gloria
Presente nella Commedia, nel Convivio e nella Vita Nuova (ma soltanto nella prosa). La forma ritenuta autentica è sempre quella dotta, non avendo gli editori accolto groria, grolia, gluoria e simili di qualche manoscritto. In tutti i luoghi del poema con rima in -oria la sua presenza risulta costante.
Non vi sono connesse questioni testuali particolarmente discusse; da rilevare soltanto che, rispetto all'edizione di Oxford, l'edizione critica del 1921 e le successive in Cv IV IV 3 hanno ripristinato, sull'autorità dei testimoni, desideri gloria d'acquistare in luogo di desideri terra acquistare, e hanno diviso, per ragioni di senso, vanagloria di Pg XI 91 (Oh vana gloria de l'umane posse!). La stessa divisione sarà da operare in Cv I XI 2 e 15, dove la lettura finora accettata (rispettivamente cupidità di vanagloria e cupiditate di vanagloria: una delle cinque abominevoli cagioni che fanno lodare il volgare altrui e spregiare il proprio) comporta una strana sovrapposizione di due sentimenti: si dovrebbe pensare che D. intende attribuire a una parte dei malvagi uomini d'Italia il preciso desiderio di essere vanagloriosi (e non l'aspirazione a una g. che sembra grande, ma che è solo speciosa). Per la Commedia il Petrocchi ritiene su buoni fondamenti (Introduzione 235)non arbitraria la variante gloria di Pd XV 36, accogliendola a testo in luogo di grazia dell'edizione del '21.
Poiché anche per questa parola in D. confluiscono la tradizione classica e la tradizione cristiana, e poiché già nella Bibbia l'uso che se ne fa è polivalente, la sua gamma semantica è molto vasta, comprendendo da una parte la g. militare e quella mondana, all'estremo opposto la g. celeste, cioè la beatitudine, e svariate accezioni intermedie e traslate, con esiti soggettivi e oggettivi (g. anche come sentimento o come stato d'animo).
Nel suo primo e più tradizionale significato ricorre in If XXXI 116, per la gloria acquisita da Scipione nella battaglia di Zama - o, secondo qualche commentatore, per la rinomanza che ne derivò a quel luogo; in Cv I XI 8, che parafrasa un pensiero di Boezio sugli aspetti negativi della celebrità (Cons. phil. III VI 1 " Gloria vero quam fallax saepe, quam turpis est ! "), e in particolare della populare gloria, cioè del giudizio degli indotti, più che mai inconsistente; in Cv IV IV 3 (l'animo umano... sempre desideri gloria d'acquistare), dove la naturale sete di nuove conquiste e di nuovi possessi è riportata non tanto alla concupiscenza umana, quanto alla prospettiva di un maggiore prestigio, conseguente a una più accresciuta potenza; nella già vista considerazione di Oderisi da Gubbio sulla vanità della celebrità ottenuta con mezzi e per fini terreni (Pg XI 91).
Quanto sia caduca la gloria de l'umane posse è dimostrato dal rapido declinare della fama di due personalità già reputate grandissime nel loro campo, Cimabue e il Guinizzelli: la celebrità, afferma Oderisi, è come una meteora destinata a dileguarsi appena ne appare un'altra all'orizzonte; anzi è perfino casuale e capricciosa. Tutto il brano ne segna pesantemente i limiti e ammonisce a non farvi nessun affidamento (Non è il mondan romore altro ch'un fiato / di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato. / Che voce avrai tu più, se vecchia scindi / da te la carne, ecc., vv. 100-104). Ovviamente si tratta di meditazioni germinate dall'episodio e strettamente legate al personaggio, nel quale il desiderio dell'eccellenza fu esasperato a tal punto da degenerare in superbia, e che ora se ne dichiara pentito. Sarebbe imprudente considerarle in assoluto e vedervi rispecchiata una reale convinzione di D. sull'inutilità di ogni sforzo per conseguire la g. e quindi della tensione morale che esso comporta. Appena pochi canti dopo, la decisione di quel gruppo di Troiani che, rifiutandosi di seguire Enea, sé stesso a vita sanza gloria offerse (Pg XVIII 138), è considerata peccaminosa, addirittura un esempio memorabile di accidia. E sarebbe superfluo sottolineare la necessità, che D. sempre sentì, dell'esaltazione delle proprie possibilità per opere grandi e meritorie, anche allo scopo di ottenere un riconoscimento da parte dei propri simili. Per limitarci al settore della terrenissima g. letteraria, scopo della Monarchia è tum ut utiliter mundo pervigilem, tum etiam ut palmam tanti bravii primus in meam gloriam adipiscar (I I 5); e uno dei poli fissi del Paradiso è l'attesa dell'amato alloro (I 13-18), del cappello (XXV 1-12), cioè dell'incoronazione poetica, che è pur sempre g. umana, pur considerando il carattere sacro di un poema al quale ha posto mano anche il cielo.
La gloria de la lingua di Pg XI 98, che generalmente è poco spiegato dai commentatori o tradotto " il vanto dell'eccellenza poetica ", è da accostarsi, come a espressione parallela, a tener lo campo del v. 95 (Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido/... Così ha tolto l'uno a l'altro Guido / la gloria de la lingua), e pertanto significa il primato fra i poeti in volgare. Così la gloria del mondo, che la Provvidenza difese a Roma per mezzo di Scipione (Pd XXVII 62), è la supremazia su tutti gli altri popoli, l'imperium mundi di Mn II VIII 1.
Significa anche " azione altamente meritoria ". La prima gloria / di Iosüè in su la Terra Santa (Pd IX 124) è la conquista di Gerico, elevata a significato messianico; l'alta gloria / del roman principato (Pg X 73) è l'atto di giustizia compiuto da Traiano per una povera vedova, pur sotto l'urgenza di un'imponente spedizione militare: esempio insigne di umiltà.
In Pd VI 90 (Dio concesse all'aquila gloria di far vendetta a la sua ira), g. corrisponde a " titolo di onore ": l'aver giudicato e condannato Cristo, placando con ciò l'ira divina, è la più illustre delle imprese portate a termine dall'Impero, quella che ne conferma la natura provvidenziale; e conferma inoltre, com'è spiegato in Mn II XI, la legittimità della sua giurisdizione su tutta l'umanità.
Può, con valore attivo, indicare chi rende gloriosi gli altri: Virgilio è gloria di Latin (Pg VII 16), e Beatrice, nel suo aspetto simbolico, è luce e gloria de la gente umana (XXXIII 115).
Soggettivamente vale " compiacimento " per i propri meriti o virtù, o per il male degli altri che si risolve in una propria esaltazione.
Beatrice suscitava intorno a sé ammirazione e devoto rispetto, ma coronata e vestita d'umilitade s'andava, nulla gloria mostrando di ciò ch'ella vedea e udia (Vn XXVI 2); gli angeli che durante la rivolta di Lucifero rimasero neutrali non sono condannati nel profondo Inferno, perché alcuna gloria i rei avrebber d'elli (If III 42): una siffatta condanna, mettendo sullo stesso piano gl'indecisi e coloro che a Dio si ribellarono sul serio, non potrebbe non provocare in questi ultimi una profonda soddisfazione.
Come molti altri termini dell'arte militare, anche la g. ottenuta con le armi è traslata in campo spirituale: s. Francesco e s. Domenico furono campioni dello stesso esercito di Cristo, militarono insieme, e quindi è giusto che la gloria loro insieme luca (Pd XII 36): luca sigla il trapasso da una sfera all'altra, attraverso indubbi echi biblici (Matt. 5, 16 " luceat lux vestra coram hominibus, ut videant opera vestra bona et glorificent Patrem vestrum "; Paul. Philipp. 2, 15 " inter quos lucetis sicut luminaria in mundo "; ecc.).
In Pd XI 96 (la mirabile vita di s. Francesco, più che della sua persona, meglio in gloria del ciel si canterebbe) vale " glorificazione ".
Sembra da respingere l'altra interpretazione: ‛ sarebbe meglio che la vita del Santo fosse esaltata con canti, non dai frati, ma dagli angeli nell'alto dei cieli '. È cioè molto più probabile che sulla genesi del verso abbia influito l'affermazione, che percorre tutto il mondo biblico e la cristianità, che a Dio si appartengono l'onore, la g., ecc., non essendo il merito degli uomini che un suo riflesso. E all'esaltazione contenuta nel " Gloria " la fantasia e l'animo di D. rimangono tenacemente legati, anche a giudicare dalla frequenza con cui esso ricorre nella sua opera, sia nella formulazione biblica che in quella liturgica: in Vn XXIII 7 e XXIII 25 61, in Mn I IV 3, in Ep XI 26, in Pg XX 136 (anche qui l'esaltazione di un'anima, per la sua liberazione spirituale, si risolve in un inno al creatore) e in Pd XXVII 2 ‛ Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo ', / cominciò, ‛ gloria! ', tutto 'l paradiso, che fa da solenne epilogo al nuovo processo di sublimazione superato da D. e da potente prologo alla missione che gli viene affidata, perché riveli all'umanità il tremendo giudizio del cielo sulla condotta dei papi. D'altra parte, al costrutto in gloria di Pd XI 96 non era estranea la tradizione, anch'essa di origine biblica: in Is. 43, 7, D. poteva leggere: " Et omnem, qui invocat nomen meum, in gloriam meam creavi eum, formavi eum et feci eum "; e in Paul. Ephes. 1, 5-6 leggeva certo, perché così il brano è citato in Mn II XII 3, Qui praedestinavit nos in adoptionem filiorum... in laudem, et gloriam gratiae suae (la Vulgata ha invece " in laudem gloriae gratiae suae "). Nella sua prosa latina D. con la stessa voce usa ad in luogo di in (Mn II IV 10 sicut... ad gloriam ipsius [di Clelia] commemorant).
La g. di Dio è la sua maestà, la sua potenza, la sua luce. All'inizio del Paradiso è presentata subito, e con vastissimo respiro, all'immaginazione del lettore, come tema dominante di tutta la cantica: La gloria di colui che tutto muove.
D. si ricordò forse di Ps. 18, 2 (" Caeli enarrant gloriam Dei "), da lui tradotto in Cv II V 12, e di Ecli. 42, 16 (" gloria Domini plenum est opus eius "), citato in Ep XIII 62. Ma questa gloria di Pd I 1 s'identifica a piene lettere con luce del v. 4, come sottolinea la stessa Ep XII 64 e 66 divinus radius sive divina gloria; de gloria Dei sive de luce; sicché in questo memorabile prologo del Paradiso avvertiamo l'eco lontana (attraverso la rielaborazione cosmologico-dottrinale e il nuovo vigore conferitole da una possente fantasia di poeta) delle figurazioni, specialmente dell'Esodo, nelle quali la maestà di Dio si rivela come splendore abbagliante: per esempio: " Erat autem species gloriae Domini quasi ignis ardens super verticem montis in conspectu filiorum Israël " (Ex. 24, 17).
In Pd XXXIII 71 (una favilla sol de la tua gloria) l'immagine centrale ne richiama una collaterale, quella della favilla, che D. disperatamente vorrebbe, ma sa che non può, lasciare alla futura gente, sebbene sia solo una parte infinitesimale dell'immenso fulgore. In XXXI 5 (la gloria di colui che la 'nnamora) è assente l'idea della luce, ma resiste quella originaria della potenza trionfante in eterno.
Analogicamente, nella traduzione di Ps. 8, 6 (Cv IV XIX 7 di gloria e d'onore l'hai coronato), la g. dell'uomo corrisponde alla sua dignità di creatura nobilissima, molto simile all'angelo. Un'analogia più stretta si avverte in Ep VI 5, per la g. di Enrico VII, già aureolato di molti attributi pertinenti alla divinità.
Per le anime elette, g. in assoluto, o con le determinazioni etternale, futura, e simili, è la loro beatitudine. In questo senso la voce ricorre, mutuata dall'uso normale specialmente degli scrittori religiosi, in Vn VIII 1, XXII 1, XLII 3 e in Cv II I 6, riferita soprattutto all'immagine di Beatrice beata; e trova più forti e intense risonanze in Pd XXV 68 (uno attender certo / de la gloria futura), quantunque sia traduzione quasi alla lettera di Pietro Lombardo (Sententiae III 26), e in quella inebriante idea poetica di una felicità che, per quanto grandi siano le aspirazioni umane, riesce a superarle immancabilmente tutte: quella gloria / che non si lascia vincere a disio di Pd XIX 14 (il passo è però controverso: secondo altri vuol dire " la beatitudine che non basta desiderare, perché bisogna anche meritarla ").
Lo stesso significato ha la variante gloria adottata con felice restauro dal Petrocchi (v. sopra) in Pd XV 36 pensai... toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso. Può esser utile, seppure non determinante, non verificandosi un'esatta coincidenza semantica, l'accostamento con gloriosamente accolto di Pd XI 12. Ma per tutta la terza cantica una ' gloria ' particolare di D. si affianca a quella pienamente attuata dalle anime elette; procede anzi di pari passo.
Ancora analogicamente, nella lingua del tempo con g. o altre voci affini è indicata la felicità terrena: Folgore promette per il sabato (v. 8) " isgridar per gloria e per baldezza "; nella Tavola Ritonda (ediz. F.L. Polidori, I, Bologna 1864, 168) " siete glorificata " vale quanto vivete beata e felice', e lo stesso senso ha " viverò grolificato " di Cecco Angiolieri (No si disperin 6); il Buti afferma: " gloria è allegressa dell'animo " (chiosa a Pg XI 91), ecc. Sulla base di questi riscontri e per evidenti ragioni interne è probabile che, quando D. parla della g. procuratagli dal volgare, tanto dolce da non farlo angustiare nemmeno dell'esilio (VE I XVII 6 huius dulcedine gloriati nostrum exilium postergamus), intenda riferirsi non tanto alla sua fama di poeta, quanto alla " gioiosa esaltazione del suo spirito " che dà l'esercizio della composizione in volgare (Marigo).
G. significa infine il luogo stesso della beatitudine, il Paradiso. Maria è la regina de la gloria (Vn V 1): infatti a lei questo regno è suddito e devoto (Pd XXXI 117), e quando Beatrice morì, andò a gloriare sotto la insegna di quella regina benedetta virgo Maria (Vn XXVIII 1): un'idea centrale, dunque, che si colloca all'inizio e alla fine di tutto l'arco di una produzione poetica. S. Pietro è (Pd XXIII 139) colui che tien le chiavi di tal gloria, che sono le " claves regni caelorum " di Matt. 16,19, ma trasferite nella rappresentazione diretta di questo regno, come conclusione e fermo suggello di una scena rivissuta con la gioia e l'ansia di una sofferta aspirazione.