di Roberto Menotti
La crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha reso evidenti una serie di asimmetrie e squilibri nel sistema internazionale, oltre a una carenza di governance strettamente economica. Sono emerse delle vere fratture culturali e politiche che, in effetti, erano già state identificate o preannunciate, ma non avevano ancora assunto un rilievo strategico: sotto la pressione di una grave recessione globale si è prima registrato un tentativo di limitare i danni attraverso il coordinamento internazionale, ma le priorità degli attori più influenti hanno poi finito per divergere in modo netto. Nel passare molto rapidamente dalle grandi aspettative per il G20 (2008-09) ai timori per una vera guerra commerciale e valutaria (dal 2010 ad oggi) hanno avuto un ruolo notevole le diverse ‘visioni del mondo’ che caratterizzano le maggiori potenze.
Gli Stati Uniti (anche con un presidente apparentemente ‘globalista’ ed empatico come Barack Obama) hanno così ribadito la fiducia nel proprio modello politico-economico, che vede una finanza molto libera da vincoli come forza propulsiva, pur puntando a restare una grande potenza manifatturiera.
La Cina (nonostante il rapido processo di apprendimento e ‘socializzazione’ internazionale in atto al livello delle élites) ha confermato una linea di sviluppo che per diversi anni sarà comunque incentrata (anche) su massicci flussi di esportazioni e su un’alta intensità energetica.
La grande maggioranza degli altri paesi asiatici oscilla - con evidente preoccupazione - tra l’attrazione gravitazionale della ‘Greater China’ e le garanzie americane, ma di fatto condivide l’impostazione prudente del rapporto tra sistema politico e mercati data da Pechino.
I paesi emergenti non-asiatici cercano soprattutto di ritagliarsi uno spazio autonomo a livello regionale, esercitando a quello globale un potere di veto (o quantomeno di controbilanciamento mediante coalizioni ad hoc) più che un’influenza costruttiva.
Per parte sua, l’Europa è entrata in una fase di grave difficoltà, essendo diventato chiaro che il suo declino relativo su scala globale è solo in parte legato a una struttura interna incompiuta, vista l’enorme forza d’urto di nuove grandi potenze e macroaree semi-integrate. Il problema ‘sistemico’ è particolarmente delicato per l’Unione Europea poiché la sua stessa identità come attore internazionale è stata concepita finora in rapporto a determinati principi di governance, che oggi sembrano per certi versi più lontani dal trovare attuazione rispetto ad appena pochi anni fa.
La specifica prospettiva europea illumina allora un paradosso più generale: proprio mentre le circostanze della crisi economica hanno spinto a un ripensamento costruttivo degli assetti internazionali (a cominciare da una più sostanziale inclusione delle potenze emergenti nei forum decisionali) in direzione del multilateralismo, le priorità nazionali hanno rafforzato le spinte verso iniziative unilaterali o al più bilaterali. Il quadro è complicato da altre forme ibride che sono state definite ‘mini-multilateralismo’, le quali possono teoricamente svolgere un’utile funzione soprattutto a livello regionale, ma hanno anche il potenziale di frammentare la rete degli accordi e degli impegni reciproci. Un altro dato distintivo di questa fase successiva alla crisi più acuta sembra essere il carattere spiccatamente ‘sovranista’ degli attori più influenti in settori cruciali, come quello delle emissioni di anidride carbonica e varie sostanze nocive: in alcune occasioni, Washington, Pechino, Nuova Delhi e Brasilia sono state accomunate soprattutto dall’evidente obiettivo di tutelare in primo luogo le rispettive priorità interne. È chiaro che impegni vincolanti che implichino meccanismi di monitoraggio intrusivi diventano quasi impossibili in un contesto del genere.
La rete della governance multilaterale è dunque l’arena in cui si confrontano modelli socio-economici e culture politiche molto diversi. Più che uno scontro frontale tra blocchi contrapposti si tratta di uno spettro variegato, che va dalle ‘autocrazie sostenibili’ (perché in grado di sfruttare le opportunità dei mercati globali) fino alle democrazie liberali, passando per forme ibride che possiamo indicare come ‘democrazie illiberali’. Ciò di fatto sancisce la perdita dell’assoluta centralità per il modello liberaldemocratico di mercato, soprattutto come riferimento per i futuri paesi emergenti. Una situazione che avrà necessariamente delle conseguenze anche sistemiche.
L’aspetto interessante è che non siamo di fronte allo schema prefigurato dallo ‘scontro di civiltà’, ma piuttosto a una forte competizione (non apertamente conflittuale, ad oggi), che rende molto fluidi i possibili allineamenti proprio perché nessuno si fa condizionare dai caratteri ‘culturali’ (intesi come costumi tradizionali, religione e lingua) nel fare le proprie scelte strategiche; la competizione è però intensificata da differenze di prospettiva che rendono alcuni scenari del tutto inaccettabili per uno o più attori cruciali, e dunque limitano decisamente lo spazio del consenso.
In estrema sintesi, sta aumentando il grado di diversità culturale tra i protagonisti più influenti del sistema globale. Prendendo a riferimento simbolico il passaggio dal G8 (o meglio dal G7, vista la collocazione tuttora ambigua della Russia) al G20, il vecchio ‘nucleo’ dei paesi più ricchi ed economicamente avanzati viene sostituito o quantomeno affiancato da una schiera di paesi che non ha un analogo grado di coesione sul rapporto tra stati, cittadini/consumatori e mercati. E si deve ribadire un punto: ciò che conta non è tanto la diversificazione complessiva del quadro internazionale, bensì proprio quella interna al ‘gruppo di testa’.