Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lessing, uno dei maggiori rappresentanti dell’Illuminismo tedesco, è simbolo del libero scrittore. Innovatore del teatro, poeta e drammaturgo, critico letterario e teorico di estetica, considera la letteratura e l’arte mezzi indispensabili per l’umanizzazione della società e per la creazione di una cultura borghese indipendente contrapposta al dominio dell’autorità assolutista. Nei suoi drammi e scritti teorici verità e saggezza sono preposti – illuministicamente – alla mera erudizione.
Biografia di uno spirito libero
Gotthold Ephraim Lessing nasce a Kamenz, nell’alta Lusazia (Sassonia), il 22 gennaio 1729. Il padre, Johann Gottfried, un erudito pastore protestante, contribuisce profondamente alla sua formazione culturale, fornendogli anche l’opportunità di frequentare, dal 1741 al 1746, la Fürstenschule St. Afra a Meißen, dove il giovane ottiene un’educazione umanistica. Il suo interesse per i classici greci e latini è accompagnato da un vivace desiderio di sapere rivolto alla sua epoca.
Lasciato il collegio, dal 1746 al 1748 studia teologia e filosofia all’università di Lipsia. Grazie all’aiuto del cugino, Christlob Mylius (1722-1754), già dedito all’attività giornalistica e conoscitore dell’ambiente letterario lipsiense, il giovane Lessing si avvicina al teatro, assistendo alle rappresentazioni della compagnia di Caroline Neuber (1697-1759). Incoraggiato da Mylius, riprende il testo di una commedia iniziata a Meißen, Der junge Gelehrte (Il giovane erudito), messa in scena con successo nel 1748 proprio dalla Neuber, e si cimenta nella scrittura di epigrammi e poesie, un primo esercizio, ancora legato alla tradizione letteraria consolidata, per la sua futura attività di letterato.
La frequentazione della compagnia teatrale è motivo di scandalo per la famiglia Lessing, che cerca di riportare il giovane sulla retta via, richiamandolo a Kamenz, pagandone i debiti e acconsentendo poi al cambiamento di facoltà, da teologia a medicina. Tornato a Lipsia, Lessing si fa tuttavia garante di alcuni attori della compagnia della Neuber, che lo abbandonano dopo lo scioglimento della stessa. Inseguito dai creditori Lessing si trasferisce nella Berlino prussiana, città in cui rimane fino al 1755, interrompendo il suo soggiorno solo nel 1752 per concludere, a Wittenberg, i suoi studi di medicina con il titolo di Magister.
A Berlino nascono amicizie che lo accompagneranno per tutta la vita, con il commerciante filosofo Moses Mendelssohn e con lo scrittore ed editore Friedrich Nicolai, e crescono la volontà e l’esigenza di dedicarsi a un unico progetto: diventare scrittore indipendente. Lessing fa il suo ingresso nella scena pubblicistica berlinese scrivendo per il maggiore quotidiano tedesco, la “Berlinische priviligierte Zeitung”, consolida la sua fama di critico e, nel 1753, presenta al pubblico il primo volume dei suoi scritti, cui ne seguono altri cinque, fino al 1755. Il sesto e ultimo volume contiene la “tragedia borghese” in cinque atti Miss Sara Sampson, con la quale lo scrittore approda al grande teatro, quello capace di accrescere la compassione del pubblico e renderlo più virtuoso.
Gli anni seguenti sono contrassegnati dalla guerra dei Sette anni; Lessing deve lasciarsi alle spalle progetti di viaggi, lavorare come segretario per il generale von Tauentzien, il governatore prussiano a Breslavia, accettare rifiuti da parte di Federico II alle sue richieste di lavoro. Malgrado la precarietà economica, tra il 1759 e il 1767 escono alcune opere fondamentali: la rivista critico-letteraria “Briefe, die neueste Literatur betreffend” (“Lettere concernenti la letteratura recentissima”, 1759-1765), che contiene testi di natura polemica sulla letteratura contemporanea e si propone di fondarne una secondo nuovi criteri; la prima parte del Laokoon: oder über die Grenzen der Malerei und Poesie (Laocoonte: ovvero dei limiti della pittura e della poesia, 1766), riflessione teorica su affinità e differenze fra letteratura, pittura e scultura; infine la commedia Minna von Barnhelm oder das Soldatenglück (Minna von Barnhelm ovvero la fortuna del soldato, 1767), amara critica al potere assolutista ambientata nel periodo della guerra dei Sette anni.
Nel 1767 Lessing accetta un posto di drammaturgo al teatro nazionale di Amburgo, esperienza che si concretizza nella raccolta di recensioni e riflessioni critiche sul teatro, la Hamburgische Dramaturgie (Drammaturgia d’Amburgo, 1767-1768), con la quale lo scrittore dà una profonda impronta al nuovo teatro anche grazie ai suoi interventi sulla teoria dei caratteri, le unità aristoteliche, il concetto di catarsi e di genio.
L’impresa con il teatro amburghese fallisce presto: Lessing deve nuovamente cercare un impiego e, dopo anni di indipendenza, nel 1770 diventa bibliotecario al servizio del principe ereditario di Braunschweig presso la Biblioteca Augusta a Wolfenbüttel. La sua vita scorre ora in acque più tranquille; lo scrittore sposa Eva König (1736-1778), conosciuta negli anni amburghesi, e sfrutta le possibilità di pubblicare offertegli dal nuovo compito. Fra il 1774 e il 1778 escono, in forma anonima, alcuni scritti teologici dell’orientalista Hermann Samuel Reimarus, che Lessing frequenta dal 1768, conosciuti come Fragmente eines Ungenannten (Frammenti di un anonimo), una sferzante critica deistico-razionalista della religione rivelata, intorno ai quali si scatena la famosa polemica teologica fra Lessing e il pastore luterano di Amburgo Johann Melchior Goeze (1717-1786), che si conclude, nel 1778, con la censura dei Frammenti.
La passione per il teatro non scema: Lessing porta a termine la sua tragedia Emilia Galotti (1772), idealizzazione della morale borghese su modello della Virginia di Tito Livio, e stende il suo ultimo dramma, incentrato sulla tolleranza religiosa, Nathan der Weise (1779).
Estetica, poetica e critica letteraria
L’attività letteraria di Lessing è costantemente accompagnata da considerazioni di carattere teorico: ora scambi d’opinione con colleghi sulla poetica contemporanea, ora veri e propri saggi di estetica.
Primo organo cui Lessing si affida per dar voce alle sue riflessioni è, negli anni 1759-1765, la rivista “Lettere concernenti la letteratura recentissima”, lettere fittizie indirizzate all’ufficiale Ewald Christian von Kleist, che pubblica insieme agli amici Mendelssohn e Nicolai. Le lettere, composte con l’intento di scrivere “quello di cui parliamo quotidianamente” distanziandosi da quei periodici “gelidi, piatti, di parte, pieni di complimenti” – così Nicolai – divengono presto una vera e propria “arma retorica”. Ne è un esempio la diciassettesima lettera, del 16 febbraio 1759, in cui Lessing riassume, inserendosi nel dibattito contemporaneo sul teatro, la sua polemica nei confronti di Johann Christoph Gottsched in maniera estremamente eloquente. Sulla scia della critica letteraria inglese Lessing contrappone Shakespeare, genio per natura, che non ha bisogno di regole per appassionare il pubblico, ai modelli scelti da Gottsched per la sua riforma del teatro tedesco, i francesi Pierre Corneille e Jean Racine, ligi alle regole, ma incapaci di entusiasmare lo spettatore.
Altro cardine del dibattito teorico dell’epoca sono le modalità di riscoperta dell’eredità classica, di cui Lessing si occupa soprattutto durante il suo soggiorno a Breslavia (1760-1765) stendendo il Laocoonte, il primo di una serie di scritti sull’antichità e risposta diretta ai Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura (1755) di Johann Joachim Winckelmann. In particolare Lessing si esprime su affinità e divergenze fra arti figurative e poesia, ponendosi, con gesto autostilizzante, sullo stesso piano del ben più famoso Winckelmann e proponendo una teoria propria dei limiti delle arti. L’esempio concreto con cui supporta i suoi pensieri è il prototipo della bellezza, già winckelmanniano, ovvero il gruppo del Laocoonte, ritrovato a Roma nel 1506, già descritto da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia e da Virgilio nel secondo libro dell’ Eneide . Come Winckelmann indaga le leggi specifiche per ogni arte e ogni stile, così Lessing analizza i principi che regolano le diverse discipline artistiche. Rifiutando ogni mescolanza delle arti, lo scrittore determina la bellezza di ognuna di esse a partire dai singoli elementi formali che le caratterizzano, senza considerare l’aspetto – centrale per Winckelmann – dell’unità e dell’armonia corpo-anima della figura rappresentata. Lessing giunge alla conclusione che le arti figurative ritraggono colori e forme nello spazio, sono dunque limitate alla rappresentazione di un singolo momento. La poesia, al contrario, grazie al mezzo della lingua, è in grado di rappresentare il processo delle azioni nel tempo, e, quindi, di afferrare quello sviluppo drammatico che manca a una statua o a un quadro.
Nonostante il Laocoonte rimanga incompiuto – Lessing si trasferisce ad Amburgo per intraprendere il progetto di costruzione di un teatro nazionale –, il suo impatto è immediato: come commenta Goethe nell’ottavo libro di Poesia e verità, esso ha la capacità di trascinare “dall’ambito di un gramo intuire verso i campi di un libero pensiero”.
Il rinnovamento del teatro tedesco: La Drammaturgia d’Amburgo
Gli scritti sul teatro e i drammi di Lessing vivono della convinzione che tutte le concezioni tramandate dalla tradizione non debbano essere considerate dogmatiche; debbano altresì essere sottoposte al giudizio critico e attualizzate in relazione alla società contemporanea. Lo dimostrano la sua polemica con Gottsched nella celebre diciassettesima lettera dei Briefe, gli interventi raccolti nella Drammaturgia d’Amburgo e le scelte tematiche effettuate nella stesura dei drammi.
I principi della tradizione e l’esperienza del teatro moderno si uniscono nelle riflessioni di Lessing degli anni 1767-1768 raccolte nella Drammaturgia d’Amburgo, che intende accompagnare “poeti e attori nel loro cammino”, ma che, come ci ricorda il suo autore, non ha “affatto la pretesa di fornire una trattazione sistematica della drammaturgia” – “basta solo che i lettori trovino essi stessi materia sufficiente per riflettere”, perché il teatro “dev’essere la scuola della vita morale”. Nonostante Lessing non miri a proporre una poetica del dramma, i suoi interventi si rivelano veri e propri mattoni di costruzione per l’edificio del teatro moderno.
Lo dimostrano gli acuti pensieri sul concetto di mimesi, già centrale per Aristotele e Platone: per Lessing l’imitazione della natura non è sbagliata, a patto che non sia una “copiatura” della realtà. Lo scrittore non è un fotografo realista; deve anzi interpretare, soggettivizzare quanto vuole rappresentare per portare in scena non tanto l’azione esteriore, bensì “la natura delle nostre sensazioni” – una capacità, questa, che contraddistingue il genio dal “piccolo artista”. Allo stesso modo i personaggi (storici) non saranno una mera copia delle persone reali, bensì ampliamenti dei singoli individui esistenti in natura, elevati, attraverso il dramma, a caratteri universali. Da qui nasce l’esigenza di “caratteri misti”: come in natura tragico e comico si alternano, così dovrebbe essere sul palcoscenico, proprio come nel teatro di Shakespeare, che rivela agli uomini i percorsi del cuore umano. Una figura mostruosa – come quelle di Corneille – o totalmente viziosa risulterebbe invece incoerente, perché inverosimile. Evitare gli opposti estremi nella rappresentazione per creare un legame fra spettatori e caratteri, “fra noi e le persone colpite dalla disgrazia”: questa la regola maestra per rendere possibile la compassione dello spettatore.
La compassione – così Lessing modificando la concezione di catarsi aristotelica – nasce nel momento in cui lo spettatore vede in scena la sfortuna dell’eroe e teme che quanto sta succedendo sulla scena possa capitare anche a lui. Riconosce inoltre che la sfortuna dell’eroe è generalmente dovuta alla sua passione e, di conseguenza, cerca di riflettere sul modo di placare questa sua stessa passione nel caso in cui la provi; effettua così un’operazione del tutto razionale: è la ragione che porta alla purificazione morale.
Emilia Galotti
Negli anni a Wolfenbüttel Lessing riprende progetti che non ha portato a termine negli anni Cinquanta. È il caso di Emilia Galotti, tragedia in cinque atti messa in scena la prima volta a Braunschweig, il 13 marzo 1772, in occasione del compleanno della duchessa, che il suo autore definisce “una pièce borghese”, utilizzando qui il termine “borghese” nel senso di “privato”, come voleva una tipica accezione in uso nel XVIII secolo. In una lettera a Nicolai (21 gennaio 1758) lo scrittore ribadisce che il suo testo va interpretato come la rappresentazione del “destino di una figlia uccisa dal padre, che reputa la virtù più importante della vita”. In realtà il dramma, ambientato nell’Italia rinascimentale, nel piccolo ducato di Guastalla, non è solo la storia personale di Emilia, giovane borghese, che, come la Virginia di Tito Livio, trova la morte per mano del padre che la vuole salvare dalle insidie dello spregiudicato principe Ettore Gonzaga. Con esso Lessing non evidenzia solo la lotta privata fra virtù e vizio, ma porta in scena anche il conflitto fra signore e sudditi: dominatore non è solo il principe, criticato sia come tiranno e politico dilettante che come libertino accecato dalla passione, ma anche il padre Odoardo, che svolge la sua funzione di “difensore della virtù” di Emilia per salvaguardare l’onore della famiglia, soltanto perché il suo ruolo di patriarca lo prevede, senza mai confidare nella saldezza morale della figlia, che, similmente al principe, considera un mero oggetto del suo dominio.
Le strutture del potere condizionano anche il tragico sacrificio di Emilia: la morale borghese le impone di non cedere alle lusinghe del principe e di sottomettersi all’autorità del padre. Non le rimane pertanto che risolvere il conflitto con la morte. L’eroina muore due volte: passivamente restando in silenzio davanti al principe, “come una delinquente che aspetta il suo giudizio di morte”, più attivamente quando sceglie di morire per mano del padre, permettendo così alla virtù di regnare. Un atteggiamento, questo, che calpesta l’individuo? Lessing non risponde alla domanda; sembra invece affidarne la risposta alla capacità di provare compassione, discernere e riconoscere dello spettatore.
Nathan il saggio
Gotthold Ephraim Lessing
Nathan il saggio, Atto terzo, Scena VII
NATHAN. […] Però, Sultano, prima che io ti apra intero l’animo mio, mi permetti ch’io ti narri una favoletta?
SALADINO. E perché no? Son sempre stato un amico delle favole, ben raccontate, s’intende.
[…]
NATHAN. Molti e molti anni fa viveva in Oriente un uomo che possedeva un anello di valore incalcolabile, dono di una mano cara. La gemma era un opale iridescente di cento colori, il quale possedeva la virtù segreta di rendere amabili davanti a Dio ed agli uomini chi lo portasse con tale fiducia. Nessun miracolo adunque se questo uomo, questo orientale, non si toglieva mai l’anello dal dito, e se studiò il modo perché esso rimanesse sempre nella sua casa. E questo modo fu il seguente: egli lasciò l’anello in eredità al prediletto tra i suoi figliuoli, stabilendo che questi a sua volta lo lasciasse al prediletto, e che di generazione in generazione questo prediletto, senza riguardo all’ordine del nascimento e solo in virtù dell’anello, fosse il capo, il principe del casato. M’intendi bene, Sultano?
SALADINO. Ti intendo. Prosegui!
NATHAN. Così, di figlio in figlio, finalmente l’anello capitò nelle mani di un tale che aveva tre figliuoli, che tutti e tre gli erano ugualmente devoti, sicché egli non poteva far a meno di amarli tutti ugualmente. Solo di tanto in tanto or l’uno or l’altro ora il terzo – secondo che si trovavano da soli a soli con lui, e gli altri due non eran lì a contendersi il sensibile cuore del padre – solo allora ciascuno per turno gli pareva più degno dell’anello, che infatti egli ebbe la pia debolezza di promettere a ciascuno… Si andò avanti così per un bel po’, ma la morte si avvicinava. Ed ecco il buon padre negli impicci. […] Che fa? Manda in gran segreto a chiamare un orefice a cui ordina due altri anelli sul modello del primo, ingiungendogli di non risparmiare spesa né pena affinché riescano identici a quello. L’orefice vi riesce perfettamente. Quando egli riporta l’opera sua, neanche il padre non è più in grado di discernere, fra i tre, l’anello primitivo. Tutto lieto chiama a sé i suoi figliuoli ad uno ad uno, dà a ciascuno la sua benedizione e il suo anello…e muore. (Al sultano che si è volto in là colpito) Tu mi ascolti, Sultano?
SALADINO. Ti ascolto, sì, ti ascolto. Ma spicciati colla tua storia. Vieni alla fine!
NATHAN. Io sono alla fine. Giacché, quel che avvenne dopo s’intende da sé. Appena il padre fu morto, ciascuno comparve col suo anello, e ciascuno voleva essere il capo della casa. Si fecero indagini, sorsero liti e querele; ma il vero anello non si poté identificare […] quasi allo stesso modo come oggi non si può identificare la vera religione.
SALADINO. Come? Sarebbe questa la risposta alla mia domanda?
NATHAN. Per lo meno è la mia giustificazione se io non so distinguere tra i tre anelli, che il padre fece eseguire coll’intenzione che non venissero distinti.
SALADINO. Gli anelli?... Non farti gioco di me!... Le religioni che ti ho nominato si distinguono perfettamente persino nel costume, persino nei cibi e nelle bevande…
NATHAN. …e soltanto non nel fondamento. Perché non si fondano tutt’e tre sulla storia, scritta o tramandata? E su che cosa si fonda la storia se non sulla fedeltà e sulla fede? Ora quale fedeltà, quale fede metteremo noi meno in dubbio? Certo quella dei nostri, quella di coloro dal cui sangue usciamo e che fin dall’infanzia ci diedero tante prove del loro amore; né mai ci hanno ingannato, tranne dove l’inganno ci era salutare. E come potrei io, d’altronde, aver meno fede nei miei padri di quel che tu ne abbia nei tuoi? O viceversa. O posso io pretendere che tu smentisca i tuoi padri per non aver da smentire i miei? O viceversa. E questo ch’io dico per te e per me val pure per il cristiano? No?
SALADINO. (Per il Dio vivente. Quest’uomo ha ragione. Io non trovo nulla da obiettargli).
NATHAN. Ma torniamo ai nostri anelli.
[…]
NATHAN. “Quindi – proseguì il giudice – […] Il mio consiglio però è che voi accettiate la cosa come sta; ciascuno di voi ebbe il suo anello direttamente dal padre, ciascuno di voi lo ritenga per quello vero. È possibile che il padre non abbia voluto tollerar oltre nel suo casato la tirannia di quell’unico anello; è certo ch’egli vi ha amati del pari tutti e tre, poiché non volle umiliarne due per esaltarne un terzo. Sta bene! Emulate or voi quel suo amore incorruttibile e scevro di pregiudizi. […]”
G. E. Lessing, Teatro. Minna di Barnhelm, Emilia Galotti, Nathan il saggio, a cura di M. Freschi, trad. it di B. Allason, Torino, Utet, 1981
“Dramma dell’umanità e della tolleranza”, atto a dimostrare “il carattere umano di tutti gli uomini”, Nathan il saggio chiarisce, in forma dialogica, quanto Lessing ha già formulato nei suoi commenti ai manoscritti di Reimarus: che non può esistere un’unica verità rivelata e che, dunque, si può vivere solo nel rispetto delle idee altrui.
Il dramma, che Lessing definisce “un poema drammatico” per l’uso del blank verse – ereditato da Shakespeare e più tardi utilizzato come verso standard nei drammi classici di Goethe e Schiller – deve la sua popolarità alla cosiddetta parabola dei tre anelli, che l’autore riprende dal Decamerone (1349) di Boccaccio e fa recitare al saggio Nathan, modificandola in relazione al suo intento, strettamente pedagogico, di esemplificare l’uguaglianza delle confessioni religiose e rimarcare il dovere alla tolleranza. Questo racconto metaforico non serve a sostituire l’azione drammatica, anzi, la parabola riassume e ribadisce il messaggio offerto dall’azione: come non si può sancire quale sia l’anello autentico, così “non si può identificare la vera religione”. I personaggi si muovono nella Gerusalemme del tempo delle crociate, punto d’incontro e scontro fra ebrei, cristiani e musulmani. Nathan, ricco mercante, rappresenta l’ebreo dall’animo nobile – in contrapposizione alla tradizione teatrale precedente, che era solita rappresentare l’ebreo come figura viziosa –; l’intrigante sultano Saladino, accecato dal potere, rappresenta la religione musulmana; l’ostinato cavaliere templare il cristianesimo. Infine Recha, orfana adottata da Nathan, è in realtà figlia naturale del fratello del sultano Saladino, musulmano, e di una cristiana, nonché sorella del templare; riunisce dunque in sé tutte e tre le confessioni.
L’azione drammatica è tesa a combattere contro i pregiudizi, è opera di chiarificazione tutta intrisa di ottimismo illuminista: gli intricati rapporti fra i protagonisti si risolvono in una finale armonia familiare, di carattere borghese, e Nathan è riuscito a dimostrare l’uguaglianza religiosa.
Gotthold Ephraim Lessing
Differenza fra cavarsela con le regole, e rispettarle
Drammaturgia d’Amburgo
Una cosa è cavarsela con le regole, e un’altra rispettarle veramente. I Francesi seguono la prima strada, mentre gli antichi sembrano gli unici ad aver percorso la seconda.
L’unità d’azione era la prima legge drammatica degli antichi; l’unità di tempo e l’unità di luogo erano, per così dire, soltanto conseguenze di quella, e difficilmente essi le avrebbero osservate con maggior rigore di quanto era richiesto dalla prima, se non si fosse aggiunto il legame del coro. Poiché, infatti, le loro azioni dovevano avere a testimone una folla di popolo che era sempre la stessa, che non si poteva allontanare troppo dalle sue case e che le abbandonava per quel tanto che abitualmente suole quando è spinta dalla semplice curiosità, così quei poeti furono costretti a limitare la scena ad un unico luogo e il tempo ad un solo giorno. A questa limitazione essi si sottomisero bona fide: ma con tale elasticità e buon senso, che nove volte su dieci ne trassero più vantaggio che danno, sfruttando la limitazione stessa come una spinta a semplificare l’azione e a evitare con cura ogni elemento superfluo, in modo che essa, ridotta alla sua struttura essenziale, non diventò altro che un simbolo ideale di quell’azione: simbolo che si modellava perfettamente in una forma, appunto, che richiedeva un’aggiunta minima di circostanze temporali e locali.
G.E. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, a cura di P. Chiarini, Roma, Bulzoni Editore, 1975
Gotthold Ephraim Lessing
Nathan racconta una favola a Saladino
Nathan il saggio, Atto terzo, scena VII
Scena 7 - SALADINO e NATHAN
SALADINO: (Il campo è libero!). Non son mica tornato troppo presto? Sei al termine delle tue riflessioni... E allora parla. Nessuno ci ode.
NATHAN: Ci ascolti pure il mondo intero.
SALADINO: Nathan è dunque così sicuro del fatto suo? Questo chiamo esser saggio! Mai tradire la verità! per lei mettere tutto in gioco: corpo e anima, il sangue e gli averi!
NATHAN: Certo, se è necessario e se giova.
SALADINO: D’or innanzi spero di poter portare con buon diritto uno dei miei titoli: quello di riformatore del mondo e della legge.
NATHAN: Un bel titolo, in fede mia! Però, Sultano, prima che io ti apra intero l’animo mio, mi permetti ch’io ti narri una favoletta?
SALADINO: E perché no? Son sempre stato un amico delle favole, ben raccontate, s’intende.
NATHAN: Raccontar bene non è davvero affar mio.
SALADINO: Eccoti daccapo pien di superbia con l’aria di esser tutto modestia... Ma va avanti! Racconta, su!
NATHAN: Molti e molti anni fa viveva in Oriente un uomo che possedeva un anello di valore incalcolabile, dono di una mano cara. La gemma era un opale iridescente di cento colori, il quale possedeva la virtù segreta di rendere amabili davanti a Dio ed agli uomini chi lo portasse con tale fiducia. Nessun miracolo adunque se questo uomo, questo orientale, non si toglieva mai l’anello dal dito, e se studiò il modo perché esso rimanesse sempre nella sua casa. E questo modo fu il seguente: egli lasciò l’anello in eredità al prediletto tra i suoi figliuoli, stabilendo che questi a sua volta lo lasciasse al prediletto, e che di generazione in generazione questo prediletto, senza riguardo all’ordine del nascimento e solo in virtù dell’anello, fosse il capo, il principe del casato. M’intendi bene, Sultano?
SALADINO: Ti intendo. Prosegui!
NATHAN: Così, di figlio in figlio, finalmente l’anello capitò nelle mani di un tale che aveva tre figliuoli, che tutti e tre gli erano ugualmente devoti, sicché egli non poteva far a meno di amarli tutti ugualmente. Solo di tanto in tanto or l’uno or l’altro ora il terzo - secondo che si trovavano da soli a soli con lui, e gli altri due non eran lì a contendersi il sensibile cuore del padre - solo allora ciascuno per turno gli pareva più degno dell’anello, che infatti egli ebbe la pia debolezza di promettere a ciascuno... Si andò avanti così per un bel po’, ma la morte si avvicinava. Ed ecco il buon padre negli impicci. Il pensiero di tanto contristare due dei suoi figli, che si fidano pienamente alla sua parola, lo tormenta. Che fa? Manda in gran segreto a chiamare un orefice a cui ordina due altri anelli sul modello del primo, ingiungendogli di non risparmiare spesa né pena affinché riescano identici a quello. L’orefice vi riesce perfettamente. Quando egli riporta l’opera sua, neanche il padre non è più in grado di discernere, fra i tre, l’anello primitivo. Tutto lieto chiama a sé i suoi figliuoli ad uno ad uno, dà a ciascuno la sua benedizione e il suo anello... e muore. [Al Sultano che si è volto in là, colpito] Tu mi ascolti, Sultano?
SALADINO: Ti ascolto, sì, ti ascolto. Ma spicciati colla tua storia. Vieni alla fine!
NATHAN: Io sono alla fine. Giacché quel che avvenne dopo, s’intende da sé. Appena il padre fu morto, ciascuno comparve col suo anello, e ciascuno voleva essere il capo della casa. Si fecero indagini, sorsero liti e querele; ma il vero anello non si poté identificare [dopo una pausa in cui Nathan sembra attendere la risposta del Sultano]... quasi allo stesso modo come oggi non si può identificare la vera religione.
SALADINO: Come? Sarebbe questa la risposta alla mia domanda?
NATHAN: Per lo meno è la mia giustificazione se io non so distinguere tra i tre anelli, che il padre fece eseguire coll’intenzione che non venissero distinti.
SALADINO: Gli anelli?...Non farti gioco di me!... Le religioni che io ti ho nominato si distinguono perfettamente persino nel costume, persino nei cibi e nelle bevande...
NATHAN: ...e soltanto non nel fondamento. Perché non si fondano esse tutt’e tre sulla storia, scritta o tramandata? E su che cosa si fonda la storia se non sulla fedeltà e sulla fede? Ora quale fedeltà, qual fede metteremo noi meno in dubbio? Certo quella dei nostri, quella di coloro dal cui sangue usciamo e che fin dall’infanzia ci diedero tante prove del loro amore; né mai ci hanno ingannato, tranne dove l’inganno ci era salutare. E come potrei io, d’altronde, aver meno fede nei miei padri di quel che tu ne abbia nei tuoi? O viceversa. O posso io pretendere che tu smentisca i tuoi padri per non aver da smentire i miei? O viceversa. E questo ch’io dico per te e per me val pure per il cristiano? No?
SALADINO: (Per il Dio vivente! Quest’uomo ha ragione. Io non trovo nulla da obiettargli).
NATHAN: Ma torniamo ai nostri anelli. I figli, dunque, si querelarono, e ciascuno giurò al giudice di aver ricevuto il proprio anello direttamente dalla mano del padre - il che era la verità, - dopo averne già da molto tempo ricevuta la promessa di esser destinato al posto privilegiato che l’anello implicava - e anche questo era la pura verità. Ora - ragionava ciascuno dei figli - il padre non può avermi ingannato; e prima di sospettar questo di lui, di un sì amoroso padre, io devo accusare di falso i miei fratelli - per quanto disposto io sia sempre stato a non pensare che bene sul conto loro - e saprò ben scovare i traditori e vendicarmi.
SALADINO: E il giudice?... Sono impaziente di udire quel che farai dire al giudice. Parla!
NATHAN: Il giudice disse: “O mi portate qua subito subito questo padre o vi scaccio dal tribunale. Credete dunque ch’io sia qui per risolvere degli indovinelli? O dobbiamo aspettare che l’anello autentico apra la bocca e parli?... Ma alto là! Voi mi dite che l’anello genuino ha il magico potere di rendere amabili, cari agli uomini e a Dio. E allora, ecco quello che deciderà, giacché gli anelli falsi non possederanno mica un tal dono... Ora chi è, tra di voi, il beniamino degli altri due? Dite su! Ma voi tacete? Gli anelli non hanno che un potere riflesso e non agiscono verso l’esterno? Ciascuno di voi non predilige che se stesso?... Ah! in tal caso siete tutti e tre dei ciurmadori ciurmati; i vostri anelli son tutti falsi, e il vero anello andò perduto. Per nascondere la perdita e tentar di rimediarvi, vostro padre ne fece far tre in luogo d’uno”.
SALADINO: Bellissimo! stupendo!
NATHAN: “Quindi - proseguì il giudice - se non vi contentate di un consiglio in luogo di una sentenza, andatevene! Il mio consiglio però è che voi accettiate la cosa come sta; ciascuno di voi ebbe il suo anello direttamente dal padre, ciascuno di voi lo ritenga per quello vero. È possibile che il padre non abbia voluto tollerar oltre nel suo casato la tirannia di quell’unico anello; è certo ch’egli vi ha amati del pari tutti e tre, poiché non volle umiliarne due per esaltarne un terzo. Sta bene! Emulate or voi quel suo amore incorruttibile e scevro di pregiudizî! gareggiate tra di voi nel mettere in evidenza la virtù dell’anello! assecondate questa virtù colla mitezza, colla sopportazione cordiale, colla carità del prossimo, colla rassegnazione al volere di Dio. E quando le virtù dell’anello si saran manifestate nei figli e nei figli dei figli, fra mille e mill’anni io li invito ad adire questo tribunale. Un uomo più saggio di me vi siederà ed egli pronunzierà la sentenza. Andate!...” Così disse quel giudice modesto.
SALADINO: Dio! Dio!
NATHAN: E ora, Saladino, se tu ti senti di essere quel più saggio giudice che fu promesso...
SALADINO [si slancia verso di lui e gli stringe la mano, continuando poi a tenerla fra le sue]. Io polvere? io nulla? oh, Dio!
NATHAN: Che fai, Sultano?
SALADINO: Nathan, caro Nathan! i mille e mill’anni previsti dal tuo giudice non sono ancora trascorsi... Il suo tribunale non è il mio... Va’!... va’!... Ma sii mio amico!
G.E. Lessing, Teatro, introd. di M. Freschi, trad. it. di B. Allason, Torino, UTET, 1981