GORIZIA (A. T., 24-25-26)
Città della Venezia Giulia, capoluogo della provincia omonima (v. appresso), con 26.334 abitanti nel 1921. È uno dei centri del Friuli orientale che sorgono al margine delle Alpi Giulie, dove una valle importante sbocca nella pianura. Ma Gorizia, mentre si trova allo sbocco della valle dell'Isonzo e da questa può comunicare coi paesi transalpini, principalmente per mezzo del Passo del Predil e della moderna galleria ferroviaria di Piedicolle, gode del particolare vantaggio di avere a breve distanza i passi di Piro e di Postumia che sono pochissimo elevati e si possono raggiungere senza difficoltà. Gorizia, situata dove s'incrociano vie transalpine, è perciò il primo centro veramente importante che s'incontra scendendo in Italia per le valli dell'Isonzo e del Vipacco ed è nel medesimo tempo città di confine per eccellenza.
Il colle isolato, d'arenaria eocenica, ove sorse il primo nucleo di abitazioni, è alto 148 m. s. m., mentre i borghi che si aggiunsero in seguito al nucleo primitivo si costituirono sull'ampio terrazzo diluviale della sinistra dell'Isonzo, a una media altezza di 82 m. s. m., prevalentemente secondo la direzione parallela al corso dell'Isonzo. Sicché la pianta della città presenta la forma allungata dei centri formatisi lungo strade pressoché parallele congiunte tra loro da trasversali. Bene esposta verso mezzogiorno, protetta contro i freddi venti settentrionali dai poderosi bastioni selvosi dell'alto Carso Goriziano, la città gode di un clima relativamente mite. Le ridenti colline che le fanno corona da tre parti, nei pendii bene esposti ricettano l'olivo e parecchie altre piante circummediterranee. La media temperatura di gennaio è 3°,2, quella di luglio 23°,1, la media annua 12°,9. Sulle sue alture ove si condensa l'umidità apportata dai venti che spirano dal mare, cadono, in media, 1668 mm. di pioggia all'anno e la stagione più piovosa è l'autunno. Il dialetto della popolazione è friulano e veneto. Negl'immediati dintorni della città sorgono importanti opifici: l'attività di alcuni dipende direttamente dalle condizioni locali (produzione di energia elettrica sull'Isonzo, segherie e lavorazione del legname di cui è ricca la provincia, fornaci); altre industrie dipendono meno direttamente dalle condizioni stesse (fonderie, cotonifici, fabbriche di pasta e di sapone).
Al comune di Gorizia sono stati aggregati i comuni limitrofi di Lucinico, Piedimonte del Calvario, Salcano, S. Pietro di Gorizia, S. Andrea di Gorizia, Vertoiba in Campi Santi. Entro i nuovi limiti esso ha una superficie di 10,07 kmq. e una popolazione (1931) di 49.239 ab. (42.260 nel 1921). Altri centri notevoli del comune, oltre al capoluogo, sono (dati del 1921): Lucinico (1841 ab.), Piedimonte del Calvario (1591 abitanti), Salcano (2217 ab.), S. Pietro di Gorizia (1281 ab.) e S. Andrea di Gorizia (1332 ab.).
Storia. - Gorizia è menzionata la prima volta in un diploma di Ottone III del 1001, ma acquistò importanza, quando vi presero stabile residenza i conti di Pusteria, che eran divenuti sui primi del sec. XII avvocati della Chiesa d'Aquileia. La presenza d'una ricca corte feudale diede incremento all'abitato situato accanto al castello e fece sorgere una borgata nel piano sottostante. La popolazione era in buona parte italiana, giacché i conti di Gorizia, tedeschi, si servivano d'impiegati del Friuli o del Veneto.
Nel 1307, il conte Enrico di Gorizia diede agli abitanti della borgata superiore, che sorgeva sul colle, intorno al castello, privilegi cittadini. Più tardi, nel 1455, il conte Giovanni, concesse, similmente, diritti civici, privilegi di mercato e altri alla borgata sottostante: questi due abitati più tardi si fusero in un'unica città.
Nel 1500, estintasi la casa goriziana, avvenne la guerra fra la casa d'Austria e Venezia per la successione. Gorizia fu occupata, nel 1508, dai Veneziani, ma ben tosto la città passò stabilmente agli Asburgo. Nel primo secolo della dominazione austriaca, poco incremento ebbe Gorizia; tuttavia cominciarono a sorgere case d'abitazione d'alcuni signori, dotati dagli Asburgo di ricchi feudi. Di questi alcuni, come i Cobenzl, gli Edling, gli Egk e altri erano tedeschi, ma altri come i Colloredo, i Torriani, i Lantieri, i Coronini erano italiani. La presenza di questa numerosa nobiltà indusse i gesuiti ad aprire nel 1615 un collegio, che fu poi aumentato mediante lasciti del barone Werdenberg; esso divenne un importante centro di cultura italiana. Alcuni nobili, come i conti Sigismondo d'Attimis e Rodolfo Coronini, furono benemeriti promotori di studi e fondarono, nel 1780, nella città, una colonia d'Arcadia. Con la soppressione del patriarcato aquileiese avvenuta nel 1751, Gorizia divenne sede d'un arcivescovado, ciò che ne aumentò ancora l'importanza. La città aveva carattere completamente italiano, come riconobbe lo stesso imperatore Giuseppe II.
Durante il periodo napoleonico Gorizia fu, con alterne vicende, occupata ora dai Francesi e ora dagli Austriaci. Rimase unita alla Francia dal 1809 al 1814. Nei cent'anni che dividono il 1815 dal 1915, sotto il restaurato dominio austriaco, la storia di Gorizia è distinta dal sempre crescente contrasto fra l'austero legittimismo della nobiltà goriziana e il primo sorgere di correnti favorevoli al movimento di liberazione dell'Italia dallo straniero. Già nel 1848 alcuni goriziani s'arruolarono nell'esercito di Carlo Alberto e divennero poi ufficiali piemontesi; nel 1850, Carlo Favetti, segretario del comune, si fece editore del Giornale di Gorizia, che uscì appena per un anno, oggetto di continue persecuzioni per il suo carattere italianissimo. La lotta continuò anche dopo il 1866, che vide escluso il Goriziano dai confini del nuovo Regno d'Italia, e il gabinetto di lettura di Gorizia, la lega nazionale, il giornale di Gorizia, diretto da Carolina Luzzatto, furono i centri animatori della battaglia per la difesa dell'italianità.
La battaglia di Gorizia. - Fin dal principio della guerra italo-austriaca, nel ritrarre la propria difesa sulla sinistra dell'Isonzo, il comando austriaco aveva però lasciato sulla destra del fiume due robuste teste di ponte: a nord quella di Tolmino, cui facevano da sentinelle avanzate le due alture di Santa Maria e Santa Lucia; a sud quella di Gorizia, costituita dal monte Sabotino e dalla collina del Podgora (Piedimonte del Calvario), con l'interposta cortina di Oslavia-Peuma (Piuma), e protetta a nord dalle alture dette "dei tre santi" (monte Santo, San Gabriele e San Daniele), a sud dal monte San Michele, caposaldo difensivo dell'altipiano Carsico.
Al possesso di Gorizia il comando austro-ungarico annetteva singolare importanza, sia perché essa era considerata la città prediletta degli Asburgo, sia perché Gorizia, con la zona circostante, costituiva la chiave di accesso verso la selva di Ternova e la valle del Vipacco. Perciò, del terreno interposto tra il monte Santo e il San Michele e proteso a imbuto verso lo sbocco della valle del Vipacco, il nemico aveva fatto un vasto campo trincerato, i cui elementi principali erano l'accennata testa di ponte e due linee difensive, una delle quali, la più avanzata, correva lungo la sinistra dell'Isonzo, appoggiata ai due pilastri del M. Santo e del San Michele; l'altra, più arretrata, si svolgeva lungo le colline a est della città, con l'antistante fosso della Vertoibizza, e allacciata anch'essa ai due forti capisaldi, ma con la possibilità di essere raccordata, se necessario, anche più indietro, alla selva di Ternova, cioè, e al tavolato carsico, protetti sul fronte rispettivamente dal solco di Chiapovano e dal cosiddetto Vallone.
Nel suo complesso, poi, il campo trincerato goriziano si saldava a nord, attraverso l'altipiano della Bainsizza (Bansizza), alla testa di ponte di Tolmino; a sud, con l'altipiano carsico e i suoi numerosi appigli difensivi, si appoggiava al mare. Con tutte le risorse dell'arte e anche dell'esperienza di quella guerra di posizione, che l'Austria stava già combattendo su altre fronti, nonché con larghezza e modernità di mezzi, la sistemazione difensiva di Gorizia e della sua zona venne così formidabilmente allestita, che il campo trincerato - come giudicarono molti competenti, tedeschi e austriaci - riuscì "un vero modello di moderna fortificazione".
Durante le prime quattro battaglie dell'Isonzo, svoltesi tra il giugno e il novembre del 1915 (v. guerra mondiale), più volte le nostre fanterie attaccarono le difese del Sabotino, di Oslavia e del Podgora, ma i mezzi che allora si avevano a disposizione erano assolutamente insufficienti per vincere la capacità di resistenza del dispositivo avversario; nonostante, quindi, i gravi sacrifizî di vite, i reticolati austriaci riuscirono quasi sempre a frenare lo slancio delle fanterie italiane e a rendere sterili i loro reiterati, ardimentosi sforzi.
Alla fine del 1915, tuttavia, qualche risultato positivo era stato conseguito: sul Podgora eravamo quasi completamente padroni della groppa sud del monte (quota 184, detta Calvario) raggiunta nel novembre dalla brigata Casale, e serravamo da presso il culmine di esso (quota 240); i ruderi di Oslavia e la quota 188, con l'interposta selletta, erano stati anch'essi espugnati negli ultimi giorni di novembre; sul Sabotino, infine, dopo lunghi, tenaci sforzi si erano portate le nostre trincee fin presso i baluardi avversarî, coronanti la sommità del monte. Con un violento contrattacco gli Austriaci riuscirono, alla metà di gennaio, a ristrapparci la posizione di Oslavia; instancabile, tuttavia, continuò durante tutto l'inverno e la primavera del '16 la nostra opera di lento avvicinamento alle posizioni avversarie, specialmente sul Sabotino, e di preparazione per un decisivo attacco.
Giunse alfine l'ora della riscossa vittoriosa, e quando meno il nemico se l'attendeva. Il comando supremo austro-ungarico, infatti, nel maggio 1916 riuscì a precedere ogni nostra iniziativa di offesa (come avevano già fatto i Tedeschi sulla fronte occidentale, con l'attacco di Verdun) sferrando una poderosa offensiva in Trentino. Questa, com'è noto, si risolse in un vero fallimento; con essa, tuttavia il comando austro-ungarico si riteneva pressoché sicuro di aver posto il nostro esercito in condizione di non potere, almeno per qualche tempo, intraprendere operazioni offensive di rilievo. Con rapida e geniale manovra, invece, il nostro comando supremo sospese alla metà di luglio le operazioni controffensive in corso nella regione tridentina, facendo rapidamente affluire un forte nucleo di truppe e di artiglierie verso la città isontina, da oltre un anno meta degli sforzi italiani.
Per concentrare il suo massimo sforzo nel Trentino, l'Austria aveva ritirato truppe non soltanto dai Balcani e dalla Galizia ma anche dal settore dell'Isonzo. Pronunciatasi, poi, ai primi di giugno l'offensiva russa sulla fronte orientale, erano state frettolosamente inviate in Galizia truppe tolte da tutti gli scacchieri della nostra fronte e principalmente dal Trentino, dove, nel frattempo, l'Austria aveva dovuto rinunciare a proseguire nella sua offensiva. Più tardi, verso la metà di luglio, tre brigate furono rimandate anche sull'Isonzo: comunque, alla vigilia della battaglia di Gorizia, la 5ª armata (gen. Boroević) non poteva disporre che di 9 divisioni, con la forza complessiva di 116 battaglioni, 403 pezzi di artiglieria leggera e 137 pesanti. Un'ottantina di battaglioni presidiavano la fronte dal Sabotino al mare; Gorizia era difesa dalla 58ª divisione austro-ungarica, al comando del maggior generale Zeidler, con tre brigate di fanteria e cinque battaglioni di marcia. Tre altri reggimenti di fanteria erano in riserva nelle retrovie.
Il giorno 27 luglio ebbero inizio i febbrili trasporti di truppe e di artiglierie dal Trentino; manovra, che come quella del mese precedente per la costituzione della 5ª armata nel piano veneto tra Padova e Vicenza, fu eseguita con la massima celerità e precisione di movimenti. Da Gorizia al mare, era schierata da parte nostra la 3ª armata (S. A. R. il duca d'Aosta): la nuova azione venne affidata al VI corpo d'armata (gen. Luigi Capello) costituito su sei divisioni, così schierate: la 45ª, sul Sabotino; la 24ª nel tratto quota 188-Oslavia; l'11ª contro le posizioni di Peuma e Grafenberg; la 12ª sulla fronte Podgora-Lucinico; la 43ª e la 47ª in riserva. Oltre 500 bocche da fuoco, tratte dagli altri settori della fronte, furono aggiunte alle numerose batterie già schierate sulla fronte del VI Corpo d'armata, e venne disposto inoltre un largo schieramento di bombarde; l'antica arma italiana da poco richiamata in onore, che in questa battaglia doveva fare la sua prima, egregia prova. La 3ª armata venne così ad avere circa 1300 bocche da fuoco (750 delle quali nel solo settore del VI corpo) e circa 450 bombarde.
L'azione fu accuratamente preparata in ogni suo particolare. Essa doveva essere preceduta da un attacco dimostrativo sulla fronte del VII corpo d'armata (Monfalcone) da svilupparsi due giorni prima, con lo scopo di ingannare l'avversario sulle nostre vere intenzioni; gli altri due corpi d'armata della 3ª armata (XI e XIII) dovevano invece attaccare simultaneamente al VI nella zona di San Michele-Sei Busi. La 2ª armata aveva il compito di appoggiare l'azione principale con una potente dimostrazione di fuoco nella zona di Tolmino. In sostanza, l'azione generale era concepita come uno sforzo di rottura contro la soglia goriziana, da svilupparsi con eguale intensità e decisione su tutta la fronte Sabotino-Podgora, preceduto da un'azione diversiva laterale e seguito, in caso di felice esito della prima fase, dall'allargamento della breccia sull'altipiano carsico. Alla data del 2 agosto tutta la enorme opera di preparazione materiale, morale, tecnica era ormai compiuta. Il duca d'Aosta, alla vigilia dell'attacco, emanò un vibrante proclama alle truppe che si chiudeva con le parole: "avanti, o soldati di Italia! Non vi fermate, finché non avrete posto il piede sul collo del nemico! Vincere bisognal".
Il mattino del 4 agosto il cannone fece sentire la sua voce, dal monte Sei Busi al mare; e nel pomeriggio le fanterie del VII Corpo attaccarono i trinceramenti avversarî dalle pendici meridionali del monte Sei Busi alle quote 85 e 121: in molti punti esse irruppero nelle posizioni avversarie, ma furono poi costrette a ripiegare dalla viva reazione del nemico. Fu durante la lotta sulla quota 85, che avvenne il glorioso episodio del mutilato Enrico Toti il cui gesto sublime doveva poi essere eternato nella storia e nella leggenda (v.).
Il mattino del 6 stesso, intanto, s'iniziava l'azione principale. Alle ore 7 si aprì il coro poderoso delle artiglierie; alle ore 16 le fanterie scattarono dalle trincee. Sul Sabotino, una colonna appositamente costituita e posta agli ordini del tenente colonnello Badoglio, capo di stato maggiore del VI corpo, il quale, dopo aver per mesi diretto i lavori di approccio alle posizioni avversarie, si era poi offerto di condurre le truppe all'assalto di esse, con un solo magnifico sbalzo raggiungeva e oltrepassava rapidamente la linea nemica, occupando tutta la cresta del monte da quota 609 a San Valentino e scendendo su San Mauro, ove prendeva contatto con un'altra colonna che, al comando del generale Gagliani, comandante della brigata Toscana, era balzata anch'essa all'attacco con risolutezza, travolgendo le difese avversarie sul costone di San Mauro.
Sul basso Sabotino, invece, forti nuclei di difensori, resistevano tenacemente asserragliati in munite trincee; cadeva ferito, in un tentativo di assalto, il generale Gagliani, e lo sostituiva il generale De Bono, comandante della brigata Trapani.
Negli altri settori, intanto, la brigata Abruzzi si era impadronita di Oslavia e delle trincee adiacenti, e procedeva su quota 165; la brigata Lambro, invece, aveva incontrato aspra resistenza a quota 188 e sul cosiddetto Dosso del Bosniaco. Sulla destra la brigata Cuneo, travolta la resistenza nemica sulle alture del Grafenberg, si era slanciata fino all'Isonzo, spingendo qualche pattuglia fin sulla sinistra del fiume. Gli Austriaci, però, resistevano tenacemente in un fortino del Grafenberg, sulle alture di Peuma e sul Podgora, non ostante che qui la 12ª divisione avesse compiuto notevoli progressi sulla destra, scavalcando la sommità del Calvario e spingendo elementi fino alle prime case del villaggio di Podgora.
Tutta la notte la battaglia seguitò accanita, specialmente in Val Peumica (Piumizza), dove l'avversario manteneva ancora le sue trincee. All'alba, poi, quattro battaglioni austriaci contrattaccavano risolutamente sul Sabotino la fronte San Valentiho-San Mauro, ma venivano, dopo lunga e sanguinosa mischia, ricacciati dal 77° fanteria, lasciando nelle nostre mani oltre 500 prigionieri e sette mitragliatrici. Contemporaneamente una colonna guidata dal generale Cartella, comandante della brigata Pescara, riusciva a spazzare la Val Peumica dalle ultime resistenze avversarie.
Nella mattinata stessa del 7 la brigata Trapani s'impadroniva della quota 138, liberando così la Val Peumica da ogni offesa sulla destra dell'Isonzo, e la brigata Lambro prendeva saldo possesso della quota 188 e del Dosso del Bosniaco. La brigata Abruzzi, superata la quota 165, si era spinta anch'essa all'Isonzo, ma, contrattaccata da forze superiori, era stata costretta a ripiegare, con perdite molto gravi, e ad abbandonare anche la quota 165. Incuneatasi, però, tra la 24ª e la 45ª divisione la 43ª e ripresa con rinnovato vigore la lotta, la giornata si decideva vittoriosamente anche in questo settore con la definitiva conquista della quota 165 per parte della brigata Abruzzi e con un'avanzata travolgente della brigata Etna verso Peuma, che fruttò la cattura di oltre 700 prigionieri.
Resisteva ancora il nemico sul Podgora, non ostante che la 12ª divisione avesse progredito ancora sul rovescio del monte: poco dopo il cader della notte, anzi, pronunciava un violento contrattacco, col quale si proponeva di tagliar fuori le nostre truppe avanzate verso il fiume, ma il 12° fanteria sosteneva con bravura l'urto e dopo furiosa mischia ricacciava l'avversario. Al Grafenberg, invece, era riuscito agli Austriaci di tagliar fuori quei reparti della brigata Cuneo che si erano spinti all'Isonzo e di stringere attorno al villaggio una morsa, nella quale rimasero chiusi altri reparti della valorosa brigata.
Nel pomeriggio, tra l'11ª e la 12ª divisione venne a schierarsi la 48ª divisione, assumendo la fronte del Podgora nord. Da molti sintomi appariva chiaro che il nemico traversava una crisi gravissima; quella notte stessa, infatti, il comando austro-ungarico dava l'ordine di ritirata sulla sponda orientale del fiume. Il mattino dell'8, quindi, si pronunciò irresistibile la nostra marcia in avanti. Le brigate Trapani ed Etna entravano nel villaggio di Peuma, le alture circostanti erano anch'esse vittoriosamente coronate dalle truppe dell'11ª divisione e al Grafenberg la brigata Cuneo tornava alla riscossa, catturando circa 350 prigionieri e liberando anche parte dei suoi uomini rimasti accerchiati il giorno prima. Anche sul Podgora, gli eventi precipitavano; a mezzogiorno, i difensori di quota 240, vistisi circondati, si arrendevano.
Tutta la sponda destra dell'Isonzo era ormai in nostra mano ed elementi delle brigate Pavia e Casale già si lanciavano a guadare il fiume e raggiungevano di corsa la città, sulla cui stazione ferroviaria un sottotenente del 28° fanteria, Aurelio Baruzzi (medaglia d'oro), issava la prima bandiera italiana.
Anche sul Carso le sorti della battaglia volgevano vittoriose. Nel pomeriggio stesso del 6 agosto le truppe dell'XI corpo d'armata (gen. Cigliana) erano riuscite a espugnare le quattro gobbe del San Michele e la sella di San Martino, catturando oltre un migliaio di prigionieri. Assecondavano l'azione sulla destra le truppe del XIII corpo d'amiata, irrompendo nei trinceramenti nemici e razziandovi prigionieri. Ormai le condizioni avversarie, dopo la perdita di Gorizia e del San Michele, erano molto precarie. All'alba, infatti, del giorno 10 da ogni parte della fronte veniva segnalato che il nemico era in ritirata verso il Vallone; tutte le truppe del Carso mossero allora in avanti ed alla sera stessa del 10 il Vallone era già raggiunto dalle truppe dell'ala sinistra. Sulla destra retroguardie nemiche riuscivano a ritardare alquanto il movimento, ma nella giornata dell'11 le truppe dell'XI e XIII corpo oltrepassavano sull'intera fronte il Vallone, fronteggiando la nuova linea austriaca, che dall'altura del Nad Logem (quota 212) per quota 187-Oppachiasella-Nova Vas (Novavilla) quota 208 nord e sud si saldava alle alture ad est di Monfalcone. Su queste il nemico ancora si difendeva, ma il giorno 12 si risolveva ad abbandonare anche le alture del Debeli, di quota 85 e quota 121, ritirandosi sulle retrostanti quote 144 e 77.
Davanti a Gorizia seguitava intanto il passaggio delle nostre truppe sulla sponda sinistra dell'Isonzo, e con inevitabile lentezza, per molteplici e gravi difficoltà: la scarsezza dei ponti, i più importanti dei quali il nemico prima del ripiegamento aveva fatto saltare, la stanchezza delle fanterie, da tanti giorni impegnate nella battaglia, l'azione, tuttora vivissima, dell'artiglieria austriaca, la scarsa rete stradale affluente all'Isonzo e lo stato stesso delle strade, in più punti interrotte da trincee e da camminamenti, in altre sconvolte ed ingombre dal tiro delle artiglierie, dal trasporto dei feriti, dal rifornimento delle prime linee.
Già fin dal pomeriggio del giorno 8 era stato concentrato a San Lorenzo di Mossa un nucleo di truppe celeri (quindici squadroni di cavalleria, due battaglioni ciclisti e due sezioni di automitragliatrici) col duplice scopo d'inseguimento e di ricognizione. E le prime pattuglie di cavalleria, irradiatesi per il piano, rivelavano già il giorno 9 l'esistenza di una nuova linea difensiva nemica, che dal monte Santo per la sella di Dol risaliva le pendici del San Gabriele, e quindi per Santa Caterina, il cimitero di Gorizia e San Marco raggiungeva il corso della Vertoibizza.
Il mattino del 10 le truppe del VI corpo d'armata e quelle dell'VIII (gen. Ruggeri Laderchi), che aveva assunto il settore di destra da Gorizia alla Vertoibizza, tentarono i primi attacchi a questa nuova linea austriaca, ma fin dai primi contatti si poté constatare che essa, pur senza essere presidiata da forze considerevoli, era tale da opporre serio ostacolo a uno sviluppo rapido e altrettanto fortunato del successo da noi conseguito col passaggio dell'Isonzo. Tanto più che molte delle nostre artiglierie erano tuttora in movimento. Fu compiuto, tuttavia, qualche progresso verso Santa Caterina e sullo sperone di Castagnavizza: l'abitato di Santa Caterina, raggiunto il giorno 11 dalle truppe della 45ª divisione, fu poi dovuto abbandonare per un violento contrattacco avversario.
Alla sera del giorno 11, il comando supremo ordinò che le operazioni fossero temporaneamente sospese, e che tutte le truppe a nord del Vippacco passassero a far parte della 2ª armata (gen. Piacentini).
Il giorno 12, passavano all'attacco le truppe del Carso. La brigata Lombardia (della 23ª divisione) raggiungeva con bello slancio la sommità del Nad Logem, obbligando alla resa circa 1400 uomini, e la brigata Regina (21ª divisione) occupava Oppachiasella. Dura resistenza incontravano, invece, le truppe del XIII corpo davanti a Nova Vas e sulle alture di quota 208 nord e sud, alle cui pendici erano obbligate ad arrestarsi.
Per cinque giorni, quindi, fino al 16, le truppe dei due corpi d'armata sostennero una lotta asperrima per la conquista della linea di alture Volkovniak-Veliki Kribach-Peeinka-Segeti (Seghetti)-quota 202, ma non ostante le rinnovate prove di valore individuale e collettivo, non fu possibile trionfare di quelle aspre posizioni carsiche. L'azione della 38 armata venne quindi sospesa, tanto più che il comando supremo aveva chiesto la collaborazione delle artiglierie della 3ª armata per un nuovo sforzo della 2ª contro le organizzazioni difensive oltre Gorizia.
Questo ebbe inizio il giorno 14, da Plava alla ferrovia di Val Vipacco, e si protrasse fino al giorno 17, senza risultati d'importanza. Il nemico, omiai, aveva ricevuto sufficienti rinforzi e aveva potuto dare alle sue nuove linee una consistenza tale, che per poterne aver ragione era necessario il preordinamento d'un nuovo meccanismo di offesa.
La battaglia, quindi, venne sospesa. Essa costituì, innegabilmente, un successo delle nostre armi, che ebbe anzitutto un'altissima efficacia morale sull'esercito e sul paese, per i quali talune di quelle posizioni dell'Isonzo sempre attaccate e mai espugnate, avevano assunto un aspetto quasi leggendario. Né lievi furono le ripercussioni della nostra vittoria nel campo avversario, sia perché la perdita di Gorizia fu un colpo durissimo per l'imperatore, per il comando austriaco e anche per l'opinione pubblica, cui si era sempre data la città isontina come "inespugnabile", sia perché dallo scacco austriaco - come testimoniano il Falkenhayn, capo di stato maggiore tedesco e altri autorevoli scrittori di parte avversa - derivarono serie conseguenze per la condotta generale della guerra, e principalissimo, il necessario ritiro di truppe austriache dalla fronte orientale e l'intervento in guerra della Romania, sulle cui risoluzioni la vittoria italiana esercitò un peso considerevole.
Con l'offensiva autunnale del 1916 (settima, ottava e nona battaglia dell'Isonzo) si tentò inutilmente di dare respiro alla nostra occupazione con l'espugnazione delle alture immediatamente a est della città; la difesa avversaria, agevolata anche da un periodo di eccezionali intemperie, riuscì a trionfare degli sforzi delle nostre truppe.
Con l'offensiva del maggio '17, invece (X battaglia dell'Isonzo) la 2ª armata, comandata dal gen. L. Capello, concentrò il suo sforzo a nord di Gorizia, sperando di far cadere tutto l'arco montano M. Cucco di Plava, Vodim, M. Santo, M. San Gabriele; e infatti si riuscì a espugnare la cresta Cucco-Vodice. La vetta del Monte Santo, raggiunta il 14 maggio, fu poi riperduta; il San Gabriele resistette ai nostri attacchi.
Con l'offensiva di agosto, anche il Monte Santo cadde in nostra mano, ma, per quanti sforzi di truppe e di artiglierie si concentrassero sul San Gabriele, non fu possibile impossessarsene, soprattutto per gl'ingenti lavori difensivi che gli Austriaci vi avevano compiuto.
Gorizia fu rioccupata dagli Austriaci dopo la nostra ritirata dell'ottobre '17, ma un anno dopo le nostre bandiere ritornavano definitivamente nella "perla dell'Isonzo".
La provincia di Gorizia. - Con r. decr. 2 gennaio 1927 fu istituita la provincia di Gorizia, con confini, però, diversi da quelli dell'omonima ex-provincia austriaca, il cui territorio, nel gennaio del 1923, era stato in parte aggregato alla prov. del Friuli, per il rimanente era entrato a far parte della nuova provincia di Trieste. Secondo la circoscrizione amministrativa, al 21 aprile 1931, la provincia di Gorizia abbracciava una superficie di 2636,15 kmq. Il suo territorio, che confina con la Iugoslavia e con le provincie di Udine e di Trieste, è per intero compreso nel bacino dell'Isonzo e gli appartiene il corso del fiume principale, salvo che nell'ultimo tratto, quello dell'Idria e subaffluenti e - quasi per intero - quello del Vipacco e subaffluenti; partecipa di regioni molto diverse: dalla zona alpina (gruppi del Tricorno e del Canin) e altocarsica (altipiano di Ternova, ecc.) delle Giulie, alla zona collinosa antistante alle Prealpi (Collio), agli altipiani del Carso proprio, a un lembo, infine, di zona piana, intorno a Gorizia e a destra dei corsi inferiori del Vipacco e dell'Isonzo (v. alpi: Alpi Giulie; carso; friuli).
Alla varietà morfologica, geologica e climatica del territorio fa riscontro la varietà dei prodotti agricoli. Della superficie agraria e forestale (oltre 9/10 del territorio della provincia) la percentuale maggiore (circa la metà) è occupata da prati e pascoli, che costituiscono, accanto al bosco, la maggior ricchezza della zona alpina (i cui pascoli sono sfruttati nella stagione estiva: alpeggio) e prealpina, mentre magri pascoli occupano anche parte della zona carsica; si allevano soprattutto bovini (66.200 alla fine del 1927), ma anche ovini, caprini e suini; eccellente la produzione di latticini (formaggio dolce e burro da tavola; si contavano oltre 100 latterie sociali nel 1928). Ai prati e pascoli segue per estensione il bosco, che occupa oltre 1/3 della superficie agraria-forestale, con prevalenza del bosco ceduo di latifoglie; vengono quindi gli arativi e infine i vigneti, gelseti e frutteti. Tra le piante erbacee la più diffusa è la patata, che viene esportata in quantità notevole, il raccolto del 1927 ha superato i 550.000 q.; nello stesso anno i cereali hanno dato 288.355 q. I vigneti (108.260 hl. di vino nel 1927) e gli alberi da frutta (ciliegi, susini, peschi, peri, meli, ecc.) sono caratteristici soprattutto della zona collinare; la frutta - insieme con i prodotti orticoli precoci (patate precoci, ecc., che si coltivano soprattutto intorno a Gorizia) - alimenta una notevole esportazione verso l'Europa centrale. Nella zona piana alla coltura del gelso si accompagna l'allevamento del baco da seta. La provincia di Gorizia è essenzialmente agricola, ma anche le industrie vi sono rappresentate; qui si ricordano le principali. Secondo il censimento industriale del 1927, essa conta 3086 esercizî industriali con 15.869 addetti. Le appartiene la miniera di mercurio di Idria (v.). Le industrie metallurgiche e meccaniche sono rappresentate da fonderie; da una fabbrica di catene a Sagrado; da un'officina per la costruzione di macchine tessili nel comune di Gorizia e da un'altra per attrezzi agricoli e da costruzione, nel comune di Cernizza Goriziana, oltre a molti altri minori stabilimenti. Le industrie tessili contano due cotonifici (uno ad Aidussina e uno a Gorizia), mentre l'industria serica si esercita nei centri della zona friulana, e a Idria si confezionano i noti merletti. Assai diffuse sono le industrie del legno (segherie, mobilifici, fabbriche di oggetti varî: serramenti, sedie, pulegge e manici di frusta), che trovano la materia prima nella ricchezza forestale. A Salona d'Isonzo si trovano i grandi stabilimenti per la fabbricazione del cemento, dell'ardesia artificiale e dei marmi artificiali. La provincia è attraversata dalle linee ferroviarie: Trieste-Piedicolle, che prosegue oltre confine, e UdineTrieste; un'altra linea unisce Gorizia ad Aidussina.
La provincia di Gorizia, secondo i dati del censimento 1921, ma entro la circoscrizione amministrativa al 21 aprile 1931, contava 200.707 ab., saliti a 205.717 nel 1931; con 78 ab. per kmq. (1931); è dunque la meno densamente popolata delle provincie della Venezia Giulia. La popolazione si distribuisce in 42 comuni, di cui solo due (Gorizia e Idria) con più di 10.000 ab.; dei rimanenti, nove superano i 5000 ab.
Bibl.: P. Antonini, Il Friuli Orientale. Studi, Milano 1865 (con bibliografia); M. Gortani e altri, Gorizia con le vallate dell'Isonzo e del Vipacco (volume V della Guida del Friuli edita dalla Società Alpina Friulana), Udine 1930 (con molte note bibliografiche); Consiglio e Ufficio provinciale dell'economia di Gorizia, L'economia goriziana nel 1926-28, Gorizia 1930; G. Della Bona, Strenna cronologica per l'antica storia del Friuli e principalmente per quella di Gorizia fino all'anno 1500, Gorizia 1850; G. Morelli, Storia della contea di Gorizia, con giunte di G. Della Bona, voll. 2, Gorizia 1855; P. Antonini, Il Friuli Orientale, Milano 1865; C. de Czörning, Das Land Görz und Gradisca, Vienna 1873; B. Astori, Gorizia nella vita, nella storia, nella sua italianità, Milano 1916; A. Bozzi, Gorizia nell'età napoleonica, Gorizia 1930; P. Caldini, Gli Stati provinciali goriziani, in Memorie storiche forgiuliesi, XXVIII (1932). - Per la battaglia di Gorizia v. guerra mondiale.
La contea di Gorizia. - Il sorgere della contea di Gorizia, deriva dalla donazione fatta dall'imperatore Ottone III nel 1001 del territorio del castello di Salcano, della "villa" di Gorizia e di tutti i paesi situati fra l'Isonzo, il Vipacco, l'Ortona e il mare, per metà al patriarca Giovanni d'Aquileia e per l'altra metà a Variento, conte del Friuli. È però del tutto sconosciuta la ragione per la quale questo territorio s'era, in precedenza, staccato dalla contea del Friuli. Pare che dopo la donazione ottoniana, ambedue le parti del territorio suddetto pervenissero alla Chiesa d'Aquileia e che la porzione fra il Vipacco, Gorizia e l'Isonzo costituisse più tardi il feudo dell'avvocato della Chiesa: troviamo infatti questo territorio in possesso dei duchi di Carinzia della casa di Eppenstein, che furono per l'appunto avvocati Aquileiesi; costoro però circa nel 1100, poco prima d'estinguersi, avevano subinfeudato il possesso goriziano a una famiglia oriunda della Baviera e imparentata col patriarca aquileiese Sigeardo. Dopo l'estinzione degli Eppenstein e dei Moosburg loro successi nell'avvocazia Aquileiese, questi conti divennero avvocati della Chiesa ed estesero le loro prerogative comitali anche al territorio goriziano. Sorse così in Friuli la potenza dei conti di Gorizia che doveva avere parte precipua negli avvenimenti dei secoli XII-XVI. Di questi conti, un ramo si staccò ben presto, avendo avuto in eredità la contea del Tirolo; il capostipite di tale branca è quel Mainardo che sposò la vedova del re Corrado IV di Svevia.
L'altra branca, più propriamente goriziana, ebbe come capo il fratello di Mainardo, Alberto, che svolse in Friuli e in Istria una politica avversa al patriarcato aquileiese, per allargare i suoi dominî nelle due regioni. Il possesso dei Goriziani fino alla metà del sec. XIII era ristretto a un breve territorio intorno a Gorizia e a Salcano: nella valle del Vipacco i due castelli dello stesso nome appartenevano al patriarca, e così nella valle dell'Isonzo, Tolmino e le valli superiori erano pure patriarcali. Il conte possedeva invece in Friuli i feudi di Latisana, Castelnuovo e Belgrado, nonché varî villaggi intorno a Codroipo. Le mire dei Goriziani furon dirette a impossessarsi di Cormons e ad estendere la loro dominazione nell'alta valle dell'Isonzo: di qui guerre continue con i patriarchi e trame intessute dai conti coi feudatarî friulani, che avrebbero preferito un principe laico a una mutevole signoria ecclesiastica. Questa politica aggressiva dei conti di Gorizia era favorita dalla loro qualità di avvocati della Chiesa, mercé la quale essi, durante le frequenti vacanze della sede, reggevano il governo temporale aquileiese. I Goriziani poterono così allargare i loro dominî verso Cormons e nella valle del Vipacco; in certi periodi poterono anche assidersi a Tolmino, chiave della strada commerciale che metteva in comunicazione la Carniola e la Carinzia con l'Adriatico. Queste mire dei conti di Gorizia furono avversate in particolar modo dai comuni friulani che andavano aumentando la loro potenza. Udine nella prima metà del Trecento respinse gli assalti dei signori da Camino e dei conti goriziani; Cividale riuscí ad assicurare stabilmente al suo dominio la signoria di Tolmino. La Chiesa aquileiese riuscì così a evitare il pericolo che l'avvocato potesse trasformare in principato secolare i suoi possessi. La casa di Gorizia decade nella seconda metà del trecento e quando nel 1420 il Friuli patriarcale cade sotto la dominazione veneziana, i conti erano ridotti ormai a subire gli eventi: Enrico IV ricevette dal doge l'investitura dei suoi dominî.
Nuove vicende ebbe la contea di Gorizia, dopo l'estinzione della casa comitale avvenuta nel 1500 con la morte del conte Leonardo. Un contratto ereditario stipulato fra la casa d'Austria e i Goriziani aveva assicurato la successione reciproca in caso di estinzione; di qui la lotta fra gli Asburgo e Venezia che reclamava invece la devoluzione dei feudi Goriziani per ragione feudale. Questa lotta fu il primo germe della lega di Cambrai (v.) e della lunga guerra che Venezia dovette sostenere fra il 1508 e il 1514. Nel primo anno, la contea di Gorizia cadde in potere dei Veneziani, ma nel 1509 le truppe imperiali vennero alla riscossa e non soltanto i Veneziani perdettero tutto ciò che avevano guadagnato, ma il 13 settembre gli Austriaci riuscirono a far capitolare la rocca di Tolmino e nel tempo stesso, per tradimento, s'impossessarono delle chiuse di Plezzo. Questi passi così importanti per il commercio non furono più potuti ricuperare dai Veneziani e perciò la contea di Gorizia si estese stabilmente a tutta l'alta valle dell'Isonzo.
La casa d'Austria, dopo la pace di Worms, diede stabile assetto alla "contea principesca di Gorizia". Questa si estendeva nella pianura friulana sino a Cormons e a Gradisca; Aquileia stessa ne venne di fatto a far parte, benché di nome spettasse al patriarca. I possessi staccati di Latisana, Belgrado e Castelnuovo erano invece andati a far parte del Friuli Veneto. La contea possedeva però alcuni feudi staccati nell'interno della provincia veneziana, come il castello d'Albana, Gorizzo ed altri. A capo della contea stava un capitano, alla cui dipendenza erano poi capitani minori residenti a Tolmino e a Plezzo con mansioni finanziarie e giurisdizionali; il capitano superiore di Gorizia governava tutto il territorio, del quale buona parte era diviso in signorie feudali: privilegi d'autonomia cittadina avevano soltanto Gorizia, Cormons e Aquileia. Nella contea, al principio del sec. XVI furono costituiti regolarmente gli "stati provinciali" come nelle altre provincie austriache; essi eran formati da prelati, da nobili e da un terzo ceto costituito dai rappresentanti delle città di Gorizia e Aquileia, delle gastaldie di Aiello e di Mossa nonché dai delegati delle comunità dei contadini. Il loro ufficio era quello di consentire al principe certe contribuzioni e di ripartirle poi tra i contribuenti. Ben presto però cittadini e contadini si ritirarono dagli "stati" perché non andavano d'accordo con gli altri ceti e così soltanto clero e nobili continuarono a far parte di questo modesto parlamento provinciale, che durò sino al 1783. Dal 1568 il parlamento ebbe una giunta formata da tre deputati laici e da uno ecclesiastico e costoro intervenivano alla dieta delle provincie ereditarie della casa d'Austria, delle quali Gorizia faceva parte, essendo stata assegnata, come tale, dall'imperatore Carlo V a suo fratello l'arciduca Ferdinando nel 1522.
L'unione della contea goriziana alle provincie austriache non poté a meno di portare qualche effetto nell'orientamento della cultura delle classi aristocratiche, poste così a contatto con la nobiltà tedesca. Famiglie nobili provenienti dalle provincie interne dell'Austria ricevettero feudi nel Goriziano; nobili Goriziani ebbero funzioni onorifiche alla corte e importanti cariche nell'esercito e nell'amministrazione. Per render più forte la loro posizione nell'impero, questi nobili ottennero nel 1626 una dichiarazione dell'imperatore Ferdinando II che li riconosceva come "nativi antichi veri tedeschi". Ciò nonostante la cultura italiana nella contea goriziana non decadde, anzi si rinforzò sempre più nei secoli XVI-XVIII e in quest'ultimo si ebbero a Gorizia manifestazioni letterarie di qualche pregio. La nobiltà era bilingue, come era assai frequente in quest'epoca in tutte le provincie italiane soggette a dominazione straniera. Quanto alla rimanente popolazione, la borghesia nella contea era perfettamente italiana; era in parte slavo invece il ceto contadinesco della media e alta valle dell'Isonzo; nei centri principali, come Tolmino, Caporetto, Canale ancora nel sec. XVIII vi erano moltissimi Italiani.
Le vicende della contea di Gorizia, durante la dominazione austriaca fra il 1514 e il 1797 non hanno grande rilievo: un periodo burrascoso fu quello della guerra di Gradisca fra il 1615 e il 1617. Le mosse dei due eserciti, austriaco e veneziano, portarono gravi danni alle popolazioni. La casa d'Austria, che si dibatteva in gravi strettezze finanziarie non poteva di certo dare alcun aiuto; questa penuria di danaro la costrinse a staccare nel 1647 il territorio di Gradisca dal rimanente della contea, e ad erigerlo in contea principesca a favore della ricchissima famiglia Eggenberg, che l'acquistò per trecentoquindicimila fiorini d'oro. La casa si estinse nel 1717 e il territorio gradiscano ritornò a far parte della contea goriziana.
L'amministrazione del Goriziano non era migliore di quella di altri territorî: la rapacità degli agenti dei possessori di giurisdizioni feudali suscitava lamenti e ribellioni. La contea di Gorizia, come organismo dotato di notevole autonomia e impregnato d'elementi feudali, cessò d'esistere con la riforma dell'imperatriee Maria Teresa e di suo figlio Giuseppe II.
L'antica contea oltre agli stati provinciali già ricordati, coi loro attributi finanziarî, aveva una propria legislazione che s'inizia già al tempo dei Conti, con l'adozione delle Constitutiones Patriae Foriiulii del 1366: tale legislazione venne poi riformata nel 1604 con la formazione delle Constitutiones Comitatus Goritiae. La contea aveva proprî ordinamenti feudali e militari e persino una propria moneta. Di questa larga autonomia delle singole provincie, molto venne tolto da Maria Teresa, che però lasciò sussistere l'esteriorità degli antichi istituti; anche questa parvenza venne poi soppressa da Giuseppe II, che volle assoggettare tutto l'impero a una sola legislazione, tolse i privilegi feudali, abolì gli stati provinciali e ridusse a unità il sistema amministrativo.