Governabilità
Non esiste una definizione comunemente e concordemente accettata di 'governabilità'. Anzi, molto spesso il termine usato è 'ingovernabilità', oppure si parla di 'crisi di governabilità'. Acquisire, o mantenere, la governabilità è quindi considerato un problema. Governabilità è, in qualche modo, la capacità di governare, la possibilità di governare, l'abilità di governare. Un sistema politico e una società sono, a loro volta, governabili a determinate condizioni. Oppure possono essere o diventare ingovernabili. Fintantoché esistette la governabilità, essa non costituì un problema né analitico né, tantomeno, politico. Veniva data per scontata: quindi non si studiarono né le sue cause, né le sue componenti, né le sue conseguenze. Però all'inizio degli anni settanta e per tutto il decennio, in seguito a fenomeni complessi di cambiamento, i sistemi politici occidentali, e quindi gli stessi regimi democratici, parvero investiti da una crisi di governabilità.
L'individuazione delle cause dell'emergere improvviso e imprevisto della crisi di governabilità rimane ancora oggi problematica. Come sempre nei casi di fenomeni complessi, è a un insieme di cause che bisogna fare riferimento. Ed è alla loro multiforme combinazione, diversa da paese a paese, che è utile e opportuno guardare al fine di ottenere una spiegazione convincente. Di più, appare indispensabile non sottovalutare in alcun modo i processi di internazionalizzazione, e quindi di diffusione di atteggiamenti, aspettative, comportamenti, stili di governo e di opposizione, di controllo e di protesta, di possibilità di guida dell'economia, poiché è proprio all'inizio degli anni settanta, e della crisi di governabilità, che si può effettivamente parlare di sistema internazionale. Dal punto di vista politico, una reazione significativa contro tutti i governi in nome della partecipazione (reazione che nasce nel '68 persino nell'Europa orientale); dal punto di vista sociale, la comparsa di una nuova generazione sulla scena della vita organizzata e produttiva, una generazione non segnata dalla guerra fredda; dal punto di vista culturale, la diffusione di nuovi valori identificati con il termine 'post-materialisti'; dal punto di vista economico: il manifestarsi dell'inflazione e della sua 'esportazione' e, in seguito, l'affermarsi dell'inusitato fenomeno 'inflazione più disoccupazione', misurato dal cosiddetto indice della miseria: queste le cause o, se si preferisce, le condizioni che hanno messo in crisi gli assetti politici, governativi e istituzionali delle democrazie occidentali e che giustificano il ricorso all'espressione 'crisi di governabilità'.Fu in quegli anni che alcuni studiosi delinearono le due principali componenti della governabilità. Proprio perché esse sembravano venute meno, si diede grande importanza alla loro (ri)acquisizione e al loro mantenimento. Insomma, la governabilità è stata definita stabilità politica più efficacia decisionale. Ciò che diventa problematico, a questo punto, è riempire di contenuti univoci e concordemente accettabili proprio queste due componenti essenziali e minime della governabilità.
A lungo trascurata come elemento importante della vita dei sistemi politici, mentre talvolta l'instabilità veniva addirittura teorizzata come elemento creativo del cambiamento, la stabilità politica viene apprezzata proprio allorquando appare più difficile da ottenere e da mantenere, quando se ne segnala la scomparsa e si attribuisce a questa scomparsa l'inizio della crisi di governabilità. Purtroppo, molti autori non procedono alle necessarie specificazioni relative alla stabilità cui si riferiscono: stabilità di quali attori, di quali regole e procedure, di quali strutture politiche? Si finisce così per confondere l'instabilità dei governanti e delle loro politiche con l'instabilità dei governi e delle forme di governo, l'instabilità dei governi (attraverso alternanze che si fanno più frequenti a cavallo dei decenni sessanta-settanta o alternanze che si producono per la prima volta) con l'instabilità dei regimi democratici (e quindi della stessa democrazia), l'instabilità della democrazia con l'instabilità del sistema economico cui essa è prevalentemente collegata (il capitalismo). Di equazione in equazione, parecchi studiosi marxisti e neomarxisti arrivarono frettolosamente a dedurne una crisi della democrazia e del capitalismo, della democrazia capitalistica, inevitabilmente accompagnando tutto questo con la famosa, e mai provata, affermazione dell'incompatibilità strutturale fra capitalismo e democrazia (v. Habermas, 1973; v. Offe, 1982).
Queste analisi, oramai del tutto dimenticate e non più proponibili, da qualunque prospettiva le si guardi, sono gravemente, addirittura irrimediabilmente viziate dall'incapacità, o dalla non volontà, di distinguere non solo fra le forme di democrazia, ma anche fra il capitalismo, nelle sue concrete manifestazioni storiche e sistemiche, e l'economia di mercato. Infatti non tutte le forme dei regimi democratici hanno sperimentato crisi comparabili di governabilità, e non in tutti i casi queste crisi possono essere fatte risalire in qualche modo comprensibile e convincente al capitalismo e/o all'economia di mercato.
Un punto rimane, però, assodato: l'instabilità è in effetti una componente della crisi di governabilità e, di converso, la stabilità politica è una componente della governabilità. Non qualsiasi stabilità, però, è associata alla governabilità, o la produce. Ad esempio, la stabilità degli attori politici, non solo di governo e di opposizione, può condurre alla stagnazione e all'immobilismo quando non si traduce anche in un loro ricambio e in una circolazione delle élites. Debbono intendersi attori politici rilevanti sia i singoli governanti che gli attori collettivi, come i partiti, i sindacati, i movimenti collettivi (e, naturalmente, le loro leaderships). Può, dunque, aversi instabilità sia per ciò che attiene alle persone e alle loro cariche, che per ciò che attiene alle organizzazioni e ai sistemi nei quali operano. Di tanto un sistema politico dipende piuttosto dalle persone che dalle organizzazioni (come, ad esempio, una repubblica presidenziale), di tanto l'instabilità delle persone e delle loro cariche produrrà crisi di governabilità. Di converso, quei sistemi politici basati su assetti istituzionali incentrati sui partiti e sui sindacati saranno più ingovernabili quando l'instabilità investa singoli partiti e singoli sindacati, in special modo se significativi, intaccando i rispettivi sistemi. E non c'è dubbio che nel corso degli anni settanta si ebbero importanti sfide ai partiti e ai sindacati, provenienti anche dai movimenti, e si produssero vari fenomeni di ristrutturazione dei rispettivi sistemi, in termini sia di numero di attori rilevanti che di qualità e d'interazione fra essi (è il fenomeno che va sotto il nome di 'riallineamento': ridefinizione delle appartenenze e delle strutture partitiche). Più complesso è il discorso sulla stabilità delle politiche che, comunque, può essere rinviato alla disamina della seconda componente della governabilità: l'efficacia decisionale.
Dopo aver trattato della stabilità/instabilità degli attori, singoli o collettivi, è necessario parlare della stabilità delle regole, delle procedure e delle strutture, in qualche modo, dunque, della stabilità del regime, e quindi della democrazia. È opportuno sottolineare, non senza stupore, come tutta la discussione sulla governabilità e sulla sua vera o presunta crisi, sia stata condotta con esclusivo riferimento ai regimi democratici. Non solo con il senno di poi, l'oblio in cui furono lasciati gli ingovernabili regimi del socialismo reale appare inspiegabile, ma forse rivelatore di alcune tendenze della ricerca politologica e sociologica. Ugualmente inspiegabile appare l'incapacità di inserire nel discorso il ritorno alla democrazia di alcuni sistemi politici dell'Europa meridionale (Grecia, Portogallo, Spagna) e la loro quasi immediata, e sostanziale, governabilità.
Quanto alle regole, alle procedure e alle strutture, la discussione coinvolge, paradossalmente, sia coloro che affermano che sono proprio le regole, le procedure e le strutture dei regimi democratici a essere intrinsecamente instabili perché 'troppo democratiche', vale a dire troppo esposte alla partecipazione politica e troppo facilmente infiltrate e addirittura plasmate da gruppi sociali, sia coloro che affermano, al contrario, che regole, procedure e strutture democratiche sono una farsa, anzi una maschera dietro la quale si cela la democrazia autoritaria, che blocca la partecipazione politica e impedisce un rapporto reale con la società civile. Secondo Niklas Luhmann, ad esempio, il sistema politico si chiude, addirittura 'deve' chiudersi, diventando completamente autoreferenziale. Secondo altri, la chiusura come risposta all'instabilità produce asfissia. Non solo segnala incapacità, ma mancanza di qualsiasi volontà di interazione; deriva dalla debolezza, dalla fragilità, dalla paura, addirittura, di un crollo possibile. Infine, l'instabilità, e quindi parte dell'ingovernabilità, è prodotta sia dagli imperativi del capitalismo che dai suoi spiriti vitali. Gli imperativi vengono identificati da James O'Connor (v., 1973) in special modo nella creazione e nel mantenimento delle condizioni dell'accumulazione capitalistica. La contraddizione, reputata 'in ultima istanza' esiziale, consiste nella necessità che uno Stato, soprattutto se democratico, ha di alimentare e sostenere congiuntamente sia l'accumulazione, favorendo quindi i capitalisti, che l'armonia sociale, ricercando quell'equilibrio fra le classi sociali indispensabile per la sua legittimazione. Secondo O'Connor, la crisi di governabilità deriva dall'inevitabile squilibrio fra queste due 'funzioni', che consegue dall'eccesso di risorse che gli Stati democratici occidentali sono costretti a redistribuire per mantenere la loro legittimazione a scapito degli imperativi dell'accumulazione capitalistica (e un nuovo equilibrio può essere conseguito sia se il capitalismo vince e fagocita la democrazia, sia se la democrazia vince e fagocita il capitalismo, ma a prezzo della sua trasformazione socialista).
Quanto agli spiriti vitali, molti ritengono che, nella sua furia creativa e distruttiva al tempo stesso, il capitalismo travolga attori, regole, procedure, strutture, e non esiti neppure di fronte alla democrazia nel suo complesso. Il capitalismo è, comunque e ovunque, intrinsecamente destabilizzante e insofferente delle regole, delle costrizioni, dei lacci e lacciuoli che pone un regime democratico (v. Wolfe, 1977). Insomma, se non il capitalismo stesso, le grandi corporations sono incompatibili con la democrazia e con la governabilità democratica (come sostiene, alla fine della sua eccellente ricerca, Charles Lindblom: v., 1977).
E se rimanesse da risolvere il problema del perché questa incompatibilità si sia rivelata quasi contemporaneamente in tutti i regimi democratici negli anni settanta (v. Crozier e altri, 1975), e non prima, la risposta di alcuni di questi autori, massime di Mancur Olson (v., 1982), sarebbe che, superata la fase della ricostruzione postbellica, le regole e le strutture democratiche si sarebbero sempre più rivelate come vincoli, come incrostazioni, come legami da spezzare al fine di consentire un'ulteriore espansione del capitalismo. Di qui l'instabilità politica, derivante dallo scontro fra la lentezza e la farraginosità delle procedure democratiche e il dinamismo altrimenti irrefrenabile dell'economia capitalista. Di qui anche l'attenzione portata all'altra componente della governabilità: l'efficacia decisionale.La stabilità politica può essere una precondizione importante dell'efficacia decisionale. Ma è soprattutto una componente autonoma della governabilità. Dal canto suo, l'efficacia decisionale può derivare o no dalla stabilità politica. Ma anch'essa è una componente autonoma della governabilità. Tanto è vero che l'affermazione di Richard Rose (v., 1979), che ciò che importa non è se saremo governati, ma come, coglie l'essenza del problema. Ed è altresì importante sottolineare che il 'come' di Rose può e deve riferirsi sia alla qualità dei governi, di ciascuno di essi, che alla qualità della democrazia, di ciascuno dei regimi democratici. Anche in questo caso, le distinzioni, che non cancellano la possibilità e la desiderabilità delle generalizzazioni, appaiono utilissime proprio per la comprensione del problema 'governabilità' globalmente inteso.
Congiuntamente, stabilità politica ed efficacia decisionale definiscono, delimitano e misurano il campo della governabilità. Affinché l'efficacia decisionale si esplichi, e quindi sostenga e alimenti la governabilità, sono necessarie alcune condizioni (la cui assenza, ovviamente, conduce in maggiore o minor misura verso l'ingovernabilità). Appare anzitutto necessaria l'esistenza di assetti strutturali che consentano un'adeguata espressione delle domande politiche, la loro articolazione e la loro aggregazione, che diano modo alla rappresentanza di esplicarsi con successo. In secondo luogo, sono importanti i filtri che selezionino le domande (e i rappresentanti che le pongono), che le alleggeriscano ed, eventualmente, le ridefiniscano, le decentrino o le scoraggino. In terzo luogo, è indispensabile che esistano strutture in grado di tradurre queste domande in decisioni con competenza, rapidità e fedeltà. Entrano qui in campo le capacità dei governanti, la solidità complessiva dei sistemi di rappresentanza, la flessibilità e la competenza delle strutture decisionali, gli assetti istituzionali in senso lato.Buona parte degli autori, in primis Richard Rose, hanno definito la crisi di governabilità soprattutto in termini di sovraccarico di domande, e di conseguente incapacità dei governi di rispondervi. Non v'è dubbio che il concetto di sovraccarico meriti particolare attenzione nell'analisi della governabilità. È dunque opportuno definirlo a parte come elemento esplicativo centrale della mancanza di efficacia decisionale, della sua riduzione, della sua impossibilità.
Il concetto di sovraccarico come elemento centrale della crisi di governabilità è stato troppo spesso definito in termini puramente quantitativi. Questa definizione, pure analiticamente utile, deve essere in parte meglio specificata, in parte arricchita da alcuni aspetti qualitativi. Di per sé, sovraccarico significa l'accumularsi di un numero eccessivo di domande. Troppe domande rispetto a che cosa? Ovviamente, rispetto alle capacità di risposta. Ma le capacità di risposta sono quelle di specifici governanti, di decision-makers immediatamente individuabili, oppure della struttura di governo e, più in generale, degli assetti istituzionali (della forma di governo), oppure, ancora, della stessa democrazia (dei regimi democratici)? E sono troppe le domande oppure sono troppi i gruppi che si fanno portatori di quelle domande? Vale a dire che è l'insopprimibile, e spesso fecondo, pluralismo che sta alla base di quelle domande a creare sovraccarico? E le domande sono troppe di numero oppure sono qualitativamente diverse, quindi non facilmente comprensibili né soddisfabili perché inaspettate, originali, innovative?
Evidentemente, qualsiasi risposta a ciascuno di questi legittimi quesiti si fonda su una visione specifica, esplicita o implicita, del funzionamento e della trasformazione dei sistemi politici contemporanei. È in gran parte merito della discussione sulla governabilità l'aver stimolato il perfezionamento di queste risposte e quindi aver riaperto lo stesso dibattito sulla democrazia e i suoi limiti, sulle sue potenzialità e sulla sua trasformazione. Se il sovraccarico viene inteso puramente e semplicemente come l'aumento quantitativo delle domande, allora sono possibili, e sono state effettivamente tentate, due risposte e la loro combinazione. La prima risposta consiste nel ridurre le domande e la seconda, ovviamente, nell'aumentare le risposte.
Ridurre le domande si può, ad esempio, come ha suggerito per primo Samuel Huntington, scoraggiando la partecipazione politica, rendendola più difficile, accrescendo il potenziale di controllo delle autorità. In verità, troppo spesso male interpretato, Huntington ha piuttosto indicato come soluzione preferibile il conseguimento di un riequilibrio fra la partecipazione politica e le domande che essa esprime da una parte, e dall'altra l'istituzionalizzazione delle procedure e delle strutture politiche, vale a dire un potenziamento della loro capacità di risposta. Poiché, però, il politologo di Harvard sa che i tempi per la costruzione di procedure e strutture istituzionalizzate possono essere molto lunghi, le sue preferenze vanno al ristabilimento rapido dell'ordine politico, e quindi della governabilità, attraverso una compressione della partecipazione politica, una riduzione d'autorità delle domande politiche. Almeno fintantoché non sarà possibile istituzionalizzare le procedure e le strutture politiche al livello desiderato, contenere la partecipazione politica consente di guadagnare tempo senza precipitare il sistema in una crisi di governabilità che, secondo Huntington, non sarà comunque in grado di produrre istituzionalizzazione politica. Questa è anche la soluzione prospettata da Luhmann: è la spada della decisione politica che semplifica la complessità, che taglia il peso del sovraccarico, spostandolo ogniqualvolta sia possibile dalla sfera politica alla sfera amministrativa, dal conflitto politico alla discrezionalità burocratica.
Ridurre quantitativamente le domande si può, come dimostrano le esperienze concrete dei governi di Margaret Thatcher e delle amministrazioni di Ronald Reagan (v. Krieger, 1986; v. Fabbrini, 1986). Comprimere la partecipazione politica, scoraggiare i movimenti collettivi, disincentivare la mobilitazione sociale e reprimerla sono tutte risposte possibili, praticabili e concretamente date al sovraccarico. Sono le risposte neoconservatrici.
Ben più difficili sono risultate le risposte riformiste. Secondo non pochi autori, infatti, i riformisti sono parte del problema della governabilità e nient'affatto parte della sua soluzione. Le loro strategie politiche, sociali ed economiche sono responsabili del sovraccarico in tutte le sue versioni: aumento quantitativo delle domande, aumento dei gruppi interessati e abilitati a formulare domande, comparsa di domande qualitativamente diverse, nuove. Il 'consenso socialdemocratico', come lo definisce Ralf Dahrendorf, è basato su un insieme di elementi fra i quali politicamente spicca l'accento messo sulla mobilitazione e sulla partecipazione dei singoli cittadini e ancor più dei gruppi organizzati, socialmente l'accento messo sulla creazione di un sistema di benessere, di assistenza e previdenza, economicamente l'accento messo sullo sviluppo, definito come aumento di beni e risorse, e sulla ridistribuzione della ricchezza. Una società mobilitata e partecipante, protetta e tutelata, proiettata alla ricerca dell'eguaglianza sta alla base della crisi da sovraccarico. Qualcuno va persino oltre parlando di cittadinanza indisciplinata, sprecona e 'inflazionista'.
A tratti il bersaglio dei neoconservatori sembra essere, e in alcuni di essi indubbiamente è, la stessa democrazia politica nella sua forma di maggiore partecipazione e di più intense e sostenute spinte all'eguaglianza sociale ed economica. Tanto che, in effetti, si è sostenuto che, politicamente, il consenso socialdemocratico ha creato situazioni nelle quali tutti gli attori potevano mobilitarsi e, dopo poco tempo, i più importanti di essi, in pratica le grandi associazioni, ma in special modo i sindacati, potevano esercitare pesanti poteri di veto, impedendo proprio l'efficacia decisionale indispensabile per rispondere al sovraccarico. D'altronde, hanno aggiunto molti studiosi, prevalentemente political economists, l'inflazione è, in grande o piccola parte, prodotta proprio dalla competizione democratica, dalla necessità per i politici di promettere di più nel corso delle campagne elettorali, di distribuire di più una volta andati al governo, di allargare ulteriormente i cordoni della borsa per mantenere il controllo del governo: il cosiddetto ciclo politico-elettorale. Allora, sotto accusa cadono governi e governanti, ma più in generale tutti i politici: sono essi a manifestarsi avidi e incompetenti, permissivi e dilettanteschi (v. Brittan, 1977). Peraltro, una serie di controevidenze temperano o addirittura falsificano la teoria della democrazia, o della democratizzazione, come causa fondamentale della crisi di governabilità.
È stato infatti notato che sono stati proprio i sistemi politici nei quali i grandi gruppi erano meglio organizzati, più coesi e maggiormente dotati di capacità di negoziazione e di pressione a superare più facilmente il sovraccarico (v. Scharpf, 1983; v. Schmitter, 1981). Vale a dire che gli assetti cosiddetti neocorporativi, di rapporti triangolari governo-organizzazioni sindacali-associazioni imprenditoriali, hanno retto meglio l'urto della crisi che non gli assetti dove tutti questi gruppi e la stessa compagine governativa erano divisi e frammentati (v. Bordogna e Provasi, 1984). Paradossalmente, la rigidità dei grandi gruppi ha prodotto, da un lato, maggiore disciplina e, dall'altro, maggiore capacità di differire i vantaggi e di accettare i sacrifici. Inoltre ha rallentato o, tout court, ostacolato l'accesso sulla scena politica e sociale di nuovi gruppi e quindi la frammentazione politica, sociale, rivendicativa non ha trovato spazi da sfruttare. Tuttavia è vero che, almeno sulla base di quanto documentato da Olson, là dove i gruppi sono politicamente deboli, o addirittura inesistenti, il tasso di sviluppo economico è risultato più elevato che dove i gruppi sono da tempo organizzati, coesi e forti. Di per sé, però, e da solo, il tasso di sviluppo economico non è necessariamente un buon indicatore di governabilità. Quanto al ciclo politico-elettorale e al suo collegamento stretto con la crisi di governabilità, è stato rilevato come siano necessarie molte specificazioni prima di accedere alla tesi della democrazia politica come ineluttabile dispensatrice di sovraccarico e di inflazione. Bisogna, infatti, che si presentino, e presumibilmente sussistano tutte insieme, le seguenti condizioni. Che la compagine governativa intenda effettivamente fare ricorso alla spesa pubblica come leva per la vittoria elettorale. Che la compagine governativa sia ferma, determinata e coesa nel perseguimento di simile strategia, condizione di non facile attuazione nei casi, alquanto numerosi, di coalizioni multipartitiche. Che il governo sia in pieno controllo, o perché fissa e rigida o perché manipolabile ad libitum, della data delle elezioni. Infine, ma non da ultimo, che l'apparato burocratico-esecutivo delle decisioni di politica economica del governo sia rapido nell'esecuzione, affidabile nell'attuazione, preciso nel conseguimento degli obiettivi. Quand'anche tutte queste condizioni si verifichino congiuntamente (v. Tufte, 1978), rimane aperto l'interrogativo se il loro esito debba comunque e sempre essere un aumento del sovraccarico e dell'inflazione, e perché questo aumento si sia manifestato soltanto negli anni settanta (e, fra l'altro, sia venuto sostanzialmente e sollecitamente meno negli anni ottanta: v. Eulau e Lewis-Beck, 1985; v. Hibbs, 1987).
Socialmente, il discorso del sovraccarico ruota intorno alla creazione di un legame stretto fra le burocrazie degli Stati del benessere e i percettori di risorse, fra i cosiddetti policy makers e i policy takers. Il potere acquisito da questi ultimi, che diventano un gruppo di riferimento importante, anche in termini di voti, non può essere facilmente ridotto. Il sovraccarico deriva dalla difficoltà di ridefinire rapidamente i percettori dei benefici di welfare, di operare flessibilmente e costantemente, favorendo ingressi e uscite dai vari settori del welfare: assistenza e previdenza, istruzione, lavoro, malattia e pensione. Economicamente, infine, il problema del sovraccarico è dato dalla quantità d'intervento diretto dello Stato nell'economia. Questo è l'ambito nel quale si registrano le maggiori variazioni fra le democrazie occidentali, sia quantitativamente che qualitativamente. Vale a dire che i regimi democratici differiscono notevolmente, sia dal punto di vista del tipo di economia mista (con quanta presenza di capitale pubblico e in quali settori), sia dal punto di vista degli strumenti utilizzati (proprietà e azionariato, incentivi e disincentivi fiscali), sia dal punto di vista della loro efficacia e della quantità di sottogoverno disponibile e utilizzata. Quanto maggiore è la loro presenza nel settore economico, tanto più consistente potrà risultare il sovraccarico di domande (di interventi a sostegno, di salvataggio, d'investimento, di ristrutturazione) e tanto maggiori le competenze manageriali richieste (e spesso non disponibili agli apparati statali). Insomma, il sovraccarico può anche essere determinato dall'eccessiva estensione della mano pubblica nella società e nell'economia, dalla sovraesposizione dello Stato.Quanto al cambiamento qualitativo delle domande, a proposito del quale si è appropriatamente parlato di "rivoluzione silenziosa" (v. Inglehart, 1975 e 1990), si possono fare due osservazioni significative. Da un lato è possibile sostenere che le tradizionali élites politiche non avevano negli anni settanta e non hanno ancora acquisito gli strumenti culturali per rispondere alle nuove domande. La crisi di sovraccarico s'intreccia a questo punto con il ricambio generazionale, che inevitabilmente colpisce i sistemi politici durati per un lungo periodo di tempo (dal 1945 al 1970), caratterizzato da accelerati mutamenti in tutte le sfere. Dall'altro, è plausibile affermare che le strutture politiche e amministrative dei regimi liberal-democratici erano state classicamente costruite con l'obiettivo di fornire risposte ai problemi congiunti dell'ordine pubblico e dello sviluppo economico. Poste di fronte alle domande 'postmaterialiste' di maggiore partecipazione e di maggiore influenza decisionale, quelle stesse strutture rappresentative e decisionali, parlamenti e governi, hanno rivelato la loro inadeguatezza. Allo stesso modo hanno rivelato i loro ritardi le strutture partitiche e sindacali, non a caso sfidate da movimenti collettivi, talvolta anche monotematici, single issue. E la sfida è stata ancora più seria per quei partiti che avevano esaltato la partecipazione e l'influenza decisionale senza approntare al loro interno i canali e gli strumenti adeguati a farle valere in maniera soddisfacente (v. Pasquino, 1980). Dunque, i partiti e i sindacati riformisti e socialdemocratici piuttosto che i partiti borghesi e le relative associazioni professionali di rappresentanza sono stati colpiti dalla crisi di sovraccarico delle domande 'postmaterialiste'.Tutto questo continua a richiedere, quale risposta concreta e praticabile, una riorganizzazione istituzionale che è stata variamente intrapresa in molti sistemi politici occidentali (v. Banting e Simeon, 1985). Dal loro punto di vista, persino i neoconservatori accedono a questa posizione, in particolare per quel che riguarda le istituzioni dello Stato sociale o del benessere e l'economia mista. In maniera evidente, e tutt'altro che artificiale o puramente ingegneristica, in forme e modi diversi, con intensità e durata diverse e, naturalmente, nella più ampia gamma possibile di risposte, nasce di qui anche il dibattito sulle riforme istituzionali (v. Pasquino, 1985). Vale la pena di aggiungere che, nel caso italiano, il legame è strettissimo. Infatti, quanto meno all'inizio del dibattito, allorquando la percezione del problema era più netta, si stabilì una vera e propria equazione secondo la quale solo una Grande Riforma delle istituzioni avrebbe potuto garantire la governabilità. Il punto era e rimane ben colto. Infatti, nell'ambito dei regimi democratici competitivi, la forma di governo parlamentare italiana è quella caratterizzata da assetti che garantendo ampia rappresentanza hanno favorito la frammentazione di attori e domande e, impedendo la concentrazione del potere politico e la sua formazione grazie a un mandato popolare diretto, hanno determinato forti, quasi insuperabili carenze decisionali. Instabilità politica con quasi immobilismo del personale politico e bassa efficacia decisionale sono state le manifestazioni della crisi di governabilità del caso italiano. La Grande Riforma del debole parlamentarismo all'italiana rimane la soluzione più plausibile e più sicuramente in grado di distribuire opportunità politiche di governo e di trasformazione.
Vi è una stretta corrispondenza fra l'individuazione e la definizione del problema della governabilità e la prospettazione e la formulazione della sua soluzione. Non può stupire dunque che, a fronte di una molteplicità di definizioni del problema, le soluzioni si affollino e si affastellino. Esse debbono, comunque, essere giudicate utilizzando due parametri: quello del problema specifico cui vengono applicate e quello più generale della governabilità in quanto tale. Conviene ripartire dalle due componenti della governabilità: stabilità ed efficacia decisionale.
Non sono molti gli autori che tengono ferme e congiunte queste due componenti. Più facile è risultato nella pratica procedere a una loro disgiunzione e, in special modo, occuparsi, di volta in volta, della stabilità politica oppure dell'efficacia decisionale. A ogni buon conto, le soluzioni vengono ricercate essenzialmente sul versante del sistema politico e molto meno nell'ambito della società civile (supponendo che una distinzione così netta possa ancora essere tracciata). In special modo, la soluzione viene ricercata in una sorta di emancipazione del sistema politico dalla società civile. Si sostiene pertanto che, essendo l'irrequietezza della società civile a produrre instabilità politica e a impedire processi decisionali efficaci, appare di conseguenza opportuno ricercare soluzioni che rendano gli esecutivi meno esposti alle pressioni, alle domande, alle interferenze della società civile. Alcuni autori sottolineano altresì che una soluzione praticabile consiste nel rafforzare le istituzioni stesse, sia dal punto di vista della stabilità che dal punto di vista della decisionalità. Vale a dire che esiste uno spazio per l'innovazione istituzionale e per la competenza manageriale.Se il problema viene definito in termini di sovraccarico di domande, le risposte possono essere numerose. Si è parlato anche, a questo proposito, di crisi di rappresentanza. Allora, una soluzione praticabile può consistere anzitutto nella riduzione d'imperio delle domande accettabili, anche attraverso l'emancipazione del sistema politico. Una seconda soluzione, in parte alternativa, può consistere nella moltiplicazione delle sedi di rappresentanza. Di qui la spinta a forme di devoluzione del potere, di decentramento territoriale, funzionale, politico, tentate un po' in tutti i regimi democratici occidentali negli anni settanta. Di qui ancora il tentativo di ridefinire le domande, in particolare quelle 'culturalmente' più innovative, escludendole dall'ambito politico. E se si era assistito a un'irruzione di molte domande dal privato nel pubblico, la soluzione della crisi di sovraccarico nella sua versione di crisi di rappresentanza viene cercata anche nella riprivatizzazione delle domande, nella ridefinizione di ciò che possa e debba essere considerato 'pubblico' (v. Hirschman, 1982). Di qui prendono anche le mosse tutti i tentativi di ristrutturazione prima, di riduzione poi, di smantellamento infine, del Welfare State, delle misure di assistenza e di previdenza che, in tutti i sistemi politici occidentali, in varia misura, intensità e profondità avevano accompagnato l'ampliamento della democrazia e lo sviluppo dell'economia.
Una volta che, secondo interventi di tipo diverso, si siano ridotte le domande, gli esecutivi, così protetti e quasi isolati, dovrebbero risultare più stabili politicamente e dovrebbero essere maggiormente in grado di produrre decisioni efficaci in tempi rapidi. Insomma, l'efficacia decisionale viene considerata come una conseguenza probabile della stabilità politica ottenuta attraverso una riduzione del sovraccarico. È interessante sottolineare, a proposito dell'efficacia e della rapidità decisionale, come si assista negli anni settanta in molti sistemi politici al ricorso al referendum o a una sua più frequente utilizzazione come tecnica decisionale. Vi è in questo sviluppo, da un lato, la volontà dei cittadini di contare di più e di contare direttamente, senza mediazioni; dall'altro, la disponibilità dei governanti a vedere risolto un problema, a veder presa una decisione che, altrimenti, sarebbero rimasti irrisolti, paralizzati in sede politico-parlamentare-governativa: quasi una benvenuta cessione di responsabilità (basti pensare ai casi pur così diversi del voto alle donne o dell'immigrazione in Svizzera e dell'abolizione del nucleare in Svezia e in Italia).
Decongestionato, decentrato, deresponsabilizzato, il sistema politico è messo in condizione di acquisire quasi automaticamente maggiore e migliore decisionalità. Non sono più necessarie le defatiganti mediazioni, che producono decisioni contrattate e quindi confuse. Diventano possibili decisioni taglienti come spade per dirimere conflitti, assegnare risorse, scrivere regole.Così facendo, però, verrebbe data una soluzione complessivamente autoritaria alla crisi di governabilità (v. Giddens, 1983), in definitiva destinata a non durare che poco tempo e fra mille tensioni. La compressione dei diritti sociali retroagirebbe sui diritti politici. A loro volta, le persone private dei diritti politici troverebbero ancora maggiore difficoltà a difendere i propri diritti civili. Nel migliore dei casi, l'esito sarebbe quello della governabilità autoritaria. Eppure, la crisi di governabilità era stata intesa, almeno nella sua prima fase, come una sfida al formalismo degli assetti democratici dei sistemi politici occidentali, in un momento in cui esistevano le risorse economiche, sociali, culturali e politiche per attuare un approfondimento della democrazia. Vero è che, secondo alcuni, questo approfondimento chiamava in causa il nesso, anzi il condizionamento esercitato dal capitalismo sulla democrazia e che, quindi, per conseguire l'approfondimento della democrazia si sarebbe addirittura richiesto un superamento del modo di produzione capitalistico. Ma persino nelle versioni meno anticapitalistiche si cercava la soluzione ai problemi della governabilità nell'espansione della partecipazione politica, in una democrazia partecipante e partecipata, in grado di controllare e indirizzare il capitalismo, di fare valere la politica sull'economia.
Cosicché tutte quelle che venivano interpretate come sfide alla governabilità sono valorizzate in questa concezione come opportunità di trasformazione positiva, come potenzialità da sfruttare. La diversificazione dei gruppi è crescita di pluralismo; la moltiplicazione delle domande è vivacità sociale; l'instabilità politica è possibilità di ricambio e segnale di circolazione delle élites; le difficoltà decisionali sono altrettante opportunità di apertura di spazi al decentramento politico e alla riorganizzazione delle strutture e delle procedure; la crisi del welfare è indice del suo successo e dell'opportunità di una sua ristrutturazione e di una sua applicazione più articolata, più raffinata, più calata nella mutevole realtà. Insomma, non di crisi di governabilità si tratterebbe, ma di una feconda crisi di transizione ad assetti più democratici, più partecipati, meglio governabili e meglio governati, vale a dire con un consenso più vivacemente e anche più conflittualmente espresso, ma più convinto, sui fondamenti del sistema. E un simile consenso potrà riflettersi sul sistema economico sottoponendo il capitalismo al controllo democratico, non spezzandone gli istinti vitali, ma indirizzandoli al perseguimento e al conseguimento del benessere collettivo. Certo, le tensioni fra capitalismo e democrazia rimangono irrisolte. Ma la democrazia ha gli strumenti per dominare queste tensioni e la governabilità si afferma e si realizza senza perdita né di dinamismo né di partecipazione.
Per quanto siano passate, e in qualche caso sembrino davvero molto lontane, le maggiori preoccupazioni relative alla governabilità, la crisi non appare risolta. Inflazione, disoccupazione, terrorismo, instabilità e inefficacia decisionale dei governi sembrano fenomeni di minore pericolosità e più controllabili. La preoccupazione contemporanea è data piuttosto dall'esistenza di un duplice atteggiamento sociale e culturale quasi uniformemente diffuso nelle democrazie occidentali: da un lato il disincanto rispetto alla politica nel suo complesso; dall'altro l'impegno particolare e talvolta particolaristico su alcune, poche, precise tematiche. Non v'è dubbio che la crisi di governabilità degli anni settanta sia stata anche e forse soprattutto il prodotto dell'avvento di una nuova generazione sulla scena politica e quindi di nuove domande non soltanto di ordine e di benessere, ma di espressività e realizzazione. E che queste domande nuove si siano sovrapposte e intrecciate con quelle classiche. E che l'intreccio sia stato inevitabilmente più dirompente e talvolta quasi esplosivo, poiché le nuove generazioni potevano far ricorso a repertori di azione politica e sociale innovativi e trasgressivi (v. Barnes e altri, 1979). Fra gli esempi più importanti e frequenti: gli scioperi spontanei e anche selvaggi; i blocchi stradali e l'occupazione di case, fabbriche, terreni; l'autoriduzione di bollette, tariffe e affitti. Sono stati comunque comportamenti minoritari, ma ciò che conta è la tolleranza esibita anche dai non partecipanti nei confronti di questi comportamenti, che sono spesso causa di disordini e inconvenienti per tutti.
È altresì comprensibile come lo slancio di impegno politico sia stato in parte riassorbito, in parte deviato, in parte disperso, probabilmente con significativi fenomeni di riflusso. Tuttavia il riflusso, che pure si è verificato, non lascia gli attori già partecipanti privi di risorse e di conoscenze. Cosicché la mobilitazione, sempre possibile, riparte, là dove si produce, da un terreno già predisposto, più avanzato. Resta da vedere se per le nuove generazioni che si affacciano alla politica negli anni novanta varranno le stesse spinte e le stesse motivazioni delle generazioni che le hanno precedute.
Appare, in verità, più plausibile che la crisi di governabilità degli anni settanta abbia comunque prodotto o accelerato alcuni importanti cambiamenti. In primo luogo, che abbia accelerato una caduta delle ideologie che non sono più assolutamente in grado di mobilitare all'azione anche se, in qualche caso, il loro posto è stato occupato dai fondamentalismi religiosi come, in special modo, quello islamico, e dalle identità etniche. Che, in secondo luogo, abbia accelerato un processo di spostamento dalla sfera politica alla sfera socioculturale come luogo centrale di ricerca di soddisfazione collettiva e personale. Alla politica si chiede di meno, quantitativamente e qualitativamente, che nel passato, e questo semplice fatto ha attutito la crisi di governabilità. Tuttavia, spesso il pubblico della politica, anche se scettico, è competente ed esigente. Infine, la crisi di governabilità ha riaperto una discussione sulla democrazia politica e sui suoi rapporti con il capitalismo che sembrava, dopo i grandi successi ottenuti dal capitalismo sub specie di economia di mercato, destinata a languire o addirittura a scomparire. Con essa si è anche aperto un dibattito vivacissimo sulle forme di governo (v. Lijphart, 1984) e sulla loro revisione e adeguamento, che va al cuore del problema della governabilità democratica.
Tutto ciò indica che la crisi di governabilità, pur con caratteristiche meno appariscenti e senza essere sotto la luce accecante dei riflettori, rimane con noi. D'altra parte ogni sistema politico e ogni generazione hanno sia il diritto che il dovere di ricercare, di continuare a esplorare, di individuare e sperimentare le soluzioni più appropriate alla propria crisi di governabilità.
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