GLOBALIZZAZIONE.
– Cenni storici. Aspetti critici ed elementi positivi. L’innovazione tecnologica. Le istituzioni e le politiche commerciali. Fattori e criticità. I nuovi protagonisti. Il cambiamento dei flussi di commercio e capitali. Il dibattito su pro e contro. Bibliografia. Webgrafia
Cenni storici. – Una crescente integrazione commerciale e finanziaria fra Paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo ha caratterizzato l’economia mondiale negli ultimi decenni. Il progresso tecnologico, che ha indotto forti riduzioni dei costi di commercio e comunicazione, l’apertura e l’integrazione internazionale dei mercati di merci, servizi, capitali e lavoro, e la liberalizzazione delle politiche commerciali hanno al contempo consentito una specializzazione più efficiente e una frammentazione dei processi produttivi oltre i confini nazionali (Baldwin 2011). Il termine globalizzazione descrive l’insieme di tutti questi fenomeni, che rappresentano la molteplicità degli aspetti dinamici appartenenti allo stesso processo, e mette in evidenza le crescenti interdipendenze fra i vari Paesi.
La tendenza all’internazionalizzazione dell’economia mondiale non è un fenomeno nuovo né irreversibile. Nel corso del tempo si sono susseguite fasi nelle quali l’integrazione è stata particolarmente rapida e intensa (per es., dal 1870 al 1914) e altre nelle quali sembrava essersi fermata o addirittura invertita (per es., i periodi della Prima e della Seconda guerra mondiale, OECD 2011). Le fasi di aumento dell’integrazione sono state spesso spiegate a partire dal ruolo propulsivo (o accomodante) delle innovazioni tecnologiche e delle politiche commerciali, in un contesto nel quale giocavano un ruolo importante anche le istituzioni locali e internazionali. Le fasi di rallentamento o inversione di tendenza, invece, con il prevalere delle spinte protezionistiche, soprattutto in periodi di crisi economica. Nei differenti periodi sono stati coinvolti in numero variabile Paesi diversi, come livello di sviluppo e posizione geografica.
La g. ha indotto ampi dibattiti sui suoi pro e contro. I suoi fautori sostengono che favorisce la crescita, e che l’apertura di nuovi mercati corrisponde a un aumento del benessere sociale. Grazie ai più intensi scambi commerciali e ai più facili trasferimenti di risorse finanziarie e umane, l’economia mondiale riesce a essere più efficiente. Tuttavia, il processo di g. solleva critiche e dubbi, soprattutto relativi alla possibilità di una suddivisione iniqua dei benefici fra Paesi e all’interno dei Paesi (Stiglitz 2002).
La rivoluzione dell’ICT (Information and Communic ation Technology), e soprattutto Internet e la diffusione della banda larga (nei primi anni Duemila) hanno cambiato il modo di produrre, inducendo una frammentazione tra imprese e Paesi in fasi (o addirittura mansioni) che possono essere fisicamente e geograficamente separate le une dalle altre, in regioni, Paesi e continenti diversi. Con la nascita delle catene globali del valore, l’internazionalizzazione è aumentata e, al contempo, si sono modificate le strutture organizzative e le pratiche manageriali. Negli stessi anni, soprattutto con la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), gli ostacoli al commercio sono diminuiti sensibilmente, anche se non si può ancora parlare di completa liberalizzazione. Sono anche cambiati i soggetti della g., con un ruolo crescente per i Paesi emergenti e una perdita di peso dei Paesi industriali, e un conseguente cambiamento della composizione e della direzione dei flussi di commercio e investimenti. La concomitanza di questi fattori ha sostenuto quella che finora si è rivelata la più lunga fase di accelerazione della g. (Huwart, Verdier 2013).
Fra il 1963 e il 2013, il prodotto interno lordo mondiale in termini reali è cresciuto a un tasso annuale medio del 2% e quello del commercio circa del doppio (IMF, World economic outlook, vari anni). Per oltre la metà di questo arco temporale, il mondo è cresciuto anche più velocemente, e il reddito pro capite è più che raddoppiato, nonostante l’aumento della popolazione mondiale. Ma questa crescita non è stata uniforme, né equamente divisa fra Paesi. Alcuni Paesi e aree non sono cresciuti o sono restati ai margini dei processi di g., perché non sono stati in grado di (o hanno scelto di non) inserirsi nel processo di divisione internazionale del lavoro. Ci sono state crisi a livello locale o regionale (per es., la crisi che ha coinvolto le cosiddette tigri asiatiche negli anni 1996-97), e brevi periodi nei quali l’economia mondiale ha subito forti frenate o recessioni (1975, 1982, 1991).
La crisi del 2008 è stata diversa, più lunga e peggiore delle altre, confrontabile solo con quella del 1929, e ha avuto conseguenze non ancora del tutto chiare sul processo di globalizzazione. Il commercio mondiale, che fra il 1980 e il 2008 era cresciuto a un tasso doppio rispetto a quello della produzione mondiale, dal 2008 ha nettamente rallentato. L’elasticità del commercio (rapporto tra crescita del le importazioni e del PIL) è scesa da oltre 2 a meno di 1, così che molti hanno parlato di chiusura dell’economia mondiale. Questa forte diminuzione è stata in parte spiegata con l’inversione del meccanismo alla base delle catene globali del valore, che negli anni precedenti avevano favorito l’aumento degli scambi di beni, soprattutto intermedi e semilavorati (Baldwin 2009). Anche altri fattori ne hanno probabilmente influenzato l’andamento: il perdurare della crisi in Europa e soprattutto nell’area dell’euro, la maggiore importanza relativa dei beni rispetto ai servizi, con questi ultimi che sono cresciuti a tassi più elevati, l’aumento strisciante del protezionismo sotto forma di controlli degli standard (IMF 2014a).
La crisi del 2008 ha fatto emergere chiaramente l’importanza della crescente interdipendenza: una crisi finanziaria partita negli Stati Uniti ha indotto una crisi economica globale e la più forte riduzione del commercio mondiale dal 1929, con un impatto negativo anche su Paesi che erano restati ai margini dei processi di g. o che avevano sistemi finanziari solidi. Conseguenze inattese di tale situazione sono state un crescente e generalizzato scetticismo sui benefici della maggiore apertura e una forte attenzione sulla volatilità dei flussi finanziari.
Aspetti critici ed elementi positivi. – L’innovazione tecnologica. – La tecnologia ha avuto ruoli chiave in tutte le principali fasi della g. (Huwart, Verdier 2013). Negli ultimi decenni, gli scambi sono stati facilitati da navi container (90% del traffico), da aerei sempre più capienti e meno costosi. L’evoluzione delle tecnologie dell’informazione ha ridotto drasticamente i costi di trasporto e telecomunicazione (fig. 1), e ha facilitato nuovi modi di produzione, con benefici per consumatori e produttori. La diffusione su larga scala di Internet ha stimolato il commercio di beni, soprattutto intermedi, ha permesso ad alcuni mercati di funzionare per ventiquattro ore al giorno (per es., le borse telematiche), ha eroso i confini fra beni commerciabili e non, favorendo la crescita del commercio di servizi e rendendo commerciabili e delocalizzabili servizi che prima non lo erano. Insieme allo sviluppo della banda larga e della telefonia mobile, Internet ha permesso a molti Paesi in via di sviluppo, soprattutto africani, di ‘saltare’ la messa in opera di infrastrutture per le reti telefoniche e di collegarsi al resto del mondo. Il sistema di pagamenti M-pesa tramite telefoni cellulari è un esempio importante di come la tecnologia possa facilitare i processi di integrazione. Nel 2014 sono stati raggiunti 7 miliardi di telefoni mobili, pari a 96 ogni cento abitanti, e 40 collegamenti Internet per ogni 100 abitanti (tre miliardi). Nel 2005 i cellulari per 100 abitanti erano 33 e 18 i collegamenti Internet per 100 abitanti. Inoltre, negli ultimi anni la tecnologia si è internazionalizzata. I flussi tecnologici fra Paesi sono aumentati, così come le collaborazioni internazionali in scienza e tecnologia (brevetti, coautori di articoli in Paesi diversi, studenti Erasmus). Gli investimenti in ricerca e sviluppo si sono espan si, anche in Paesi emergenti come Cina, India e Brasile che hanno iniziato a partecipare ai network internazionali.
Le istituzioni e le politiche commerciali. – La nascita dell’OMC nel 1995 e, soprattutto, l’adesione della Cina nel 2001 hanno costituito un forte stimolo all’integrazione commerciale mondiale. Grazie all’OMC, le restrizioni normative alla libera circolazione di merci e capitali sono state gradualmente ridotte, le politiche commerciali di molti Paesi emergenti e in via di sviluppo hanno cambiato indirizzo. La loro apertura agli scambi internazionali ha, de facto, avuto un forte effetto moltiplicativo sull’espansione dei flussi di commercio e capitali. Nonostante persistano notevoli differenze nel livello dei dazi applicati a prodotti diversi e da Paesi diversi, si è assistito a una riduzione generalizzata delle barriere tariffarie (fig. 2): in media dal 30% a circa il 13% nei Paesi in via di sviluppo e dal 7,5% al 2% nelle economie avanzate. Tuttavia in molti casi sono aumentate le barriere non tariffarie. Il contrasto con le regolamentazioni stringenti sui movimenti di lavoratori è notevole. Non a caso, questi ultimi sono ancora a un livello nettamente inferiore a quello dei primi anni del 20° secolo. Nonostante, come già detto, l’aumento dell’integrazione internazionale sia anche il frutto di scelte di politica economica, il grado di coordinamento delle politiche non ha proceduto in misura corrispondente all’elevata integrazione commerciale e finanziaria. La maggior parte dei Paesi ha continuato a perseguire politiche monetarie e fiscali che davano la priorità a obiettivi interni. Politiche tradizionalmente considerate ‘di competenza interna’, come la fissazione di standard di qualità, la sicurezza dei lavoratori, le politiche antitrust, la regolamentazione ambientale e delle tasse, influenzano la concorrenza internazionale e se non sono coordinate a livello internazionale rischiano di essere utilizzate in modo discriminatorio, ostacolando il processo di internazionalizzazione. L’indirizzo prevalentemente ‘domestico’ delle politiche monetarie e fiscali non coordinate con le politiche interne e alcune misure di protezionismo selettivo, adottate da parte dei Paesi sviluppati, costituiscono una minaccia ai processi di integrazione mondiale, più forte nei periodi di crisi come l’attuale.
Fattori e criticità. – I nuovi protagonisti. – Nel secolo scorso il mondo era bipolare, composto da Paesi sviluppati nel Nord e in via di sviluppo nel Sud. Il commercio era fra il Sud, che esportava materie prime, prodotti agricoli e, nel migliore dei casi, manufatti a elevata intensità di lavoro dato il basso costo della manodopera, e il Nord, che esportava servizi e manufatti a elevata intensità di tecnologia (e/o capitale). A partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, tuttavia, alcuni dei Paesi del Sud hanno iniziato a crescere a tassi molto elevati e si sono vieppiù integrati nell’economia mondiale, diversificando le loro produzioni ed esportazioni. Mentre la quota della popolazione mondiale e della forza lavoro restava abbastanza stabile nel tempo, la loro percentuale di prodotto interno lordo sul prodotto mondiale è quasi raddoppiata, così come quella delle esportazioni (fig. 3). Il loro contributo alla crescita mondiale, pari a circa il 30% fra il 1965 e il 1974 – anno della prima crisi petrolifera – è molto aumentato. I Paesi emergenti sono, di fatto, diventati il motore dell’economia mondiale, in un mondo dove i Paesi del Nord hanno registrato tassi di crescita decisamente inferiori alle medie dei decenni precedenti. Alcuni fra gli emergenti hanno avuto prestazioni eccezionali e, negli anni prima della crisi, da soli han no contribuito per circa il 50% alla crescita mondiale. Si tratta dei cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), poi BRICS (v.), con l’aggiunta della Repubblica Sudafricana. In particolare la Cina, che nel 1970 era l’ottavo Paese mondiale per prodotto interno lordo, nel 2014 ha superato gli Stati Uniti, diventando il primo Paese. Anche la sua quota di esportazioni è la più elevata a livello mondiale, dopo che nel 2009 ha superato Germania e Stati Uniti. La crisi sembra ora aver parzialmente ridimensionato tali Paesi, in particolare il Brasile e la Russia, quest’ultima in sofferenza economica anche per la caduta del prezzo delle materie prime energetiche e la svalutazione del rublo. Tuttavia, hanno ormai guadagnato un ruolo da protagonisti, anche nell’OMC e nelle relative trattative.
Il cambiamento dei flussi di commercio e capitali. – Il commercio internazionale e gli investimenti diretti esteri continuano a essere canali importanti per l’integrazione internazionale, ma, con il crescente peso delle imprese multinazionali e dell’internazionalizzazione della produzione, la loro dimensione e scala sono cambiate completamente, così come il loro livello di complessità. Secondo un recente rapporto di McKinsey (2014), nel 1980 il valore combinato dei flussi di beni, servizi e finanziari ammontava al 24% del prodotto interno lordo (3 miliardi di dollari). Nel 2012 il valore era aumentato di ben otto volte, passando al 36% del prodotto mondiale. Anche la composizione dei flussi è cambiata. Fino agli anni Novanta la maggior parte dei flussi avveniva fra Paesi sviluppati ed era composta dal commercio di beni e, per quel che riguarda i capitali, da investimenti diretti. Negli ultimi anni, la trasformazione è stata radicale: se alla fine del Novecento era notevolmente aumentato il commercio intraindustriale fra Paesi con uno stesso livello di sviluppo, e per spiegarlo si erano sviluppate le teorie del commercio internazionale di concorrenza imperfetta, dopo la crisi sono aumentati soprattutto gli scambi Sud-Sud. In tale contesto, lo studio dell’interconnessione dei flussi di commercio e di capitali con le migrazioni è diventato imprescindibile per capire i canali attraverso i quali imprese, Paesi e lavoratori si influenzano reciprocamente. A tale proposito sono stati sviluppati nuovi modelli teorici che hanno messo al centro l’impresa, prima monoprodotto e più recentemente multiprodotto, hanno studiato i network fra migranti, la qualità dei beni commerciati, il ruolo delle rimesse come mezzi finanziari di aiuto allo sviluppo.
Dai primi anni Novanta anche la g. finanziaria ha accelerato notevolmente, come si può dedurre dal rapido aumento simultaneo di attività e passività sull’estero di molti Paesi (McKinsey 2014). Fra il 1980 e il 2007, i flussi finanziari globali sono cresciuti più di ogni altro tipo di flusso, passando dal 4% del prodotto mondiale lordo (circa470 miliardi di dollari) al 21%. È anche cambiata la loro composizione, come conseguenza dell’emergere di banche globali, di investimenti ingenti da parte di fondi pensione e di aumenti degli investimenti diretti esteri delle multinazionali. I flussi di capitale ufficiali (inclusi gli aiuti) sono diminuiti sensibilmente, mentre sono aumentati gli investimenti di portafoglio e quelli diretti esteri (IDE). Nel 2007 questi ultimi hanno superato i 1800 miliardi di dollari (UNCTAD 2008) e, dopo un calo a seguito della crisi, non hanno ancora recuperato i livelli precedenti. Tuttavia sono molto cresciuti gli IDE verso i Paesi in via di sviluppo, che nel 2012 hanno superato i flussi verso i Paesi sviluppati (fig. 4). Una differenza importante rispetto al passato è data anche dal fatto che i Paesi del Sud hanno cominciato a investire all’estero: Brasile e Cina, sopra gli altri, investono in attività manifatturiere sia nei Paesi in via di sviluppo sia nei Paesi sviluppati per acquisire marchi e tecnologie. Alcuni, in particolare la Cina, hanno investito cifre ingenti in terreni agricoli in Africa, tanto da far parlare di land grabbing (v. agricoltura).
Il dibattito su pro e contro. – L’integrazione commerciale tra Paesi produce benefici netti a livello aggregato, ma genera anche effetti redistributivi: i guadagni di una parte dell’economia si accompagnano alle perdite di un’altra. Recenti indagini campionarie mostrano che la maggior parte degli intervistati, circa il 60% e con grandi differenze fra Paesi, si oppone a un aumento del grado di apertura del proprio Paese e si rivela contraria alla globalizzazione. La g. pone infatti un problema di equità. Nei Paesi industriali si riscontra un ampliamento della differenza fra i salari dei lavoratori specializzati e non; nei Paesi in via di sviluppo un aumento della disuguaglianza, dovuto probabilmente a un potere di mercato di ristrette fasce della popolazione (per es., i proprietari di risorse naturali, The world top incomes database: http://topincomes.parisschoolofeconomics.eu/). I guadagni della g. non sono equamente divisi neanche fra i Paesi sviluppati e i Paesi in via di sviluppo, tanto che si è registrato un aumento della disuguaglianza fra Paesi (Huwart, Verdier 2013).
Bibliografia: J.E. Stiglitz, Globalization and its discontents, London-New York 2002; A.B. Bernard, J.B. Jensen, S.J. Redding et al., Firms in international trade, «Journal of economic perspectives», 2007, 21, 3, pp. 105-30; United Nation Conference on trade and development (UNCTAD), World investment report 2008, Genève 2008; R. Baldwin, The great trade collapse. Causes, consequences and prospects, London 2009; Organisation for economic cooperation and development (OECD), Measuring globalisation. OECD economic globalisation indicators, Paris 2010; Organisation for economic cooperation and development (OECD), Globalisation, comparative advantage and the changing dynamics of trade, Paris 2011; J.-Y. Huwart, L. Verdier, Economic globalisation. Origins and consequences, OECD Insights, Paris 2013; International monetary fund (IMF), Past forward. The future of global economics, «Finance and development», 2014a; International monetary fund (IMF), World economic outlook, Washington (D.C.) 2014b; McKinsey global institute, Global flows in a digital age. How trade, finance, people,and data connect the world economy, Seoul-San Francisco-London-Washington 2014; United Nations (UN), The millennium development goals report, New York 2014; World trade organisation (WTO), World trade report. Trade and development: recent trends and the role of the WTO, Genève 2014.
Webgrafia: R. Baldwin, Trade and industrialisation after glob alisation’s 2nd unbundling: how building and joining a supply chainare different and why it matters, National bureau of economic research (NBER) working paper n. 17716, 2011: http://www.nber.org/papers/w17716.pdf (21 maggio 2015).