gloria
Il termine si dispone in M. entro una costellazione semantica in una scala di livelli e opposizioni che tocca «desiderio», «ambizione», «fama», «riputazione», «onore», «grandezza», e poi, su di un piano variamente contraddittorio, «grazia», «favore», «laude», «biasimo», «merito», «premio», «vituperio», «avarizia»: tutti termini che riconducono alla capacità di azione della «virtù», agli effetti pubblici della «prudenza», all’efficacia politica degli «ordini» e degli individui che nella politica operano, principi, condottieri, legislatori, magistrati e così via. La g. costituisce la risultanza più alta e duratura della virtù, la suprema ratifica della posizione umana nel mondo, la sua proiezione al di là dei limiti dell’esistenza individuale e delle stesse istituzioni collettive: nella g. si esplica e si prolunga, si fa vedere e persiste tutto ciò che di ‘grande’ viene costruito dai soggetti umani; essa fissa su un livello elevato, in una sorta di persistenza ideale, ciò che si distingue sulla scena del mondo, le prove di valore che lasciano segni determinanti sulla vita delle società. Il suo fondamento è nella naturale pulsione umana a distinguersi, nella spinta che conduce ogni soggetto a imporsi nel contesto sociale, a porsi su di un livello più alto rispetto ad altri soggetti: essa sprigiona dal cuore dei rapporti di forza su cui la politica si costituisce e si proietta nel tempo come un esito risolutivo, garanzia di continuità della politica stessa. Nella g. affermatasi nel passato si impone il valore dei comportamenti che hanno portato a raggiungerla, insieme alla possibilità di utilizzarli come modelli da imitare per i comportamenti presenti.
La visione machiavelliana della g. si riaggancia in modo originale alle discussioni sviluppatesi nell’Umanesimo fiorentino, nel quadro della varia definizione della florentina libertas e dei caratteri della vita civile, in un vitale rapporto con gli antichi e con la loro visione problematica e contraddittoria dell’aspirazione alla gloria. Tra i vari testi, avevano giocato un ruolo essenziale i capitoli iniziali del De coniuratione Catilinae di Sallustio, in cui l’aspirazione alla g. veniva ricondotta alla disposizione degli esseri umani a sottrarre la propria vita al silenzio, e nel contempo se ne indicavano diversi gradi, ambiti ed esiti, specialmente in rapporto con l’ambizione e con l’avidità.
L’esperienza delle lotte politiche contemporanee e la più acuta attenzione alle forme concrete dei comportamenti umani conducono peraltro M. a radicare strettamente il concetto di g. nella condizione naturale, nelle «qualità» dei soggetti umani e nelle loro reciproche relazioni. G. suprema è quella del politico o del militare che opera per il bene dello Stato, che mette in campo la sua virtù per costruirne le fondamenta, per difenderlo e mantenerlo, per accrescerne grandezza, potenza, sicurezza: e modelli preminenti di g. scaturita da eccezionale virtù sono ovviamente i grandi condottieri romani. Variamente presente nei Discorsi è la figura di Scipione Africano, di cui già il capitolo “Dell’Ingratitudine” (vv. 73-129), passava in rassegna le imprese: «invitto e glorioso duce» egli ha mostrato a ciascuno «quella via / ch’alla più alta gloria l’uom conduce» (vv. 103-05).
Ciò che ha fatto grande Roma e che fa grandi le città è in primo luogo l’«affezione al vivere libero», «non il bene particolare, ma il bene comune» (Discorsi II ii 12): in una prospettiva assolutamente mondana, favorita dalle forme dell’«educazione» antica, rivolta a cercare «l’onore del mondo», stimolata da una religione che
non beatificava se non uomini ripieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti e principi di republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi (Discorsi II ii 30-31).
Su questa linea sono in primo piano vigore e «ferocia», tensione vitale e spinta ad acquisire dominio, a farsi strada in un mondo in perpetuo stato di guerra: il modello romano è modello essenzialmente bellico, in cui la g. del «vivere libero» si appoggia sulla capacità di contrasto con l’esterno e di espansione verso diesso. È ovvio perciò che gran parte delle figure gloriose della storia amata da M. siano figure di condottieri: l’orizzonte della g. militare percorre tutti gli scritti politici machiavelliani e conferisce una particolare tensione all’Arte della guerra, che si conclude del resto con l’evocazione, da parte di Fabrizio Colonna, della g. che gli sarebbe toccata se avesse avuto «tanto stato» da potervi applicare gli «antichi ordini» militari («o io l’arei accresciuto con gloria o perduto senza vergogna»): e quella militare, d’altra parte, è una g. che può farsi valere anche nella sconfitta (cfr. per es., Discorsi III x 34: «si debbe, eziandio perdendo, volere acquistare gloria»).
Alla g. di chi ha compiuto azioni virtuose spetta la «laude», che costituisce per così dire la sua più diretta esplicazione pubblica, la sua espansione nello sguardo di chi la considera: e particolarmente degni di «laude» sono fondatori e legislatori, coloro che con la loro prudenza creano le fondamenta materiali e istituzionali di uno Stato o di una «setta»; ai comportamenti, negativi, dannosi o distruttivi si rivolge invece il «biasimo». In Discorsi I x, si distinguono i diversi livelli di laude, da quella suprema che tocca ai fondatori, fino a quella più particolare che tocca a chi si fa valere in arti o attività di vario tipo: e mentre la distinzione di ciò che è da «laudare» da ciò che è da «biasimare» è per M. oggettiva e incontrovertibile, egli deve però notare che la maggior parte degli uomini, «ingannati da uno falso bene e da una falsa gloria», si rivolgono a scelte negative,
né si avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con sodisfazione d’animo, ei fuggono, e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine, incorrono (I x 9).
Falsa g. è quella di Giulio Cesare, che ha distrutto la libertà romana ed è stato celebrato dagli scrittori, «corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dello imperio» (I x 12): e proprio Romolo viene opposto a Cesare e indicato come modello per un principe che, cercando «la gloria del mondo», si facesse capo di «una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per riordinarla come Romolo» (I x 30). La possibilità di scambiare per autentica una falsa g. (su cui M. torna anche nel proemio di Discorsi II, per giustificare la sua esaltazione della g. degli antichi e la scelta di «biasimare i presenti tempi, laudare i passati e desiderare i futuri», § 21) è legata d’altra parte alla stessa dialettica da cui scaturisce l’aspirazione alla g.; risale alla tensione, che agisce su ogni sorta di individui, a essere riconosciuti, onorati, a cercare una posizione preminente, per lo più accompagnata dalla ricerca dei beni materiali. I modi di procedere degli uomini distinti nel capitolo xxv del Principe riguardano le «cose che gli conducono al fine quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze» (§ 12). La coppia ‘g./ricchezze’ rinvia a quella ‘ambizione/avarizia’ (definita già nel capitolo “Dell’Ambizione”) ed è parallela a quella tra «onore» e «roba», indicati come le cose essenziali che le «universalità degli uomini» non tollerano siano loro tolte (Principe xix 3).
Si tratta, insomma, di un nesso in cui si definisce la modalità con cui gli esseri umani stanno nel mondo, in cui viene ad articolarsi l’intero corpo sociale. Questo è regolato da una dialettica del desiderio e del possesso che agisce a tutti i livelli della vita collettiva e che può operare in molteplici direzioni, prendendo avvio dall’umana tendenza ad «affliggersi nel male e stuccarsi del bene»: quando sono liberi dai vincoli della «necessità» (che impedisce loro di concentrarsi sui propri desideri), essi combattono
per ambizione; la quale è tanto potente ne’ petti umani che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La cagione è perché la natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa; talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d’esso (Discorsi I xxxvii 3-4).
Questa molla del desiderio di «onore» e «roba» agisce non soltanto nei conflitti tra gli individui, ma anche in quelli tra le classi sociali: la visione pubblica dell’onore (e della stessa capacità che si ha di imporsi, di far riconoscere il proprio valore reale o apparente) dà luogo alla «riputazione», che è appunto un modo di essere eminente entro il corpo sociale. Quella della riputazione era del resto una categoria essenziale nell’esperienza politica e nel linguaggio fiorentino: l’ambizione politica, ossia l’aspirazione a una posizione importante nell’organismo civile, era strettamente legata all’acquisizione di «riputazione». Nel più specifico linguaggio di M. la «riputazione» appare come un primo livello del percorso verso la g., indica sia una provvisoria esposizione ambiziosa di sé, una esibizione di onore personale, sia il riconoscimento pubblico dei «meriti» della virtù: può garantire al soggetto che l’acquisisce la «grazia» e il «favore» del corpo sociale, suscitando adeguati «premi», o, al contrario, provocare diffidenza in quanto i «favori» ottenuti possono aprire la strada a un potere eccessivo e pericoloso (cfr. Discorsi I lii); ma talvolta può arrivare a sovrapporsi direttamente alla g., come in Discorsi III xxi, dove si definiscono i «contrari modi di acquistare gloria e riputazione» (§ 2), con l’esempio degli opposti caratteri di Scipione e di Annibale (su cui anche Principe xvii 15-22), e, nel capitolo successivo, con gli esempi opposti di Manlio Torquato e di Valerio Corvino. La g. si dà insomma come risultanza positiva dell’‘ambizione’: può conseguire da una «riputazione» appoggiata su comportamenti virtuosi e su acquisti che rendono grande lo Stato; in definitiva si può dire che essa costituisca lo sbocco virtuoso dell’inquietudine del desiderio, degli stessi umori «maligni» e negativi che sono alla base di ogni comportamento e che spesso hanno anche risultanze distruttive. Sull’aspirazione alla g. si appoggia così la costruzione dell’essere civile, risolvendo in positivo quella tendenza alla prevaricazione reciproca che è dato costitutivo della natura umana. Questi esiti positivi sono possibili in uno Stato i cui ordini sono costituiti in modo da canalizzare l’ambizione dei cittadini verso il bene comune. E la stessa bontà degli organismi collettivi è fondata su di una «riputazione» originaria, che va sempre riattivata, perché «tutti e principii delle sètte e delle republiche e de’ regni conviene che abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglino la prima riputazione e il primo augumento loro» (Discorsi III i 7). Ciò ovviamente mette sul piano più alto e assoluto la g. dei fondatori, del «principe nuovo» e di chi, in un tempo ‘tardo’, sa rinnovare gli ordini, ridurre l’organismo «al segno».
L’«ambizione» che stimola individui e gruppi sociali alla ricerca della «riputazione» e dell’«onore», trovando sbocco in onori specifici (cariche e posizioni di potere), viene ad avere effetti distruttivi quando non è controllata da adeguati «ordini» e «leggi» (come accadeva nella Roma repubblicana) e non è sostenuta da un’adeguata «virtù»: quando non è rivolta al bene comune o comunque a una virtuosa gestione dell’organismo statale, ma, in simbiosi con l’«avarizia», punta solo sull’interesse e si appoggia a un’illusoria presunzione di sé, a quella disposizione all’accecamento a cui sfugge solo la «prudenza» degli uomini «savi». In tutte le opere di M. si seguono i pericoli costituiti da questa «ambizione» negativa, il cui rivelarsi pubblico può anche condurre a una perdita di «riputazione», come per l’inosservanza da parte di Girolamo Savonarola di una legge da lui stesso proposta: «Il che, avendo scoperto l’animo suo ambizioso e partigiano, gli tolse riputazione e dettegli assai carico» (Discorsi I xlv 12). È vero peraltro che «una republica sanza i cittadini riputati non può stare, né può governarsi in alcuno modo bene», anche se poi «la riputazione de’ cittadini è cagione della tirannide delle republiche» (Discorsi III xxviii 5-6): da questa contraddizione si esce favorendo i «modi publici» di acquisire «riputazione» e condannando le «vie private», come appunto fecero i Romani, ordinando «in premio di chi operava bene per il publico […] i trionfi e tutti gli altri onori» (§ 14): di grande interesse, su questa linea anche I xxix, III xvi e III xxxiv, che discutono della gratitudine verso chi acquista g. e dei modi in cui si acquista «grazia» e «favore» per acquisire «riputazione» che poi conduce alla g., mentre III xxx tratta dell’«invidia» verso chi acquista «riputazione».
L’«ambizione» più pericolosa e distruttiva è per M. quella della nobiltà: i «grandi», sia individualmente sia come classe, sono sempre mossi da una tendenza a prevaricare, a imporre la loro alterigia e rapacità sul «popolo». Nell’affermare il rilievo essenziale dei «tumulti» dell’antica Roma, M. nota che la forza degli ordini romani era comunque in grado di risolvere i casi tutt’altro che rari in cui il conflitto tendeva a uscire fuori dai termini compatibili, per l’«insolenza» dei patrizi e del senato: anche se non tace casi di smodata «ambizione» e di «insolenza» da parte della plebe e di singoli tribuni (fino al caso dei Gracchi e delle leggi agrarie, in cui egli vede la prima causa del crollo della libertà romana). Anche per la tenuta di un regime monarchico, d’altra parte, è essenziale il controllo dell’«ambizione» nobiliare: così chi ha ordinato il regno di Francia ha dovuto creare delle strutture capaci di arginare «l’ambizione de’ potenti e la insolenza loro» (Principe xix 21).
La finale Exhortatio del Principe viene a orientare la dialettica della g. verso un’auspicata possibilità per il presente, con l’avvento di «tempi da onorare uno nuovo principe» (Principe xxvi 1), con il richiamo all’«onore» che può toccare «a uno uomo che di nuovo surga» (§ 15) e allo spazio all’azione lasciato da Dio «per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi» (§ 13). Ancora nel Discursus florentinarum rerum, § 46, si prospetta la possibilità che Leone X faccia «in Firenze uno stato stabile per gloria sua e per salute degli amici suoi». Ben diverso orizzonte è quello delle Istorie fiorentine, dove già il proemio, notando il rilievo delle «divisioni» che hanno turbato la storia della città e che sono state trascurate dai precedenti storici «per non offendere la memoria» dei protagonisti, sottolinea che «la ambizione degli uomini e il desiderio che gli hanno di perpetuare il nome de’ loro antichi e di loro» fanno sì che «molti, non avendo avuta occasione di acquistarsi fama con qualche opera lodevole, con cose vituperose si sono ingegnati acquistarla», mentre in genere «le azioni che hanno in sé grandezza, come hanno quelle de’ governi e degli stati, comunque le si trattino, qualunque fine abbino, pare sempre portino agli uomini più onore che biasimo» (proemio 14). A balzare in evidenza, nel percorso delle Istorie, non è allora la g. di azioni autenticamente virtuose, ma la grandezza di vicende storiche che possono spesso essere «vituperose» e che comunque sono radicalmente lontane dalla «virtù» degli antichi. Al centro di questa ultima opera di M. la stessa g. viene come relativizzata, con la sua collocazione entro il movimento incessante delle fortune umane, del continuo variare dall’ordine al disordine, dal bene al male e viceversa: «Perché la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna» (V i 2). L’aspirazione alla g. può perdersi nell’ineffettualità di un’intenzione letteraria: è il caso di Stefano Porcari che, desiderando «secondo il costume degli uomini che appetiscono gloria, o fare, o tentare almeno, qualche cosa degna di memoria», viene suggestionato dalla canzone petrarchesca “Spirto gentil”, che lo porta a tentare una congiura senza adeguato discernimento:
E veramente puote essere da qualcuno la costui intenzione lodata, ma da ciascuno sarà sempre il giudicio biasimato; perché simili imprese, se le hanno in sé, nel pensarle, alcuna ombra di gloria, hanno, nello esequirle, quasi sempre certissimo danno (VI xxix 14).
La vera g. sembra come arretrare dall’universo delle Istorie fiorentine: e se comunque Cosimo de’ Medici «morì pieno di gloria, e con grandissimo nome nella città e fuori», M. viene quasi a giustificarsi per l’elogio che è costretto a farne: «perché, essendo stato uomo raro nella nostra città, io sono stato necessitato con modo estraordinario lodarlo» (VII vi 25-26).
Bibliografia: R. Price, The theme of gloria in Machiavelli, «Renaissance quarterly», 1977, 30, pp. 588-631; V.A. Santi, La “Gloria” nel pensiero di Machiavelli, Ravenna 1979; C. Varotti, Gloria e ambizione politica nel Rinascimento. Da Petrarca a Machiavelli, Milano 1998.