Gracchi
Tiberio Sempronio Gracco (162 circa - 133 a.C.) e Gaio Sempronio Gracco (154 circa 121 a.C.) erano figli di Cornelia, figlia di Scipione Africano, e di Tiberio Sempronio Gracco, che era stato console e censore. Dei due fratelli, Tiberio aveva partecipato, diciassettenne, alla presa di Cartagine e, otto anni dopo, era stato questore in Spagna. Eletto tribuno della plebe nel 133, presentò una proposta di legge ricalcata sulla legislazione agraria precedente che non era mai stata seriamente attuata. L’iniziativa di Tiberio era appoggiata da un gruppo politico che comprendeva personaggi di rilievo, come il suocero Appio Claudio Pulcro e P. Mucio Scevola, giustamente preoccupati per la crisi economica e sociale dei ceti contadini italici. La legge proposta da Tiberio fissava a 500 iugeri il limite dell’ager publicus che era lecito possedere, lasciando tuttavia la possibilità di aggiungervi 250 iugeri per ogni figlio, purché il totale non superasse i 1000. I terreni posseduti dai latifondisti sarebbero stati distribuiti ai cittadini più poveri in lotti di 30 iugeri sotto il controllo di una commissione di triumviri. Quando la nobiltà senatoria riuscì a convincere il tribuno Marco Ottavio, collega di Tiberio, a opporre il suo veto, Tiberio lo fece destituire e subito dopo fece approvare la lex Sempronia ed eleggere la commissione incaricata di applicarla. Poco dopo l’ostilità del senato fu esasperata dalla proposta di utilizzare i beni che Attalo III aveva lasciato in eredità al popolo romano al fine di consentire ai nuovi proprietari di acquistare l’attrezzatura necessaria per sfruttare i lotti che avevano ricevuto. Accusato di aspirare alla tirannide, Tiberio fu ucciso da Scipione Nasica durante un tumulto scatenato dai suoi avversari.
Gaio, che faceva parte dei triumviri incaricati di attuare la legge voluta dal fratello, aveva fatto ritorno a Roma nel 124 dopo essere stato pretore in Sardegna, ottenendo per due anni di seguito l’elezione a tribuno della plebe. L’intensa e lungimirante attività politica svolta in tale veste allo scopo di far approvare una serie di riforme che diminuiva sensibilmente l’autorità del senato gli procurò l’odio della nobiltà che, non appena Gaio perse il favore della plebe, decise di eliminarlo. Nel 121, attaccato, con i suoi seguaci, dai soldati del console L. Opimio, Gaio si fece uccidere da un servo per evitare di cadere vivo nelle mani degli inseguitori.
In De principatibus ix 20-22 M. cita l’esempio dei G., insieme con quello del fiorentino Giorgio Scali (su cui si sofferma a lungo nel terzo libro delle Istorie fiorentine) a dimostrazione del fatto che, mentre il favore del popolo assicura forza e stabilità al principe che lo difenda dalla prepotenza dei «grandi», un privato che vi faccia assegnamento resterebbe amaramente deluso «quando fussi oppresso da’ nemici o da’ magistrati». Veramente, nelle Vite di Tiberio e Gaio Gracco – delle quali esisteva la traduzione latina di Leonardo Bruni, inclusa nella raccolta delle biografie plutarchee curata da Giovanni Antonio Campano e messa per la prima volta a stampa nel 1470 da Uldericus Gallus – soltanto a proposito di Gaio Plutarco dice (xvi) che, di fronte alla promessa dell’impunità, i popolani si rifiutarono di esporre la loro vita per difenderlo. Inoltre l’esempio è meno probante di quanto non pretenda M. che, avendo letto la Vita di Gaio, non poteva non sapere che, quando fu assassinato, la sua popolarità era da qualche tempo in declino a causa delle demagogiche manovre dell’oligarchia senatoria (xi).
Ben più cospicua è la presenza dei G. nei Discorsi. Basti ricordare che in I vi 3 M. addossa ai due fratelli la responsabilità di aver causato la «rovina del vivere libero». Per comprenderne la ragione, occorrerà andare a I xxxvii 16 che spiega come, riaprendo la questione agraria, essi avessero suscitato uno scontro tanto aspro che «si venne nelle armi e al sangue, fuori d’ogni modo e costume civile». A tanto si era giunti dopo l’assassinio di Gaio Gracco, perché la spietata intransigenza dell’oligarchia senatoria aveva indotto la plebe ad affidare la sua causa a Gaio Mario, che fece «quattro volte consule» affinché si servisse delle sue truppe per piegare la resistenza dei senatori; sicché la «nobilità» si vide costretta a ricercare l’aiuto di Silla, «e fatto quello capo della parte sua, vennero alle guerre civili». Scomparsa l’antica moderazione che aveva trattenuto il conflitto sociale entro i confini della «civilità» politica, era inevitabile che un ambizioso e spregiudicato comandante militare non si lasciasse sfuggire l’occasione di prendere il potere; e, non appena si riaccese la contesa, lo fece Cesare che, postosi a capo della «parte di Mario», e sconfitto Pompeo, che guidava quella di Silla, «fu primo tiranno in Roma, talché mai fu poi libera quella città» (Discorsi I xxxvii 16-20). Grande fu dunque la colpa dei G., che avrebbero dovuto considerare come il tentativo d’introdurre la legge agraria fosse causa di seri sconvolgimenti, e tanto più lo sarebbe stato se alla legge fosse stata attribuita efficacia retroattiva.
Dopo aver riassunto il contenuto della legislazione agraria in base alle notizie reperibili nelle deche liviane (II xli 1-3; VI xxxv 5), senza distinguere la lex Cassia agraria (486) dalle leges Liciniae Sextiae (367), M. osserva che il danno inferto ai «nobili» era in realtà duplice, poiché la rivoluzionaria riforma di Tiberio Gracco costringeva la maggior parte di essi a restituire la porzione di ager publicus che superava il limite stabilito dal legislatore e, disponendo che le terre che sarebbero state sottratte ai vinti fossero destinate alla fondazione di nuove colonie, privava della speranza di potersi arricchire per questa via chi quel limite non aveva ancora raggiunto. Il problema che i G. avevano sperato di risolvere si era posto fin dai giorni che avevano seguito l’istituzione del tribunato della plebe («subito, ottenuto quello, [essa] cominciò a combattere per ambizione, e volere con la nobilità dividere gli onori e le sustanze»); ma l’antico Segretario descrive come i patrizi avessero a lungo contenuto i disordini alternando efficaci espedienti e manovre diversive attraverso parziali concessioni; finché, afferma, la plebe mostrò di disinteressarsi delle terre che le legioni venivano conquistando in Paesi sempre più lontani da Roma: «tanto che per tali cagioni questa legge stette come addormentata infino ai G.; da’ quali essendo poi svegliata, rovinò al tutto la libertà romana» (Discorsi I xxxvii 16). Questa ricostruzione della contesa agraria lascia perplessi per due ragioni: una è che assai meno lontane da Roma delle nuove conquiste erano le terre italiche di cui i «nobili» si erano appropriati; l’altra è che non si comprende perché questi abbiano abbandonato la tattica dilatoria che avevano a lungo seguito con successo e si siano chiusi nella dura intransigenza da cui il confronto fu reso tanto violento da sconvolgere l’ordinamento della Repubblica. Si può supporre che la «cagione» risieda nella loro accresciuta potenza (§ 16). Ma più convincente appare la spiegazione addotta dall’ultima parte del capitolo, benché contraddica la tesi – per altro confermata dalla constatazione che «la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva» (§ 23) – secondo la quale la questione agraria turbò la pacifica convivenza fin da quando fu istituito il tribunato della plebe. Forse accogliendo un suggerimento di Sallustio (De coniuratione Catilinae xi 1), M. divide la storia della città in due fasi: quella in cui la lotta degli «umori» sociali ebbe come oggetto le cariche pubbliche («onori») e quella in cui ebbe come oggetto i beni materiali («roba»); e afferma che la contesa acquisì una non mediabile radicalità, che distrusse la costituzione repubblicana, «come si venne alla roba». Se è così, la massima secondo cui «gli uomini stimano più la roba che gli onori», chiarisce perché lo scontro sia precipitato solo quando, in seguito alla legislazione riformatrice dei fratelli G., si trasferì dagli «onori» alle «sustanze» (Discorsi I xxxvii 23-25). Tuttavia il quadro sarebbe lacunoso se non si conferisse il dovuto rilievo al carattere retroattivo della lex Sempronia. Fin dal titolo del capitolo M. aveva avvertito che «fare una legge in una republica, che riguardi assai indietro […] è scandalosissimo»; sicché la condanna della scarsa accortezza con cui i G., dei quali «si debbe laudare più la intenzione che la prudenzia», presero un’iniziativa divenuta del tutto inattuale appare ben motivata. Ma perché, allora, non era possibile condannare con altrettanta severità la loro intenzione? Per comprenderlo occorre riprendere la lettura del capitolo dalle linee iniziali (§§ 6-8), dove si dice che, tempestivamente adottata e seriamente applicata, la legge agraria avrebbe evitato lo scontro che distrusse la Repubblica. Poiché questo afferma M., che la violenza delle lotte agrarie dipese dall’incolmabile ritardo («convenne che fusse in Roma difetto di questa legge») con cui si cercò di regolare la questione per mezzo della riforma fatta approvare dai G., alla cui normativa allude l’invito a tenere «ricco il publico» e «poveri» i cittadini. E per tanto la colpa del disastro risaliva, in estrema analisi, al ceto dirigente, che non aveva saputo, o voluto, evitare che la disuguaglianza economica si aggravasse fino a divenire motivo di un confronto tanto aspro da spezzare i vincoli che avrebbero dovuto impedirle di trascendere in guerra civile.
Sulla «regola» dettata da Discorsi I xxxvii (e ribadita da II xix) si è a lungo discusso, osservando, in primo luogo, che arricchire «il publico», cioè l’erario, non coincide con il fine della riforma della quale il grande Segretario lamenta la tardiva (e controproducente) applicazione. Tuttavia l’obiezione non pare insormontabile, né, a dire il vero, molto insidiosa, quando si consideri la stretta consequenzialità stabilita da M. tra l’imperativo enunciato dalla «regola» e la legge che ne avrebbe impedito la violazione: «E perché le republiche bene ordinate hanno a tenere ricco il publico, e gli loro cittadini poveri, convenne che fusse nella città di Roma difetto di questa legge», che è, con tutta evidenza, quella agraria (§ 8). Più grave è il problema sollevato da chi, dopo aver ricordato l’indissolubile nesso stretto dallo scrittore tra libertà e conquista, e tra questa e l’incremento della ricchezza, ritiene di considerare la massima di I xxxvii un debole tentativo di evitare la catastrofe che la filosofia politica dell’autore costringeva a ritenere ineludibile. Ma se è vero che non vi è modo né motivo d’impedire che la conquista produca crescente ricchezza, non ne segue che determini altresì i modi della sua ripartizione. È stato osservato che in Discorsi II ii 46 l’arricchimento dei privati è considerato una positiva conseguenza della «libertà». Obiezione da non trascurare, che tuttavia non tiene conto della differenza qualitativa tra la ricchezza di cui quel capitolo nota con favore il graduale incremento nelle libere repubbliche e quella di cui I xxxvii vorrebbe impedire il repentino sviluppo. Perché in questo caso si tratta della rendita derivante dall’appropriazione patrizia di enormi estensioni di terreno demaniale; nell’altro, della ricchezza generata dall’agricoltura («cultura») e dall’industria («arti»), frutto dell’operosità contadina e artigiana (si noti l’esclusione del commercio e della finanza), e destinata a mantenere una numerosa prole, condizione dell’espansione demografica da cui dipende la potenza dello Stato (come afferma Discorsi I vi 25, dove M. ribadisce che «sanza gran numero di uomini e bene armati mai una republica potrà crescere, o, se la crescerà, mantenersi»), senza la quale non vi è possibilità di sfuggire alla «servitù». Non sembra dunque che alla regola dettata da I xxxvii si opponga il favore accordato da II ii 46 all’incremento della ricchezza privata, per altro contraddetto dai numerosi luoghi che celebrano l’elogio della «povertà». E non convince pienamente l’osservazione secondo cui la prescrizione contenuta nel capitolo dedicato alla legislazione agraria distruggerebbe l’essenza della libertà repubblicana reprimendo la più forte pulsione ospitata dall’uomo. Infatti le linee iniziali del capitolo permettono di scorgere in quella pulsione la principale maniera in cui si manifesta l’«ambizione»; e la buona politica, che è innanzi tutto scelta razionale, è fondata sulla capacità di controllare gli irrazionali desideri, propri e altrui, suscitati dall’«ambizione». Tornano alla mente i vv. 94-99 di uno dei Capitoli, a essa intitolato, e le «buone leggi» che questi evocano. È del resto ben noto che, per l’autore dei Discorsi, la severità delle leggi non contraddice la libertà, ma, al contrario, la rende possibile, modificando le spontanee inclinazioni degli uomini, che solo le leggi «fanno buoni» (Discorsi I iii 6). E come dimenticare la benefica coercizione operata dalle «leggi fatte da Romolo, Numa e gli altri», che tennero a lungo lontana da Roma la «corruzione» da cui era minacciata (i 22)? Ma c’è un’altra ragione per cui l’obiezione concernente la presunta lesione che sarebbe inferta alla libertà repubblicana dall’esortazione a tenere «ricco il publico» e «poveri» i cittadini non appare incontrovertibile. Ed è che, essendo le risorse limitate, evitare di frustrare la brama dei ricchi significa frustrare quella dei poveri, sicché il problema si ripresenta a termini invertiti. Dire che, mentre in un caso lo Stato sarebbe stato il soggetto agente, mentre non lo era nell’altro, significherebbe dare corpo a un fantasma ideologico, perché l’appropriazione dell’ager publicus presuppone non solo l’inerzia (connivente?) dei magistrati, ma anche il potere assicurato all’oligarchia senatoria dall’ordinamento statale. Ben si comprende, dunque, che M., benché condanni la disastrosa imprudenza con cui i G. si sforzarono di modificare una situazione divenuta immodificabile, giudichi positivamente l’intenzione da cui erano stati animati, senza curarsi di ciò che ne aveva detto Cicerone – di cui avrà difficilmente condiviso l’elogio dell’omicidio perpetrato da Scipione Nasica (De officiis I xxii 76) – in alcuni luoghi delle Catilinarie, probabilmente a lui noti (I 3-4, 29; IV 4, 10, 13).
È pur vero che qualora, tornando ancora una volta alle prime linee di Discorsi I xxxvii, nelle quali si dice che l’«ambizione», nome assunto dal desiderio quando si scontra con il desiderio altrui, «è tanto potente ne’ petti umani che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona», si dovesse assumere questa tesi in tutta la sua radicalità, l’efficacia del «rimedio» suggerito dallo scrittore apparirebbe dubbia. Come in effetti accade allorché M., verso la fine del capitolo (§§ 22-23), constatato l’infelice esito del conflitto che aveva assicurato a Roma trecento anni di libertà e di potenza, fa dell’«ambizione» l’incontrastata protagonista della sua storia, talché sparisce la differenza che aveva posto tra le prime lotte plebee e quelle successive. Tuttavia, se questo dovesse essere ritenuto l’ultimo approdo dell’ininterrotta riflessione machiavelliana, a entrare in crisi sarebbe l’intera concezione della politica sulla quale sono stati edificati il Principe e i Discorsi.
Le ultime linee di Discorsi I xxxvii (§§ 26-27) pongono nuovamente la praxis al centro dell’accadere, osservando che, se i G. si fossero astenuti dal dare voce alla questione agraria, che aveva ormai taciuto, sarebbe stato possibile ritardarne o addirittura evitarne la violenta esplosione, poiché «temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o per se medesimo, col tempo, avanti che venga al fine suo, si spegne». Per dubitare della solidità e coerenza di questa tesi, basta tuttavia considerare le molteplici spiegazioni della crisi della «romana republica» offerte da M., così difficilmente riconducibili a unità, sebbene facciano in vario modo perno sul concetto di corruzione, non presente, almeno in forma esplicita, in Discorsi I xxxvii, dove lo scrittore insiste sull’irresistibile brama di possesso che la limitazione delle risorse induce nell’uomo.
Al contrario dell’autore dei Discorsi, Plutarco distingue nettamente le iniziative di Gaio da quelle di Tiberio, narrando come il ruolo da lui avuto nell’attuazione della legge agraria sia stato assai meno significativo delle importanti riforme di cui si era fatto promotore al fine di diminuire l’autorità del senato e di conferire alla Repubblica un assetto meno oligarchico o, se così piace dire, più ‘democratico’. Ma di ciò M. non parla.
Bibliografia: Fonti: Livio, Ab urbe condita libri II 41, 1-3 e VI 35, 5; Plutarco, Vite parallele, Tiberio e Gaio Gracco; Sallustio, La guerra giugurtina, XLI e segg.
Per gli studi critici relativi alle vicende storiche dei G. si vedano: G. De Sanctis, Rivoluzione e reazione nell’età dei Gracchi (1921), in Id., Scritti minori, 4° vol., Roma 1976, pp. 39-69; T. Mommsen, Storia di Roma, a cura di A.G. Quattrini, 5° vol., Roma 1938, pp. 118-217; E. Gabba, Il tentativo dei Gracchi, in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, 15° vol., L’egemonia di Roma: l’impero mediterraneo, Milano 2008, pp. 671-89 (con particolare attenzione alla bibliografia posteriore al 1958).
Per gli studi critici relativi alle figure dei G. in M. si vedano: G. Cadoni, Note machiavelliane (III), «Storia e politica», 1982, 21, pp. 99-111; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 488 e segg.; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, 1° vol., Bologna 1993, pp. 529-44; G. Cadoni, La crisi della costituzione repubblicana di Roma nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Id., Crisi della mediazione politica e conflitti sociali, Roma 1994, pp. 35-46; G. Inglese, Per Machiavelli, Roma 2006, pp. 129-31; G. Cadoni, Per alcune questioni di critica machiavelliana, «La cultura», 2007, 55, pp. 71-75.