Glittica
Produzione specifica nella configurazione esecutiva e nella referenzialità stilistico-tematica, la glittica federiciana emerge nel panorama delle arti suntuarie dell'Italia meridionale della prima metà del sec. XIII come fenomeno di estrema complessità cui pertengono non soltanto problematiche interpretative di ordine generale inerenti la questione delle origini e delle caratteristiche produttive, della logica funzionale e dei parametri di destinazione dei singoli pezzi, bensì anche e soprattutto di ordine storico, relative cioè al loro inquadramento cronologico, fratto in sostanza e antiteticamente ‒ in sede critica ‒ nella polarizzazione fra le sedi di afferenza culturale e produttiva normanna e sveva, ovvero nella loro plausibile continuità o, ancora, nella sostanziale espunzione di una consistente quantità di opere e nella loro rivendicazione a botteghe dell'Italia settentrionale dei secoli successivi.
Lungo un simile versante critico e in generale nel quadro più ampio della ricerca sulla rinascita della lavorazione delle gemme in Occidente fra i secc. XII e XIV ‒ ovvero tra gli esiti della codificata tradizione bizantina e la successiva fioritura dell'intaglio nella Francia della fine del sec. XIII (Wentzel, Antiken-Imitationen, 1955) e quindi alla stessa corte di Carlo V (1364-1380) ‒ la questione della ripresa della glittica nell'Italia meridionale dopo il sacco latino di Costantinopoli e di quella ascrivibile alla committenza dello stesso Federico II, alle sue finalità politico-ideologiche e ai suoi interessi culturali, è apparsa quindi poco circoscrivibile dal punto di vista stilistico, dato il sincretismo culturale delle officine regie, la loro forte identità operativa e la continuità dei sistemi di realizzazione dei pezzi.
Il suo inquadramento specifico (Wentzel, 1941), unitamente a quello dell'età e dei luoghi segnati dal continuo itinerare della corte, è venuto pertanto profilandosi oltre che in termini di possibile coesistenza fra una produzione palatina elitaria e non omogenea e una produzione urbana attestata invece su tradizioni locali e aggiornamenti diversi (Calò Mariani, 1980), soprattutto in termini di cosciente adesione ai modelli classici, selezionati dal punto di vista stilistico e cronologico, in modo funzionale alle scelte dell'iconografia imperiale.
Sottesa a tali caratteristiche è la nozione stessa del classicismo federiciano, categoria espressiva definitivamente acquisita alle linee programmatiche politico-ideologiche del sovrano e tuttavia declinata dalle officine di corte con una tale eterogeneità, indipendenza e commistione di modelli ‒ locali, islamici, bizantini o francesi ‒ da renderne, nel lungo svolgimento del fenomeno, spesso polivalente l'identificazione.
Alla versione dell'antico fornita infatti dalla plastica attraverso il ricorso a una matrice oltremontana, corrisponde invece, in particolare nella glittica e nella monetazione di età sveva, il prevalere di una tendenza di tipo antiquariale, sostenuta da una documentata predilezione del sovrano per il collezionismo (ibid.; Pomarici, 1994) e per la pluralità delle sue valenze, in termini di conoscenza, tesaurizzazione, rielaborazione simbolica e veicolazione ideologica.
Emblematica in questo senso risulta dunque rispetto alle novecentottantasette voci dell'inventario del tesoro svevo dato in pegno ai genovesi nel 1253 (Byrne, 1935), l'incidenza numerica dei lavori di glittica suddivisi in cinquecentoundici lapides entaliateexcluse, trentacinque gemme montate in oro, argento o rame, sedici lapides de entalia e ottanta camioli privi di montatura, di cui tre vitrei e cinquanta cammei con montatura in oro, molti dei quali probabilmente antichi (Genova, Archivio di Stato, Not B de For. Reg III, c. 154v).
A tale serie vanno annessi, come distinta categoria, la magna scutella de onichio acquistata nel 1239 (Historia diplomatica, V, pp. 477-478), simile a quella in agata antica facente parte del reliquiario con i resti di s. Elisabetta (Stoccolma, Statens Historiska Museum) donato dal sovrano nel 1236 (Schramm, 1955), o il piccolo gruppo di vasi in onizilo e calzedono decorati e non in oro e forse passati attraverso il tesoro normanno, luogo aggregativo insieme a quello svevo di quanto dopo la divisione dell'Impero era rimasto in Occidente (Giuliano, 1980). Prodotti simili ‒ antichi o forse anche lavorati nella Sicilia del sec. XIII con intenti imitativi degli esemplari del passato e quindi confluiti nelle grandi raccolte rinascimentali ‒ una volta deprivati, all'interno di queste, degli interventi medievali, montature, assemblaggi o rielaborazioni, rendono tuttavia particolarmente difficile l'attribuzione critica (Gasparri, 1979), come per esempio nel caso delle due coppe in diaspro rosso cosiddetto di Sicilia conservate nelle collezioni medicee, caratterizzate da una forte adesione ai modelli fatimidi e forse dovute a maestranze arabe attive alla corte normanna o federiciana (Heikamp-Grote, 1975).
Quanto all'uso dei materiali, prevale fra le testimonianze riferibili all'età sveva ‒ in generale ricavate dalla lavorazione di gemme e pietre dure incise negativamente e in profondità (intaglio) o positivamente e in rilievo (cammeo) ‒ il ricorso a pietre preziose diverse per gli intagli, utilizzati nella realizzazione di matrici di sigilli, perlopiù anulari, e alla sardonica a più strati policromi per i cammei, destinati invece ‒ nella sia pur documentata varietà d'impiego ‒ a finalità ornamentali o celebrative specialmente nel caso di doni ufficiali.
Alla plausibile eventualità di ipotizzare nelle medesime strutture anche l'intaglio di vasi si è quindi recentemente affiancata ‒ cauta e tuttavia non escludibile ‒ l'ipotesi (Guastella, 1995) di riferire alla Sicilia di età normanno-sveva, nella crisi della committenza del califfato fatimide, anche lo sviluppo di produzioni ‒ come per esempio teche, lavori di sfaccettatura o vasi ‒ in cristallo di rocca (teca del reliquiario del Santo Sangue a Monreale, Tesoro della cattedrale).
Alimentate dagli indirizzi tematici della collezione classica, articolata in una parte celebrativa del potere (Giuliano, 1973) nella quale andarono accumulandosi 'cammei di stato' e rappresentazioni simboliche dell'Impero (Wentzel, 1962) e una parte configurata sulle scelte personali del sovrano secondo uno schema di accumulo ed emulazione di tipo protorinascimentale, le botteghe palatine, già attivate dalla dinastia normanna (Kahsnitz, 1977; Giuliano, 1988-1989), andarono di fatto incrementando l'esecuzione di copie e varianti di tali modelli mediante l'attività di incisori capaci di rielaborare gli esiti delle lavorazioni antiche con una continuità produttiva, all'interno del panorama suntuario, della quale ebbe a farsi garante non solo e non tanto la specifica committenza imperiale, quanto piuttosto la capacità innovativa stessa di tali strutture configurate dall'eccellenza tecnico-esecutiva delle opere e dalla continua referenzialità di una destinazione elitaria (Andaloro, 1995).
Fanno parte di un simile panorama opere le quali presentano, oltre a temi legati al potere regale, comprendenti ritratti, emblemi araldici, scene mitologiche piegate ad assunti politici o scene allegorico-celebrative, rari soggetti legati alla cultura cristiana prevalentemente veterotestamentaria.
Parallelismi stilistici, affinità esecutive ricorrenti come per esempio l'uso della Schwarzweisstechnik e l'assimilazione concettuale di buona parte dei pezzi alla categoria dei 'cammei di stato' (Wentzel, 1962), ampiamente testimoniata nella glittica del sec. IV e da questa passata a Bisanzio, hanno consentito alla critica l'individuazione di alcune serie di opere, rispetto alle quali la verosimile pertinenza imperiale, attuatasi attraverso l'uso personale ed esclusivo degli emblemi da parte dei membri della famiglia sveva ovvero tramite la consuetudine di donare questi ultimi agli ufficiali di corte, risulta sostenuta, nonostante le numerose incertezze interpretative, da circostanze fattuali precise.
Fra queste, nel quadro della sostanziale configurazione laica e pagana della glittica del sec. XIII, emergono la stretta relazione fra la ritrattistica imperiale e l'uso araldico dell'aquila presenti nella monetazione, la desunzione e la rielaborazione di taluni temi della mitologia antica in chiave commemorativa, la relativa esiguità delle raffigurazioni di tipo cristiano e ‒ non ultima ‒ la progressiva dissoluzione, alla fine del secolo, di tali assunti programmatici.
Centralità paradigmatica assume, in tale panorama, il cammeo posto sul recto della croce-reliquiario donata dall'imperatore Carlo IV al duomo di Praga (Tesoro della cattedrale) la cui diretta dipendenza dal sigillo imperiale degli anni intorno al 1220 ha supportato, da parte della critica, la sua attribuzione all'ambito svevo localizzato in area tedesca (Wentzel, 1943) o forse anche nell'Italia meridionale (Kahsnitz, 1977, 1979).
La sua referenzialità iconografica infatti, mentre offre parametri di carattere tecnico-stilistico connessi ‒ e senza soluzione di continuità ‒ alla produzione normanna (Deér, 1953), lungo un versante di polivalente classicismo cui è analogamente possibile far afferire sia il caso di un unicum come il busto con il puer Apuliae (Monaco, Staatliche Münzsammlung) irrisolto nella declinazione formale dell'impianto e ritenuto in passato postcostantiniano, sia il busto virile clamidato (Baltimora, The Walters Art Gallery) rivendicato ora alle officine bizantine dei secc. X-XII, ora a quelle normanne (Giuliano, 1980), ora a manifatture sveve (Wentzel, Die vier Kameen, 1954), sebbene senza diretti riferimenti agli attributi codificati dell'immagine imperiale, ha viceversa costituito il nucleo iniziale della controversa definizione del corpus della glittica federiciana.
Vi rientra, in misura prevalente per incidenza numerica degli esemplari e per rilievo semantico del tema, l'insieme dei cammei a soggetto animale. Fra questi si distingue ‒ con l'eccezione di un esemplare recante una pantera (Aquisgrana, Suermondt-Ludwig-Museum), oggetto di contesa fra un'origine orientale (Wentzel, 1941), un'esecuzione stilistica così prossima agli stilemi della glittica islamica e della plastica siculo-normanna del sec. XII da farlo ritenere uscito dal medesimo ambito (Deér, 1953) o un'interpretazione del naturalismo della resa complessiva dell'animale tale da consentire un possibile collegamento a indirizzi culturali propri della corte (Kahsnitz, 1977) ‒ la categoria di quelli con raffigurazioni del leone, insegna di ascendenza normanna, o dell'aquila, sigla simbolica di età sveva (Wentzel, 1959).
Al primo gruppo appartengono tanto una serie di immagini di tipo araldico, e impianto classicista, con rappresentazioni di profilo o in obliquo dell'animale (Londra, British Museum; S. Pietroburgo, Ermitage), quanto una serie di varianti con leonessa accovacciata, tutte credibilmente della prima metà del sec. XIII (S. Pietroburgo, Ermitage; Londra, British Museum; Parigi, Louvre; Ginevra, Musée d'Art et d'Histoire), derivanti da modelli antichi o forse da un prototipo medievale nonché fatte oggetto di un'ipotesi d'uso come controinsegne volte a significare, nella postura domata della fiera, la lupa romana e dunque la vittoria e la supremazia sveva sull'Urbe (Wentzel, 1962), o addirittura un'ipotetica espressione del contrasto tra potere temporale e spirituale (Kahsnitz, 1977).
Più direttamente araldico nell'impostazione di prospetto, il motivo isolato dell'aquila ha permesso, viceversa, un margine interpretativo più ampio.
Nonostante per alcuni esemplari, come per esem-pio nel caso dell'aquila di Berlino (Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz), esso abbia infatti dato seguito a una retrodatazione ad epoca claudiana o neroniana del cammeo, forse parte centrale di una corona (Oberleitner, 1972), il sottinteso imperiale, simboleggiato dal rapace (S. Pietroburgo, Ermitage; Berna, collezione Fürstenberg) e ricorrente nella monetazione (post 1231; augustale, zecca di Brindisi o di Messina), ha infatti potuto essere implementato da declinazioni diverse, analoghe a quelle riscontrabili anche nella plastica coeva (Catania, Castel Ursino), desunte nel caso degli esemplari con l'aquila in atto di tenere fra gli artigli una lepre (Stoccarda, Württembergisches Landesmuseum; S. Pietroburgo, Ermitage; Parigi, Cabinet des Médailles) da fonti di origine sasanide filtrate attraverso schemi compositivi di formulazione cristiana, o nel caso del cammeo con il rapace in atto di tenere un serpente (Leida, Rijksmuseum) da prototipi ellenistici caricati, nella lotta dell'aquila simbolo di Cristo che sconfigge il male, di valenze religiose.
Maggiori legami di reciprocità a livello cronologico e iconografico contraddistinguono invece il gruppo di cammei con Ercole che strozza il leone, nei quali alla comune plausibile derivazione del soggetto dalla glittica antica ovvero da prototipi monetali corrisponde una sua chiara rielaborazione in allegoria cristiana, ora attraverso la resa dell'eroe come figura prudente e capace di resistere alle lusinghe del mondo (Vienna, Kunsthistorisches Museum), ora mediante la raffigurazione della sua nudità, della sua forza e del male da queste sconfitto come prefigurazioni delle virtù di Cristo (Washington, Dumbarton Oaks Collection), ora attraverso la sua assimilazione concettuale allo stesso Federico II tramite l'inserimento di simboli come il serto d'alloro di diretta pertinenza imperiale (New York, Metropolitan Museum of Art): in tutti i casi l'esecuzione plausibilmente medievale dei pezzi non ne ha eliminato la dicotomia attributiva nei confronti del contesto di appartenenza normanno o svevo (Deér, 1953; Kahsnitz, 1977, 1979).
Quanto all'esplicitazione iconografica del versante ideologico collegato alla celebrazione laica e imperiale, cui la glittica sveva risulta, in generale, aver fornito declinazioni plurime, fortemente compromesso risulta invece, in sede critica, il nodo costituito dai due cammei con scene di incoronazione di Monaco (Staatliche Münzsammlung) e di Parigi (Louvre) la cui relazione con l'ambito federiciano (Wentzel, 1954, 1957, 1962; Kahsnitz, 1977, 1979) è stata posta in dubbio (Weber, 1981, 1992), a favore di una loro esecuzione in ambito veneziano durante il sec. XIII (Coche de la Ferté, 1960; Simon, 1965) o ancora, più recentemente, in botteghe dell'Italia settentrionale del sec. XV (Weber, 1992).
Estremamente problematico, un simile slittamento cronologico risulterebbe infatti compromissivo ai fini delle colleganze individuate con un gruppo fondamentale di altri cammei attribuiti alla stessa cerchia (Kahsnitz, 1977): tra questi, oltre alla Madonna in trono di Donaueschingen (Fürstlich Fürstenbergisches Institut für Kunst und Wissenschaft) ed alle tre teste (Parigi, Louvre) provenienti dal tesoro di Saint-Denis e apposte sulla corona di Napoleone, emergono il cammeo con Poseidone e Atena di Vienna (Kunsthis-torisches Museum), uscito forse dalla medesima bottega di quello con l'incoronazione di Parigi e ascritto alla metà del sec. XIII (Wentzel, Die grosse Kamee, 1954; Id., 1956), e quello con analogo soggetto di Parigi (Louvre). Ripresi entrambi da un modello antico e interpretati, in un'ottica più generale di appartenenza alla categoria dei 'cammei di stato', come allegorie di fondazioni di città (Wentzel, 1962), la possibile riconversione tematica dei personaggi in Adamo ed Eva ‒ suggerita dall'iscrizione ebraica apposta sull'esemplare parigino ‒ sembrerebbe viceversa prestarsi a un'ulteriore lettura dei medesimi personaggi come signori del mondo in un parallelo allusivo alla figura dell'imperatore come Kosmokrator (Giuliano, 1988-1989).
Allo stesso ambito sono stati quindi riferiti due cammei provenienti dalla collezione di Lorenzo il Magnifico e accomunati da soluzioni stilistiche tali da far ipotizzare non solo un'analoga bottega esecutiva (Giuliano, 1973) quanto soprattutto la stessa committenza federiciana (Kahsnitz, 1977): il primo con Poseidone e Anfitrite (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) del 1250 ca., l'altro con l'Arca di Noè (Londra, British Museum). Appartenente alla categoria dei lavori della metà del sec. XIII caratterizzati dal ricorso a rappresentazioni allegoriche, desunte anche dall'ambito biblico ‒ come per esempio nel caso del cammeo con Giuseppe e i suoi fratelli (1240 ca., S. Pietroburgo, Ermitage), ascritto alla produzione imperiale (Wentzel, 1943, 1956) e tuttavia da questa in seguito isolato (Kahsnitz, 1977) ‒, l'esemplare di Londra è stato dubitativamente messo in rapporto con incisori arabi o bizantini attivi alla corte di Federico II e invitati a elaborare, in forma simbolica, una serie di opere commemorative delle imprese del sovrano.
Alla celebrazione di una vittoria (Wentzel, 1962), a una gara sportiva o, ancora, a una fondazione urbana (Giuliano, 1973, 1980, 1988-1989) è invece plausibilmente riconducibile il pezzo con Poseidone signore dei Giochi Istmici (Vienna, Kunsthistorisches Museum), nel quale il ricorrere a livello tecnico della polarità attributiva fra l'esecuzione medievale (Wentzel, 1954), garantita peraltro dalla complessità delle citazioni antiquarie e dei parallelismi stilistici, e quella invece rinascimentale della fine del sec. XV, segnatamente individuabile nella cerchia medicea di Marsilio Ficino (Simon, 1965), ripropone come ancora irrisolta la pertinenza definitiva anche del gruppo di cammei più rappresentativi della glittica sveva.
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