GORGIA (Γοργίας, Gorgĭas) di Leontini
Sofista greco del sec. V a. C.: il più notevole rappresentante dell'antica sofistica dopo Protagora, e insieme il creatore dell'arte retorica. Della sua vita poco è noto: unica data precisa è quella del 427, in cui egli venne ad Atene a capo di un'ambasceria della sua patria per chiedere aiuto contro Siracusa. La sua longevità fu celebrata dalla tradizione, che gli attribuisce 107 o 108 anni di vita (come date più probabili di nascita e di morte possono essere assunte quelle del 483 e del 375): più vecchio di Socrate, gli sopravvisse quindi di molti anni, e poté conoscere il Gorgia platonico, se è vero l'aneddoto che riferisce la sua bonaria osservazione sulla bravura di Platone nel "lanciar giambi", quale "nuovo Archiloco". Con l'esercizio e con l'insegnamento dell'arte oratoria diventò così ricco, da poter dedicare, nel tempio d'Apollo a Delfi, una sua statua d'oro: e anche le altre tradizioni riferentisi al sontuoso suo stile di vita e alla sua serena eutanasia sono concordi nel vedere in lui attuato, in una delle forme più ricche, l'ideale pratico proprio della sofistica.
E con questo ideale è concorde, anche nella sua particolare impostazione teorica, la dottrina gorgiana dell'oratoria come arte produttrice di "persuasione" (πειϑώ), per la quale non tanto importa suscitare nell'animo altrui la conoscenza della verità quanto indurlo alla pratica convinzione che giova alla causa sostenuta dall'oratore: concezione di cui è evidente la parentela col relativismo gnoseologico di Protagora, per quanto (come per esempio nell'idea onde il potere persuasivo della parola assume un aspetto catartico e taumaturgico) possano rintracciarsi in essa molti motivi già proprî del pitagorismo, che facilmente il siciliano G. poté attingere dal suo maestro Empedocle. Di qui la valutazione entusiastica del potere della parola, del λόγος, "grande dominatore, che col più piccolo e invisibile corpo compie le opere più divine" (Encomio di Elena, 8), e la conseguente elaborazione formale dei mezzi oratorî (antitesi, parisosi, ecc.: in una parola, gli schemi retorici assicuranti al discorso la maggior possibile simmetria di ritmi e di suoni), che fa di G., seguace dei siciliani Corace e Tisia, il vero creatore dell'antica oratoria d'arte. Saggi tipici di tale abilità formale sono le difese, che ci restano, di due antiche figure del mito, l'Elena e il Palamede (di autenticità ora nuovamente riconosciuta: ripubblicate dal Diels, insieme con gli altri frammenti e testimonianze gorgiane, in Fragmente der Vorsokratiker, II, 4ª ed., Berlino 1922, pp. 235-66: trad. italiana di M. Timpanaro Cardini, I sofisti, Bari 1923, pp. 34-73; dell'Elena v. anche la recente edizione, riccamente commentata, di O. Immisch, Berlino 1927). E con questa teoria della persuasione retorica è concorde, fra l'altro, anche la definizione della tragedia, come "inganno nel quale chi inganna ha più ragione di chi non inganna e chi è ingannato è più intelligente di chi non è ingannato" (fr. B 23 Diels).
Con questo fondamento positivo, di relativismo pratico, proprio della retorica gorgiana, sembra invece in disaccordo la dottrina filosofica altrimenti attribuita a G., e secondo la quale questi, in uno scritto sovversivamente intitolato Περί τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ ϕύσεως (Del non ente, ovvero della natura) sostenne, in tre distinte argomentazioni, che nessuna cosa esisteva, che se anche fosse esistita non la si sarebbe potuta conoscere, che se anche la si fosse conosciuta non si sarebbe potuto comunicare tale conoscenza agli altri. E infatti, considerata tale dottrina come espressione di un vero e proprio nichilismo e scetticismo, la contraddizione in cui essa veniva a trovarsi col relativismo pratico e positivo della concezione retorica doveva o farla attribuire a una fase anteriore dell'evoluzione del pensiero gorgiano (come pensò il Diels, che vide in essa il documento della crisi di transizione onde G. sarebbe passato dalla fase del naturalismo empedocleo - attestata dalla definizione del colore come "effluvio dei corpi commisurato alla vista" a lui attribuita nel Menone platonico e da una dottrina ottica concernente gli specchi ustorî e ricordata da Teofrasto: v. framm. B 4 e 5 Diels - a quella del relativismo sofistico-retorico, dopo aver vendicato col Περὶ τπῦ υὴ ὄντος, riduzione all'assurdo dell'eleatismo condotta in stile zenoniano, la dissoluzione polemica del pluralismo empedocleo operata appunto da Zenone), o svalutarne affatto il significato filosofico (secondo la conclusione di H. Gomperz, che nel bizzarro scritto di G. vide solo un pezzo di bravura retorico, saggio di abilità nel render plausibile anche l'assurdo). Il problema è stato invece chiarito dalla critica più recente soprattutto mediante l'analisi comparativa delle due esposizioni che ci restano dello scritto gorgiano (quella di Sesto Empirico, adv. math., VII, 65-87, riprodotta in Diels, fr. B 3, e quella dello Pseudo-Aristotele, nella terza parte del De Melisso Xenophane Gorgia, la più recente edizione del quale è quella dello stesso Diels nelle Abhandlungen dell'Accademia di Berlino, 1900). Da questa analisi risulta infatti come l'esposizione di Sesto, da cui deriva l'immagine del G. effettivamente scettico e nichilista, sia in realtà deformata dalla sua intenzione di dossografo dello scetticismo, e debba quindi cedere il passo all'esposizione dello Pseudo-Aristotele, storicamente assai più adeguata e consapevole. In questa, d'altronde, l'intenzione di ironia antieleatica (antiparmenidea nelle due ultime tesi, ma soprattutto antizenoniana nella prima, ontologica, dov'è sfruttata acutamente il motivo di ambiguità della polemica zenoniana, le cui argomentazioni contro il molteplice potevano essere ritorte contro la stessa unità eleatica) dello scritto di G. appare connessa col suo relativismo sofistico, il quale a sua volta si manifesta non alieno dagli stessi documenti teorici, già citati, del suo naturalismo empedocleo: risultando così riaffermata l'unità del pensiero gorgiano.
Bibl.: Citiamo qui solo gli scritti principali: per la bibliografia più particolare cfr. i repertorî dell'Ueberweg e del Marouzeau. Come trattazione generale, ancora utile sotto certi aspetti è il vecchio H. E. Foss, De Gorgia Leontino, Halle 1828 (con l'edizione dello Pseudo-Aristotele). Per la concezione della retorica, e per il pitagorismo, v. A. Rostagni, Un nuovo capitolo nella storia della retorica e della sofistica, in Studî ital. di filol. classica, n. s., II (1922), pp. 148-201: e cfr. anche, ibid., p. 72 segg. Sulla definizione della tragedia, M. Pohlenz, Die Anfänge der griech. Poëtik, in Nachrichten v. d. kön. Ges. d. Wiss. zu Göttingen, phil.-hist. Klasse, 1920: v. spec. p. 158 segg. Per le tre fasi di sviluppo, H. Diels, Gorgias u. Empedokles, in Berliner Sitzungsberichte, 1884, pp. 343-368: v. spec. p. 359 segg. Per la rivendicazione dell'autenticità delle due orazioni, e per l'abbassamento del Περὶ τοῦ μὴ ὂντος a esibizione retorica, H. Gomperz, Sophistik u. Rhetorik, Lipsia 1912, pp. 1-38. Per l'analisi delle due esposizioni, di tale scritto (iniziata per qualche passo da O. Apelt, G. bei Ps. Aristot. u. bei Sextus Emp., in Rhein. Mus. f. Phil., XLIII, 1888, pp. 203-19) e per la conseguente valutazione, G. Calogero, Studi sull'eleatismo, Roma 1932, p. 157-222: dov'è anche confutata l'interessante ipotesi di W. Nestle (Die Schrift des G. über die Natur oder über das Nichtseiende, in Hermes, LVII, 1922, pp. 551-62) che lo scritto di G. non costituisca la riduzione all'assurdo della difesa zenoniana dell'eleatismo, ma anzi proprio l'occasione polemica di tale difesa.