GOFFREDO il Barbuto, duca di Lotaringia e marchese di Toscana
Figlio di Gozzelone (I), duca di Lotaringia, nacque presumibilmente agli inizi del secolo XI.
Mentre restano oscure le origini della madre di G., della quale non si conosce neanche il nome, ben note sono le vicende genealogiche relative agli ascendenti di linea paterna, afferenti a quell'amplissima compagine dinastica divisa in tre rami principali, ciascuno con forte radicamento in una particolare zona delle Ardenne e pertanto nota, nel suo insieme, come "maison d'Ardenne". La storiografia colloca ai primi decenni del secolo X il momento fondativo della dinastia, quando Cunegonda, di origine carolingia, già sposa di Wigerico, conte palatino, si univa in seconde nozze a Ricuino, conte di Verdun. Successivamente al 950 si venne a definire lo specifico ramo di "Ardenne-Verdun", in cui anche G. va inserito, mentre gli altri due rami andarono a radicarsi rispettivamente nel Lussemburgo e a Bar. Quest'ultimo diede i natali a Beatrice, unitasi a G. in seconde nozze, dopo che questi era rimasto vedovo della prima moglie Doda, sposata intorno agli anni 1038-39.
L'ascesa politica di G. si compì all'ombra del padre Gozzelone, che si era visto assegnare la titolarità prima della Bassa e poi dell'Alta Lotaringia (rispettivamente nel 1023 e 1033), ricomponendo così nella sua persona l'antica unità territoriale, suddivisa nella seconda metà del secolo X. Gozzelone era a sua volta figlio di quel Goffredo detto il Prigioniero la cui azione politica, nel corso della seconda metà del secolo X, aveva rafforzato l'identità famigliare, con una lunga detenzione del titolo di conte di Verdun, la cui nomina spettava al vescovo della stessa città. Gozzelone fu il terzo dei figli del Prigioniero a succedere al padre in tale ufficio comitale ma, alla morte di Enrico II, ebbe un contrasto con il neoeletto imperatore Corrado II. Inoltre, poco dopo l'elezione imperiale, morì anche il vescovo di Verdun, Aimone; il nuovo presule, Ramberto, assegnò le funzioni comitali a un conte Luigi, forse della famiglia di Chiny. Gozzelone non accettò di essere privato di quello che ormai considerava un bene patrimoniale e si ribellò con forza, fino a recuperare il comitato intorno al 1025.
Il 1026 è l'anno della prima, esplicita menzione di G. come conte di Verdun: è possibile che le difficoltà di Gozzelone nel controllo del titolo comitale si fossero risolte con un'assegnazione nominale al figlio, che esercitava tale autorità sotto il controllo del padre. Del resto, una collaborazione tra padre e figlio sembra avvenisse anche sul piano della titolarità ducale della Lotaringia: un diploma di Enrico III del 1040 cita esplicitamente entrambi come duchi. Si è a più riprese potuto ipotizzare che la collaborazione tra padre e figlio sfociasse in una nuova bipartizione della regione, con l'assegnazione a G. dell'Alta Lotaringia. Tale ipotesi non è suffragata da documentazione diplomatistica e può essere avanzata solo sulla base di indizi nelle fonti narrative e di supposizioni riguardanti le scelte politiche di Gozzelone e dello stesso potere imperiale. Il primo avrebbe potuto accettare uno smembramento della sua autorità per saldare definitivamente la titolarità sull'Alta Lotaringia alla sua discendenza; Enrico III avrebbe visto di buon occhio tale divisione quale prodromo della sottrazione dalle mani di una sola e potente famiglia di una parte dell'importante e turbolenta regione di confine, nella quale andavano maturando posizioni riformistiche della Chiesa che puntavano anche a un ridimensionamento del potere imperiale nelle questioni ecclesiastiche.
Di là dall'effettiva ripartizione di compiti e funzioni, appare comunque certo che padre e figlio amministrassero in buon accordo l'intera Lotaringia, fino alla morte del primo, avvenuta il 19 apr. 1044, in seguito alla quale Enrico III non nominò G. duca dell'intero Ducato, contrariamente alle sue attese, ma solo dell'Alta Lotaringia, assegnando, invece, la Bassa Lotaringia a un altro figlio di Gozzelone, omonimo del padre. Tale decisione imperiale portò a un lungo periodo di tensioni e scontri anche aperti tra Enrico III e G., che si sarebbero ripetuti a più riprese fino al 1049.
Si tratta di vicende note solo attraverso fonti narrative, spesso di incerta interpretazione. Ciò risulta, peraltro, problema ricorrente nella ricostruzione di un profilo biografico di G.: se ne può cogliere la portata sulla base del regesto accluso all'ampia monografia su G. di E. Dupréel, sebbene questo sia oggi da completare con alcune integrazioni, dove la maggioranza delle fonti diplomatiche note e considerate riguardano una fase ben distante da quella dello scontro con Enrico III, per la quale si limitano, invece, a due soli documenti che ne attestano l'epilogo nel 1049.
Resta comunque fuori discussione la ribellione di G. contro le decisioni imperiali circa il Ducato lotaringio. Enrico III reagì a essa sia con azioni militari - le fonti ricordano con particolare rilievo la presa e distruzione, nel gennaio 1045, di una "urbem munitissimam", che Ermanno di Reichenau (Hermannus Augiensis) chiama Beggelinheim (p. 125), identificata da Jaerschkerski con il castello di Böckelheim - sia con decisioni volte a esautorare il duca ribelle. Nell'estate del 1045 G. finì per sottomettersi all'imperatore. Ciò portava a una tregua nello scontro, suggellata nell'assemblea di Aquisgrana del 18 maggio 1046 le cui decisioni però, come è ovvio, erano in buona misura sfavorevoli per Goffredo. Questi doveva, tra l'altro, consegnare un figlio in ostaggio a Enrico III; tuttavia, forse anche in un tentativo di assicurarsi la fedeltà del turbolento vassallo, l'imperatore restituì a G. il Ducato dell'Alta Lotaringia.
Ben presto, però, G. trovò nuove ragioni per contrastare il proprio sovrano. Nel Ducato di Bassa Lotaringia, al fratello di G., Gozzelone (II), subentrava Federico di Lussemburgo, probabilmente per evitare, ancora una volta, la concentrazione del potere ducale in mano a una sola famiglia. Un'altra questione aperta era quella relativa al titolo comitale su Verdun, detenuto dalla casata di G. e a lui tolto in una assemblea, tenutasi sempre ad Aquisgrana nel 1044. Il vescovo Riccardo aveva ricevuto da Enrico III l'ordine di designare un nuovo conte, ma non aveva mai provveduto a tale nomina, forse anche intimorito dalle azioni di forza con cui G. cercava di recuperare titoli e funzioni detenuti dal padre. Alla morte di Riccardo, avvenuta il 7 nov. 1046, G. dovette sperare che fosse giunto il momento favorevole per recuperare le funzioni comitali su Verdun e tentò, ma invano, di accordarsi con il nuovo vescovo, Teodorico.
Di fronte agli insuccessi diplomatici, G. decise di ricorrere alla forza per una seconda volta, trovando l'appoggio e l'accordo di altri signori della Lotaringia e delle zone contermini, tra cui Baldovino di Fiandra, e forse del re Enrico I di Francia, che di certo aveva interesse a suscitare ribellioni contro l'imperatore di Germania nelle terre di confine. Particolare impressione suscitarono le devastazioni compiute da G. nell'estate-autunno 1047: fonti cronachistiche mettono in rilievo la violenza che si abbatté proprio su Verdun; il fuoco degli incendi appiccati dall'esercito di G. si sarebbe propagato alla stessa cattedrale, nonostante il successivo intervento di G. stesso e dei suoi per cercare di arginare le fiamme. Tuttavia, un esame delle strutture materiali della chiesa ha mostrato che le conseguenze di tali incendi furono meno gravi di quanto le fonti narrative lascerebbero intendere. Di là dalla reale violenza dell'azione, è certo che essa si rivelò efficace e che G. ottenne la nomina a conte di Verdun. La pacificazione tra il vescovo e G. venne suggellata da una serie di donazioni di quest'ultimo a favore di enti ecclesiastici - tra i quali alcuni che aveva precedentemente danneggiato - e da una pubblica, eclatante penitenza che l'avrebbe visto trascinarsi "pene nudus et discalciatus" (Laurentius de Leodio, p. 492) dal sommo della città alla cattedrale.
Continuavano, però, le ostilità dei ribelli contro Enrico III il quale, peraltro, in questa fase, non poteva intervenire direttamente nella repressione perché trattenuto dalle questioni italiane, in particolare dai problematici rapporti con Roma. L'elezione al soglio pontificio di Brunone di Toul il 12 febbr. 1049, che assunse il nome di Leone IX, gli permise di agire con più determinazione contro G. e i suoi alleati. Nell'estate del 1049, G. e Baldovino d'Olanda vennero scomunicati dal papa, che aveva raggiunto l'area degli scontri per portare il suo contributo a una ricomposizione. Tale misura e alcune efficaci campagne militari piegarono ben presto i ribelli e G. subì un processo di fronte all'imperatore e al pontefice. Solo l'intercessione di alcuni ecclesiastici e dello stesso Leone IX resero possibile una riappacificazione tra l'imperatore e G., che venne graziato nell'ottobre dello stesso 1049. Il soggiorno del pontefice in Lotaringia ebbe un'altra conseguenza positiva per G., perché in tale occasione il fratello Federico, allora arcidiacono di S. Lamberto a Liegi, guadagnò la fiducia di Leone IX che, nel 1051, lo portò con sé in Italia, probabilmente insieme con lo stesso Goffredo.
Negli anni tra il 1051 e il 1054 G. appare sporadicamente al seguito dell'imperatore, intento a cercare di riguadagnare una posizione eminente. Condizioni favorevoli si crearono proprio in Italia, dove si trovava, da prima del 1039, una lontana parente di G., Beatrice di Lorena, andata in moglie a Bonifacio di Canossa, marchese di Toscana. Beatrice era figlia di quel Federico al quale Gozzelone (I) era succeduto nell'autorità ducale dell'Alta Lotaringia: forse G. era stato l'amministratore dei beni di Beatrice quando questa era rimasta orfana in giovane età. Si è anche potuto individuare qualche coincidenza cronologica tra le ribellioni antimperiali di cui G. fu protagonista e quelle del primo marito di Beatrice, anche se manca qualunque notizia di rapporti diretti ed espliciti in merito. Con queste premesse i due si sposarono, entrambi alle loro seconde nozze. Il matrimonio si celebrò, probabilmente, nel 1054 e comunque dopo il 6 maggio 1052, quando Bonifacio venne ucciso durante una battuta di caccia in circostanze poco chiare, sebbene sia da escludersi un coinvolgimento di G. stesso in tale assassinio, ipotizzato da alcuni studiosi nei decenni scorsi.
Evidenti erano l'importanza politica dell'unione tra Beatrice e G. e lo sfavore che questa avrebbe incontrato presso l'imperatore; sembra invece che vi giocasse un ruolo determinante Leone IX che, come si è visto, conosceva sia G., sia il fratello Federico, al quale era legato anche per comuni inclinazioni rispetto alle istanze di riforma della Chiesa. Inoltre, il pontefice aveva solidi rapporti anche con Beatrice. Ragioni, infine, meramente politiche - una fase di disaccordo con l'Impero e la necessità di trovare alleati e difensori contro i Normanni - potevano aver suggerito al papa la ricerca dell'appoggio dei due esponenti della famiglia lorenese, i quali, sia pure con atteggiamenti e ragioni diverse, erano entrambi favorevoli alla linea riformista della Chiesa sostenuta da Leone IX.
G. si trovava, così, di nuovo e forse più che mai in una posizione di grande rilevanza, sia per l'estensione dei territori amministrati insieme con la moglie, sia per i cospicui beni che i due accumulavano in Lotaringia, sia, ancora, per il fondamentale ruolo che poteva giocare sul piano meramente politico, in virtù dell'appoggio di Roma. Enrico III, tuttavia, reagì vigorosamente e pare che avesse un ruolo attivo nelle sollevazioni che costrinsero G. a lasciare l'Italia pochi mesi dopo il matrimonio. Inoltre, sceso in Italia, Enrico III provvide a limitare il potere del marchese di Toscana - sono di questi anni le investiture comitali concesse ai vescovi di Arezzo, di Volterra e, forse, di Chiusi - e convocò Beatrice a un sinodo che si tenne a Firenze dal 4 al 14 giugno 1055, in presenza dell'imperatore e del nuovo papa Vittore II. La marchesa fu giudicata con molta durezza e portata in esilio in Germania, al seguito di Enrico III, insieme con la figlia Matilde, avuta da Bonifacio di Canossa.
Due nuovi eventi risollevarono però repentinamente le fortune di G. e Beatrice. In primo luogo, il 5 ott. 1056 moriva Enrico III, lasciando il figlio, Enrico, in minore età e sotto la tutela della madre, l'imperatrice Agnese. Una Dieta, convocata a Colonia per riordinare le questioni aperte nell'Impero, riconosceva G. quale successore di Bonifacio di Canossa. G. e Beatrice tornarono così in Italia come marchesi di Toscana, divenendo un sicuro appoggio per il papa e per la politica di riforma che si cercava di attuare in seno alla Chiesa.
Inoltre, procedeva felicemente la carriera ecclesiastica del fratello di G., Federico, anche grazie al favore che incontrava presso Vittore II: tra il 23 maggio e il 24 giugno del 1057 venne eletto abate di Montecassino e cardinale prete di S. Crisogono. Da Firenze, Federico e il pontefice si spostarono ad Arezzo, dove quest'ultimo si fermò, malato, mentre Federico muoveva alla volta di Roma. Qui lo raggiunse, il 31 luglio, la notizia della morte di Vittore II. Eletto il 2 agosto, Federico venne consacrato papa il giorno dopo con il nome di Stefano IX.
L'elezione del fratello al soglio pontificio doveva garantire a G. un ulteriore appoggio per le sue ambizioni politiche. Un primo, concreto accrescimento del proprio potere fu rappresentato dalla possibilità di estendere il controllo sul Ducato di Spoleto e sulla Marca di Fermo, che Vittore II aveva detenuto come feudo personale per conto di Enrico III e che venne assegnato a Goffredo. Più in generale, il ruolo ricoperto da Federico favorì ulteriormente i rapporti dei marchesi di Toscana con esponenti del movimento riformistico, quali Pier Damiani o Ildebrando di Soana, il futuro papa Gregorio VII, che si rivolsero a più riprese ai due coniugi, con lettere dal tono confidenziale e amichevole. Si rafforzava così il progetto politico di G. che forse, almeno in alcuni momenti, poté aspirare con ragione a un'estensione e un'autorità più ampia entro i confini dell'Italia centrale, tanto da indurre il cronachista Leone di Montecassino ad attribuire a Stefano IX l'intenzione di far cingere al fratello la corona imperiale. Di là dall'autenticità di tali ambiziose e smisurate speranze, resta il fatto che G. riuscì in questi anni a ricoprire un ruolo di grande importanza nel quadro politico generale, posizione che non aveva potuto conquistare negli anni precedenti, quando aveva cercato di porre nelle terre natali la base della propria potenza.
Neanche la morte del fratello, avvenuta pochi mesi dopo la sua elezione (29 marzo 1058), sembrò ridurre, in una prima fase, le possibilità di Goffredo. D'intesa con Ildebrando egli riuscì, infatti, nonostante un quadro di rapporti politici non semplice soprattutto per le pretese di alcuni esponenti della nobiltà romana, a far eleggere papa il vescovo di Firenze, Gerardo, con il nome di Niccolò II. Lo stesso G., in virtù della prerogativa del "conductus" dei papi appannaggio del casato di Canossa, scortò Gerardo fino a Roma, dove venne solennemente intronizzato il 24 genn. 1059.
I primi tempi del pontificato di Niccolò II segnarono, in continuità con quello precedente, una fase di stretto accordo con G., anche negli ambiziosi progetti antinormanni che avrebbero dovuto liberare il Papato dallo scomodo vicino meridionale e nei quali è lecito supporre che G. vedesse la possibilità di un ulteriore allargamento del proprio dominio. I rapporti con Niccolò conobbero, però, un momento di crisi nel 1060, forse anche legato alle decisioni approvate nel corso di un sinodo tenutosi in Laterano, con le quali si negava che l'Impero avesse diritto di intervenire nelle elezioni papali. G. preferì, allora, allontanarsi momentaneamente dall'Italia e dirigersi in Germania, dove si stabilì per diversi mesi, intento a ricucire i rapporti con la realtà politica tedesca, lasciando la moglie Beatrice quale reggente dei beni italiani.
Alla morte del pontefice, la corte tedesca - non si dimentichi che Enrico IV era ancora in minore età - oppose al neoeletto papa, Alessandro II, il vescovo di Parma, Cadalo, che assunse il nome di Onorio II. Questi mosse verso Roma ma venne fermato dalla resistenza organizzata dalla stessa Beatrice; una seconda discesa, però, portava Cadalo fino a Roma. Fu allora lo stesso G. a intervenire, scortando il papa legittimo nella sua vecchia diocesi lucchese, in ossequio alle decisioni prese dalla nuova reggenza imperiale. G., dunque, riuscì in questa fase a rivestire ruoli di primo livello, tanto in ambito italiano, quanto presso le più alte sfere dell'apparato imperiale.
Gli anni a cavallo del 1060 sono anche quelli per i quali si conserva la più abbondante documentazione diplomatica relativa a G., tutta riguardante i beni italiani: nove atti, tra i quali ben otto giudicati pubblici, a mostrare inequivocabilmente l'intenzione di rendere effettivo e capillare il controllo, in particolare sulla Marca di Toscana, proseguendo in ciò gli ambiziosi disegni di casa Canossa, volti a ridare effettivo valore all'autorità marchionale sulla regione. Ai giudicati di G. vanno poi aggiunti quelli tenuti da Beatrice e dalla figlia di questa, Matilde, oltre a numerosi altri atti di protezione, tutela o donazioni a enti ecclesiastici, tra i quali uno dello stesso G. a favore della canonica di Arezzo.
L'impegno nell'amministrazione ordinaria dei beni italiani non portò però G. a rinunciare a mire più ampie. Il riavvicinamento con le maggiori autorità germaniche produceva un ulteriore successo per G. nel 1065, quando la reggenza imperiale gli concesse il Ducato di Bassa Lotaringia. Nell'esercizio di tale carica, G. mise a frutto le esperienze e conoscenze acquisite in Italia: come ha mostrato G. Despy, avrebbe per esempio applicato in Lotaringia le conoscenze tecnico-diplomatistiche apprese in Toscana, per l'estensione di atti pubblici e per la gestione della Cancelleria ducale.
Nello stesso 1065 le istanze relative alla riforma della Chiesa e i problematici rapporti tra Papato e Impero tornarono ad assumere un ruolo importante nella vita di Goffredo. Se, infatti, il riavvicinamento all'Impero non aveva impedito a lui e a Beatrice di perseverare nell'appoggio alla politica di Alessandro II, più complessa risultò la posizione che i due coniugi assunsero rispetto agli scontri scoppiati a Firenze, centro della loro azione politica in Toscana e nei territori canossiani, dove i seguaci di Giovanni Gualberto e dei monaci vallombrosani accusavano il vescovo Pietro Mezzabarba di simonia. G. e Beatrice assunsero la difesa del presule, anche perché le posizioni più radicali sorte in ambito riformistico potevano rappresentare un pericolo per il mantenimento dell'ordine nei loro territori. Se in tali scelte non sembra che trovassero il Papato contrario, un riaccostamento tra G. e l'antipapa Onorio II, nel 1068, forse in relazione con i fatti di Firenze, suscitò invece la reazione sia di Alessandro II sia dell'eminente personalità di Pier Damiani. Il papa impose a G. e a Beatrice la separazione nonché la fondazione di un monastero dotato con i beni di entrambi i coniugi.
Nell'ultimo anno della sua vita, G. tornò, già malato, in Lorena, dove compì una serie di opere pie in favore di chiese e monasteri: a S. Dagoberto di Stenay sostituì i canonici con monaci dell'abbazia di Gorze; fondò, poi, una chiesa a Mogimont e un priorato a Bouillon; ancora, beneficiò l'abbazia di St-Hubert e limitò le ricompense dovute agli avvocati dalle comunità ecclesiastiche della diocesi di Verdun. In questa città G. morì il 24 dic. 1069 - secondo altre fonti, il 21 o il 30 dello stesso mese - non prima di aver tentato un'ultima mossa politica, il matrimonio tra suo figlio Goffredo il Gobbo e la figlia di Beatrice, Matilde.
Con queste nozze G. sperava, evidentemente, di dare continuità a quell'intreccio tra la casa lorenese e quella dei Canossa che era stata la più efficace espressione delle proprie ambizioni politiche e che si basava però, di fatto, sostanzialmente su un'unione personale, non rafforzata da solidi legami istituzionali e in buona misura dipendente dal favore concessogli a più riprese dal potere papale. Anche i tentativi di ridare energie all'organizzazione di un potere centrale nella Marca di Toscana, pur avendo conosciuto qualche momentaneo successo, non riuscirono però a risollevare le sorti di un'istituzione ormai in aperta crisi. Il disaccordo tra Goffredo il Gobbo e Matilde, che ben presto distaccò anche sul piano politico il casato dei Canossa dal figlio di G., e la scelta di posizioni di aperto scontro che quest'ultimo assunse nei confronti del pontefice Gregorio VII, portarono a un deciso mutamento dell'equilibrio nei rapporti tra Lotaringia, Toscana e poteri centrali che G. era riuscito a costruire nel corso della sua lunga vicenda politica.
Oltre a Goffredo, G. aveva avuto dalla prima moglie Doda, altri tre figli: Gozzelone, andato in ostaggio a Enrico III, Waltruda e Ida, sposa di Eustachio conte di Bouillon e madre di Goffredo, ricordato per la sua attiva partecipazione alla prima crociata (cfr. Glaesner, 1947).
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