grafemi
I grafemi sono le unità grafiche elementari, non suddivisibili ulteriormente, che servono a riprodurre nello scritto i suoni di una lingua. Il termine, modellato sulla serie fonema, morfema, ecc., contiene la radice greca grápho «scrivo», che rinvia all’ambito della scrittura. I grafemi sono oggetto di studio della branca della linguistica detta grafematica, e in linguistica sono convenzionalmente indicati tra parentesi uncinate (‹ ›).
Nelle lingue alfabetiche, il termine grafema è spesso sinonimo di lettera e l’insieme dei grafemi costituisce l’alfabeto. In senso funzionalista-strutturalista, il grafema è l’unità astratta dotata di valore distintivo, analoga al fonema in fonologia e portatrice di un significante (grafico) che rinvia a un significato (fonico). Come i fonemi si realizzano concretamente in foni, così i grafemi si realizzano nei grafi (o ➔ allografi), e cioè nei diversi modi in cui un grafema può venire scritto nei testi a stampa o dalla mano dello scrivente (per es., maiuscolo o minuscolo).
Nonostante il valore simbolico e desemantizzato che hanno oggi i grafemi alfabetici, non va dimenticata la loro origine ideografica. Il grafema maiuscolo A, per es., deriva dal disegno di un muso di toro (capovolto, lo ricorda ancora) tracciato in modo sempre più stilizzato, in seguito diventato simbolico di una sillaba, poi, coi greci, segno alfabetico e, infine, ruotato fino a raggiungere l’attuale aspetto.
I grafemi della lingua italiana sono, sostanzialmente, quelli dell’alfabeto latino, che aveva in più ‹k›, ‹x› e ‹y› e in meno ‹u›, poiché ‹v› rappresentava sia la vocale sia la consonante. In italiano, la distinzione ‹uv› fu proposta per la prima volta nel Cinquecento da ➔ Gian Giorgio Trissino, ma si affermò solo nel Seicento inoltrato; tuttavia, ancora nel Settecento non ci doveva essere unanime accordo, se Salvatore Corticelli nel 1745 escludeva il grafema ‹v› dall’elenco alfabetico posto in apertura delle sue Regole.
Ecco i 21 grafemi dell’italiano, maiuscoli e minuscoli, e i 5 non indigeni (con asterisco); tra parentesi si riportano i diversi referenti fonologici o le diverse funzioni dei grafemi polivalenti:
Tabella
A a M m
B b N n
C c (/ʧ/, /k/) O o (/o/, /ɔ/)
D d P p
E e (/e/, /ε/) Q q
F f R r
G g (/ʤ/, /g/) S s (/s/, /z/)
H h (resto etimologico, T t segno diacritico) U u (/u/, /w/ semivocale)
I i (/i/, /j/ semivocale, V v segno diacritico)
* J j * X x
* K k * Y y
L l Z z (/ʦ/, /ʣ/)
Quando la pronuncia del suono corrispondente è rafforzata, i grafemi consonantici, tranne la ‹h› (muta) e la ‹q› (ammessa solo nelle eccezioni biqquadro e soqquadro), sono scritti due volte e prendono il nome di geminate (o doppie; ➔ doppie, lettere). I grafemi ‹e› e ‹o› sono detti arcigrafemi in quanto indicano sia la variante aperta sia quella chiusa della vocale corrispondente.
Ad alcuni grafemi corrispondono suoni diversi a seconda del contesto fonico e, quindi, grafico in cui si trovano. Si pensi alla ‹s› che serve a rappresentare sia la sibilante sorda /z/ sia la /s/: in una parola come risorsa si trovano in sequenza i due diversi fonemi (/z/ e /s/) rappresentati dallo stesso grafema; o si pensi al diverso valore fonico del grafema ‹z› in zaino /ʣ/ e in zio /ʦ/. Viceversa, non tutti i suoni dell’italiano sono trascritti univocamente da una singola lettera e, per rappresentarne alcuni, si deve ricorrere a digrammi (➔ digramma) e trigrammi come ‹gn› + a, e, i, o, u per /ɲ/, ‹sc› + i, e, per /ʃ/, ‹gl› + i per /ʎ/, e così via.
Certi suoni, poi, in determinate sequenze, sono trascritti attraverso allografi contestuali, cioè con alternative combinatorie che servono a rendere correttamente la trascrizione dei suoni. È il caso, ad es., del suono /k/, indicato con la sola lettera ‹c› in cane ma col digramma ‹ch› in chiostro, o del suono /ʤ/, indicato con ‹g› in gesso, ma con ‹gi› in giardino, per evitare la lettura *[garˈdino]. Se si annoverano tra i grafemi anche gli allografi, allora il numero di essi sale e la definizione si arricchisce di una nuova caratteristica: i grafemi non sono solo le singole lettere dell’alfabeto, ma tutti gli elementi grafici e le combinazioni di elementi grafici funzionali a rendere correttamente nella scrittura i suoni della lingua.
Le grafie alfabetiche come quella dell’italiano, formatesi per accumulo di convenzioni nel corso della codificazione della lingua, sono «tutt’altro che univoche e coerenti» (Berruto 20052: 34). Le mancate corrispondenze si spiegano alla luce dell’evoluzione della grafia, che si è trasformata molto più lentamente della pronuncia, lasciando inevitabili vuoti. La trascrizione dell’italiano, tuttavia, è considerata piuttosto trasparente: 11 grafemi, infatti, hanno valore univoco (‹a› ‹b› ‹d› ‹f› ‹l› ‹m› ‹n› ‹p› ‹r› ‹t› ‹v›). Serianni (1997) classifica i restanti 10 in tre tipologie: polivalenti (‹e› ‹o› ‹i› ‹u› ‹c› ‹g› ‹s› ‹z›), diacritici (‹h› e, in certe combinazioni, ‹i›) e un grafema sovrabbondante (‹q›).
I grafemi odierni dell’italiano sono il risultato di un lungo percorso di riduzione e di stabilizzazione. Dalla tarda antichità all’Umanesimo e oltre, infatti, l’Italia fu caratterizzata da un multigrafismo diffuso, cioè dalla presenza di moltissime varianti grafematiche per indicare uno stesso suono del volgare. Nelle carte altomedievali, per es., l’occlusiva velare sorda era comunemente indicata col grafema greco ‹k›, oggi presente ‘di rientro’ nei forestierismi, mentre il nesso ‹ch› si è affermato solo più avanti, perché dotato di un corrispondente per la sonora ‹gh›. L’affricata dentale sorda e sonora, invece, resa in latino con ‹ti› e ‹ci›, veniva variamente trascritta con ‹z› ‹zi› ‹zz› ‹tz› ‹tzi› ‹tztz› ‹cz›.
Mentre i simboli si riducevano nel corso dei secoli, ciclicamente, singoli studiosi o gruppi proponevano riforme grafiche di ispirazione fonetica basate sull’introduzione di nuovi grafemi, con l’intento di sanare le incoerenze dell’➔alfabeto italiano. Se nel Cinquecento Gian Giorgio Trissino proponeva l’uso di ‹ʃ› per la s sonora e di ‹ω› ed ‹ε› per distinguere le varianti aperte di ‹o› ed ‹e› dalle chiuse, ancora nell’Ottocento Policarpo Petrocchi avanzava l’ipotesi che la scrittura di ‹ʃ› e ‹ʒ› per s e z sonore, insieme a un sistema di accenti, potessero arginare le difformità della grafia rispetto alla pronuncia.
Questi e altri tentativi furono sostanzialmente inefficaci. Su alcuni grafemi, poi, la discussione continuò fino al Novecento: per es., solo a metà del secolo l’uso del grafema ‹j› fu definitivamente normato dalle grammatiche che ne riducevano drasticamente l’impiego, frequente nei plurali dei termini in -io e in posizione iniziale o intervocalica (jeri, mugnajo).
Le lacune dei sistemi alfabetici hanno reso necessario un ➔ alfabeto fonetico stabilito dall’IPA (International Phonetic Association) per trascrivere tutti i suoni di tutte le lingue.
Tradizionalmente, i libri di grammatica iniziano con alcuni paragrafi dedicati alla descrizione dei grafemi della lingua trattata. Già la quattrocentesca Grammatica della lingua toscana di ➔ Leon Battista Alberti, prima grammatica di una lingua volgare, si apre con uno schema dell’alfabeto, originalmente ordinato secondo la forma delle lettere. Come molte altre caratteristiche, anche questa risale alle grammatiche delle lingue antiche: Prisciano, ad es., pone tra i primi paragrafi quelli sul concetto di lettera e scrive litera est pars minima vocis compositae (Prisciano di Cesarea 1961: 6). Se non si considera la mancata consapevolezza della distinzione segno-suono, che sarà una conquista piuttosto tarda della linguistica, si può osservare come questa definizione non sia così distante da quelle attuali di fonema e di grafema.
Per la loro forma, alcuni grafemi sono stati usati in campi diversi da quello linguistico: per es., sono stati lo spunto per la creazione di espressioni idiomatiche come «dalla A alla Z» o «mettere i puntini sugli (o sulle) i» (l’oscillazione della preposizione prova l’incertezza di genere del nome di molti grafemi) (Serianni 1997: 26). Nel lessico delle scienze, poi, servono a descrivere efficacemente e sinteticamente, attraverso un’immagine, entità che richiederebbero molte parole di spiegazione: si pensi alle valli «a U» e «a V» del lessico della geologia o ai cromosomi X e Y della genetica.
Inoltre, vanno ricordati suggestivi usi letterari come quello che ne fa Arthur Rimbaud nella poesia Voyelles, in cui a ogni vocale sono associati colori, immagini e sensazioni evocati dal suono e dalla forma:
(1) A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu […] A, noir corset velu des mouches éclatantes […] E, candeurs des vapeurs et des tentes (A. Rimbaud, “Voyelles”, vv. 1-5)
o come quello che ne fa lo scapigliato piemontese Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869) nel racconto La lettera «U»:
(2) U! U!
Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L’ho io delineata esattamente? (I.U. Tarchetti, La lettera «U». Manoscritto di un pazzo)
e prosegue con la descrizione del grafema, lugubre per la forma non meno che per il suono a cui rinvia: «guardatela bene, guardatela attentamente»
(3) quella linea che si curva e si inforca – quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili – quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore sul quale la lettera oscilla – […] e nell’interno quel nero, quel vuoto (ivi)
Il potere evocativo dei segni alfabetici ha continuato a manifestarsi anche in tempi recenti. Basti ricordare il fenomeno del «k politico» negli anni Settanta del Novecento, cioè del ‹k› usato provocatoriamente in espressioni come kapitalismo, maskio, okkupazione, Kossiga per richiamare una vaga idea di potere oscuro e subdolo; oppure l’uso della ‹y› ancora oggi assai frequentemente posta in chiusura di ipocorismi vezzeggiativi (Tommy, Rosy, Susy, mamy, papy; ➔ vezzeggiativi) proprio per l’impressione che evoca, a cavallo tra l’esotico e l’affettuoso; fascino esotico che spiega anche l’uso del ‹k› in espressioni commerciali (Bankitalia) o pubblicitarie (KitKat).
Corticelli, Salvatore (18402), Regole ed osservazioni della lingua toscana, Torino, Tipografia e libreria Canfari (1a ed. Bologna, Stamperia di Lelio dalla Volpe, 1745).
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Berruto, Gaetano (20052), Corso elementare di linguistica generale, Torino, UTET (1a ed. 1997).
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