graffiti
Il termine graffiti si riferisce tanto a immagini quanto a parole, dato che fa riferimento piuttosto alla tecnica che sta alla base della realizzazione del risultato (si ‘graffia’ la parete o la pietra con uno strumento appuntito). Del resto, fin dall’antichità sono documentati graffiti ibridi, con sigle o parole a didascalia di un’immagine.
Sin dagli albori della civiltà l’uomo ha lasciato impronta di sé negli ambienti in cui è vissuto: dalle prime tracce del paleolitico superiore a oggi la messe di graffiti, siano essi semplici scritture o articolate elaborazioni grafiche di pregevole fattura artistica, è una costante di ogni forma di organizzazione sociale. I graffiti, unitamente alle lapidi incise (➔ iscrizioni e lapidi, lingua delle) e alle iscrizioni pittoriche, costituiscono le cosiddette scritture esposte (una catalogazione per tipi è in Sabatini 1996: 569-625); dato il loro tipico carattere spontaneo, offrono significativi spaccati di realtà comunicative del presente e soprattutto del passato (quando riescono, miracolosamente, a conservarsi, nonostante la loro congenita deperibilità). Come dimostra, per il latino, il caso di Pompei, i graffiti sono preziosi testimoni di fatti linguistici propri del parlato (compresa la pronuncia), di elementi tipicamente locali, di scostamenti dalla norma grammaticale o dalle prassi grafiche accreditate.
Proprio un graffito della prima metà del IX secolo costituisce, se non il più antico, uno dei più antichi documenti sicuramente in volgare dell’area italiana (➔ origini, lingua delle). Si tratta del graffito della catacomba di Commodilla, a Roma, scritto su un affresco vicino a un altare, il cui testo è il seguente: Non dicere ille secrita a bboce («Non pronunciare le orazioni segrete a voce alta»: Sabatini 1996: 173-217). Nell’ultimo sintagma la doppia b (una aggiunta successivamente, a mo’ di correzione) registra il combinarsi di due fenomeni tipici del volgare dell’area, trascritti con piena fedeltà al parlato: il raddoppiamento fonosintattico e il ➔ betacismo (il passaggio di v a b in posizione forte).
In generale, si può dire che i graffiti documentano, più che gli usi delle classi istruite – che hanno accesso ai mezzi espressivi e agli strumenti tradizionali del manoscritto o del libro – quelli delle classi semicolte, che sono sì alfabetizzate, ma i cui strumenti poco consentono oltre l’espressione estemporanea e poco meditata che caratterizza questa particolare tipologia scrittoria (cfr. D’Achille 1994: 54).
Oggi, però, il termine graffiti ha assunto un significato diverso, tornando all’italiano dagli ambienti americani culla dello hip-hop. Lì, nella locuzione completa graffiti writing, il riferimento è all’arte di decorare con scritte e immagini formanti murales, realizzati grazie all’impiego di bombolette spray, superfici pubbliche o private e anche mezzi di trasporto.
I graffiti attuali sono altra cosa, quindi, rispetto alle scritte murali spontanee, che in alcune città sono state di recente raccolte e studiate (per es., da Di Cato 1990 per L’Aquila; Stefinlongo 1999 e Romiti 2002 per Roma; Maturi 2007 per Napoli): queste scritte dichiarano affetti, fede calcistica o politica ma, pur se ospitate dagli stessi muri, si compongono (in rigorosa monocromia) di enunciati completi («Lory ti amo»; «Forza capitano»; «Fasci in guardia») e poco si discostano dall’ordinarietà d’impiego della lingua, se non per l’abbondanza di maiuscole, la presenza – pur interessante sotto il profilo linguistico – di sigle, abbreviazioni e cifre («Marco TVTTTB» cioè «ti voglio tanto tanto tanto bene»; «10/100/1000 occupazioni»), nonché di tratti locali («Daje lupi») e di macroscopici errori d’ortografia («Dio cè»).
Benché accomunati dal bisogno di concretare i valori di una cultura ‘altra’ rispetto a quella canonica, gli autori dei graffiti non esprimono con modalità precarie contenuti che non avrebbero modo di veicolare attraverso i canoni tradizionali; piuttosto, ne elaborano di nuovi, affini a pulsioni che sono di fatto più vicine all’arte che all’esigenza scrittoria. Nei graffiti-murales che decorano (o deturpano, a seconda dei punti di vista) gli ambienti urbani l’elemento scritto si fa policromo e vale a pieno titolo come una didascalia all’immagine. Sovrabbondano sigle e termini angloamericani che ripropongono il parlato gergale degli artisti (chi disegna è un writer, non un graffitaro, e si sente uno street artist), ma nella produzione artistica la lingua, inglese o italiana che sia, è di fatto declassata a segno grafico: esso accoglie e ingloba, oltrepassando l’alfabeto, anche i caratteri speciali (asterischi, frecce, spirali, ecc.), è di per sé stesso ‘immagine’, si fa elemento pienamente figurativo e, in quanto tale, può essere oggetto d’attenzione artistica. Le parole si mutano, nel gergo dei writer, in tag costituiti da due o tre lettere che valgono come loghi a firmare l’opera, a dichiarare l’appartenenza dell’autore all’una o l’altra scuola artistica, o a palesarne l’inclinazione ideologica e sociale.
L’insistita rielaborazione grafica che piega e combina a immagini i costituenti primari della lingua (fig. 1) finisce col rendere i tag non più immediatamente associabili alle lettere e ai caratteri originari. Si costituisce, di fatto, un linguaggio da iniziati alla controcultura sottesa: solo chi è addentro al regno dei writer riesce, decrittando quelli che a occhi profani paiono ghirigori decorativi, ad attribuire senso al segno (cfr. Desideri 1998). Il risultato di questo approccio prepotentemente iconico è la totale destrutturazione del linguaggio: i contenuti sono, con meditato intento artistico, veicolati da immagini il cui lessico è l’esperienza della strada e la cui sintassi è il credo hip-hop.
D’Achille, Paolo (1994), L’italiano dei semicolti, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 2º (Scritto e parlato), pp. 41-79.
Desideri, Paola (a cura di) (1998), Il segno in scena. Scritte murali e graffiti come pratiche semio-linguistiche, Ancona, Mediateca delle Marche.
Di Cato, Vincenzo (1990), Scritte murali a L’Aquila, L’Aquila, Colacchi.
Maturi, Pietro (2007), Le scritture esposte: dialettalità e multilinguismo sui muri di Napoli, in La città e le sue lingue. Repertori linguistici urbani, a cura di N. De Blasi & C. Marcato, Napoli, Liguori, pp. 243-252.
Romiti, Sara (2002), Scritte murali a Roma. Un ponte tra il parlato e lo scritto, «Il Belli» 4, 1, pp. 7-17.
Sabatini, Francesco (1996), Italia linguistica delle origini, a cura di V. Coletti, et al., Lecce, Argo, 2 voll., pp. 173-217, 569-625.
Stefinlongo, Antonella (1999), ‘Neoromanizzazione’ del territorio. La lingua delle scritte murali nell’area metropolitana romana, in Roma e il suo territorio. Lingua, dialetto e società. Atti del Colloquio (Roma, 3-4 dicembre 1997), a cura di M. Dardano et al., Roma, Bulzoni, pp. 267-285.