grafia
Al termine grafia (dal gr. graphḗ «scrittura») corrispondono, in realtà, due accezioni diverse: la prima si riferisce al ductus, cioè alle peculiarità dei caratteri della scrittura (tipologia, collegamenti tra le lettere, orientamento, ecc.), la seconda alle modalità di trascrizione delle parole, cioè alle scelte ortografiche (➔ ortografia). La locuzione grafia italiana indica il modo di trascrivere la lingua italiana.
Dei cambiamenti del ductus scrittorio nel corso dei secoli e della classificazione delle scritture attraverso lo studio dei testi antichi si occupa la paleografia, che studia la storia della scrittura, soprattutto manoscritta (per un testo introduttivo si veda Petrucci 2002).
Come tutti i fenomeni che riguardano l’espressione umana, anche la scrittura si è evoluta nel tempo. A partire dai primi, rozzi segni che ripetevano il modello offerto dalle lettere dell’alfabeto, si è lentamente passati attraverso vari ed elaborati tipi grafici che hanno portato fino alla grafia attuale (e cioè, per semplificare, un corsivo variamente interpretato dai singoli scriventi). Limitando il campo alla storia della grafia in alfabeto latino, è interessante ricordare l’antica grafia bustrofedica (da destra a sinistra e viceversa, come il bue che ara il campo) dei secoli VII e VI a.C., alla quale seguì il graduale affermarsi della grafia destrorsa.
Mentre l’alfabeto latino si evolveva perdendo e acquisendo ➔ grafemi, lo stile scrittorio mutava attraverso diverse fasi e diverse tipologie: è, per es., celebre la grafia lapidaria (quadrata o capitale o monumentale), a caratteri sempre maiuscoli, tipica della scrittura epigrafica romana, impeccabile, solenne, armonica nelle proporzioni. Le principali scritture manoscritte, in uso dal I secolo circa in poi, sono le capitali libraria rustica, libraria elegante, libraria onciale, libraria semionciale (contraddistinte da differenti caratteristiche di eleganza e di orientamento del tratto), ma anche la capitale corsiva e la minuscola corsiva che dalla capitale si è evoluta, più spontanea e ricca di collegamenti tra le lettere.
Dopo la dissoluzione dell’Impero romano, la scrittura minuscola corsiva che aveva sostituito le scritture capitali onciale e semionciale iniziò ad assumere forme molto diverse differenziandosi da zona a zona, dando origine al fenomeno della formazione delle scritture nazionali. Una delle esperienze più significative è quella della cosiddetta scrittura carolina maturata alla corte di Carlo Magno, promossa dalla Scuola Palatina di Aquisgrana, dove, nell’VIII secolo, si raccolsero i più grandi eruditi del tempo che, fra l’altro, incentivarono il rinnovamento della scrittura libraria. Essa era una sintesi felice di diverse esperienze scrittorie: semionciale, corsiva romana, vari tipi di precaroline, alcune scritture nazionali. Con l’editto del 789 Carlo Magno la impose ai popoli da lui dominati.
La carolina era una grafia di forma proporzionata e facilmente leggibile, non più eminentemente esornativa, ma adatta a trasmettere fedelmente il contenuto. Nel XII secolo la grafia carolina cominciò a diffondersi e a differenziarsi da regione a regione: in Italia, per es., venne imitata e tramandata dalla rotonda nella stampa; in Francia, si accentuò l’aspetto alto, stretto e angoloso, fino a diventare tipicamente gotica. Durante il medioevo furono i monaci ad attendere alla mansione di trascrivere i codici negli scriptoria dei monasteri. La copiatura manuale era spesso fonte di errori grafici meccanici, psicologici o dovuti a errata comprensione di una parola; solo l’avvento della stampa a fine Quattrocento porrà un argine alla variabilità grafica tipica della scrittura manuale.
Con la diffusione della stampa dalla fine del XIV secolo, infatti, ebbe inizio il lento processo di regolarizzazione della grafia italiana sia a livello di ductus sia a livello di scelte grafiche nella resa dei nessi particolarmente oscillanti. Un personaggio chiave nella storia della grafia italiana è il tipografo veneziano Aldo Manuzio che, nei primi anni del Cinquecento, dette l’avvio a una collana di libri di dimensioni e prezzo ridotti in cui per la prima volta comparve utilizzato il carattere corsivo aldino, riproduzione della grafia cancelleresca rinascimentale (il corsivo è, a tutt’oggi, chiamato in francese italique e in inglese italics proprio per la sua origine italiana; ➔ editoria e lingua).
La stampa, però, non contribuì solo alla regolarizzazione della forma dei caratteri, ma anche alla lenta riduzione delle varianti grafiche della grafia italiana. Si passa, così, alla seconda accezione di grafia italiana, quella che per secoli fu discussa in seno al più ampio dibattito intorno alla ➔ questione della lingua. Le soluzioni adottate nel trascrivere una lingua non ancora dotata di una prassi scrittoria sedimentata nel tempo, come i volgari nati dal latino, sono, infatti, specchio dell’idea che gli scriventi colti hanno e vogliono dare di quella lingua. Se, da un lato, la scrittura ha una funzione pratica per la quale il sistema dovrebbe essere il più efficiente possibile (cioè il più economico possibile, avvicinandosi all’ideale corrispondenza biunivoca suono-segno), dall’altro trascrivere una lingua implica anche una scelta in un certo senso stilistica che spesso si discosta dalle ragioni della praticità. Sotto la spinta alternata dell’uno o dell’altro fattore sono fiorite, nel corso della storia della lingua italiana, moltissime discussioni, mentre gli scriventi comuni, estranei al dibattito, continuavano a scrivere con grafie quanto mai diverse (rilievi sistematici sulle caratteristiche della grafia italiana nel corso della storia della lingua italiana si trovano in Migliorini 200712).
Per tutto il medioevo, l’Italia fu caratterizzata da quella che Maraschio (1994: 156) chiama una situazione di «multigrafismo», cioè da un altissimo grado di oscillazione nella grafia. Le soluzioni adottate per rendere i nuovi suoni del volgare erano principalmente tre: combinazione di due o più lettere latine, uso di grafemi marginali nell’alfabeto latino (come, per es., ‹k›, frequente in alternativa al nesso ‹ch› nella resa dell’occlusiva velare sorda) o assegnazione di nuovo valore a segni dell’alfabeto latino. In particolare il segno ‹h› fu quello che assunse maggiore importanza come diacritico all’interno di digrammi e trigrammi (➔ digramma).
Mentre l’influsso del latino resisteva nei nessi di consonante + l (‹cl› ‹pl› ‹fl›) e nella rappresentazione delle doppie lettere (per es., scripto, dicto e sim.), per altri suoni una chiara distinzione ortofonica era percepita come urgente. Un caso per tutti è la resa delle sibilanti e delle affricate dentali s e z sorde e sonore (/s/, /z/, /ʦ/, /ʣ/), variamente indicate con ‹z›, ‹ç›, ma anche con ‹x› al Nord (per la s sonora), con ‹z›, ‹cz› e ‹ç› (per la z sonora) e con altre combinazioni meno diffuse (per es., ‹ss› per la s sorda in area settentrionale).
Il peso del modello latino ben si lega al discorso sulle scelte ‘di stile’ nella grafia di una lingua. In Italia, la coesistenza di grafie colte e di grafie popolari è spontaneamente presente fin dalle origini e lascia, oggi, una vistosa eredità nei casi di allotropia (diverse forme di parole a partire da un etimo comune; ➔ allotropi) come vizio ~ vezzo, stazione ~ stagione, razione ~ ragione, e via dicendo. Le diverse tendenze, etimologica e fonetica, della grafia italiana sono però state anche al centro di una secolare discussione dal Cinquecento in poi. In Italia è esistita, infatti, una lunga tradizione di tentativi di riforme della grafia diversamente orientate secondo due correnti opposte, quella degli etimologisti e quella dei fonetisti (cfr. Maraschio 1994: 211 segg.).
I primi sono in minoranza, ma persistono ancora nell’Ottocento. Si pensi alla proposta di riforma di Giovanni Gherardini, il quale, con fervore nazionalistico pre-unitario, immaginava di rifondare la grafia italiana sul riconoscimento delle radici latine, in particolare nella disambiguazione degli omografi come millio («unità di misura») ~ miglio (la pianta detta anche pànico) e nel settore delle doppie (➔ doppie, lettere) ancora oscillanti (si sarebbe dovuto, per es., scrivere commodo e dubio). Le parole che condividevano l’etimo dovevano, invece, essere ricondotte alla stessa grafia (fundere, fusione, fuso).
I fonetisti rappresentano, invece, il fronte più numeroso e costante nella storia della grafia italiana. Il loro intento, però, è più complesso e variamente realizzabile, non avendo un modello stabile di riferimento, ma soltanto l’obiettivo dell’adeguamento della grafia alla pronuncia. Se si riflette sulla mancata uniformità della pronuncia è facile intuire le difficoltà dell’adeguamento della grafia italiana alla realtà fonetica. Un caso esemplare, per rimanere nell’Ottocento, è quello del tentativo di riforma a base fonetica di Policarpo Petrocchi, che proponeva di aggiungere due segni all’alfabeto italiano (‹ʃ› e ‹ʒ› per le sonore) e di introdurre un sistema di accenti gravi e acuti che regolassero la pronuncia delle vocali aperte e chiuse.
Ancora nel Novecento, in particolare nella prima metà, la grafia italiana non era completamente stabilizzata e sulle pagine delle riviste specialistiche fiorivano articoli sul trattamento grafico di nessi come digrammi e trigrammi (-cia e -gia in particolare), sull’uso del segno ‹j› e sull’utilità di distinguere in qualche modo suoni diversi rappresentati da uno stesso segno alfabetico (come, per es., s sorda e sonora). A livello generale, negli anni Trenta del secolo Bruno Migliorini tentò quella che forse fu l’ultima, grande riflessione sullo sviluppo della grafia italiana. In seguito all’ingresso di numerosi forestierismi, Migliorini proponeva il ➔ neopurismo, l’azione dei linguisti nell’orientare la naturale evoluzione della lingua di modo che essa non perdesse le sue caratteristiche peculiari. Il principio era questo: «si può benissimo soddisfare alle esigenze della circolazione linguistica europea senza venir meno alle necessità strutturali della lingua nazionale» (Migliorini 19392: 200). Di conseguenza, le parole straniere che entravano nell’uso quotidiano dell’italiano avrebbero dovuto essere adattate graficamente secondo le regole della grafia italiana. Delle tante proposte di adattamento miglioriniane, una sola è entrata nell’uso (regista per il francese regisseur; ➔ parole d’autore), a prova del poco favore che incontrò questa proposta.
L’avvento di una società sempre più mescolata è segnalato dalla tendenza della grafia italiana ad accettare grafie straniere che riflettono anche il gusto comune per il forestierismo e per le neoformazioni colte: di nuovo la grafia è questione di stile e specchio dei cambiamenti della società.
Maraschio, Nicoletta (1994), Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 139-227.
Migliorini, Bruno (19392), Lingua contemporanea, Firenze, Sansoni (1a ed. 1937).
Migliorini, Bruno (200712), Storia della lingua italiana, Milano, Bompiani (1a ed. Firenze, Sansoni, 1937).
Petrucci, Armando (2002), Prima lezione di paleografia, Roma - Bari, Laterza.