Abstract
Si esamina la nozione del Governo nell’ordinamento costituzionale italiano, descrivendone il compito istituzionale come titolare del potere esecutivo statale. Si esaminano i modi di formazione e di cessazione dell’organo, riconoscendosi un rilievo essenziale alla forma di governo parlamentare. Viene considerata la natura del Governo come organo formato da più organi, e si analizzano gli strumenti apprestati dalla Costituzione ai fini del mantenimento della loro unità di azione. Si definisce il contenuto delle molteplici attività del Governo, e si sottolinea il modo specifico con cui l’organo è chiamato a costituire la persona dello Stato.
Costituisce il Governo della Repubblica l’insieme degli organi ai quali compete l’esercizio del potere esecutivo dello Stato. Inteso quale complesso organico, il Governo tende dunque ad identificarsi, a partire dal nomen iuris, con il governo inteso in senso materiale, e cioè con l’attività di guida del Paese, e questo perché la titolarità del potere di esecuzione delle leggi rivela il possesso dei mezzi e del personale attraverso cui lo Stato può non soltanto porre regole generali di comportamento, ma anche agire in concreto, adottando provvedimenti singolari e concreti nonché intervenendo in senso materialmente cogente per portare a compimento i suoi ordini. Cosicché per quanto il Governo non sia l’esclusivo titolare delle decisioni superiori di governo, resta comunque escluso che tali decisioni possano imporsi in difetto di una sua partecipazione attiva al loro compimento. Non a caso, secondo la scelta definitoria adottata dal Costituente, del Governo fanno anche parte, nel loro complesso, gli uffici della p.a. statale, il titolo III della seconda parte della Costituzione, dedicato al "Governo", essendo suddiviso in più sezioni, delle quali la prima intitolata al "Consiglio dei Ministri" e la seconda appunto alla "Pubblica amministrazione". In sede di analisi scientifica peraltro, come anche nella legislazione, si è affermata la distinzione fra Governo in senso stretto e complesso degli uffici amministrativi, riservandosi il primo termine solo agli organi apicali della p.a. statale, le cariche dei cui titolari sono connotate in senso eminentemente politico-rappresentativo. Si tratta sia degli organi che vengono detti "necessari" del Governo, in quanto stabiliti dall’art. 92 Cost., secondo il quale il «Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri»; sia degli organi detti "non necessari" o "facoltativi" che non sono previsti dalla Costituzione, ma costituiscono stabilmente, secondo la tradizione unitaria, articolazioni interne dell’istituzione Governo (Capotosti, P.A., Governo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 1).
Proprio la definizione come esecutiva della posizione istituzionale nel sistema politico lascia intendere l’obbiettivo ideale dei regimi liberali, di privare il Governo della funzione storica di guida della collettività ordinata a Stato, per affidare invece il compito alle Camere rappresentative, la cui legislazione il Governo avrebbe dovuto meramente limitarsi ad eseguire. Sennonché la naturale vocazione dell’organo ad esprimersi in forma unitaria, il controllo materiale dell’organizzazione pubblica, l’accrescimento dei compiti avocati allo Stato sono tutti fattori che hanno concorso a mantenere ferma la posizione centrale e determinante del Governo nella formulazione, posizione e realizzazione dell’indirizzo politico. Da qui la conclusione che fra le funzioni governative rientrano «in primo luogo tutti quei poteri che consentono al Governo di guidare ed indirizzare le grandi scelte del Paese», sia sul piano dell’andamento economico, sia sul piano dei rapporti con il Parlamento, sia sul piano dei rapporti con gli Stati esteri (Rescigno, G.U., Corso di diritto pubblico, Bologna, 2000, 433). A tali compiti di indirizzo, come si è detto, si congiungono poi, quasi senza soluzione di continuità, le funzioni di governo e di direzione dell’apparato burocratico-amministrativo nonché dell’apparato militare, il controllo della spesa pubblica nonché i diversi strumenti di controllo dei vari enti, pubblici e privati, attraverso i quali il Governo è in condizione di operare direttamente nella sfera economica (Capotosti, P.A., Governo, cit., 12).
Nello svolgimento di questi sui compiti – che nel loro insieme determinano appunto l’attività di direzione e di guida del Paese – la dipendenza permanente del Governo dal gradimento della maggioranza parlamentare, che costituisce il proprium della forma di governo parlamentare, finisce per assumere una valenza duplice. Da un lato, infatti, costituisce difatti il vero fattore di condizionamento che il Governo incontra nell’attività di direzione politica, ma, dall’altro lato, in tutte le ipotesi nelle quali titolari delle cariche di Governo sono i dirigenti politici delle forze di maggioranza, essa realizza a favore dell’organo una posizione di preminenza del tutto peculiare. L’autorità propria del Governo, infatti, si riveste allora dell’ascendente politico che i suoi titolari posseggono nei confronti delle Camere e la circostanza enfatizza i poteri normativi (di iniziativa legislativa, di emendamento, di emanazione degli atti con forza di legge), che il Governo è chiamato ad esercitare proprio in quella fase di definizione dell’indirizzo nella quale più forte dovrebbe invece essere il condizionamento derivante dalla titolarità del potere legislativo in capo al Parlamento.
Il carattere essenziale e determinante del rapporto fiduciario si manifesta a partire dal procedimento di formazione del Governo. Se infatti si vuole comprendere per intero il significato dell’art. 92 Cost., secondo cui «il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i Ministri», occorre leggerlo insieme al successivo art. 94, secondo cui «il Governo deve avere la fiducia delle due Camere». Le due previsioni costituiscono una sorta di estrema sintesi della forma di governo parlamentare, come realizzatasi per via puramente convenzionale nell’ordinamento liberale statuario. La relazione fiduciaria col Governo onera le Camere di forme politiche di composizione interna, che assumono l’assetto tipico della maggioranza parlamentare, le quali, peraltro, si pongono in un rapporto di intima tensione con la natura rappresentativa, connaturata alle stesse Camere, delle diverse tendenze politiche esistenti nel Paese (C. cost., 14.1.2014, n. 1). Ne è derivato, nel procedimento di formazione del Governo, il mantenimento di un potere essenzialmente autonomo del Capo dello Stato – niente affatto venuto meno in regime elettorale cd. maggioritario – proprio perché si tratta appunto della fase in cui le Camere dimostrano di necessitare di un impulso esterno per essere condotte verso quelle forme politiche di composizione che costituiscono la premessa naturale per l’instaurazione della relazione fiduciaria. Le forme procedimentali con cui l’impulso si manifesta – storicamente, nell’esperienza italiana, le consultazioni presidenziali con le forze politiche rappresentate in Parlamento – costituiscono dunque lo strumento attraverso cui il Capo dello Stato non tanto conosce gli indirizzi politici ivi prevalenti, quanto piuttosto concorre a costituirli in quell’unità minima necessaria perché la maggior parte dei deputati e dei senatori possa convergere «sia sul profilo programmatico sia sul profilo strutturale del costituendo gabinetto» (Capotosti, P.A., Governo, cit., 6). Il potere di scelta del Presidente del Consiglio, in particolare, costituisce il primo fattore condizionante, perché è proprio intorno alla figura della personalità prescelta a seguito delle consultazioni che il Capo dello Stato tende a coagulare il consenso parlamentare sufficiente per il sostegno del Governo.
Formatosi tale consenso, la logica del sistema implica che le Camere riacquistino capacità di condizionare il Governo, e questo spiega la previsione costituzionale che la nomina dei Ministri debba avvenire sulla proposta del Presidente del Consiglio. Si tratta della formalizzazione dei rapporti che, già in era statutaria, avevano finito con l’instaurarsi fra Capo dello Stato e Presidente del Consiglio incaricato, essendo ricostruzione prevalente dell’epoca che «la nomina non è atto esclusivo del Capo dello Stato, ma è fatta dal Capo dello Stato su proposta del primo dei Ministri» (Santangelo Spoto, I., Ministero e Ministri, in D.I., XV, 2, 1904-1911, 486). Come è stato annotato, per le «proposte concernenti le nomine dei Ministri, la competenza … va riconosciuta … al Presidente del Consiglio incaricato di formare il nuovo governo, inteso come un organo costituzionale transitorio» (Paladin, L., Governo italiano, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 689), e l’osservazione sembra pregnante al fine di coglier la sostanza dell’atto di nomina dei titolari dei vari dicasteri. Poiché a ben vedere il Presidente del Consiglio che opera la proposta non è mai il Presidente puramente incaricato, bensì è il Presidente che ha a sua volta condotto con successo le consultazioni con le forze politiche, ovvero – ciò che ai fini del discorso è lo stesso – ha conseguito un successo elettorale come capo di una coalizione vincente, ne consegue che il proponente la nomina dei Ministri, se non è ancora formalmente a capo del Governo, è comunque già a capo di una maggioranza parlamentare idonea a sostenerlo (in questo senso, cfr. già Santangelo Spoto I., Ministero e Ministri, cit., 485,486).
Si comprende allora che l’influenza decisiva dei partiti politici sulla scelta dei Ministri non costituisce affatto un fraintendimento della previsione costituzionale che affida il compito al Capo dello Stato ed al Presidente del Consiglio, ma si dimostra invece pienamente conforme alla logica propria del sistema (Capotosti, P.A., Accordi di Governo e Presidente del Consiglio dei ministri, Milano, 1975 157 ss.; D’Andrea, A., Accordi di governo e regole di coalizione. Profili costituzionali, Torino, 1991, 65 ss.; Cuccodoro, E., I limiti dell’autonomia ministeriale, Firenze, 1991, 82 ss.), che difatti, già nell’apogeo dell’era liberale, determinava il principio che «il gabinetto … si coordina al parlamento, che determina la scelta dei suoi membri» (Arcoleo, G., Diritto costituzionale, Napoli, 1907, 520). Proprio in quanto provenienti dal capo della maggioranza parlamentare, le proposte per la nomina dei Ministri finiscono infatti per valere come volontà delle Camere, cui spetta, per previsione costituzionale, la titolarità del rapporto di fiducia con il Governo, cosicché non può stupire che la prima manifestazione di tale relazione fiduciaria si manifesti attraverso la scelta di personalità per quanto possibile gradite (per un’applicazione di questo canone in una fase caratterizzata dalla presenza dei partiti "personali", e comunque di «una fortissima espansione della leadership monocratica del segretario», cfr. Cherchi, R., Il governo di coalizione in ambiente maggioritario, Napoli, 2006, 269 ss.).
Per quanto poi, infine, attiene al bilanciamento, nella scelta dei Ministri, fra il potere di proposta del presidente del Consiglio e quello di nomina del Capo dello Stato, si deve concludere che esso implica in effetti un concorso delle due volontà, rispetto cui rileva, in particolare, il grado di consolidamento politico della posizione del Presidente incaricato – fattore a sua volta dipendente da una serie diversa di molteplici fattori – al diminuire del quale tende in effetti ad attribuirsi «un maggior peso specifico agli stessi consigli e suggerimenti del Capo dello Stato» (Bartole, S., Governo italiano, in Dig. pubbl., VII, Torino 1991, 644). Né la circostanza deve stupire, proprio perché, come si è detto, sin dal suo primo esistere i poteri del Governo della Repubblica sono condizionati dal carattere parlamentare del sistema, e, quindi, dalla relazione esistente con lo stabile gruppo di parlamentari incaricatisi di sostenerlo, cosicché la capacità del Governo di esercitare le prerogative di governo, anche nei confronti degli altri poteri dello Stato, è diretta funzione della sua capacità di controllo e di condizionamento della maggioranza parlamentare.
Alla nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri segue il giuramento nelle mani dello stesso Capo dello Stato, che viene prestato immediatamente e consecutivamente da tutti i membri del Governo, segnando il perfezionamento della procedura di formazione dell’organo. Con il giuramento, infatti, il precedente Governo dimissionario cessa formalmente di esistere. Una volta costituitosi, il Governo si deve presentare, entro 10 giorni, innanzi alle Camere per il conferimento della fiducia, ma, secondo quanto si è detto, giunti a questo punto la relativa previsione costituzionale (art. 94) ha già realizzato i suoi effetti essenziali, con l’imporre alle forze politiche rappresentate in parlamento di costituirsi in maggioranza parlamentare (Capotosti, P.A., Accordi di governo, cit., 159). Ne deriva che, quando il Governo si presenta alle Camere, il conferimento della fiducia è, di regola, evento già contenuto per intero nella stipula del patto fra i partiti della maggioranza, il quale costituisce, secondo la ricostruzione più convincente, il vero fattore genetico del Governo medesimo.
L’influenza dei rapporti fra le parti politiche che costituiscono la coalizione si fa valere in forma determinante anche sugli organi cosiddetti non necessari del Governo. La l. 23.8.1988, n. 400, recependo gli esiti della prassi repubblicana, prevede e disciplina agli artt. 6-11 le relative figure istituzionali (Sottosegretari di Stato e Viceministri, Comitati di Ministri e Comitati interministeriali, Ministri senza portafoglio, Consiglio di Gabinetto, Vicepresidente del Consiglio). Si tratta di organi non necessari in quanto non previsti in Costituzione, e l’esperienza ne ha posto in evidenza la funzionalità rispetto ai contenuti concreti del patto di coalizione, cosicché non soltanto la scelta dei titolari (come avviene tipicamente per il caso dei Sottosegretari), ma la stessa istituzione in concreto di tali organi corrisponde nella prassi di ciascuna compagine ministeriale all’assetto specifico dei rapporti fra i partiti della relativa maggioranza parlamentare.
Essendo il Governo composto da una pluralità di organi, necessari e non necessari, tutte le decisioni adottate da ciascuno di essi sono per definizione decisioni governative. Si evidenzia così il tratto caratteristico del Governo, quale depositario del potere esecutivo, di essere da un lato costituito da un complesso organico articolato, ma, dall’altro lato, di aspirare ad unità d’indirizzi e d’azione. Emblematico è il caso dei rapporti conflittuali con gli altri poteri dello Stato, nei quali il potere esecutivo si presenta necessariamente unificato nell’unico Governo della Nazione, e non già "diffuso" nei singoli organi che lo costituiscono (giurisprudenza costituzionale costante: ex multis, cfr. C. cost., 13.3.2009, n. 69).
Ne deriva che la prima questione problematica posta dall’attività del Governo è quella dell’unità di azione, e, a questi fini, la perdita del riferimento unificante costituito dalla persona del sovrano, cui i ministri, quali capi delle diverse branche dell’amministrazione, rispondevano, è stata fronteggiata dall’ordinamento in forme diverse. Sul piano ideale, attraverso l’evocazione della necessaria omogeneità politica (idem sentire de re pubblica) dei componenti del Governo; sul piano organizzativo, attraverso l’affidamento al Consiglio dei Ministri delle più importanti decisioni del Governo, in astratto costitutive del complessivo indirizzo dell’organo. L’elencazione degli atti di Governo da sottoporre al Consiglio viene ricondotta dal legislatore (art. 2, co. 1, l. n. 400/1988) sotto la generale definizione del potere di determinare «la politica generale del governo e, ai fini dell’attuazione di essa, l’indirizzo generale dell’azione amministrativa», nonché di deliberare su «ogni questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le Camere». Trattandosi peraltro della determinazione di un indirizzo, il tema non si può ridurre ai meri modi delle deliberazioni del Consiglio dei Ministri, in quanto viene invece toccato, molto più in profondità, il punto della coerenza e della consequenzialità dei diversi atti che detto indirizzo costituiscono nel tempo, a partire dalle determinazioni generali espressione del potere normativo del Governo, per finire ai singoli atti di esecuzione da parte degli apparti di settore. E, del resto, la stessa composizione collegiale del più importante organo del Governo finisce per evocare di per se stessa una insopprimibile molteplicità di vedute dei suoi componenti, fenomeno accentuato dalla evenienza – connaturata in particolare al sistema politico italiano – dei governi di coalizione.
Al principio collegiale quale strumento dell’unità d’indirizzo governativo, la Costituzione, recependo un esito storico del regime liberale, affianca di conseguenza l’ulteriore fattore di unificazione costituito dal principio presidenziale, prescrivendo al primo comma dell’art. 95 che «il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri». L’art. 5 della l. 23.8.1988, n. 400, in particolare, al co. 2, lett. da a) a i) definisce una serie poteri del Presidente del Consiglio di dirigere, coordinare, promuovere e sospendere l’attività degli altri componenti del Governo, in primis dei Ministri, anche deferendo le relative questioni al Consiglio dei Ministri.
Ancora una volta, però, si deve puntualizzare che il rilievo di tale disciplina rimane pur sempre condizionato dalle regole basilari della forma di governo parlamentare, le quali non sembrano, per propria natura, consentire che il compito dell’integrazione ad unità delle attività del Governo possa realmente venire imputato al Presidente del Consiglio allo stesso modo con cui, nell’antico regime, esso faceva capo al re ovvero, nei regimi propriamente presidenziali, risulta assicurato dal Capo dello Stato. E difatti, poiché la antica relazione fiduciaria con il Sovrano si converte, col regime parlamentare, in relazione fiduciaria con le Camere, ne discende che la reale preminenza sul Governo viene attribuita a tutt’altro soggetto che il Presidente del Consiglio, e cioè viene attribuita alla maggioranza parlamentare, entità tanto reale nella sua consistenza politica, quanto inafferrabile sul piano formale, a causa del suo poliedrico e mutevole atteggiarsi. La capacità del Capo del Governo di imporsi come figura preminente all’interno della compagine ministeriale mostra, allora, di essere un fattore dipendente non tanto dalla disciplina positiva dell’organo, quanto piuttosto dagli esiti concreti assunti dal rapporto fiduciario, cosicché il Presidente del Consiglio finisce per dirigere l’attività del Governo nella qualità di capo della maggioranza e non di capo del Governo medesimo, il difetto di una effettiva leadership politica riflettendosi immediatamente sull’incidenza dei suoi poteri di direzione. Lo stesso art. 95 Cost. sembra confermare la circostanza, in quanto, sempre recependo l’anteriore tradizione liberale, giustappone alla responsabilità del Presidente del Consiglio per la politica generale del governo la responsabilità collegiale ed individuale dei ministri per gli atti del Consiglio e dei loro dicasteri, finendo con il dettare per l’organizzazione del Governo, come è stato notato, tre «distinti principi organizzativi e di ripartizione delle funzioni, senza però che vi sia alcuna indicazione di criteri prioritari di applicazione» (Capotosti, P.A., Governo, cit., 9). La conclusione è dunque nel senso che la armonizzazione in concreto di tale principi organizzativi dipende da motivi politici e non di applicazione del diritto.
Per quanto poi attiene al contenuto essenziale delle decisioni del Governo, occorre considerare ancora una volta la posizione peculiare del potere esecutivo, che contribuisce all’indirizzo politico della Nazione muovendo dal riscontro della realtà concreta assicurato dal possesso di una amministrazione capillare, e ritorna poi, tramite la medesima amministrazione, a dare esecuzione concreta a tale indirizzo. Sono in particolare i poteri dei Ministri come organi di vertice delle diverse branche dell’amministrazione statale e come componenti, allo stesso tempo, del Consiglio dei ministri a realizzare in modo diretto quest’opera di ideazione, proposizione, deliberazione ed infine diretta attuazione delle relative decisioni.
Ma anche a voler ritenere l’attività gestionale in senso stretto esclusa dai compiti del Governo, per la tendenziale separazione rispetto agli organi della p.a. (ai sensi del d.lgs. 30.3.2001, n. 165, in particolare dell’art. 4), il nesso fra l’indirizzo politico-amministrativo e la materiale gestione della cosa pubblica non può che risultare stringente e caratterizzare la posizione del Governo come l’unico titolare, fra i poteri dello Stato, di una competenza che trascende la mera adozione di atti giuridici vincolanti, per essere invece preordinata ben diversamente alla realizzazione concreta dei relativi effetti, donde appunto deriva, come detto, la definizione di potere "esecutivo". Ne discende l’ulteriore tratto caratteristico del Governo fra tutti i poteri dello Stato, in quanto proprio questa attitudine all’azione materiale pone il potere esecutivo nella condizione di non esprimersi esclusivamente – come avviene per il potere legislativo e quello giudiziario – in via funzionale, e cioè attraverso l’emanazione degli atti formalizzati dall’ordinamento come esercizio delle proprie competenze. Al contrario l’agire degli organi di Governo, anche al di fuori dello stretto esercizio di funzioni predeterminate, costituisce sempre azione del Governo unitariamente inteso, rilevando, ancora una volta, la peculiare composizione ad opera di una pluralità di organi, ordinati peraltro ad unità. Se a questo si aggiunge la considerazione che l’attività del Governo si connota per il carattere tendenzialmente generale, nel senso che l’unico limite sarebbe «di carattere negativo, cioè il divieto di esercitare competenze specificamenteriservate ad altri organi» (Rescigno, G.U., Corso di diritto pubblico, cit., 433), si giunge alla necessaria conclusione che, degli organi dello Stato, il Governo costituisce quello cui è essenzialmente affidato il compito di costituire, incarnandola nei suoi titolari, la persona dello Stato, come ente morale capace di un’azione incessante e continua, rispetto cui l’azione degli altri poteri statuali agisce essenzialmente in funzione di delimitazione, freno e controllo.
Il principio di fondo del regime parlamentare, costituito dal rapporto fiduciario, determina l’immediata conseguenza che il Governo è l’unico, fra i titolari dei poteri dello Stato, a non avere prevista in Costituzione una durata prefissata del proprio incarico. La durata del Governo, infatti, dipende essenzialmente dalla permanenza della fiducia che le Camere esprimono a suo favore, cosicché, salvo un sopravvenuto impedimento materiale, o la morte, del Presidente del Consiglio, il cui venir meno determina il venir meno anche dell’intero Governo, ciascuna compagine ministeriale resta in carica fino a quando le Camere assicurano il proprio sostegno.
Ne deriva che la causa prima delle dimissioni del Governo dovrebbe essere costituita dalla revoca della fiducia, nei modi regolati dall’art. 95, co. 4, Cost. Il rapporto fiduciario, però, operando sotterraneamente sulle logiche di funzionamento del regime, fa valere i suoi corollari ultimi anche in ordine ai modi di cessazione dell’organo, cosicché come il previo accordo fra le forze in parlamento costituisce nella prassi il vero fattore genetico del Governo – con la conseguenza che il voto della fiducia finisce per risultare tutto contenuto in tale accordo – così anche la revoca del rapporto fiduciario finisce per risultare già implicata per intero, di conseguenza, nella rottura dell’accordo medesimo. Le dimissioni del Presidente del Consiglio, che puramente registrano il fatto, hanno finito così per costituire, nell’esperienza costituzionale, la ragione assolutamente prevalente della cessazione dei Governi della Repubblica. Né sembra possibile addebitare a tale prassi un’elusione delle regole costituzionali, perché, al contrario, di altro non si tratterebbe che di un naturale svolgimento del rapporto fiduciario, stabilito dalla Costituzione come carattere fondativo della forma di governo della Repubblica Italiana.
Art. 92, 93, 94, 95 e 96 Cost.; l. cost. 16.1.1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all'articolo 96 della Costituzione); d.lgs. 8.4.2013, n. 39 (Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190); d.lgs. 31.12.2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190); l. 20.7.2004, n. 215 (Norme in materia di risoluzione di conflitti di interessi); d.lgs. 30.3.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche); l. 9.11.1999, n. 418 (Disposizioni in materia di indennità dei Ministri e dei Sottosegretari di Stato non parlamentari); d.lgs. 30.7.1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59); l. 23.8.1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri); l. 15.2.1953, n. 60 (Incompatibilità parlamentari); d.P.C.m. 10.11.1993 (Regolamento interno del Consiglio dei Ministri).
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