Grafica multimodale
Dalla stampa ai pixel
Il graphic design o ‘progetto grafico’ o, più semplicemente, ‘grafica’ ricopre oggi un ruolo sempre più rilevante. Con la rivoluzione industriale, soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento, la comunicazione propagandistica divenne per le aziende l’arma strategica per pubblicizzare vari prodotti e, per gli Stati, un mezzo per veicolare istanze di carattere politico e ideologico (si pensi alla grafica costruttivista in Russia). In questo senso, il graphic design si configura come un efficace insieme di testi e immagini: «un’attività di combinazione di tipografia, illustrazione, fotografia e stampa allo scopo di persuadere, informare o istruire» (A. Livingston, I. Livingston 2003, p. 90).
Nel linguaggio corrente, il termine grafica si riferisce al disegno bidimensionale, in primis quello del carattere tipografico, ma in senso lato anche all’oggetto tridimensionale (per es., molta segnaletica o i totem), al packaging, dove il visivo-grafico gioca un ruolo primario, fino alle slides (dal desktop a Internet), inclusi la graphic motion e gli artefatti elettronici che gravitano nel dominio della comunicazione visiva.
Ci si occuperà in questo contesto di grafica digitale e cartacea, anche perché accade ormai che l’una si trasferisca nell’altra e viceversa. A questo proposito è sicuramente utile riproporre la formula di ‘artefatto comunicativo’ coniata da Giovanni Anceschi (Monogrammi e figure, 1988, p. 14) per designare l’insieme dei progetti/prodotti che si propongono un intento comunicativo.
Negli ultimi tempi la grafica si è evoluta in direzione digitale: il pixel ha sostituito la stampa e i software hanno ridotto il corredo fisico tradizionalmente impiegato dai progettisti, dalla matita ai complessi macchinari tipografici. Ciò nonostante, anzi proprio per questo, non vi è stato alcun cambiamento di rotta; al contrario, si è ripetuto quanto di più ovvio: la grafica ha risposto allo sviluppo tecnologico. Agli inizi del 20° sec. le avanguardie storiche hanno condotto una straordinaria sperimentazione (tipo-)grafica, imperniando, non a caso, la propria spinta creativa sulle nuove tecnologie. Le si ritroveranno, qua e là, di riflesso, nel corso di questo saggio e in molta grafica odierna. Se ci si volge invece al passato (solo en passant), ci si accorge che, dopo la messa a punto della stampa tipografica, nessun’altra invenzione ha cambiato l’assetto della scrittura quanto il computer: il digitale ha rivoluzionato insomma pratica e linguaggi della comunicazione visiva.
La portata del cambiamento è tale e ormai così evidente che David Carson (n. 1952), uno dei più importanti grafici odierni, ha potuto dichiarare ‘la morte della tipografia’, sottolineando la rottura delle regole del good design nel passaggio epocale dal carattere in piombo all’impalpabilità del pixel, che può e deve essere gestito con un approccio progettuale nuovo e confacente al digitale. Osserva John Maeda (n. 1966), grafico, artista, teorico dell’informatica e docente di media arts and sciences al MIT (Massachusetts Institute of Technology), che lavorare su video con progetti non dinamici, come se si procedesse sulla superficie statica della carta, sarebbe «tanto sacrilego quanto prendere un mobile di Calder e saldarne le giunture per immobilizzarlo» (Maeda 2000, p. 64). Il computer ha permesso la rottura e il superamento delle tradizionali barriere esistenti tra stampa, film e televisione: e ciò significa una maggiore e più fruttuosa interdisciplinarità. Di conseguenza, molti designer (Neville Brody, Jonathan Barnbrook, Why not associates ecc.) hanno esteso la propria attività al web, manovrando con sagacia le virtualità del digitale. Da qui è emersa la free graphics, una grafica libera da preconcetti metodologici e formalistici che non si preoccupa di conservare le regole di una tradizione ritenuta obsoleta, come la stampa tipografica: la grafica digitale si pone così fuori dalle regole tradizionali.
Come sempre avviene in periodi di profonda trasformazione, lo scenario è oggi alquanto variegato, mentre forme e approcci eterogenei convivono fianco a fianco: dalla riedizione dell’elegante e minimale scuola svizzera alle ridondanze giocose di un’estetica «impura» (Carmagnola 2001, p. 8); dalla glorificazione dei processi tecnologici (usati anche in chiave simbolica) alla crudezza e all’empatica approssimazione del segno tracciato a mano; dall’imporsi di un linguaggio internazionale alla ripresa di stili regionali e sempre più localizzati. Insomma, si danno e si sovrappongono svariati modi espressivi che, diversamente ricombinati, diventano entità inedite. La scuola iraniana (un gruppo di progettisti che ha preso corpo intorno al grafico Morteza Momayez, 1935-2005), per es., è emersa sulla scena internazionale con una grafica raffinata e davvero inventiva: globale nei riferimenti internazionalistici e locale nelle specificità figurative, occidentale nella spinta tecnologica e insieme intrinsecamente orientale nelle apparizioni di una scrittura già di per sé iconica. Confrontando la scrittura iraniana, in particolare quella di Reza Abedini (n. 1967), con le parolibere futuriste, non è difficile concludere che in Occidente soltanto di recente il testo è stato ‘liberato’, è in altre parole divenuto immagine o ha inglobato l’immagine; in Irān, al contrario, il testo è sempre stato immagine, e la tradizione calligrafica iraniana incontra la nostra modernità.
Più in generale, nelle ultime sperimentazioni grafiche si rileva una sorta di ritorno al passato avanguardistico. Più precisamente, è come se, in un’alternanza di corsi e ricorsi, le scoperte creative delle avanguardie storiche siano tornate a essere una fonte d’ispirazione, legittimata oggi dalle possibilità operative del digitale. In questa prospettiva, si potrebbe argomentare che la scuola svizzera, alla guida della grafica internazionale dagli anni Trenta del 20° sec. e per lungo tempo, abbia sì assorbito la rottura formale operata dalla modernità, ma solo normalizzando l’invenzione avanguardistica in direzione di una comunicazione oltremodo sobria e lineare. In tal modo ha però ridotto la carica eversiva originaria, che sembra ora animare certi luoghi di sperimentazione digitale.
Nondimeno è corretto osservare che la gran parte delle critiche rivolte alla scuola svizzera – in primis la mancanza di appeal e un less is more (meno è meglio) che finisce per diventare rovinosamente noia – non riguardano tanto i maestri quanto gli epigoni, che replicano acriticamente quel che è poi diventato una sorta di stile svizzero: minimalismo, griglia modulare, caratteri lineari, riduzione cromatica e così via. Anzi, è appena il caso di precisare che l’opera dei maestri, sempre elegante e densa di significato, si risolve in soluzioni di grande impatto. Jan Tschichold (1902-1974), capostipite di tale scuola e teorico della Nuova tipografia, per es., oltre a ricercare impatto visuale e contrasto tipografico, scrive che «ogni possibile blocco [di testo] e ogni elemento tipografico che non sia meramente ornamentale può essere usato nella Nuova tipografia» (Die neue Typographie, 1928; trad. ingl. 1995, p. 173). Ed è ancor più attuale quando dichiara che «la Nuova tipografia è distinguibile dalla vecchia per il fatto che il suo primo obiettivo è quello di sviluppare la sua forma visibile dalla funzione del testo» (pp. 66-67): un’affermazione decisiva, sulla quale si tornerà poi a riflettere.
Nella direzione indicata da Tschichold, molti progettisti odierni, (post-)modernisti e non, tentano di far emergere il significato del messaggio attraverso sorprendenti e mirate alterazioni ‘caratteriali’. Uno di questi è senz’altro Leonardo Sonnoli (n. 1962), che realizza blocchi di testo e logotipi animati da una straordinaria forza iconica. Le sue sono Lettere dal confine (2006): il confine, verrebbe da pensare, tra parola e immagine; inequivocabile, qui come altrove, l’influenza delle avanguardie storiche. Allo stesso modo opera Michele Jannuzzi (n. 1967; svizzero-italiano trapiantato a Londra), che impiega il testo per creare potenti suggestioni visive, attraverso una formidabile capacità di coordinamento mediatico. Non a caso la sua opera è descritta in Dotlinepixel (Jannuzzi, Smith 2000). Certi logotipi, tra il web e il cartaceo, giocano qui sull’effetto sorpresa e l’impatto iconico; per es., Electrocute (2004), che si metamorfizza sullo schermo e regala una smorfia diversa per ogni implementazione stampata. Suo, ancora, il progetto per OnLine magic (1998), spesso menzionato come un nuovo, paradigmatico e flessibile approccio all’immagine coordinata, dove il marchio perde del tutto la sua genetica centralità per lasciare spazio a più varie e accattivanti forme di comunicazione. Ma, a proposito di svizzeri poco ortodossi, basti pensare a quanti grafici operano, per es., a Zurigo all’interno di una sperimentazione poco riconducibile allo stereotipo di una scuola rigida e con scarse possibilità di evoluzione.
Per converso, proprio negli ultimissimi anni si registra una certa inversione di tendenza: la ricerca di una nuova semplicità dopo il frastuono della recente spinta creativa, che comunque non arresta la sua corsa. Per fare un esempio, nell’introduzione al n. 64 di «Emigre», Rudy VanderLans (uno dei fondatori della rivista) scrive che bisogna «tornare alla critica del design per combattere l’ondata di manierismo che ha invaso l’universo tipografico contemporaneo» (Castellacci, Sanvitale 2004, p. 49). Tale numero si intitola Rant, che vuol dire ‘discorso enfatico, esaltato’, ‘farneticamento’, ma anche ‘dichiarazione di principio’. Ciò ha un che di singolare, perché proprio «Emigre», a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del 20° sec., si era distinta sulla scena internazionale per aver infranto tutte le regole propiziando caratteri digitali molto vari e alieni da qualunque categoria tipografica. La qual cosa ha suscitato una serie di reazioni di dissenso e rigetto culminate nella severa condanna di Massimo Vignelli (S. Heller, The cult of the ugly, «Eye», 1993, 3, 9, p. 52).
Il caso più eclatante tuttavia è forse Maeda: dopo essersi sbizzarrito in composizioni grafiche assolutamente di grande impatto e aver esplorato i più spettacolari punti d’intersezione tra grafica, arte e tecnologia dando luogo a un creative code (Maeda 2004), si ritiene responsabile «per l’inesorabile flusso di ‘delizie per gli occhi’ che inquina il paesaggio dell’informazione», tanto che «perseguire la semplicità nell’era digitale è diventata la mia missione, il focus delle mie ricerche al MIT» (Maeda 2006, p. 2). Tale posizione può essere considerata per certi aspetti radicale, ma è tipico di questi anni l’imposizione di artefatti comunicativi tanto visibili quanto paradossalmente a-comunicativi. Senza mezzi termini: il caos predomina e la smania di attrarre annulla ogni possibilità d’informazione. D’altro canto, e per fortuna, esiste anche una produzione altrettanto visibile, ma di grande forza comunicativa e capace di suggestionare.
Di seguito, senza alcuna pretesa di definire un panorama esaustivo e nel tentativo di formulare possibili luoghi di discussione, si esamineranno alcune tendenze della grafica odierna, tutte in qualche modo interconnesse. Si parlerà di grafica digitale, di come la tecnologia venga oggi impiegata non solo in termini operativi, ma anche come valore di per sé comunicativo, fino a stemperarsi in escamotages o vezzi formali come la griglia di pixel o il post-it elettronico usato come promemoria. Si ragionerà quindi sull’affermarsi di un tipo di scrittura fluida e per lo più iconica, dalle imponderabili possibilità di progetto e distante anni luce dalla vecchia tipografia. Da qui, si estenderà il discorso a certa scrittura digitale che si risolve in segni pittografico-sincopati nelle chat-line (dallo smiley all’emoticon) e al tanto atteso e-book, il libro elettronico. Ci si occuperà poi di design emozionale, analizzando casi ‘emozionanti’, e in questo senso fortemente comunicativi, ma anche irritanti fino al fastidio, al limite della comunicazione. Si esamineranno luoghi di sperimentazione grafica, come il manifesto, che alcuni considerano obsoleto, ma che continua a rivelarsi un eccellente laboratorio sperimentale delle ultime tendenze, con sorprendenti spunti interattivi. Si delineerà infine una serie di parallelismi tra digitale e cartaceo, osservando come il secondo, al pari del primo, sia sempre più interattivo, se non già sinestetico, colpendo la vista e coinvolgendo il tatto. Ma, in primo luogo, bisogna partire dal punto d’arrivo: il digitale.
Grafica digitale
Che la grafica sia oggi in gran parte digitalizzata è constatazione banale, e non ci si riferisce soltanto al moltiplicarsi di video, schermi e display di ogni genere, ma anche al fatto che molta grafica ‘cartacea’ è pensata sullo schermo e per lo schermo, e solo in un secondo tempo trasferita su carta. Molti artefatti comunicativi, certamente quelli più all’avanguardia, scaturiscono da sofisticati mezzi elettronici: sempre più difficili da utilizzare pienamente, sempre più misteriosi e imprevedibili nelle loro possibilità applicative. Alcuni ne celebrano il valore; altri, sempre di meno, li considerano fuorvianti e addirittura li osteggiano. E vi è chi dichiara (KesselsKramer) provocatoriamente: «Il disegno grafico è morto. È stato ucciso dai computer, dai chip a velocità supersonica, dal sovraccarico di gigabyte e da certe cose che chiamano ‘fire-wires’. […] E così sia! La festa è appena cominciata […]» (Ch. Fiell, P. Fiell 2003, p. 316).
Ci si trova in una situazione molto simile a quella descritta da Gottfried Semper nella seconda metà del 19° sec.: «Le cose più impensabili [la speculazione] riesce ad ottenere giocando con mezzi presi in prestito dalla scienza: il più duro porfido o granito si taglia come gesso e diventa liscio come cera; l’avorio è ammorbidito e pressato in forme; il caucciù e la guttaperca sono sottoposti a vulcanizzazione e usati per avere perfette imitazioni degli intagli in legno, metallo e pietra […]» (Semper 2001, p. 194). Allora come ora: «L’eccesso di mezzi è il primo grosso pericolo con cui l’arte deve confrontarsi» (p. 196). E si oscilla tra due estremi: disorientamento e possibilità infinita. Del resto, come separare l’uno dall’altra? Paul Rand e Milton Glaser, due indiscussi riferimenti del secolo scorso, ammoniscono chiaramente che una così elevata serie di possibilità comporta il rischio di rimanere invischiati nel meccanismo di fascinazione della macchina perdendo così di vista il vero obiettivo della comunicazione. Comunque sia, è questo un rischio che bisogna correre, dal momento che, laddove volessimo, non potremmo certo procedere all’indietro.
Meglio sarebbe seguire la strada indicata da Maeda: sviluppare un design tutto digitale, matematicamente prodotto e formulato sulla specificità del pixel. Per Maeda, infatti, il computer costituisce più di un semplice strumento di visualizzazione: è parte attiva del progetto. Inoltre, senza il computer non si sarebbe mai potuti arrivare a certe mirabolanti configurazioni o frattali digitali; e, laddove fosse possibile, sicuramente occorrerebbero tempi impraticabilmente lunghi. Senza parlare poi delle emozionanti e infinite possibilità messe in campo dall’applicazione di filtri e altre mirabilia informatiche consentite da programmi come Photoshop. Fra l’altro, una delle più grandi innovazioni prodotte dal digitale, ciò che fa del computer un mezzo sostanzialmente diverso e molto più sofisticato della carta, è il fattore tempo: un’implicazione piuttosto complessa che rende l’artefatto comunicativo più dinamico e interattivo. Ciò è ampiamente illustrato in Creative code. Aesthetics + computation (Maeda 2004), che amplifica la dimensione del progetto formulando sorprendenti ‘ambienti visuali’, se non già definibili come multimodali.
Sotto i nostri occhi, e non solo nel Media laboratory del MIT, accade che il digitale si risolva in un vero e proprio ambiente mediatico carico di stimoli percettivi. La tecnologia elettronica, che caratterizza la fase attuale, si riverbera in un’estetica fluido-digitale, materializzata in architetture sinuose (da Frank O. Gehry a Zaha Hadid), in oggetti ‘morbidi’ (come quelli di Ron Arad e Philippe Starck) e perfino nell’odierna scrittura iconico-digitale. Se negli anni Venti del 20° sec. l’artista neoplastico Theo van Doesburg coniò la definizione di estetica meccanica, indicando una precisa corrispondenza tra forme geometriche e produzione meccanica, Zygmunt Bauman ha ampiamente ragionato sulla Liquid modernity (2000) che caratterizzerebbe la nostra società: dalle istituzioni politiche ai rapporti affettivi, inclusa naturalmente la produzione materiale o virtuale. Il sociologo polacco è arrivato ad appropriarsi del termine liquido facendone una sorta di marchio di fabbrica, che ritorna strategicamente nel titolo di molti suoi libri: Liquid love (2003), Liquid life (2005), Liquid fear (2006).
Il concetto di ambiente digitale, in termini più tecnici, ma non meno filosofici di quelli di Bauman, è espresso negli scritti di D. Carson; in particolare in The book of probes (2002) e in Trek (2003). L’ambiente in questione ci circonda così intimamente che non lo si riesce a mettere a fuoco; al massimo lo si può percepire indistintamente: «Siamo oggi investiti da una marea d’informazioni elettroniche impercettibile a noi come l’acqua al pesce» (McLuhan, Carson 2002, pp. 28-29). Nel mondo elettronico l’informazione diviene il quid d’ogni cosa, dal momento che «siamo diventati come paleolitici: ancora nomadi, ma alla ricerca d’informazione più che di cibo» (p. 26). A distanza di sessant’anni dal celebre statement di Marshall McLuhan ‘il mezzo è il messaggio’, la dimensione pervasiva dei media (elettronici) ci fa riflettere su come «le società siano formate più dalla natura dei media con cui gli uomini comunicano che dal contenuto della comunicazione» (pp. 22-23). Che ci piaccia o no, i «media ci plasmano intimamente. Essi sono così pervasivi nella sfera personale, politica, economica, estetica, psicologica, morale, etica e sociale che non vi è parte di noi che non abbiano già toccato, influenzato, alterato – il mezzo è il messaggio» (p. 180). Insomma, l’ambiente digitale non è un semplice contenitore, ma un processo che cambia in maniera radicale il contenuto. Ciò, ovviamente, è ancor più vero per quanto riguarda la grafica (digitale e non), che definisce il panorama visivo e che è oggi definita prevalentemente dalle tecnologie che si stanno creando e usando. Essa, ci si domanda allora, deve trasmettere il messaggio così com’è (come si è tradizionalmente sostenuto) oppure può offrire un livello di comunicazione supplementare al significato letterale del messaggio? La risposta sembrerebbe non del tutto ovvia.
Nel passaggio dal meccanico all’elettronico (dal tipografico al digitale) cambia naturalmente il nostro modo di pensare. E ci si trova oggi in una situazione simile, ma rovesciata, rispetto a quella che seguì l’avvento della scrittura, nel senso che si sta progressivamente tornando a una fase preletteraria, dominata dall’immagine. Accade ormai, per es., che i giornali siano assorbiti visivamente: anzi, «la gente non legge effettivamente i giornali; vi s’immerge ogni mattina come in un bagno caldo» (p. 180). E sono proprio le ultime generazioni, cresciute davanti al computer, ad avere in particolare raggiunto uno stadio postletterato: il target cui Carson, con la sua grafica pirotecnica, si rivolge esplicitamente e di continuo.
Ragionando sull’ambiente o sul panorama visivo, ci si domanda quindi in che modo la grafica tradizionale, quella cioè precipuamente cartacea, possa o debba essere tradotta nel digitale. Fermo restando, naturalmente, che la traduzione è duplice: da una parte, la carta si riversa sul web determinando approcci e modi che hanno poco a che vedere con lo schermo (e che comunque non sono pensati ad hoc); dall’altra, lo schermo influenza la carta rimescolando linguaggi e innescando processi di rinnovamento. Il passaggio carta-schermo è inevitabile e caratterizza spesso l’esordio di un nuovo oggetto tecnico; non per nulla le prime automobili erano carrozze su ruote e i primi computer un mix fra un televisore e una macchina da scrivere. La transizione dovrebbe però essere creativa e mai automatica, in modo che i fondamenti della disciplina possano essere riattivati nei processi digitali. Il passaggio schermo-carta (ovvero la formulazione di soluzioni grafiche per lo schermo e conseguentemente su carta), nonché la reciproca influenza fra cartaceo e digitale possono tradursi in una preziosa sperimentazione sul campo, visto che l’offerta di nuovi mezzi di comunicazione ha ridefinito il ruolo della carta.
La transizione fisico-digitale e l’interazione fra vecchio e nuovo comportano, tuttavia, alcuni aspetti problematici. Per prima cosa, schermo e carta sono due supporti intrinsecamente diversi: basti pensare che l’uno è dinamico e l’altra no. Inoltre, certi elementi visivi tipici del computer sono ormai divenuti vezzi grafici o brandelli di un formulario privo di qualunque slancio creativo. Il più diffuso è certamente la @ (la cosiddetta chiocciola), che in molti logotipi sostituisce impropriamente la lettera ‘a’. Un altro, probabilmente il più genuino, è poi il pixel che, per quanto il digitale abbia oggi superato le griglie quadrettate tipiche degli anni Ottanta del 20° sec., conserva ancora un certo ‘sapore’ tecnologico. Caso paradigmatico è lo studio giapponese ten_do_ten (anche il trattino basso o underscore è da considerare un vezzo grafico-digitale, che viene talvolta a sostituire il classico trattino) che progetta artefatti comunicativi (logotipi, layout, caratteri digitali, ideogrammi ecc.) sistematicamente quadrettati e all’insegna del pixel. Non per nulla, tiene a precisare il gruppo, «ten significa pixel in giapponese» (Ch. Fiell, P. Fiell 2003, p. 554).
Il pixel si è prestato inoltre a un uso strategico: funzionale e simbolico allo stesso tempo. Una prima applicazione è la creazione di fotomosaici digitali. Programmi sofisticati sono oggi in grado di riprodurre immagini (per lo più facce) accostando l’uno all’altro un’infinità di tessere-pixel. Quante volte Monna Lisa è stata riprodotta – per es., da Robert Silver nel 2002 – in questo modo? Una seconda direzione consiste nel sovrapporre trame di pixel su parte dell’immagine nascondendola come fosse una forma di censura: pratica ampiamente usata in ambito pornografico, tale però da produrre curiosi effetti grafici. La campagna pubblicitaria Do you know the Carla’s secret? (2002), che Jakob Blom ha progettato per una marca di calzature, presenta una fanciulla molto bella: questa è ripresa da dietro mentre lava i vetri praticamente priva di abiti; ma paradossalmente l’occhio precipita sugli stivali, coperti dai pixel censori quasi fossero questi l’oggetto dello scabroso desiderio, il segreto di Carla.
Altro elemento tipico del desktop è la ormai classica evidenziazione colorata di cui ci si serve comunemente in Word (ma non solo) per selezionare parte del testo. Questa è spesso impiegata per attrarre l’attenzione su determinate parole: stratagemma indicato da Wolfgang Weingart agli esordi del digitale e poi ampiamente sviluppato in seguito. Ancora un esempio sono i riquadri colorati che fungono disordinatamente da supporti per il testo sulla pagina. Il riferimento è a quell’applicazione (Promemoria nel Mac) che permette di disseminare note di richiamo sul desktop, le quali ovviamente simulano i post-it che si ritrovano sulle scrivanie (fisiche): dal mondo reale a quello virtuale (che ne è spesso metafora), e poi ancora da questo alla realtà tangibile del foglio di carta. Sul cartaceo, tuttavia, le note colorate, immobilizzate sulla superficie del foglio, divengono altrettante colonne di testo sui generis o blocchi testuali: possono assumere configurazioni ordinate, come se fossero celle di una tabella o porzioni di griglia (per es., il poster di Chris-tian Küsters per Thames & Hudson, 2001); oppure un tono caotico, fatto di sovrapposizioni e slittamenti (come nel volume Area 2, 2008).
Tutto ciò ha contribuito alla formazione di una scrittura nuova: sia per quanto riguarda la macrotipografia, vale a dire la sistemazione generale della pagina, gli allineamenti, i blocchi di testo ecc., sia per quanto riguarda la microtipografia, ossia lo studio del carattere tipografico (o digitale).
Scrittura digito-emozionale
Che il digitale abbia favorito, se non significativamente contribuito a produrre, l’affermarsi di una nuova scrittura fortemente espressiva e più o meno iconica è un dato ormai pienamente accettato. Cambiando il panorama visivo, riformulando i linguaggi grafici, il digitale ha fatto sì che il carattere, che per il momento si continua a chiamare ‘tipografico’, abbia assunto una spiccata valenza figurativa.
Il carattere come immagine (o combinato con immagini) non è certo una novità: le avanguardie storiche hanno sperimentato proficuamente in questa direzione. E poi ancora, nel corso del 20° sec., vi sono stati momenti nei quali la trasformazione del testo in immagine ha dato luogo a risultati formidabili. Si pensi, per es., alla grafica eclettica dei Push pin studios o alla brutalità dei lettering punk o ancora alla cosiddetta tipografia espressiva del grafico statunitense Herb Lubalin (1918-1981). Ma oggi, con programmi quali Illustrator e Photoshop, la scrittura mostra vitalità e sorprendente varietà: approcci diversissimi e applicazioni quanto mai fluide e dinamiche. Elliot Earl e Stephen Farrell, per es., rappresentano una nuova figura di designer di caratteri tipografici, i cui lavori sperimentali ben rispecchiano l’eclettismo e la ricchezza del panorama digitale. Carlos Segura combina sinuose creazioni digito-tipografiche con caratteri già esistenti e tradizionali rilanciando l’etica modernista in un odierno ibrido di forma e funzione. E non manca chi, come Shuichi Nogami, disegna lettere stupefacenti componendo immagini prodotte digitalmente (lettere senza caratteri tipografici). O ancora Robert Le Quesne realizza per il suo video Poesia (2004) un alfabeto «totalmente artigianale, un [copia e incolla] di diverse tipografie, scansionate e stampate, poi distrutte su carta con acido» per riscansionare i caratteri ottenuti e infine ricostruire «un alfabeto che è diventato il protagonista del film» (The best of the big space, 2006). Si ribadisce così quanto precedentemente affermato: il computer ha permesso il passaggio dalla tipografia tradizionale, legata ai pesanti, meccanici strumenti che ne condizionavano la forma, alla scrittura digitale, fluida e mutevole, che scaturisce da una più sofisticata tecnologia.
L’inarrestabile proliferazione così prodotta ha assunto una dimensione tutt’altro che marginale. I caratteri digitali più diffusi, che si contano già con non meno di tre zeri, sono spesso combinati e per di più manipolati dando luogo a milioni di possibilità applicative. La portata di tutto questo è davvero notevole e tale da farci riflettere sulla definizione stessa di tipografia, visto che anche la scrittura digitale va assumendo una forma sempre più peculiare.
In questa prospettiva, ragionando su Free graphics (Russo 2006), si è messa in discussione l’equivalenza di carattere digitale e tipografia. Si è infatti argomentato che il termine tipografia si riferisce strettamente alla ‘scrittura per tipi’, vale a dire ai caratteri di metallo (di memoria gutenberghiana) che originavano la stampa rilievografica prima di essere rimpiazzati dai caratteri digitali. In un’accezione più ampia, per tipografia si intende qualunque scrittura non manuale, quindi anche quella digitale; in questo caso, i caratteri digitali sono tipografici, ma si tratta di una tipografia non più legata ai tipi, il che naturalmente è una contraddizione in termini. Nondimeno, considerando i tipi grafici come tipi architettonici, vale a dire come modelli astratti di riferimento, la locuzione tipografia digitale tiene ancora e conserva una sua utilità. Anche in questo caso, non si può non osservare come i tipi, i modelli astratti che dovrebbero rappresentare l’immanenza delle idee platoniche, siano oggi alterati, riadattati, manipolati, adulterati e precipuamente computati alla ricerca di effetti iconico-interattivi.
Certo, volendo, si potrebbe facilmente riprodurre il tipografico nel digitale così com’è: si tratterebbe di fare qualche piccolo aggiustamento in modo da restituire all’occhio la precisa immagine del carattere (tipografico) su carta. Ma davvero lo si vuole? Lo schermo è un semplice sostituto della carta? È un dettaglio insignificante che la risoluzione della lettera su carta superi di molto quella su schermo? E che lo schermo emetta luce anziché riceverla, al contrario della carta? Ma soprattutto: è opportuno considerare il carattere digitale alla stessa stregua di un carattere tipografico, con matrice meccanica e cartacea, rigido e immobile come un’iscrizione su pietra?
Una prima risposta è data dal fatto che i numerosissimi caratteri digitali ‘in libertà’ non sono suscettibili di essere collocati nelle tradizionali classificazioni tipografiche, a meno che non si voglia riversarli tutti entro categorie fittizie come fantasia, decorativo, contemporaneo, non classificabile: categorie, insomma, tanto generiche quanto inutili. Del resto, poiché è insita nella stessa natura progettuale di certi caratteri la tendenza a trarsi fuori da schemi prestabiliti, risulta pressoché impossibile riuscire a formulare un rigido sistema di classificazione.
La tipografia su schermo o scrittura digitale è oggetto di un’abbacinante sperimentazione multimediale. Dalla FreeForm typography di N. Brody alle Flying letters di Maeda (che per l’appunto volano sullo schermo), si ha a che fare con caratteri digitali ben diversi dal Garamond o dall’Helvetica: non soltanto presentano forme sui generis difficilmente riconducibili alle categorie tradizionali, ma hanno ‘incorporato’ tutti i dinamismi del digitale e, di conseguenza, volano sullo schermo, si trasformano gli uni negli altri, prendono in prestito modelli di caratteri tradizionali e compiono metamorfiche trasformazioni. La letteratura digitale li ha già definiti nei modi più vari: amorfi, ironici, ‘mixeriosi’, dinamici e addirittura intelligenti, ovvero adattabili alle circostanze più disparate quasi fossero organismi dinamici. Sono loro, ben più di noi abitanti del ‘mondo liquido’, ad aver assunto la strategica liquidità di cui parla Bauman, perfettamente confacenti a quella ‘estetica fluida’ di cui si è detto. Tuttavia, a questo punto ci si chiede che cosa resti della tipografia così come si conosceva prima del digitale, e se la scrittura digitale abbia ancora a che vedere con i Bodoni e gli Univers oppure se si tratti di caratteri tipografico-digitali di una natura diversa. «Possiamo ancora chiamarli ‘tipi’?»; oppure dobbiamo piuttosto riferirci a una non meglio precisata «neografia»? (Polano 2002, pp. 25-27).
In una direzione diversa da quella indicata da Sergio Polano, il computer ha inoltre favorito l’emergere di un altro genere di scrittura, che si potrebbe comunque continuare a chiamare neografia. Già da qualche tempo accade che le nostre e-mail siano sempre contrassegnate da una scrittura di tipo contratto, monca e sincopata. Non si tratta dei troncamenti che da sempre si compiono per ragioni di elegante efficacia, tipo po’ = poco o a mo’ di = a modo di. La scrittura su cui ci si accinge a ragionare si basa invece sulla massima contrazione possibile nel modo più semplicistico, una sintesi – qui è il caso di dirlo – à tout prix: x es vale ‘per esempio’, sn per ‘sono’, cmq per ‘comunque’ e così via. Questa è una pratica oggi largamente diffusa, in particolar modo sulle chat-line e sui cellulari, al punto che quasi non ci si fa più caso. Perfino i numeri si presentano al posto delle lettere con evidenti conseguenze percettive, come dice Jessica Helfand: «1 LoV3 U non è lo stesso di I LOVE YOU e sembra cool» (Blackwell 20002).
Al di là delle motivazioni funzionalistiche, soprattutto una più veloce trasmissione, e delle implicazioni pre- o postletterate che questa congerie di neografia comporta, ciò che va rimarcato è che la scrittura finisce per assumere una valenza espressiva, se non già emozionale. Altra sua prerogativa è infatti un uso arbitrario di minuscolo e maiuscolo, usato spesso per guadagnare enfasi, come pure del colore, un po’ come avevano indicato i futuristi all’inizio del 20° secolo. La cosa torna utile ancora oggi, tanto che Maeda arriva addirittura ad affermarlo in The laws of simplicity: «Le mie figlie mi scrivono e-mail con il testo di tutte le dimensioni, di tutti i colori e a volte TUTTO IN MAIUSCOLO! Questo non solo mi dà l’impressione di rendere complessa la scrittura, ma mi fa anche male agli occhi! In ogni caso, accetto volentieri i loro messaggi, perché sono consapevole del fatto che la loro esuberanza giovanile non può essere contenuta in un semplice messaggio di testo. Una frase come ‘ti voglio bene’ non ha forse più significato quando viene scritta ‘TI VOGLIO BENE’?» (Maeda 2006, p. 92).
E che dire poi delle conseguenze sociali di tutto ciò? Un caso su cui riflettere è quanto accade a Tokyo. In ogni ora e luogo della città, migliaia, milioni di libri passano letteralmente per i cellulari nipponici, sempre on-line. Su quei piccoli display (piccoli, ma sempre più ergonomici), chiunque può leggere una vastissima letteratura digitalizzata e addirittura scrivere il proprio romanzo, partecipando così a un sensazionale social network in continua evoluzione. Per Koichiro Tomioka, studioso del fenomeno presso la Kanto Gakuin University, si tratta di un nuovo genere di letteratura, sia pure «naïf, povera d’immaginazione, ridondante di dialoghi: storie, non una collazione di sms sbrodolati» (Cardone 2008, p. 39). Tale pratica tende a trasformare la scrittura nipponica per ideogrammi in un linguaggio sintetico e sincopato, scandito da spazi bianchi che indicano attesa o pensiero. Ciò naturalmente si era già visto: nel vers libre di Stéphane Mallarmé, nelle citate parolibere futuriste e più in generale in tutta la poesia visiva di matrice, ancora una volta, avanguardistica. Quel che invece non si era mai visto è l’ampia presenza sugli scaffali delle librerie giapponesi di libri che non si leggono più secondo il tradizionale impianto del libro giapponese, stampato per righe verticali che si leggono dall’alto in basso, ma con l’andamento orizzontale del libro occidentale o meglio del romanzo cellulare (keitai shosetsu) di grande successo nel Paese.
Uno strumento più adeguato di un semplice telefonino alla lettura di un romanzo è l’e-book (libro elettronico), altro terreno di sperimentazione tipografico-digitale: un ‘libro’ che riesca a combinare il meglio di carta e inchiostro, che si possa piegare come un foglio, cancellare, riutilizzare, aggiornare, e possieda la versatilità dello schermo e la grande capacità d’immagazzinamento dati di un computer. In questa direzione, si è così progettato l’electronic ink (inchiostro elettronico), incrociando una serie di ricerche tra chimica, fisica ed elettronica. Si tratta di una nuova sostanza che cambia configurazione sullo schermo con la presenza di un campo elettrico: milioni di capsule microscopiche del diametro di un capello contengono particelle positive bianche e negative nere, sospese in un fluido trasparente. Queste ultime, quando le capsule sono esposte a un campo elettrico positivo, risalgono in superficie diventando visibili; con un campo elettrico negativo, risalgono invece le particelle bianche, mentre si compongono sullo schermo disegni e caratteri tipografici. Tuttavia, se facciamo riferimento a quanto si diceva in precedenza, è possibile continuare a chiamarli tipografici?
Grafica emozionale
In precedenza si è detto che la scrittura odierna, anche quella pensata in ambito cartaceo, va assumendo una dimensione espressiva e iconica e che dunque non si tratta di una questione esclusivamente digitale. Sempre più lettering, alfabeti e testi presentano infatti una propria e figurativa specificità, tanto che il teorico del design russo Serge Serov ha individuato un nuovo paradigma di scrittura digitale, che si potrebbe definire una sorta d’immagine verbale: «Nella tipografia classica l’illustrazione è letteralmente dettata dal testo. […] Nella tipografia moderna immagine e testo diventano partner indipendenti, equipollenti e impattanti. […] Col paradigma postmoderno l’immagine comincia a rivelare sé stessa. Ci stiamo avvicinando al dominio dell’immagine che strappa, avviluppa e inghiotte il testo» (Area, 2005, p. 12).
Un esempio euristico è l’opera di Paul Sych: un convinto individualista il cui approccio tipografico ha un sapore ‘passionale’. Le sue creazioni, alla ribalta della scena tipografica internazionale, sono cariche di emozione e sempre volte a risvegliare l’immaginazione e a provocare. Ma il caso più illuminante è ancora una volta D. Carson, che ha cambiato tutte le regole della buona tipografia, a cominciare da quella del ‘calice di cristallo’, secondo cui il carattere deve essere quanto più trasparente possibile (B. Warde, The crystal goblet or printing should be invisible, in B. Warde, The crys-tal goblet. Sixteen essays on typography, 1956; trad. it. in allegato a «Progetto grafico», 8, 2006). Dopo aver ricusato la tipografia tradizionale nelle pagine della rivista «Ray gun», dopo aver dichiarato la fine della stampa, non finisce di stupirci con pagine caotiche e altamente comunicative. Non soltanto la tipografia, ma l’artefatto comunicativo in toto è interamente ribaltato. I diversi caratteri, stili, interlinee, crenature sono al limite della leggibilità. I margini sono diventati un concetto relativo: a volte scompaiono, altre volte le parole sono mozzate a filo della pagina. Le colonne di testo, i classici blocchi rettangolari, assumono qui le forme più disparate: irregolari, segmentate, quando non confusamente sovrapposte. Il testo corre obliquamente e si frammenta, oppure parte dall’ultimo rigo e procede verso l’alto. La forma è importante quanto il contenuto, visto che rivela subito il senso del messaggio, ma siamo al limite dell’impossibilità comunicativa. La maniera di Carson ha ispirato, il più delle volte con esiti modesti, molti giovani designer, che guardano a lui come a un profeta. Il già citato Trek (Carson 2003) ha ricevuto significativi apprezzamenti in tutto il mondo. La sua grafica risulta essere molto attraente perché, oltre a presentarsi dinamicamente, è anche autoreferenziale, e questo eleva il grafico alla stregua del genio creativo, dell’artista che si pone fuori dalle regole, come fuori dalle regole è la grafica digitale. Più precisamente, per descrivere il suo stile, Jamie Brosick ha individuato un termine particolarmente rappresentativo: wabi-sabi, che in giapponese indica un genere di «bellezza imperfetta, transitoria e incompleta» (Carson 2003, p. 102). Carson, infatti, confonde le cose, le capovolge e le approccia di lato, da dietro e di fronte con una spiazzante dose di intuito progettuale che l’avvicina al noto gruppo olandese Droog (tra l’arte e il design).
In questo senso, si è di recente parlato di graphic art in luogo di graphic design, formula che ci rimanda alla locuzione latina di ars grafica. ‘Artista-grafico’, per es., si definisce James Victore. Se il graphic de-signer in quanto ‘intellettuale tecnico’ mira all’eccellenza tecnica del progetto, Victore chiarisce di essere «più interessato a un livello emozionale […]; non mi interessa realizzare prodotti che piacciono a ogni tipo di pubblico perché stereotipati: forse non comunico a tutti, ma spero di fare immagini interessanti» (Branzaglia 2003, p. 27). In Victore come in Carson, centrale è il riferimento al proprio target, sensibile alle sollecitazioni figurative dell’artista-grafico.
Chi sembra però portare all’eccesso l’approccio emozionale è Stefan Sagmeister (n. 1962), il cui scopo come progettista è «toccare il cuore della gente con il graphic design» (Hall, Sagmeister 2001, p. 275), cioè far breccia, colpire nel segno, scuotere l’osservatore fino allo shock estetico. Nessun dubbio per lui: «Solo questo genere di design toccante sarà praticato dai veri designers tra dieci anni» (p. 279). Il resto non conta, ha ben poca visibilità, sono solo «creazioni grafiche professionali, illustrate a meraviglia con fotografie eccezionali, tuttavia fredde: ben prodotte, ma assolutamente flosce» (Ch. Fiell, P. Fiell 2003, p. 489).
Il lavoro più distintivo e noto di Sagmeister è un manifesto del 1999 per una conferenza all’AIGA (Professional association for design) di Detroit: manifesto anche della sua maniera indisciplinata e innovativa. L’intero campo è occupato dal busto nudo dell’artista-grafico: sfregiato in modo da ottenere scritte espressive e una lacerante carica comunicativa. Al centro, il suo slogan più dissacratorio – style = fart (stile uguale peto) – a rafforzare ulteriormente il rifiuto di ogni regola. Negli ultimi anni la figura di Sagmeister è diventata un caso esemplare o, addirittura, una tendenza grafica. Numerosi i lavori che vi si ispirano: dalla copertina del volume della Taschen su Philippe Starck (2000) al poster contro l’AIDS Mon corps peut trans-mettre le SIDA (2004) da parte del Comité français d’éducation pour la santé; o ancora la pubblicazione Stop AIDS (2004) di Elisabeth Biondi, dove allo shock del corpo si aggiunge quello del nudo. Il tutto è illustrato su The anatomy of design, che costituisce una buona mappa per orientarsi nelle tendenze emergenti della grafica odierna (Heller, Ilić 2007).
Dall’uso del corpo (nudo) come supporto, ma con un’enfasi sul dettaglio, si registra poi una modalità ancora più emozionale di quella praticata da Sagmeister. Qui lo sconcerto è davvero il risultato deliberato: sapientemente raggiunto attraverso crude esibizioni (un po’ alla maniera di Oliviero Toscani), non solo del corpo umano, ma anche di ogni elemento grafico, inclusa naturalmente la scrittura. Si rilancia insomma un’estetica del brutto, al punto che «bruttezza = bellezza», come afferma il designer ungherese Dávid Föld-vári (Ch. Fiell, P. Fiell 2003, p. 206). Ma soprattutto la bruttura mescolata allo shock, estetico o antiestetico che sia, sembra essere un buon mezzo per raggiungere una sicura visibilità. Così, per es., si assiste alla proliferazione di prodotti che trovano la loro ragione d’essere nella macabra e conturbante deturpazione di corpi: come volgere lo sguardo altrove e, al tempo stesso, come non farlo per proteggersi da tale oscenità? Dai lavori della Lowe Alice (Parigi) per la prevenzione degli incidenti automobilistici (2002), con persone accartocciate come automobili incidentate, alla locandina cinematografica di Saw (Saw – L’enigmista, 2004, di James Wan; non a caso film cult tra il thriller e l’horror) con un pezzo di gamba amputata in bella vista; dal poster Klata fest (2005), dove ‘Klata’ è inciso sul busto nudo in primo piano e con una crudezza e una profondità ben più penetranti di quelle del manifesto di Sagmeister, fino all’osceno impacchettamento di organi sessuali e zone erogene maschili e femminili come fossero cibo per un inquietante Dirty market (2007), firmato da Pasquale Volpe.
Altro caso esemplare è senz’altro il manifesto (2001) di Borut Kajbic per una nota azienda di scarpe. Questo combina efficacemente tre stratagemmi visivi, l’interazione dei quali dà luogo a un effetto ancora più forte. Sullo sfondo di un improbabile paradiso terrestre (un boschetto), un uomo e una donna si ergono nudi, abbracciati con lo sguardo verso l’alto: l’ennesima edizione di Adamo ed Eva? Non esiste però alcuna foglia di fico: il pube della donna compare candidamente, mentre l’organo sessuale dell’uomo è appena coperto da un letter-ing non meglio identificato. Il nudo genitale passa comunque inosservato, perché l’attenzione e il conseguente shock gravitano su una gamba mutilata: shock, dunque, di tipo chirurgico. Da qui – ed è questa la geniale trovata di Kajbic – lo sguardo è attratto dalle scarpe indossate da entrambi (l’unico indumento concesso), perché ce n’è una in più – quella della gamba mutilata – con tutto il pathos della spiazzante mancanza. Allo stesso modo, il lettering cui si faceva cenno appare ora storpiato, distorto, e ci si accorge che manca un pezzo della ‘T’ di Butanoga (la ditta per cui è stato realizzato il manifesto). Per di più, il rigo tipografico con i dati della ditta in basso squarcia il riquadro, incorniciato, che contiene l’immagine e che, a prima vista, si sarebbe detto perfettamente rettangolare.
Quest’ultimo esempio permette di ragionare su un ulteriore campo privilegiato dalla sperimentazione grafica: il manifesto. Sembra quasi una contraddizione, ma l’affermarsi della grafica digitale su display e schermi dalle dimensioni eccezionali non ha significato un declassamento del manifesto cartaceo al rango di artefatto privo di attrattiva o, come qualcuno ha sostenuto, di modalità di comunicazione da considerare antiquata. Il manifesto è tutt’altro che sul punto di scomparire. Al contrario, si compiono qui formidabili sperimentazioni, tali da renderlo ancora oggi un potente veicolo emozionale: un’immagine aggressiva che colpisce l’occhio e apre la mente, purché ovviamente sia forte e d’impatto.
Combinando diversi materiali, il manifesto assume poi inaspettate proprietà comunicative che lo avvicinano al più dinamico display. Un caso illuminante lo offre ancora Sagmeister. Il manifesto in questione, un cartellone stradale, promuove Super Bock, la più popolare birra portoghese, e lo fa in maniera decisamente coinvolgente. Lo stratagemma impiegato gioca sul fatto che la carta di giornale diventa gialla alla luce del sole. Così, incollando sul cartellone grandi stencils a forma di lettera, Sagmeister ottiene un lettering dinamico, nel senso che reagisce dinamicamente alle sollecitazioni meteorologiche: il manifesto diventa un artefatto interattivo e assume una forza espressiva difficilmente riproducibile sul piccolo schermo.
Se il manifesto, oltre alla sua carica emozionale, guadagna valenze interattive, se lo schermo rappresenta oggi una sorta d’incubatrice delle tendenze grafiche, il libro – l’artefatto cartaceo più tradizionale – subisce una strana metamorfosi: si trasforma quasi sinergicamente all’evolversi del digitale fino talvolta a confondersi con esso. Al libro come l’ha pensato Johann Gutenberg, si affianca ora un artefatto nuovo e interattivo che soltanto per comodità si continua a chiamare ‘libro’. Un primo esempio è il già citato volume su Sagmeister (Hall, Sagmeister 2001), che si presenta entro una custodia trasparente con il muso mansueto di un pastore tedesco; ma, non appena lo si tira fuori, balzano in primo piano le zanne, che lo trasformano in una bestia feroce.
Dopo tutto, se è vero che la copertina deve rendere già il sapore di quello che si andrà a leggere, perché non fare di questa superficie un vero e proprio campo di sperimentazione? Un aspetto su cui riflettere è che proprio la carta, la materia più statica del libro, si presta a una miriade di interventi tra il sorprendente e l’emozionale: rilievi, buchi, colori fluorescenti, inchiostri speciali, verniciature termosensibili e così via. Paradossalmente, nel momento in cui i circuiti della comunicazione tendono a divenire sempre più immateriali, la materialità del libro, benché metaforica, viene a costituire un’arma strategica. Da qui, il progressivo affermarsi di goffrature e sovrimpressioni che, esaltando la tridimensionalità dell’oggetto-libro, ne amplificano l’effetto emozionale. Ancora una volta le avanguardie storiche si sono rivelate futuribili: basti pensare al rivoluzionario libro imbullonato di Fortunato Depero (1892-1960); ma, per restare nel 21° sec., si segnala una interessante varietà di casi: dai Movements (2005) di Irma Boom al Sample. 100 fashion designers (2005) di Julia Hastings, dal Motion blur: graphic moving image makers (2004) di Onedotzero, che viene fuori da una custodia come fosse un CD, fino alla nuova veste dalla rivista italiana «Artlab» (marzo 2008, 25), che gioca con le intriganti nuances della carta Fedrigoni e l’avanguardistico effetto sorpresa della doppia copertina.
Un’importante parte del discorso riguarda il pack-aging (imballaggio) e la sua funzione attrattiva di carattere visivo-tattile. L’intervento combinato di vari elementi come colore, forma, superficie, materiale e così via, è in grado di innescare un rimando di impressioni sensoriali tali da risolversi in una chiara ed efficace percezione. Questo gioco si rivela una potente forma di ‘sinestesia’ che, secondo Marco Bassani e Saverio Sbalchiero, rappresenta un’efficace modalità di comunicazione-persuasione per quelle aziende che se ne servono allo scopo d’implementare la propria immagine-identità (Brand design. Costruire la personalità di marca vincente, 2002, p. 130).
Si ricordano, infine, le parole di Maeda che, ripromettendosi di semplificare il design digitale, dice: «Meglio emozioni in più piuttosto che in meno. Quando pensate che le emozioni vengano prima di ogni altra cosa, non temete di aggiungere ornamenti o strati di significato ulteriori» (Maeda 2006, p. 90).
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