MAMELI (dei Mannelli), Goffredo
Primo di sei figli, nacque a Genova il 5 sett. 1827 da Giorgio, tenente di vascello della Marina militare sarda, e da Adelaide Zoagli.
Sulla scorta di una tarda testimonianza della madre, alcuni biografi del M. hanno parlato di un matrimonio male assortito. Sembra tuttavia difficile ritenere che, con un padre spesso lontano per crociere che lo portavano nel Baltico e perfino in Sudamerica, il clima familiare abbia pesato negativamente sul carattere del M. e addirittura sul suo sviluppo fisico, segnato sin dai primi anni da un'allarmante gracilità. Tuttavia, tra il marito, proveniente dalla piccola nobiltà sarda e fresco della gloria conquistata nelle operazioni contro i barbareschi, e la moglie, discendente di un'antica famiglia della migliore nobiltà genovese illustrata in passato da due dogi, la distanza derivante dalla rispettiva origine sociale e da rilevanti diversità temperamentali - lui un po' rozzo di modi, lei "coltissima" (Barrili, p. 12) - fu enfatizzata dai differenti punti di vista politici, che nell'uomo erano condizionati dalla posizione professionale e puntavano decisamente sul legittimismo, laddove la donna, fiera del passato repubblicano della sua città, non nascondeva la sua ostilità per il regime monarchico ed era in relazione con molti esponenti della strisciante opposizione ligure a Torino: senza contare, poi, la sua amicizia con il coetaneo G. Mazzini, che, conosciutala a dodici anni, aveva sviluppato per lei una passione adolescenziale rimasta viva fino a quando non l'aveva saputa sposata a "un officier du gouvernement que nous regardions comme notre ennemi" (Luzio, p. 179).
Della prima educazione del M. si occupò M.G. Canale, un intellettuale cui l'adesione al riformismo carloalbertino non avrebbe fatto dimenticare mai del tutto la giovanile affiliazione al mazzinianesimo; poi, nel 1840, il ragazzo fu affidato agli scolopi delle Scuole pie che allora rappresentavano l'alternativa liberale all'insegnamento dei gesuiti, e fu lì che il M., frequentando i corsi di retorica di p. A. Muraglia, fu avviato alla conoscenza dei classici latini e italiani e palesò, con alcuni componimenti di scuola, un precoce interesse per la poesia di cui già intravedeva il potenziale pedagogico; presto avrebbe affermato che "caduti i Petrarchisti e i Frugoniani, s'incomincia a comprendere che l'Arte è una forza; che non è un diletto, ma un apostolato" (Barrili, p. 338).
Di quegli anni di studio non contano tanto, come è ovvio, i primi abbozzi letterari (come i versi del 1841 su Gian Luigi Fieschi seppellito dalla moglie), quanto l'atmosfera in cui crebbe, abbastanza libera per favorire in lui letture di ogni genere (in particolare gli scrittori del romanticismo francese e, fondamentale, G.G. Byron) ma anche capace di suscitargli un'autentica ammirazione per la tradizione ebraica e per i testi biblici (l'Ecclesiaste è il più citato nei suoi appunti), che avrebbe custodito nella memoria come un repertorio di immagini e metafore cui attingere in maniera non puramente esteriore: sicché si è potuto affermare che "il nucleo della prima vena poetica di Mameli ha il suo centro nella vita dei salotti genovesi, animati dalle prime ventate di Romanticismo neocattolico" (Dillon Wanke, p. 113).
Terminato il biennio, si iscrisse ai corsi di filosofia dell'ateneo genovese, e dopo altri due anni di studio, peraltro già contraddistinti da qualche manifestazione di irrequietezza e da una lunga assenza dalle lezioni per motivi mai chiariti, fu ammesso alla facoltà di legge dove nell'agosto del 1847 conseguì il baccellierato. Alla laurea, invece, non arrivò mai, perché ormai le sue vocazioni si erano definite in due direzioni: la poesia e la politica.
Nell'attività letteraria vera e propria aveva esordito con un abbozzo di tragedia in endecasillabi, Paolo da Novi, tratta dall'omonima novella storica dell'amico Canale, ispirato a un personaggio che nel '500 aveva guidato l'opposizione di Genova ai Francesi: che, disegnando il carattere del protagonista, il M. avesse alluso volontariamente a Mazzini è la prova di come fosse da lui sentito l'intreccio tra vita letteraria e vita reale. Poi, tra il 1843 e il 1846, vennero prima alcune ballate di conio romantico (La vergine e l'amante. Romanza araba; Il giovane crociato), quasi esercitazioni di scuola rivelatrici della lettura di G. Prati, quindi le canzoni e i brani scaturiti dalla vena intimistica e dettati in parte dall'amore sfortunato per Geronima Ferretti, poi andata sposa a S. Giustiniani; tra queste ultime liriche emergono gli endecasillabi sciolti del Sogno della Vergine (1843), di Ballata (1845) e quelli della più tarda Un'idea, composta intorno al 1847 e riecheggiante temi e sonorità leopardiane. Tenuto conto dell'età dell'autore, che sin dal 1842 aveva affermato di considerare "miei eternamente acerrimi nemici" i moti dell'anima che sapessero troppo di "sentimentale" e di "platonico" (Codignola, II, p. 345), era notevole la maturazione avvenuta in lui nel volgere di pochi anni, così dal punto di vista tecnico come da quello espressivo.
Consegnata ad alcuni quaderni o letta a pochi amici, questa produzione sarebbe stata conosciuta soltanto dopo la morte del M.; G. Carducci, che fu tra i primi a inquadrarla criticamente all'interno di un profilo del M. occasionato dalla riesumazione dei suoi resti nel 1872, parlò in proposito di "rigatteria romantica", ne mise in risalto i prelievi da Prati e da G. Berchet, ne sottolineò il carattere vaporoso e incline alle fantasticherie, per concludere che i primi versi del M. "rendono e negli argomenti e nel modo onde son trattati un'eco languida e mozza di quella poesia di second'ordine" (Carducci, XVIII, p. 369). Ma idealmente e politicamente Carducci era allora troppo vicino al M. per non temperare tali giudizi con il riconoscimento che, pur nella sua soggezione al modello di poesia più diffuso negli anni '40, "è arcadica l'intonazione, ma il fondo è reale"; e che, con allusione a un personaggio di George Sand, cui il M. era già stato accostato da Mazzini, "non v'è il Tirteo, v'è lo Stenio [(] lo Stenio col presentimento della morte vicina, colla fantasia voluttuosa, con la meditazione della voluttà idealizzata in un sentimento indefinito di mestizia" (ibid., p. 376). Pur accogliendo l'impostazione carducciana, altri studiosi l'avrebbero precisata segnalando tra le fonti del M. le riflessioni sulla bellezza e sul dolore del più pensoso N. Tommaseo ed evidenziando come nelle sue liriche sentimentali "le occasioni ispirative galanti o amorose partecipino della stessa concitazione e delle stesse figurazioni presenti nelle prime prove patriottiche" (Cattanei, p. 126); e contro ogni tentativo di svalutazione avrebbero sostenuto che comunque "Mameli resta un lirico di grandi qualità" morto troppo giovane (Baldacci, p. 365).
A consegnare totalmente il M. alla militanza politica fu l'evoluzione interna della situazione italiana, improvvisamente sbloccatasi nel 1846 con l'elezione di Pio IX. In verità, già due anni prima lo aveva scosso la fine dei fratelli Bandiera (cui nel 1847 avrebbe dedicato uno dei suoi inni più commossi), ma all'epoca il panorama italiano ed europeo non era tale da consentire troppe speranze. Quando però ebbe inizio il processo riformistico innescato dai primi atti del papa "liberale", il M. non si accontentò di abbracciare il programma indipendentistico implicito nella concezione liberalmoderata diffusa da V. Gioberti e, coerentemente con l'impostazione antimonarchica degli inizi, aderì in pieno all'ideologia mazziniana repubblicana e unitaria. A fare da tramite fu il concittadino N. Bixio, incaricato appunto da Mazzini di rilanciare la cospirazione a Genova facendo leva su forze fresche; e il M., che nel marzo del 1847 era entrato a far parte di un'associazione di giovani da poco fondata, l'Accademia Entellica (poi semplicemente l'Entelema), si diede subito da fare per imprimere sulle discussioni che vi avevano luogo, alle quali era molto assiduo, il marchio del pensiero radicale decisamente avverso alle concessioni dei principi: "Per allontanarsi dalla tirannide [(] vi è mestieri di rivoluzioni e di forza", si legge (Codignola, I, p. 41) tra gli appunti di un intervento in cui, come in altri suoi di questi mesi, a quanti sostenevano la tesi dello sviluppo graduale all'interno di un rapporto di collaborazione tra sovrani e sudditi contrapponeva l'autonomia - di lì a poco anche militare - del movimento nazionale, la sua candidatura a farsi creatore della nazione e il principio della sovranità popolare che ne sarebbe stato compimento e sanzione.
Cominciò allora, in coincidenza con il rilievo pubblico acquistato dalla sua figura, la stagione breve ma intensa della grande poesia patriottica: se ne ebbero le prime avvisaglie in due componimenti dell'autunno del 1846, l'epitalamio Ad un angelo, ultimo saluto all'amata da parte del poeta, il "guerrier del Vero" che d'ora in avanti avrà la sua bandiera "fra il sangue, e il fremito / Dove si pugna, e spera / Rivolti all'avvenir", e la canzone L'alba, dove l'appello alla sollevazione contro lo straniero e il giuramento che ne era consacrazione traevano forza dall'evocazione del ricordo imperituro di Roma, non la Roma papale ma quella che risorge e nel farlo si adatta sulla fronte "l'elmo antico": immagini e concetti (per esempio quello della fratellanza) erano già quelli destinati a tornare nel più celebre dei suoi inni. Ed erano sin dall'inizio concetti mazziniani, così come lo era l'estetica cui il M. si ispirava nel dare contenuti e valori di poesia civile ai suoi versi, nell'equiparare, dunque, la poesia all'azione politica; al punto che può dirsi che il suo sforzo consistette nel conferire veste poetica al pensiero di Mazzini, riprendendone le parole d'ordine fondamentali (Dio e Popolo; il mito della terza Roma; il martirio come fonte di nuovi credenti; il dovere come legge di vita) e restituendo loro la capacità di mobilitazione perduta dopo i fallimenti del 1833-34 e la crisi della Giovine Italia.
A differenza delle composizioni che riflettevano stati d'animo personali, i canti del biennio 1847-48 furono spesso eseguiti in pubblico e subito dopo circolarono stampati o su fogli volanti o nei giornali di tendenza democratica. Le occasioni migliori furono offerte al M. dalle manifestazioni genovesi nell'estate-autunno del 1847: alla prima, organizzata il 9 settembre quasi in replica alla celebrazione del riformismo carlalbertino tenuta l'8, seguì la creazione di un Comitato dell'ordine di cui furono chiamati a far parte anche il M. e Bixio, decisi a pungolare da vicino la linea moderata per spingerla verso lo sbocco cui tenevano di più, ossia la guerra all'Austria. Da quel giorno cortei, riunioni, manifestazioni non si contarono più, fino a culminare nella grande rievocazione del 10 dic. 1847 quando, celebrandosi i 101 anni della rivolta di Balilla, lo spirito antiaustriaco toccò il livello più alto proprio sull'onda degli inni composti dal M. e diventati subito popolari, quasi colonna sonora della stagione che si concluderà con la rivoluzione del '48 e, un anno dopo, con la Repubblica Romana. Prima ancora di essere musicati (e non tutti lo furono) possedevano una loro sonorità in virtù del ritmo rapido dei settenari e del ritornello che, ripreso al termine di ogni strofa, martellava nell'orecchio dell'ascoltatore il concetto cardine dell'intero brano. Erano scritti di getto, e questo rende vano l'esercizio di quanti hanno rintracciato fonti più o meno improbabili, laddove appare più corretto l'accostamento ideale ad altri poeti patriottici, come K.T. Körner o S. Pet"fi; e l'immediatezza contribuiva alla loro fortuna perché li faceva percepire come espressione di un pensiero collettivo non necessariamente riconducibile a un preciso autore. Il più famoso di questi inni, Fratelli d'Italia, fu composto in un momento felice d'ispirazione e declamato per la prima volta in pubblico il 9 nov. 1847: era uscito dalla penna del M. con un incipit diverso ("Evviva l'Italia, / L'Italia s'è desta") e nella prima edizione su foglio volante (Modena 1848) era intitolato Canto degli Italiani (mentre in un manoscritto autografo, conservato al Museo del Risorgimento di Torino, figura con il titolo di Canto nazionale). Messo in musica dal maestro M. Novaro che corresse l'incipit, dandogli la forma definitiva, accompagnò per un biennio le gesta dei volontari istillando nel sentire comune, insieme con l'odio per l'Austria, l'orgoglio di un passato che si fregiava delle glorie romane e di quelle dell'Italia dei comuni. Non minore fu il gradimento che toccò a un inno di poco posteriore, scritto Per l'illuminazione del X dicembre a Genova e reintitolato da un editore successivo Dio e il Popolo in ossequio all'empito mazziniano con cui l'autore cercava di infondere nel popolo la coscienza della propria forza; e anche qui divenne notissimo il ritornello "Poi se il Popolo si desta / Dio combatte alla sua testa, / La sua folgore gli dà". Un terzo inno il M. lo scrisse nella seconda metà del 1848 proprio su invito di Mazzini il quale, forse perché poco convinto da Fratelli d'Italia, gli aveva chiesto un testo che, affidato per la parte musicale a G. Verdi, potesse diventare "la Marsigliese italiana" (Mazzini, XXXV, p. 213): il M. scrisse allora uno dei suoi pezzi meno riusciti, All'armi! All'armi!, né a risollevare le sorti dell'inno contribuì la musica di un Verdi in tono decisamente minore.
Dal richiamo alla fratellanza degli Italiani sulla base di una comune origine storica e culturale (anche per il M., come per Mazzini, Dante Alighieri era il padre di un primigenio ideale unitario; del tutto improbabili, invece, i riferimenti massonici riscontrati da taluno) discendeva l'appello alla guerra nazionale. Vissuta come un'ossessione, la prospettiva bellica era sentita dal M. anche sul piano personale come impegno all'addestramento militare in vista di un evento che il deterioramento dei rapporti con l'Austria rendeva sempre più imminente. Appunto all'Italia di Dante faceva riferimento nel programma del giornale La Vestale, scritto nel novembre del 1847: la pubblicazione non fu autorizzata e il foglio, che doveva essere l'organo dei mazziniani genovesi, non uscì mai, ma questo articolo segnò l'esordio del M. nel giornalismo, ossia nell'attività che, in parallelo con la partecipazione agli eventi rivoluzionari, nell'anno successivo all'armistizio di Salasco assorbì gran parte delle sue energie.
Alla guerra del 1848 cercò di contribuire portando in Lombardia, insieme con Bixio, una colonna di circa 500 volontari genovesi che inizialmente aveva denominato "G. Mazzini" e che poi fu chiamata Colonna mantovana. Entrò a Milano il 24 marzo, ma nei mesi successivi il M. e gli uomini da lui guidati con il grado di capitano furono costretti a disperdere tra inutili marce l'ardore combattivo con cui si erano mossi. Da allora la diffidenza dei comandi piemontesi lo rafforzò nei suoi convincimenti mazziniani, ribaditi nel ritorno a Genova, quando, impegnatosi nelle discussioni dei circoli politici, per timore di una svolta municipalistica si dissociò dagli elementi che auspicavano la secessione della Liguria dal Regno sardo e puntavano su una richiesta di intervento francese a sostegno della ripresa delle ostilità.
Gli interventi a stampa che dall'autunno del 1848 il M. pubblicò con regolarità nel Diario del popolo, di cui dal 16 ottobre assunse la direzione, traducevano in termini giornalistici e con un linguaggio piano e persuasivo la concezione mazziniana basata sulla legge del progresso e sul principio di autodeterminazione dei popoli. Vi si denunciava il fallimento totale della guerra regia e si esaltavano tutti quei personaggi (G. Garibaldi, D. D'Apice) e quei luoghi (Venezia, la Sicilia, la Toscana) che testimoniavano la capacità di iniziativa dal basso della nazione; a Venezia era peraltro dedicata una delle ultime poesie del M., Milano e Venezia, di cui divenne subito popolare l'immagine della "gran Mendica" che attendeva dagli Italiani l'obolo che le permettesse di resistere. E tuttavia, rispetto a Mazzini (che aveva conosciuto di persona a Milano e che non gli faceva mancare le sue istruzioni spesso molto secche), gli articoli del M. rivelavano una maggiore duttilità, un possibilismo influenzato certamente dal contesto genovese dove prevalevano i moderati, la ricerca di una via che affratellasse il più possibile contro il nemico comune; allo stesso tempo erano evidenti nel suo approccio una minore ampiezza di vedute, soprattutto in tema di politica internazionale, e l'assenza completa di qualunque riferimento alla questione sociale, fino ad esorcizzare del tutto il fantasma della rivoluzione con la paura che ne potesse nascere una guerra civile o che ne fosse inceppato "il progresso nazionale" (Diario del popolo, 27 e 28 ott. 1848).
La riapertura del fronte insurrezionale e il lancio del programma della Costituente a opera di G. Montanelli gli ridiedero lena. Riorganizzata la Colonna mantovana e, lasciata Genova il 3 novembre, si mise sulle tracce di Garibaldi che raggiunse in Toscana e seguì a Bologna aggregandosi alla sua Legione romana. Era a Ravenna quando apprese che a Roma P. Rossi era stato ucciso. Pochi giorni dopo, la notizia della fuga di Pio IX a Gaeta lo spinse a portarsi a Roma dove, secondo le direttive di Mazzini, si affrettò a fondare un comitato dell'Associazione nazionale per promuovere la convocazione della Costituente. Intanto con i suoi proclami e con gli articoli pubblicati in un giornale romano, la Pallade, a partire dal 19 genn. 1849, svolgeva un'efficace propaganda a favore della guerra ("Guerra, Costituente sono due termini che non possono disgiungersi", scriveva il 21 gennaio, due giorni dopo avere esposto in un altro articolo un programma in cui per la prima volta accennava vagamente ai miglioramenti sociali che la repubblica avrebbe reso possibili). Altro tema pure da lui trattato era quello della compatibilità tra religione e libertà, a riprova del fatto che la rivoluzione romana non aveva inteso colpire il potere spirituale del papa ma restituire ai cittadini la sovranità temporale. La sua speranza era che il resto d'Italia si affrettasse a seguire l'esempio dei Romani e che la città, in quanto culla della nazione, potesse raccogliere un forte esercito con cui dare battaglia all'Austria. In tale ottica la convocazione della Costituente italiana in Roma e la proclamazione della Repubblica Romana (9 febbr. 1849) parvero un fatto decisivo che l'afflusso dei migliori elementi della democrazia (con lui erano, tra gli altri, F. De Boni, P. Maestri, F. Dall'Ongaro, E. Cernuschi) privava di ogni contenuto localistico; perciò quello stesso 9 febbraio si affrettò a chiamarvi Mazzini con un dispaccio famoso ("Roma! Repubblica! Venite!") che ne rivelava l'entusiasmo e la certezza che con quel capo politico l'Unità non fosse lontana.
Ormai per il M. il primo problema era essenzialmente militare e, quando nel marzo del 1849 il Piemonte ruppe la tregua con l'Austria, scrisse per Il Pensiero italiano di Genova più di un articolo in cui chiedeva ai governi dei territori insorti di inviare le loro truppe al Nord. Nella sua città era tornato sul finire di febbraio proprio per convincere i Genovesi a sostenere lo sforzo di Torino; ed era di nuovo a Genova quando, finita malamente la guerra, vi scoppiò l'insurrezione presto domata dai Piemontesi. Di ritorno a Roma il 14 aprile, all'inizio dell'assedio francese fu nominato da Garibaldi aiutante di campo e in tale veste prese parte alla successiva campagna per ricacciare le truppe napoletane dal territorio della Repubblica segnalandosi per valore sia a Palestrina sia a Velletri. Richiamato con Garibaldi a Roma, il 3 giugno, alla ripresa dell'assedio, durante una carica lanciata per riprendere villa Corsini rimase ferito, probabilmente dal fuoco amico, alla gamba sinistra riportando la perforazione della tibia e del perone. Le cure somministrategli non poterono impedire l'insorgere di una cancrena per arrestare la quale i medici decisero, il 19 giugno, di amputare l'arto. Ma ormai l'infezione aveva invaso il suo organismo; dopo due settimane di sofferenze il M. morì il 6 luglio 1849, quando già da tre giorni i Francesi erano entrati in Roma. Chi lo assistette fino alla fine lo sentì improvvisare "continuamente versi sconnessi sulla Italiana indipendenza". Prima che spirasse gli erano stati impartiti i conforti religiosi.
Legata a lui risultò in qualche modo la sorte del padre che due mesi prima era stato collocato a riposo con il grado di contrammiraglio anche per avergli permesso di recitare sulla sua nave alcune poesie patriottiche. Accorso a Roma per salutare il figlio, lo trovò già morto; successivamente sedette per tre legislature (la I, la III e la IV) nel Parlamento subalpino.
I resti del M. furono chiusi in una cassa che fu depositata nei sotterranei della romana chiesa delle Stimmate: esumati, come detto, nel 1872, furono trasferiti al Verano, da dove furono prelevati nel 1941 per la definitiva sepoltura nel sacrario del Gianicolo.
Le circostanze della morte, la giovane età, la brusca interruzione di una promettente attività letteraria, tutto contribuì all'edificazione del mito Mameli, più ancora di quanto fosse successo per A. Poerio, caduto l'anno prima a Venezia in condizioni analoghe. Più di tutti, fu Mazzini che volle fare di lui il simbolo del poeta soldato, sintesi di pensiero e azione ed esempio di una dedizione alla patria capace di spingere fino al sacrificio di sé. Quanto all'inno cui resta legato il suo nome, nel 1946, dopo un periodo di relativo oblio, un decreto approvato qualche mese dopo il referendum del 2 giugno ne sancì provvisoriamente l'adozione come inno ufficiale dello Stato repubblicano, ma non poté impedire che per anni andasse avanti la discussione sull'opportunità di attribuire tale qualifica a un testo per un verso ritenuto, con qualche sufficienza, troppo retorico e provinciale, per l'altro considerato ormai superato se non incomprensibile in alcune espressioni di stampo ottocentesco. Non mancarono proposte di sostituzione più o meno bizzarre, tutte accantonate per conservare un inno che, a dispetto di chi l'ha definito un "misfatto nazionale" (Storia d'Italia [Einaudi], Le regioni dall'Unità a oggi, La Liguria, a cura di A. Gibelli - P. Rugafiori, Torino 1994, p. 200), in questi ultimi anni ha rivelato una insospettabile capacità di tenuta e il 17 nov. 2005, in forza di un decreto legislativo del Senato, è stato formalmente proclamato inno nazionale.
Fonti e Bibl.: Per ricordare il M., nel 1850 fu approntata per cura di M.G. Canale un'edizione genovese di Scritti che raccoglie parte della sua produzione poetica e di quella giornalistica; Mazzini, che vi premise un ricordo, non fu molto soddisfatto della qualità del lavoro, e fu lui stesso a fornire a J. Michelet le notizie con cui lo storico francese, polemizzando con il governo di Luigi Napoleone, tracciò un ritratto del M. che sarebbe stato pubblicato solo nel 1878. Dopo altre edizioni parziali (una torinese del 1859 e una milanese del 1878, entrambe con il titolo Poesie), nel 1902 la Società ligure di storia patria pubblicò quella curata da A.G. Barrili (Scritti editi ed inediti di Goffredo Mameli); infine, nel I centenario della nascita del poeta, apparve, con i due volumi de La vita e gli scritti (a cura di A. Codignola, Venezia 1927), la raccolta più completa delle opere e dell'epistolario del M., affiancata, nello stesso anno, da una edizione torinese delle Poesie a cura di F.L. Mannucci. Di particolare rilievo, tra le fonti edite, Ed. nazionale degli scritti( di G. Mazzini (per la consultazione si veda il vol. di Indici, II, ad nomen). Della bibliografia elencata da Codignola e dei riferimenti bibliografici contenuti nella Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, I, Firenze 1971, pp. 294 s., e nella Bibliografia dell'età del Risorgimento. 1970-2001, ibid. 2003, I, p. 376, e II, p. 808, vanno segnalati le biografie più recenti (M. Stramacci, G. M. tra un inno e una battaglia, Roma 1991; M. Scioscioli, Virtù e poesia. Vita di G. M., Milano 2000) e alcuni saggi o analisi critiche di particolare valore: A. Luzio, G. M., in Profili biografici e bozzetti storici, Milano 1906, pp. 171-194; Studi e documenti su G. M. e la Repubblica Romana (1849), Imola 1927; G. M. e i suoi tempi, Venezia s.d.; G. Carducci, G. M., in Ed. nazionale delle opere di G. Carducci, XVIII, Poeti e figure del Risorgimento, Bologna 1939, pp. 359-411; Id., A commemorazione di G. M., ibid., VII, Discorsi letterari e storici, ibid. 1942, pp. 425-440; L. Balestreri, Le idealità democratiche negli scritti giornalistici di G. M., in Rass. storica del Risorgimento, XLII (1955), pp. 193-205; L. Cattanei, G. M. poeta, in Commentari dell'Ateneo di Brescia, 1995, pp. 125-143; Fratelli d'Italia: G. M. e Genova nel 1847, a cura di E. Costa - G. Fiaschini - L. Morabito, Savona 1998; S. Pivato, Il Canto degli Italiani: l'inno di Mameli, gli inni politici e la canzone popolare, in Almanacco della Repubblica. Storia d'Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, a cura di M. Ridolfi, Milano 2003, pp. 145-158. Tra le storie della letteratura: Poeti minori dell'Ottocento, a cura di L. Baldacci, Milano-Napoli 1958, pp. 365-375; Poeti minori dell'Ottocento, a cura di G. Petronio, Torino 1959, pp. 309-334; V. Spinazzola, La poesia romantico-risorgimentale, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi - N. Sapegno, VII, L'Ottocento, Milano 1969, pp. 1034-1036; M. Dillon Wanke, La letteratura dalla Restaurazione all'Unità, in La letteratura ligure. L'Ottocento, Genova 1990, pp. 108-119 e ad ind.; F. Portinari, Il primo Ottocento, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Barberi Squarotti, IV, Il Settecento e il primo Ottocento, Torino 1992, pp. 373 s.; Diz. del Risorgimento nazionale, III, pp. 437-452 (F. Poggi), nonché pp. 434-436, relative alle biografie dei genitori.