilupparono moltissime forme: tra le più diffuse quelle circolari e rettangolari con dorsi piramidali, trapezoidali, semicilindrici, o lavorati sì da raffigurare protomi animali o figure umane. Il materiale si allargò alla steatite invetriata, al calcare, alla ceramica invetriata e all'osso; i motivi incisi sulla base comprendevano disegni geometrici, motivi vegetali, animali (in particolare protomi di gazzelle e altri animali, disposte simmetricamente) e anche, se pur molto raramente, segni geroglifici.
Una classe a sé stante è costituita dagli anelli-sigillo: appaiono per la prima volta nel Medio Regno e sono costituiti da un semplice filo d'oro, passante dal foro di sospensione di uno scarabeo, annodato alle due estremità; questo particolare sistema permetteva allo scarabeo di girare su se stesso, mostrando la faccia inferiore con l'iscrizione, e poter essere così usato come sigillo per identificare il proprietario. Talvolta allo scarabeo si sostituisce una semplice placchetta rettangolare di ceramica invetriata, pietra dura o oro, montata anch'essa con castone mobile. Con la XVIII dinastia furono prodotti a stampo i primi pesanti anelli in metallo, i c.d. anelli a staffa, con castone decorato; quest'ultimo era usato per sigillare i documenti e fu adoperato fino all'epoca romana.
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(F. Silvano)
Levante. - Sotto l'impulso delle colonie commerciali assire in Cappadocia, la g. siriana ricevette un notevole impulso. I sigilli, per lo più di ematite, riproducono una tematica, resa con incisione sfumata, che comprende temi cultuali, nonché numerosi motivi minori di origine mesopotamica, di derivazione egiziana e originari della Siria stessa (botteghe di Aleppo). In Palestina oltre qualche cilindro di fattura o d'ispirazione siriana vengono usati come sigilli e come amuleti gli scarabei egiziani (II millennio). In epoca mitannica (seconda metà del II millennnio) si afferma un nuovo tipo di materiale (quarzo sinterizzato) che dilata notevolmente la produzione (common style) caratterizzata dall'uso del punteruolo per particolari anatomici e dettagli, nonché dalla suddivisione simmetrica degli spazi. La documentazione è molto ampia (impronte sui testi da Nuzi, esemplari da Alalakh, da siti della Ğezira e da diverse località palestinesi). Botteghe sono state individuate a Bet Šě’an e Ugarit. Nella tematica ridotta, rispetto alla g. paleosiriana di gusto narrativo, prevalgono gli schemi araldici, il tipico «pilastro del cielo», motivi decorativi. Quale reazione alla produzione massificata vi è quindi la riutilizzazione di sigilli più antichi (II millennio). Oltre i termini cronologici e areali dell'impero mitannico vi sono altre due potenze politiche che condizionarono gli stili glittici locali: gli Ittiti e gli Egiziani. I sigilli usati al Sud riflettono infatti influenza tecnica (stile lineare) e iconografica egiziana. Il medesimo stile lineare è comunque usato anche al Nord per temi di tradizione diversa. Governatori ittiti di città quali Karkemiš ed Emar, accanto ai sigilli cilindrici usarono quelli a stampo, che in Anatolia avevano completamente soppiantato gli altri e i cui soggetti erano principalmente ittiti. Con il I millennio tutta la costa levantina adottò il sigillo a stampo basato sullo scarabeo e solo in Siria sopravvisse una classe di sigilli cilindrici (caratterizzati da un bordo a piccoli triangoli), che influenzò con ogni verosimiglianza lo stile lineare assiro del IX sec. a.C.
Alla fine del IX sec. a.C. la diffusione della scrittura alfabetica incrementò l'uso del sigillo a stampo dopo millenni di oblio. Il passaggio da un tipo all'altro potrebbe essere individuato in certi esemplari neo-assiri incastonati in oro con ulteriore motivo inciso sulla base, utilizzati prevalentemente a stampo. Con la prima metà del I millennio a.C., i sigilli a stampo, cubici, prismatici, conici, con o senza foro di sospensione ricavato superiormente, e decorazione su tutte o meno le facce, si affermarono e costituirono uno specifico tipo dell'arte glittica, diffuso soprattutto in Anatolia, Armenia, Nord della Siria e nelle zone più a Sud, vale a dire in quelle regioni nelle quali l'uso limitato della scrittura e il diverso materiale adoperato rendevano il sigillo a stampo più adeguato alle necessità. Inoltre i ritrovamenti del IX sec. a.C. dall'Eubea e da Rodi ne testimoniano l'ulteriore diffusione, al momento ipoteticamente attribuita alla fase più antica dell'espansione fenicia nel Mediterraneo. Il sigillo a timbro fu usato infatti dai maestri incisori fenici nell'VIII, se non già nel IX sec. a.C., come documentano i reperti con motivi precipui del repertorio iconografico di tale cultura (scarabeo a quattro ali, grifone alato, sfinge a protome di falco, Bes con serpenti, ecc.). La riapparizione poi di suddette caratteristiche tematiche sui più tardi stampi ciprioti è chiaramente riflesso dell'attività di una koinè ciprofenicia. Tale tipo di sigillo, presente in tutta l'area siro-palestinese, fu usato dai Fenici limitatamente rispetto a quello basato sulla forma dello scarabeo.
Il sigillo a forma di scarabeo di derivazione egiziana, già attestato nella zona durante il II millennio a.C. (Palestina) ovvero di scaraboide (il coleottero è riprodotto nelle linee generali e i dettagli anatomici non sono precisi) assolve anche la funzione di pendente e anello dal valore apotropaico. Molti reperti infatti conservano la caratteristica montatura in metallo (in Occidente decorata anche da filigrana) a castone mobile, ideato all'origine in Egitto (XII Dinastia), per facilitarne l'impiego quale sigillo. Parecchi esemplari presentano a metà dell'anello, verso l'esterno, un appiccagnolo a rocchetto. Questi reperti, cui viene attribuita un'origine fenicia sebbene la genesi sia assai complessa, indicano che scarabei e scaraboidi erano fissati anche alle montature caratteristiche dei pendenti, quali appaiono al collo di statue (Cipro), e che i defunti venivano seppelliti con tale parure. La maggior parte degli scarabei è in diaspro verde scuro, quindi nella stessa pietra usata nelle colonie occidentali, anche se sulla base di analisi risultano di sicura origine diversa; né mancano esemplari in steatite, corniola e calcedonio. Pur essendo molto diffusi, solo un numero ridotto di reperti viene dalla madrepatria (un opificio è stato localizzato a Biblo) e da Cipro, mentre la maggior parte della documentazione è fornita dalla aree della diaspora fenicia (Cartagine, Tharros, Ibiza e Spagna). Le iscrizioni, che generalmente riportano il nome del proprietario, sembrano una caratteristica della g. di Palestina più che di Siria. Nella tematica convergono motivi di origine diversa (egiziana, di tradizione vicino-orientale e greca). Accanto a esemplari più fedeli alle convenzioni narrative e tecniche della produzione propria della regione, vi sono reperti realizzati in una serie di stili tecnici (secondo J. Boardman: «puro» stile fenicio di difficile individuazione, greco-persiano o greco-punico) espressi nei limiti di un linguaggio relativamente uniforme e prevalentemente indirizzato alle valenze simboliche e magiche delle iconografie. Iconografie nelle quali comunque è sempre prioritaria l'incidenza dell'Egitto e la presenza di temi attestati negli avori e nelle coppe (scarabeo a quattro ali, Horas sul fiore di loto, sfingi alate affrontate ai lati dell'albero sacro, mucca che allatta il vitello, ecc.). È verosimile attribuire ai Fenici e a maestranze itineranti la diffusione e l'imitazione nelle altre zone.
Per quanto concerne i numerosissimi scarabei restituiti dalle aree interessate dalla colonizzazione fenicia, la distinzione più qualificante è basata sul materiale. Gli scarabei e scaraboidi di pasta smaltata rinvenuti nella colonie occidentali in tombe della fase più antica (VII-VI sec. a.C.) rivelano, per convergenza di elementi tecnici, iconografici, stilistici e talora epigrafici, una fattura egiziana e quindi un'importazione per via diretta (Naukratis e Memfi) e solo in qualche caso un'imitazione molto aderente ai modelli originari. Gli scarabei in pietra dura (diaspro verde, corniola, agata, alabastro, radice di lapislazzuli) risultano invece di ambientazione occidentale, anche in considerazione del fatto che in Egitto la produzione di tale genere si esaurisce.
La vasta distribuzione degli scarabei in diaspro verde scuro in Sardegna e in particolare a Tharros, la documentazione iconografica in tale località più variata e ricca anche quantitativamente rispetto a Cartagine, nonché l'individuazione di giacimenti di diaspro nell'entroterra di Tharros (Monte Arci), già sfruttati nell'antichità, sono tutti elementi che concomitantemente hanno rivelato quest'ultimo quale maggiore centro di produzione e irradiazione nell'area sarda. Primario e unico, quindi, risulta il ruolo svolto dagli opifici di Tharros attivi nel periodo compreso tra il VI e il III sec. a.C. e operanti anche con funzione irradiante nei confronti di altri centri: Cartagine e Ibiza, che restano in posizione secondaria e subordinata. Ai reperti che riproducono temi di antica tradizione fenicia e in genere vicino-orientale, eseguiti nella migliore tradizione glittica fenicia, si affianca e si sviluppa di seguito una produzione che, pur nella pluralità delle componenti espresse con una variata gamma di tecniche (incisione lineare, drill-hole, «a globolo») e di moduli stilistici diversi (per i quali si è individuata anche l'opera di maestri incisori di scuola tirrenica), offre soluzioni autonome e originali di cultura figurativa punica.
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(G. Pisano)
Mesopotamia. - A partire dal VII millennio a.C. sono attestati stampi in argilla e in pietra, rinvenuti in alcuni siti della Turchia (Çatal Hüyük, Hacılar, Çayönü), nell'Iraq nord-orientale (Ğarmo), a Haǰǰi Firuz nell'Iran nordoccidentale, a Gerico e soprattutto in Siria (Ras Šamra, Buqras, al-Kaum e Biblo). Utilizzati su pane, tessuti, cuoio o ceramica e verisímilmente in origine affiancati da oggetti analoghi in materiali deperibili quali legno e osso, presentano motivi geometrici, talvolta abbastanza elaborati, che attestano contatti a lunga distanza anche fino all'Europa sud-orientale.
Le prime testimonianze dell'uso dei sigilli per scopi amministrativi risalgono al V miillennio a.C. Nel sito di Arpačiya nell'Iraq settentrionale, in un livello appartenente alla cultura di Ḥalaf, sono state rinvenute diverse cretule di argilla di forma affusolata, accuratamente sagomate attorno ai nodi delle corde utilizzate per legare delle merci e impresse con piccoli sigilli, alcuni dei quali a forma di mano, incisi con motivi lineari. Il rinvenimento negli stessi livelli di amuleti di pietra di forma simile con fori di sospensione, dimostra che erano questi gli oggetti usati per sigillare, e illustra lo stretto rapporto che esisteva nel Vicino Oriente fra sigillo e amuleto. Come gli amuleti assicuravano a chi li indossava una protezione personale, così i sigilli erano posti a protezione di merci, documenti legali e transazioni. Successivamente i sigilli passarono a proteggere il loro proprietario, e il loro uso viene specificato in testi medici del II e I millennio a.C. Alcune pietre incise potevano essere utilizzate come sigilli sebbene fossero originariamente degli amuleti. Appartengono a questa categoria i sigilli a stampo a forma di timpano che portano rappresentazioni di animali, diffusi tra la Turchia centrale e la Siria settentrionale durante il IV millennio a.C. Così sono anche i numerosissimi amuleti a forma di animale e i sigilli-amuleto emisferici, a forma di tavoletta e a forma di rene della fine del IV millennio, spesso con semplici motivi eseguiti col trapano, rinvenuti in tutta la Mesopotamia, a volte sepolti a protezione delle fondazioni dei templi come a Tell Brak in Siria ma dei quali non si conoscono impronte.
Dalle sue origini ad Arpačya, l'uso di sigilli a stampo si diffuse nel corso dei duemila anni successivi. Le rappresentazioni si fecero più elaborate con una preferenza per le raffigurazioni di animali e di uomini impegnati nella caccia, nel sesso e nel culto. I gruppi più numerosi di sigilli e di impronte sono stati rinvenuti a Değirmentepe nella Turchia centro-orientale, a Tepe Gawra nell'Iraq settentrionale e a Susa nell'Iran sud-occidentale. I materiali divennero sempre più varí, comprendendo persino il lapislazzuli afghano. I sigilli, generalmente tondi o quadrati, presentavano dei fori di sospensione e spesso una presa o un pomello per facilitarne l'uso.
L'invenzione del sigillo cilindrico segna il declino dei sigilli a stampo: questi continuarono a essere utilizzati fra le culture prive di scrittura o da popolazioni che scrivevano su materiali deperibili come il cuoio, fatto questo che rende difficile la loro datazione. Lo stampo divenne il principale tipo di sigillo nel Golfo Persico e nella Valle dell'Indo tra la fine del III e l'inizio del II millennio a.C.
Il sigillo cilindrico si diffuse subito dopo il 3500 a.C. a Uruk, nella bassa Mesopotamia, e a Susa, nell'Iran sud-occidentale, usato per impronte su documenti d'argilla. La dimensione ideale di un cilindro è c.a 2/2,5 cm di altezza e 1/1,5 cm di diametro; in certi periodi vennero preferite pietre di maggiore o minore grandezza, per le quali tuttavia mancano testimonianze di un vero uso come sigillo. Generalmente i sigilli erano di pietra, il cui tipo variava a seconda della moda, della disponibilità e delle capacità tecniche, con una tendenza generale a passare dalle pietre morbide a quelle dure. Per millenni i sigilli furono lavorati con attrezzi di selce o rame, ma l'elemento principale fu sempre un buon abrasivo, quale lo smeriglio di Nasso nell'Egeo o della costa dell'India occidentale. Non ci sono testimonianze sull'uso di sistemi per ingrandire l'immagine durante la lavorazione, ma è possibile che ci si servisse di artigiani miopi, poiché la miopia rende possibile mettere a fuoco un oggetto a distanza ravvicinata e quindi ingrandito. E poiché la miopia è ereditaria, è possibile che l'arte si tramandasse di padre in figlio.
I sigilli più antichi erano di grandi dimensioni, in genere intagliati in pietre morbide con strumenti tenuti in mano, o forse anche in materiali deperibili, poiché di molte impronte non si conoscono i sigilli corrispondenti. Alcuni non sono perforati e presentano un pomello sulla cima, spesso dalla forma animale, che poteva essere scolpito nella stessa pietra del sigillo oppure fatto con una pietra differente o con il rame e quindi applicato. Alcuni sigilli venivano perforati longitudinalmente, procedimento che diventerà poi la norma.
I motivi principali dei sigilli dell'età di Uruk erano costituiti da file di animali e da scene in cui una figura, tradizionalmente intesa come il «re-sacerdote», svolge le sue funzioni di capo secolare e religioso. Egli compare barbato, con capelli lunghi tenuti sulla fronte da una spessa fascia e indossa una gonna a rete; nutre le greggi del tempio, sottomette i prigionieri, viaggia su imbarcazioni cerimoniali e sta di fronte ad altari sostenuti da tori. Alcune impronte di sigillo sono basate su variazioni di motivi di serpenti e uccelli intrecciati.
I primi sigilli cilindrici vennero impressi su sfere di argilla contenenti «gettoni» (tokens) che rappresentavano l'ammontare della merce spedita e che in caso di contestazioni potevano essere contati rompendo l'involucro; questo tipo di documento è conosciuto soprattutto a Susa. A Uruk i sigilli venivano rotolati su tavolette d'argilla iscritte con i precedessori pittografici della scrittura cuneiforme. Quest'ultima divenne il principale veicolo di trasmissione del sigillo cilindrico: dove veniva usata la prima veniva conseguentemente adottato il secondo. In certi casi culture che usavano prevalentemente i sigilli a stampo adottarono la scrittura cuneiforme sviluppando un ibrido, lo stampo cilindrico: si tratta di un cilindro privo di foro che presenta un disegno inciso anche alla sua base e che poteva essere utilizzato nello stesso tempo come sigillo a stampo.
Questi stampi cilindrici furono adottati dagli Ittiti e dagli Urartei. La recente scoperta di stampi cilindrici in Asia centrale comporta importanti implicazioni per quanto concerne la diffusione del commercio mesopotamico nel corso del II millennio a.C.
Impronte di sigilli cilindrici con lo stile di Uruk sono stati rinvenuti lungo l'Eufrate in Siria e Turchia (Habùba Rabira e Malatya) e verso E in Iran (Susa).
Un altro tipo di sigillo è conosciuto più da esempi reali che da impronte e verisímilmente restò in uso piuttosto a lungo. Conosciuto tradizionalmente come il tipo di Ğemdet Naṣr, presenta un'altezza e un diametro di c.a 2 cm; di pietra calcarea colorata, spesso rossa o rosa, è lavorato a trapano, con fregi di donne con la treccia che lavorano vasi, tessono oppure compiono cerimonie. Esempi provengono soprattutto dall'Iran, dalla Mesopotamia e dalla Siria, influenzando anche l'Egitto, che adottò il sigillo a cilindro alla fine del IV millennio a.C. utilizzandolo per più di mille anni.
Lo stile di Ğemdet Naṣr, che usava il trapano assieme alla lima, si mantenne per i grandi sigilli di calcare della regione del Diyāla; greggi presso edifici templari costituivano il soggetto principale. Il Diyāla divenne parte della rete commerciale che univa Susa alla Siria passando per la bassa Mesopotamia. Uno stile internazionale, alle volte definito Pedemontano o Ninivita 5, è attestato nei siti dislocati lungo questa direttrice. Sono caratteristici i motivi a scala, cerchi tratteggiati e archi. Accanto a questi vi erano molti stili locali fra i quali il più caratteristico è quello proto-elamita, in cui gli animali assumono un comportamento umano venendo rappresentati nell'atto di banchettare o suonare strumenti musicali. Un altro stile è quello «a broccato», nel Diyāla, con motivi lineari di animali intrecciati su sigilli alti e sottili.
Durante il periodo proto-dinastico, a partire dal 2750 a.C., si svilupparono una serie di motivi più elaborati, tra cui scene di culto in cui compaiono esseri umani, che spesso prendono parte a banchetti. Intorno al 2600 a.C. le scene di banchetto avevano raggiunto un pieno sviluppo e i partecipanti, a volte accompagnati da musicisti, vengono rappresentati nell'atto di bere da una giara facendo uso di canne o da coppe tenute in mano. Spesso queste scene sono distribuite su due registri. Una seconda scena molto frequente, talvolta in combinazione con la prima, è quella del combattimento fra animali. Qui un eroe viene rappresentato nell'atto di proteggere le specie addomesticate dall'attacco di leoni o, occasionalmente, di leopardi. Entrambe le scene continuarono a essere diffuse anche più tardi nell'area vicino-orientale, soprattutto in Mesopotamia.
Tra il 2340 e il 2200 a.C. l'arte dell'intaglio del sigillo raggiunse il massimo dell'eccellenza all'interno delle officine reali della dinastia accadica. I fregi con combattimenti di animali ed eroi vennero semplificati alla fine del periodo accadico, quando due coppie di contendenti di pari valore incorniciano un'iscrizione. Le scene di banchetto furono sostituite da una scena di presentazione in cui il proprietario del sigillo viene condotto da una divinità minore al cospetto di una divinità seduta. Spesso tali scene vengono combinate con rappresentazioni mitologiche e combattimenti fra divinità. Le divinità si identificano per il copricapo a corna e per i loro attributi caratteristici che sono spesso l'espressione della loro duplice natura sumerica e accadica: un coltello seghettato per il dio solare Utu/Šamaš, utilizzato per aprirsi la strada attraverso le montagne dell'Est; ali, armi che si levano dalle spalle e un grappolo di datteri per Inanna/Ištar, nella quale confluiscono elementi della fertilità e della guerra; rivoli d'acque e pesci per il dio Enki/Ea, spesso accompagnato dal suo assistente bifronte e dall'uccello Zu che ha sottratto le Tavole del Destino. I sigilli sono grandi, spesso dai lati concavi, e fatti di materiali diversi, il più delle volte serpentina ma anche pietre verdi o quarzi duri (diaspro rosso e bianco, diaspro verde, cristallo di rocca).
Durante la successiva rinascita neo-sumerica, il re Šulgi (2094-2047 a.C.) riorganizzò l'amministrazione. Si sono conservate migliaia di tavolette amministrative con impronte di sigilli che i funzionari cambiavano regolarmente ogni qual volta avanzavano nella gerarchia. La elorite, che rimpiazzò la serpentina, divenne il materiale dominante. La gamma delle rappresentazioni si restrinse a scene di combattimento con tre personaggi (generalmente una figura umana attaccata da due leoni) e alle scene di presentazione. Spesso una lunga iscrizione, in forma di preghiera, forniva i nomi del re e dei funzionari rappresentati.
Meno di mezzo secolo dopo la morte di Šulgi, la III dinastia di Ur crollò, seguita da un secolo oscuro. A partire dal 1900 a.C. mercanti provenienti da Assur si insediarono nella Turchia centrale, mentre Babilonia, Sippar, Mari e Karkemiš sull'Eufrate erano parte di una fittissima rete commerciale; Ešnuna, sulla via che porta all'Iran, divenne attiva nella rinata direttrice Susa-Siria.
I sigilli del periodo paleo-babilonese (1900-1600 a.C.) presentano dapprima uno sviluppo delle rappresentazioni utilizzate durante la III dinastia di Ur. Divenne popolare il dio della tempesta Adad, soprattutto in Siria e Turchia. Nelle scene di combattimento i leoni aggressori vengono affiancati dai grifoni con uomini inginocchiati e capridi accucciati a far da vittime.
Sebbene i motivi rimanessero gli stessi, la loro esecuzione variava da area ad area. A Babilonia compare generalmente un'iscrizione su tre righe e spesso vengono aggiunti simboli divini. In Iran le corna del copricapo divino sono divergenti, gli adoranti hanno capelli rigonfi e le figure spesso atteggiano le loro braccia in una maniera caratteristica. In Siria il sovrano porta un grande copricapo ovale e un abito dagli spessi bordi mentre la dea veste sovente un abito similare con una tiara di forma cilindrica con corna; i motivi di riempimento provengono spesso dal repertorio egiziano. In Turchia gli abiti dei personaggi e dei molti animali, oltre alle teste che riempiono lo sfondo, sono incisi e modellati in modo elaborato. In tutta l'area l'ematite costituiva il materiale più comunemente usato e i sigilli avevano le dimensioni ideali per il loro uso.
Tra il 1600 c.a e il 1450 vi sono poche testimonianze di sviluppi nella glittica. La scoperta di un sistema rapido e poco costoso nella fabbricazione di sigilli cilindrici di pasta vitrea (faïence) portò verso una produzione in massa di vaghi e sigilli invetriati che vennero commercializzati in tutto il Vicino Oriente, ma in special modo si diffusero nell'impero mitannico, nella Siria settentrionale. Figure umane e animali venivano spesso disposti ai due lati di un albero terminante con dei globuli. In contrasto con questa tendenza, diventarono popolari i sigilli dei periodi più antichi e si diffusero tipi di pietra dura, spesso conglomerati di quarzo. I motivi della Babilonia cassita erano tratti dal repertorio paleo-babilonese presentando una lunga iscrizione, di frequente una preghiera, oppure trattavano soggetti mitici. Le splendide rappresentazioni dei sigilli medioassiri mostrano lotte di demoni e mostri oppure animali che saltano verso un albero. L'uso dei sigilli cilindrici si diffuse fino a Cipro dove gli esempi più raffinati, di ematite, mostrano personaggi dalla testa animale nell'atto di afferrare animali. Anche l'area egea adottò occasionalmente il sigillo a cilindro, producendo pregevoli stili ibridi quali quello cipro-mitannico e quello cipro-minoico.
Dopo un periodo di decadenza tra il 1200 e l'inizio del I millennio a.C., in Mesopotamia il sigillo cilindrico conobbe una nuova fortuna, probabilmente per influenza siriana, poiché divennero popolari motivi egittizzanti, come il disco solare alato. Si usavano molti materiali diversi dai quali dipendevano gli stili dell'intaglio del sigillo. La serpentina, ben conosciuta sin dall'età accadica, servì per realizzare sigilli in stile lineare raffiguranti sovrani assiri seduti o stanti coi loro attendenti di fronte a una tavola per offerte, oppure animali e mostri che si inseguono vicendevolmente. Quest'ultimo soggetto compare anche su sigilli di pietra dura, spesso corniola; tuttavia il trapano e la lima usati per intagliarli portarono a uno stile più affrettato ma meno statico. Sebbene sia difficile determinare gli stili regionali e stabilirne le cronologie, è probabile che molti di questi sigilli in cut-style fossero babilonesi. La datazione dei sigilli della prima metà del I millennio a.C. è resa difficile dal fatto che pochi di essi portano iscrizioni. C'è però un piccolo gruppo di calcedoni e corniole lavorati con trapano e lima, collocabili intorno all'8oo a.C., raffiguranti funzionari assiri di fronte a divinità. I contemporanei sigilli babilonesi erano di migliore qualità. Si preferiva la rappresentazione di eroi divini dalle spade ricurve che protendono una gamba al momento di attaccare un animale o un mostro. Dalla fine dell'VIII sec. tuttavia gli stili di Assiria e Babilonia si fusero rappresentando geni, molte volte alati, mentre afferrano animali ai loro lati.
Questo motivo fu adottato in Iran dagli Achemenidi all'inizio del V sec. a.C., quando crearono uno stile imperiale in cui un eroe regale viene posto tra animali e mostri, spesso sotto un egittizzante disco solare alato. I raffinati sigilli di calcedonio, corniola e agata rappresentano comunque il canto del cigno del sigillo cilindrico; tranne l'amministrazione reale, la maggior parte degli abitanti del vasto impero achemenide tornò a utilizzare ancora una volta i sigilli a stampo.
Sebbene finora manchino esempi concreti, a partire dal IX sec. l'amministrazione assira aveva già adottato come sigillo regale uno stampo che raffigurava il sovrano nell'atto di afferrare un leone. Molti di questi sigilli, noti dalle loro impronte, variano considerevolmente nelle dimensioni e sono circondati da incorniciature differenti. Questo motivo venne adottato anche dai Persiani per sigilli conoidali di calcedonio, lapislazzuli e vetro. I Babilonesi usavano di frequente forme piramidali dall'impronta ottagonale e incisi, spesso in modo véramente affrettato, con un sacerdote davanti a simboli divini o a un altare: lo stesso soggetto era reso in modo più raffinato sui sigilli a cilindro, e continuò a essere in uso sino all'inizio del V sec. a.C. Durante il V sec. a.C. i Persiani entrarono in contatto con i Greci e si servirono di artigiani ionici per le loro realizzazioni edilizie. I motivi arcaici, classici ed ellenistici ebbero un impatto duraturo nella g. vicino orientale, ma anche lo stesso Oriente fu in ispiratore dell'arte greca.
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(D. Collon)
Iran storico. - Se i sigilli cilindrici prodotti nei territori dell'impero achemenide rappresentano un capitolo della g. mesopotamica (v. paragrafo precedente), con i gruppi di gemme dette «greco-persiane» ci troviamo di fronte a una produzione originale di sigilli a stampo, legata all'incontro su terra achemenide tra la g. ellenistica delle regioni dell'Oriente (gemme greco-orientali) e le visioni stilistiche del mondo iranico. Classificata in modo esauriente da J. Boardman, la g. greco-persiana si caratterizza per la grande diffusione di pietre di forma scaraboide e, soprattutto, per l'uso comune di tecniche di incisione «a globolo», che costruiscono la figura con elementi incisi globulari privi di rifinitura. Officine «greco-persiane» sembrano essere state presenti su tutto il territorio achemenide, fino al Nord-Ovest dell'India, per tutto il IV e parte del III sec. a.C.
La conquista macedone e la successiva dominazione seleucide non portarono solo all'affermazione definitiva dei sigilli a stampo e delle gemme da anello, ma a una vasta diffusione delle iconografie e degli stili dell'ellenismo, particolarmente evidente in centri di cultura ellenistica quali Seleucia sul Tigri. Nonostante l'ampio margine di oscillazione nella datazione dei sigilli di tutta la regione (come in genere di tutti i sigilli), non è da escludere che la migrazione verso Oriente di motivi e forme ellenistiche, in ambito sfragistico, possa in qualche caso risalire a quest'epoca.
La g. del periodo partico è mal nota, perché molto spesso confusa con quella, ampiamente documentata, del periodo sasanide. Di particolare interesse sono le gemme rinvenute a Merv (Margiana), dove nel I-II sec. d.C. troviamo rappresentati motivi di tradizione occidentale quali la Nike o Eracle accanto a motivi iranici ben attestati poi in ambito sasanide, quale p.es. la fiera che assale la preda. Un quadro simile è offerto dalle cretule rinvenute a Nisa Vecchia, datate alla fine del li-inizi del III sec. d.C., con impronte di sigilli più antichi. La produzione glittica partica successiva all'inizio dell'era cristiana si svolse in modo indipendente dall'influsso ellenistico, di pari passo con la diffusione dei sigilli in strati sociali più ampi; interessante a riguardo è la documentazione offerta dalle cretule recentemente portate alla luce a Göböklï (Margiana).
Nel periodo sasanide tale diffusione raggiunse il suo apice, come testimoniano le migliaia di sigilli in pietra conservati in musei e collezioni private di tutto il mondo. Meglio nota grazie all'interesse da parte degli studiosi già a partire dalla fine del secolo scorso, la produzione glittica sasanide trova un utile raffronto nei diversi gruppi unitari di cretule (bullae) rinvenuti a Qasr-e Abu Nasr, Takht-e Soleymān e in altri siti.
Non ancora inquadrata con certezza nella sua cronologia (dal III al VII sec. d.C.), la g. sasanide presenta un'ampia varietà di temi: ritratti convenzionali, raffigurazioni di divinità, animali, piante, simboli e monogrammi. Di particolare pregio sono i sigilli con ritratti reali, prodotti in officine in cui la tradizione ellenistica non era stata del tutto dimenticata. Spesso i motivi figurati sono accompagnati da brevi iscrizioni mediopersiane, di carattere augurale o dedicatorio. Molti dei soggetti avevano verosimilmente un significato simbolico e augurale, connesso alle proprietà magiche delle pietre utilizzate. Le diverse forme stilistiche sono state riassunte da C. J. Brunner nei seguenti gruppi, distinti sulla base del rendimento delle figure, progressivamente semplificate e schematizzate: a) naturalistico; b) convenzionale; c) semplificato; d) scontornato; e) graffiato.
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(P. Callieri)
Asia centrale. - La conoscenza della g. di età storica delle regioni centroasiatiche è legata alle diverse vicende degli studi archeologici nelle due aree ex-sovietica e cinese. Nella prima, comprendente oltre alla Partia e alla Margiana, la Chorasmia, la Battriana settentrionale, la Sogdiana e le aree più a oriente (Ferghana, Semireč'e), le estese ricerche condotte dagli archeologi sovietici hanno portato alla luce nuovi materiali che si sono aggiunti a quanto già raccolto nei musei dall'opera di studiosi e collezionisti del secolo scorso e dei primi anni di questo, quali N. F. Petrovskij e B. N. Kastalskij. Mancano però monografie specifiche sugli stili e la cronologia della g. di produzione locale, mentre interesse maggiore hanno destato i sigilli di ispirazione ellenistica o di importazione dal bacino del Mediterraneo. Una particolare classe di sigilli in pietra, attestata anche nel Gandhāra e nell'India settentrionale, è quella riconducibile al mondo delle genti centroasiatiche che dalla fine del IV al VI sec. d.C. dominarono anche sulle regioni nord-occidentali e settentrionali del subcontinente indiano (Hūṇa): su questi sigilli troviamo ritratti convenzionali e iscrizioni in scrittura battriana o in brāhmī (una delle scritture sillabiche utilizzate nell'India antica per trascrivere le lingue pracrite). A un'epoca compresa tra la fine del VII e gli inizi dell'VIII sec. d.C. risalgono le cretule con impronte di sigilli ritrattistici, rinvenute assieme a documenti scritti nel castello sul Monte Mug in Sogdiana.
Per il bacino del Tarim (Xinjiang cinese) la scarsità di nuove informazioni sulla g. delle antiche città carovaniere è compensata dall'abbondante documentazione raccolta dalle spedizioni condotte dagli archeologi occidentali tra la fine del secolo scorso e gli anni della prima guerra mondiale. La produzione di sigilli locali comprende, oltre agli oggetti in pietra, anche quelli in metallo, osso e vetro, e presenta le caratteristiche proprie di una regione aperta alle sollecitazioni culturali delle diverse genti che la popolavano e delle aree limitrofe. Nella grande varietà di forme prevalgono i sigilli circolari e quelli a losanga, frequentemente con presa sul retro. I motivi raffigurati sono decorativi o figurati; tra questi ultimi, i temi animalistici mostrano il peso dell'elemento nomadico, mentre nelle rappresentazioni di figure umane sono riconoscibili influenze iraniche ed ellenistiche. I sigilli di tipo ellenistico, rinvenuti soprattutto a Niya e Khotan, ci mostrano iconografie quali Atena, Eros, Zeus, Eracle, in una resa stilistica naturalistica che sembra indicare l'attività di incisori occidentali emigrati (attestata, sembra, nel Gandhāra) o l'importazione delle gemme già lavorate. Sicuramente importati sono i numerosi sigilli cinesi, di forma quadrata o rettangolare, con ideogrammi. Lo studio dei sigilli è completato da quello delle loro impronte sulle cretule di argilla cruda che sigillavano documenti o recipienti, conservate in gran numero dal clima secco.
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(P. Callieri)
Afghanistan e Nord-Ovest dell'India. - Il carattere prevalentemente antiquario delle maggiori raccolte di sigilli e la mancanza di rinvenimenti quantitativamente significativi di impronte su argilla di provenienza stratigrafica non hanno impedito lo studio della g. (e in genere di tutta la sfragistica) in questa ampia regione di confine tra l'altopiano iranico e le pianure indiane, in cui la fenomenologia artistica vede nella scultura c.d. del Gandhāra il principale punto di indagine. Per il fitto succedersi di dominazioni straniere e per il fondamentale ruolo tenuto dal commercio nell'economia regionale, la g. dell'Afghanistan e del Nord-Ovest dell'India ci appare estremamente eterogenea, con numerosi gruppi di sigilli prodotti localmente e altrettanti importati da aree esterne. Nel periodo storico le testimonianze più antiche risalgono al IV e III sec. a.C., quando la produzione più diffusa era quella «greco-persiana» (forse in parte di produzione locale), affiancata da sigilli di forma piramidale di tradizione locale. Per il periodo indogreco (II sec. a.C.) mancano sigilli di attribuzione certa, anche se alcune gemme con iconografie ellenistiche, verisímilmente prodotte sul posto, potrebbero risalire a quest'epoca. L'attribuzione al periodo indo-greco di tre sigilli iscritti dovuti a tradizioni artigianali diverse proposta su base paleografica da G. Fussman rappresenterebbe, qualora le iscrizioni fossero senz'altro contemporanee ai soggetti raffigurati sui sigilli, una testimonianza interessante della g. del periodo, in cui coesisterebbero sigilli ellenistici, sigilli di tradizione locale privi di influsso ellenistico sia nell'iconografia sia nella tecnica esecutiva e sigilli «greco-persiani». Di particolare interesse sarebbe la conferma dell'ipotesi che alcune officine «greco-persiane» avevano continuato a operare nel Nord-Ovest anche nel II sec. a.C.
È con il I sec. d.C. e in particolare con il gruppo dei granati rinvenuti in un contesto stratigrafico di età pertica nell'abitato di Sirkap a Taxila che appare meglio documentata una produzione glittica locale di tradizione occidentale, che ripete in un linguaggio ellenistico iconografie classiche già presenti sulla monetazione indo-greca; l'utilizzazione di pietre indiane, in forme che nella g. del Mediterraneo sono piuttosto rare, e lievi varianti iconografiche suggeriscono l'origine locale di questi sigilli, che sono affiancati dalla graduale diffusione di gemme romane importate, che prosegue anche in età kuṣāṇa. Di grande interesse, ma purtroppo di irresolvibile problematicità, sono le gemme romane con iscrizioni kharoṣṭhī (la scrittura sillabica utilizzata nel Nord-Ovest per la lingua pracrita), dove è spesso impossibile accertare se l'iscrizione sia stata aggiunta a una gemma importata o se invece rappresenti una testimonianza inconfutabile della produzione locale. Oltre all'evidenza stratigrafica di Taxila, è l'adesione non solo tecnico-stilistica, ma anche iconografica, ai modelli occidentali a far proporre di datare al I sec. d.C. l'insieme dei sigilli del Nord-Ovest di questo gruppo. A Sirkap quest'epoca è ricchissima di prodotti ellenistici, ed è ipotizzabile che, per la richiesta dei sovrani partici, nel Nord-Ovest sia arrivato un primo gruppo di incisori occidentali.
Ancora l'evidenza stratigrafica di Sirkap (in negativo) e i confronti con la monetazione kuṣāṇa e con la g. romana del II-III sec. d.C. permettono di collocare in questo periodo il più numeroso gruppo di sigilli del Nord-Ovest, che P. Callieri propone di denominare «delle divinità tutelari gandhariche». È una produzione in cui è chiara la dipendenza tecnico-stilistica dai modelli romani, che sembra giustificarsi solo con la presenza diretta di un secondo gruppo di artigiani emigrati: le iconografie però, pur derivando dai tipi occidentali, sono ormai originali, espressione della religiosità locale. È una produzione parallela a quella numismatica, con reciproche influenze, dove però l'ampio pantheon kuṣāṇa si restringe a poche diverse forme di divinità affini tra loro, con popolarità locale (e una minima importanza del buddhismo). Le forme preferite sono le gemme di tipo scaraboide, forate, e quelle ovali convesse da castone, con una predilezione per calcedoni e granati. Questo gruppo rappresenta la quasi totalità della produzione glittica del Nord-Ovest di età kuṣāṇa, assieme a un altro gruppo di minore consistenza numerica di sigilli legati più specificamente a un ambiente di corte kuṣāṇa.
Con la fine dei Kuṣāṇa e l'arrivo dei Sasanidi verisímilmente iniziò il flusso di sigilli sasanidi, abbondantemente documentati nella regione. La g. locale post- kuṣāṇa risente di questa presenza sasanide, anche se pochi sono i sigilli con iconografie legate specificamente ai Kušānšāhān, i principi sasanidi che governavano la regione. Con i c.d. Kidariti e gli Eftaliti in tutta l'ampia regione compresa tra l'Asia centrale e l'India settentrionale (v. paragrafo precedente), compaiono classi ben definite di sigilli ritrattistici, quasi tutti di forma ovale convessa, con una prevalenza di granati e cristallo di rocca, disposte in sequenza dalla fine del IV al VI sec. d.C. Se questi materiali mostrano una componente sasanide, che di pari passo con l'emancipazione politica si fa progressivamente più flebile, altri sigilli del Nord-Ovest post- kuṣāṇa oltre all'influsso sasanide manifestano il peso notevole dell'arte indiana di epoca gupta. L'arte gupta, che ha prodotto alcuni sigilli importati nel Nord-Ovest, è parimenti alla base di alcuni sigilli databili intorno al V sec. d.C. documentati solo dalle impronte sui contrassegni d'argilla cotta rinvenuti a Kula Dheri nel Gandhāra.
L'ultima testimonianza della g. pre-islamica riguarda il periodo degli Hindu-Śāhi, tra l'VIII e il X sec. d.C.
Oltre ai sigilli in pietra, vanno ricordati quelli in altri materiali, particolarmente quelli in metallo, che in origine rappresentavano la produzione più «povera» ma di maggiore diffusione, giunta a noi in quantità esigua.
Bibl.: E. Senart, Notes d'épigraphie indienne II. Sur quelques pierres gravées provenant du Caboul, in Journal Asiatique, XIII, 1889, pp. 364-375; J. Marshall, Taxila, Cambridge 1951; A. D. H. Bivar, The Kushano-Sassanian Episode (diss.), Oxford 1955; id., An Unknown Punjab Seal-Collector, in JNSI, XXIII, 1961, pp. 309-327; B. N. Mukherjee, Nana on Lion, Calcutta 1969; G. Fussman, Intailles et empreintes indiennes du Cabinet des Médailles de Paris, in RevNum, XIV, 1972, pp. 21-47; V. Sarianidi, Bactrian Gold from the Excavations of the Tillya-Tepe Necropolis in Northern Afghanistan, Leningrado 1985; P. Callieri, I sigilli e le cretule del Nord-Ovest del sub-continente indiano e dell'Afghanistan (IVsec. a.C.-X sec. d.C.) (diss.), Napoli 1986; id., La glittica romana nel Gandhāra: presenze e influssi, in RendLinc, s. vin, XLIV, 1991, pp. 243-254; id., New Perspectives in the Appreciation of the Gandharan Culture: A Contribution from the Sphragistic, in G. Bhattacharya (ed.), Aksayantvl, Essays Presented to Dr. Debaia Mitra in Admiration of Her Scholarly Contribution, Delhi 1991, pp. 67-72.
(P. Callieri)
India storica. - La g. dell'India storica è nota, oltre che dalle gemme raccolte nel secolo scorso da A. Cunningham e da altri studiosi e antiquari britannici e conservate in massima parte in Gran Bretagna e in India, soprattutto dalle impronte di sigillo sulle centinaia di cretule portate alla luce dagli scavi archeologici in numerosi siti. Lo studio delle cretule, spesso scoperte in veri e propri depositi o archivi, tra cui ricordiamo quelli di Nālandā, Vaiśālī e Rājbāḍīḍaṇga, permette inoltre un'interessante indagine sui sistemi di chiusura e di archiviazione. Pur mancando una sistemazione cronologica organica dei diversi gruppi stilistici, la datazione dei sigilli indiani è resa più agevole dallo studio paleografico delle iscrizioni che frequentemente completano le raffigurazioni, in genere a esse coeve.
Le testimonianze più antiche (escludendo i sigilli della valle dell'Indo) risalgono al IV-III sec. a.C., ma è per l'età gupta e post-gupta, tra il IV e il VII sec. d.C., che disponiamo delle più ampie testimonianze, relative a tutte le sfere sociali, da quella dell'aristocrazia di corte alle istituzioni religiose e a quelle commerciali. Un sito di particolare rilievo per la conoscenza della g. indiana è rappresentato da Räjghät, nei pressi di Benares, dove assieme a impronte di sigilli appartenenti alle successive principali fasi della storia della città antica, dal I sec. a.C. al VI d.C., sono state rinvenute, in un contesto stratigrafico databile al II-III sec. d.C., numerose cretule con impronte di sigilli ellenistici per iconografia e stile. Il peso della g. mediterranea di tradizione ellenistico-romana, già particolarmente evidente nel Nord-Ovest del subcontinente, è avvertito anche nella g. indiana di età gupta, come testimoniano diversi dei sigilli in pietra di quest'epoca giunti sino a noi: sembra plausibile un contatto diretto con il mondo tardo-romano, piuttosto che un retaggio gandharico.
Le iconografie rappresentate sui sigilli indiani comprendono figure umane o divinità antropomorfiche, animali, elementi vegetali e simboli o monogrammi, in gran parte di significato religioso pertinente alle principali correnti devozionali (buddhiste, scivaite e visnuite); non mancano però i sigilli con sola iscrizione, privi di raffigurazione figurata. Le forme più comuni sono quelle ovali a cabochon, che venivano incastonate in anelli metallici. Sono utilizzate quasi tutte le varietà di pietre semi-preziose e preziose, scelte verisímilmente (come del resto in tutto il mondo antico) in relazione alle proprietà magiche e apotropaiche tradizionalmente loro attribuite, ma sono particolarmente diffuse proprio quelle pietre che anche le officine glittiche romane, secondo Plinio, importavano dall'India, quali il granato, il cristallo di rocca, la sardonica, l'agata e le sarda; sigilli in altri materiali di minore pregio (metalli, osso, conchiglie) avevano una grande diffusione, ma ci sono testimoniati in misura ridotta, sia per il minore interesse collezionistico che per la maggiore intrinseca deperibilità.
Bibl.: A. Cunningham, Description of Some Ancient Gems from Bactria, the Punjab and India, in JASB, X, 1841, pp. 147-157; T. Bloch, Excavations at Basarh, in ASIAR 1903-4, pp. 101-122; H. Shastri, The Clay Seals of Nälandä, in Epigraphia Indica, XXI, 1926, pp. 72-77; M. G. Dikshit, Cunningham Collection of Seals in the British Museum, in JNSI, XXII, 1960, pp. 123-130 (con molte attribuzioni errate!); Κ. Κ. Thaplyal, Studies in Ancient Indian Seals, Lucknow 1972; V. S. Agrawala, Varanasi Seals and Sealings, Benares 1984 (sulle cretule di Rājghāt).
(P. Callieri)