gramatica
Nella comparazione tra le dieci scienze e i dieci cieli che D. svolge in Cv II XIII 7 ss., la Gramatica, prima tra le scienze del Trivio e del Quadrivio (e cfr. la prim'arte di Pd XII 138), è paragonata al primo cielo, quello della luna (§§ 8-9). E l'unico caso in cui g. è sicuramente usato da D. in un senso vicino a quello più comune anticamente e modernamente, cioè di " scienza della lingua " in genere, poiché nella sua giurisdizione sono compresi anche i vocabuli, oltre alle declinazioni e construzioni (e cfr. Cv II XI 9 construzione, la quale si pertiene a li gramatici). Negli altri casi in cui il termine ricorre, tutti appartenenti al Convivio e al De vulg. Eloq., il suo significato è diverso, cioè di " lingua di cultura regolata e convenzionale (artificiale) ", in contrapposto all'idioma spontaneo e naturale, il volgare, o senz'altro di " latino ", concepito appunto come la lingua convenzionale della maggior parte dei popoli europei (v. anche LATINO).
Già all'epoca della Vita Nuova si trova accennata la concezione per cui presso certi popoli antichi e moderni, latini compresi, coesistono due lingue, una volgare e una dei ‛ litterati ' (Vn XXV 3: v. GRECIA: Lingua). Ma l'uso di g. nel senso specifico sopra enunciato, e una teoria articolata della natura e genesi delle lingue ‛ grammaticali ', si trovano solo all'altezza del Convivio e del De vulg. Eloquentia. Gli uomini (cfr. VE I I 2 ss.) possiedono tutti una ‛ locutio vulgaris ', che essi apprendono spontaneamente fin da bambini, sine omni regula nutricem imitantes, e che ha queste caratteristiche fondamentali: di essere il linguaggio primario del genere umano (prima fuit humano generi usitata), di essere universale (totus orbis ipsa perfruitur), benché sotto forme diverse quanto a pronuncia e vocabolario, di essere naturalis. Accanto ad essa alcuni popoli, come i Romani (che la chiamarono g.), i Greci e altri, hanno un'altra lingua nata in un secondo tempo (‛ secundaria '), artificialis, posseduta veramente da pochi (ad habitum... huius pauci perveniunt), poiché apprendere le sue regole e addottrinarsi in essa richiede tempo e studio assiduo (g. sarà in questo passo molto più probabilmente sostantivo che aggettivo riferito a ‛ lingua '). Cfr. a questo proposito un passo del grammatico trecentesco Enrico di Crissey: " Latinorum populorum... laici dicuntur habere ydiomata vocum impositarum ad placitum, quae ydiomata docentur pueri a matribus et parentibus. Et ita ydiomata multiplicia sunt apud Latinos ... Clerici vero Latini dicuntur habere ydioma idem apud omnes eos, et istud docentur pueri in scolis a magistris ". Analogamente agli spunti contenuti in questo passo e in quello citato della Vita Nuova, in Cv I XI 14 si parla di una gramatica greca contrapposta al latino romano (e v. oltre). Alla fine dei capitoli sulla natura e la storia del linguaggio del De vulg. Eloq., D. si riallaccia circolarmente al capitolo proemiale e spiega la genesi delle lingue grammaticali. Con la confusione babelica si è spezzata l'unità linguistica originaria del genere umano, e le lingue degli uomini, in quanto modellate ora secondo il loro ‛ beneplacitum ', sono sottoposte come tutti gli altri aspetti della vita umana alla costituzionale mutevolezza che contraddistingue questo variabilissimum animal, e perciò variano nel tempo e nello spazio, infinitamente. Di qui l'esigenza di linguaggi stabili: Hinc moti sunt inventores gramaticae facultatis; quae quidem gramatica nichil aliud est quam quaedam inalterabilis locutionis idemptitas diversis temporibus atque locis. Haec cum de comuni consensu multarum gentium fuerit regulata, nulli singulari arbitrio videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest. Adinvenerunt ergo illam, ne propter variationem sermonis arbitrio singularium fluitantis, vel nullo modo vel saltim imperfecte antiquorum actingeremus autoritates et gesta, sive illorum quos a nobis locorum diversitas , facit esse diversos (VE I IX 11).
Negli altri passi in cui g. ricorre, ha sempre il valore più specifico di " latino ". In VE I X 1 si dice che i gramaticae positores hanno preso (accepisse) sic come avverbio affermativo; nello stesso capitolo, § 4, che i maggiori poeti italiani appaiono, più che i francesi e i provenzali, inniti gramaticae quae comunis est (per la legittimità della lezione videntur contro l'emendamento tradizionale videtur, v. l'articolo del Grayson citato in bibliografia e l'ediz. Mengaldo, LXIII-LXIV); in VE I XI 7 D. irride il volgare dei Sardi che imitano la g. come le scimmie gli uomini (v. SARDEGNA); infine in VE II VII 6 si osserva che la parola honorificabilitudinitate (v.), di dodici sillabe in volgare, nella gramatica arriva a tredici sillabe in due casi obliqui. Così anche nel Convivio: gli uomini che appaiono mentalmente defettivi... sono chiamati ne la gramatica ‛ amenti ' e ‛ dementi ', cioè sanza mente (III II 18); il verbo auieo è uno verbo molto lasciato da l'uso in gramatica (IV VI 3). Si può restare incerti sul valore del termine in Cv II XII 4, dove a proposito delle proprie letture consolatorie di testi latini dopo la morte di Beatrice, D. osserva: E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v'entrai tanto entro, quanto l'arte di gramatica ch'io avea e un poco di mio ingegno potea fare: per lo più s'intende l'espressione ‛ arte di g. ' come " conoscenza del latino ", ma non si può escludere (e comunque il senso non cambia) " conoscenza delle regole grammaticali ", " tecnica grammaticale ".
L'uso di g. per " latino " era assai diffuso nel Due-Trecento, specialmente, ma non solo in Italia, né è limitato ai testi volgari (da rettificare quindi l'opinione del Marigo che nel De vulg. Eloq. lo considera " volgarismo "). Cfr. ad es. il Donatz proensals di Uc Faidit (ediz. Marshall, p. 88): " Las oit partz que om troba en gramatica troba om en vulgar provenchal " (ma l'esempio, come altri dello stesso testo, è un po' ambiguo); Guido delle Colonne Historia destructionis Troiae (ediz. Griffin, p. 4): " qui gramaticam legunt "; G. Villani I 48 " E però si declina il nome di Pisa in gramatica hae Pisae "; Buti [a Pd XII 142]: " che si doverrebbono chiamare palatini, come dice la Grammatica comites palatini ", ecc.; e tale uso dura a lungo, come attesta ad es. il Machiavelli (Mandragola, atto I scena III): " per essere tu litterato e poterli dire qualche cosa in gramatica ". Analogamente, il Rajna citava pure un paio di esempi antichi di " gramatica greca ". Anche la concezione dell'esistenza di lingue di cultura, tra cui il latino, a carattere convenzionale, derivanti da un atto volontaristico e da un accordo generale, non è ignota all'epoca di Dante. Si cita solitamente un passo del De Regimine principum di Egidio Colonna, testo ben noto a D. (e forse proprio alla tesi in esso contenuta si replica in un luogo del Convivio: v. oltre): " Videntes... Philosophi nullum idioma vulgare esse completum et perfectum, per quod perfecte exprimere possent naturam rerum, et mores hominum, et cursus astrorum, et alfa de quibus disputare volebant, invenerunt sibi quasi proprium idioma, quod dicitur latinum, vel idioma litterale: quod constituerunt adeo latum et copiosum, ut per ipsum possent omnes suos conceptus sufficienter exprimere ". Ma ancora più congruente all'impostazione dantesca, perché la prospettiva non è limitata come nel Colonna alla lingua scientifica, è quella che si trova nella parafrasi verseggiata toscana del Tresor studiata da A. D'Ancona (in " Memorie R. Accad. Naz. Lincei " s. 4, IV 1 [1888] 125-126: " Da lo 'ncominciamento una parlaura fue ", poi si è avuta la diaspora generale, per cui " in ciascuna parlaura à linguaggi vari e diversi, / sicome per le contrade gli uomini sono dispersi. / Sicome dicono i saggi, / ne la latina parlaura à diversi linguaggi: / uno linguaggio ànno l'Italici e un altro i Tedeschi, / e altro quelli d'Inghilterra e altro i Francieschi, / e tutti sono della parlaura latina comunemente, / e sì addiviene delli Ebrei e dei Greci, / che hanno fra lloro diversità di gente, / e diversi linguaggi ànno tra lloro... / E perciò i Latini antichi e saggi / per rechare inn uno diversi linguaggi, / che s'intendesse insieme la gente, / trovaro la Gramatica comunemente; / e così gli Greci e lli Ebrei in loro parlaura / trovaro loro gramatica e loro scritura... / I Latini, secondo il loro ydioma, / trovarono la loro gramatica a Roma " (così in una delle due redazioni dell'opera, ma l'altra non sconcorda nella sostanza).
Sulla formazione concreta delle gramaticae e in particolare del latino, il testo dantesco non è esplicito, tuttavia offre alcuni spunti notevoli. Anzitutto, coerentemente alla visione del latino come locutio artificialis, D. non postula minimamente, come fa la linguistica moderna, la derivazione delle lingue di sì, d'oc e d'oïl da esso latino. Al contrario, base dei volgari ‛ romanzi ' è un idioma naturale postbabelico recato in Europa da una parte dei transfughi da Babele (v. TRIPHARIUS).
Quando e come nasce il latino? In VE I I 3, dopo aver parlato della ‛ locutio vulgaris ', D. aggiunge: Est et inde alfa locutio secundaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt, dove secundaria varrà " formata in un secondo tempo " e inde potrebbe indicare un rapporto di derivazione della g. dalle lingue volgari, o anche una fase successiva (" poi "), o ancora equivalere semplicemente ad " anche ". In ogni caso l'esercizio della g. appartiene in genere a una fase posteriore all'uso del volgare naturale. Dal passo citato di VE I IX si ricava quindi che il latino e le altre lingue grammaticali sono state create relativamente tardi, cioè non solo dopo la confusione babelica, ma in una fase di differenziazione linguistica progredita, dato che furono ‛ regolate ' de comuni consensu multarum gentium. L'inizio del capitolo successivo apre forse uno spiraglio sulla concezione dantesca del rapporto genetico che lega il latino ai volgari: infatti, confrontando i pregi rispettivi delle lingue italiana, provenzale e francese, D. suggerisce che forse un elemento di privilegio in favore dell'italiano deriva da ciò, che gramaticae positores inveniuntur accepisse sic adverbium affirmandi; quod quandam anterioritatem erogare videtur Ytalis, qui sì dicunt (VE I X 1).
Come ha visto il Vinay, il passo sembra indicare che per D. il latino è stato formato " almeno in parte, su elementi dedotti dal volgare "; e benché D. non dica in nessun luogo (né avrebbe potuto dimostrarlo se lo pensava) che il latino è più simile alle lingue ‛ romanze ' che a quelle ‛ germaniche ', tuttavia di fatto mette in rilievo lui stesso questa stretta somiglianza quando, in VE I VIII 6, designa con i rispettivi vocaboli latini (Deum, coelum, amorem, ecc.) la comunanza lessicale delle lingue di sì, d'oc e d'oïl.
Come si è accennato, va tolto dal conto il passo di VE I X 4: mantenendo il testo di GT con videntur (B omette il verbo), senza correggerlo in videtur, non è più il volgare italiano che ‛ si appoggia ' al latino (inniti gramaticæ), ma sono i maggiori poeti italiani che si rifanno al modello di regolarità della gramatica. È un fatto di scelta retorico-stilistica, non di affinità linguistica originaria, anche se evidentemente esiste un rapporto tra la possibilità di quella scelta e il fatto, appena sottolineato, che il latino è stato formato come strutturalmente più simile all'italiano che alle due lingue sorelle.
Discutibilissima è l'interpretazione generale avanzata dal Marigo. Secondo questo studioso " la formazione della grammatica non è concepita da D. come pura opera di convenzione e di artificio... perché egli distingue la facultas, l'arte, fondata su principi generali, dalla gramatica che ha regole particolari di vocaboli, forme e costrutti; ed i filosofi, inventores gramaticæ facultatis... dai compilatori di grammatiche speciali, gramaticæ positores... "; gli inventores avrebbero formulato principi grammaticali generali, e così avrebbero " aperto la via ai compilatori di speciali grammatiche, i quali hanno ridotto a regola e stabilità, nei vocaboli, nelle forme e nei costrutti, alcune lingue letterarie come il latino e il greco, naturalmente fondandosi sull'auctoritas dei più eccellenti poeti e prosatori greci e latini, talora risalendo da essi anche alla lingua naturale del popolo... ". A parte che il Marigo gioca qui sul doppio senso di g., e a parte che non si capisce perché gli inventores dovessero essere " filosofi ", non convince per nulla la distinzione tra questi e i successivi positores, e tra ‛ gramatica (o gramaticae) facultas ' e il semplice g.; pono e invenio sono spesso sinonimi in latino medievale, e ad es. in contesti giuridici inventor e positor legum si alternano liberamente (cfr. il Defensor pacis di Marsilio da Padova); è anzi probabile che D. abbia usato nel secondo passo in questione positor semplicemente per evitare la ripetizione inventores inveniuntur. Quanto al nesso con facultas, la successiva ripresa quae quidem gramatica... mostra che esso equivale esattamente al sostantivo semplice, sia che vada tradotto alla lettera, interpretando gramaticae come sostantivo, nel qual caso corrisponderebbe al cit. arte di gramatica del Convivio, sia che vada interpretato (forse meglio) come perifrasi per g., con gramaticæ inteso quale aggettivo, del tipo di quelle largamente in uso con aggettivi similari (poetica, oratoria, ecc.) nelle arti poetiche e nelle retoriche medievali. Del tutto arbitraria poi l'ipotesi che i creatori delle gramaticæ stabilizzino l'uso degli scrittori. Come ha rilevato giustamente il Vinay, per D. gli auctores non sono fonte della g., ma utilizzano una g. già costituita: v. in particolare VE II IV 3, dove si dice che i ‛ magni poetae ' (latini) sermone et arte regulari poetati sunt, quindi sulla base di un serino già strutturato, non solo di un'ars regolare.
Non c'è dunque dubbio che nel De vulg. Eloq. D. concepisca il latino come lingua del tutto convenzionale, e che l'aggettivo artificialis vada quindi inteso letteralmente. Ci si può chiedere se anche dal Convivio emerga in tutto e per tutto la stessa concezione. A prima vista parrebbe senz'altro di sì: in Cv I V 14 si proclama non solo che lo volgare seguita uso, e lo latino arte, ma anche che lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile (§ 7; e v. meglio più oltre). A taluno è parso tuttavia che alla completa identificazione tra latino e lingua grammaticale si opponga un passo di Cv I XI 14 in cui, polemizzando contro coloro che lodano il provenzale e disprezzano l'italiano, D. dice: Contra questi cotali grida Tullio nel principio d'un suo libro che si chiama Libro di Fine de' Beni [cfr. Cic. Fin. I I], però che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca per simiglianti cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza. Qui il latino romano sarebbe qualcosa di diverso dalla gramatica, una lingua ancora viva e mobile. In realtà non c'è nulla nel passo, né nella fonte ciceroniana, che obblighi a questa interpretazione: il confronto può essere benissimo tra gramatica e gramatica, e anzi, poiché esso serve di riscontro ad analogo confronto tra due entità qualitativamente eguali come i due volgari italiano e provenzale, tale interpretazione è anche contestualmente preferibile.
Più problematico un altro passo, quello di Cv II XIII 9-10: l'analogia tra cielo della Luna e g. si basa su due proprietà comuni: l'una si è l'ombra che è in essa [Luna], la quale non è altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come ne l'altre parti; l'altra si è la variazione de la sua luminositade, che ora luce da uno lato, e ora luce da un altro... E queste due proprietadi hae la Gramatica: ché, per la sua infinitade, li raggi de la ragione in essa non si terminano, in parte spezialmente de li vocabuli; e luce or di qua or di là in tanto quanto certi vocabuli, certe declinazioni, certe construzioni sono in uso che già non furono, e molte già furono che ancor saranno: sì come dice Orazio nel principio de la Poetria, quando dice: ‛ Molti vocabuli rinasceranno che già caddero ' (cfr. Ars poet. 70-72 " Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque / quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, / quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi "). Comunque s'interpreti esattamente il paragone, è chiaro che si postula una fluttuazione nell'uso, che riguarda non solo il vocabolario ma anche la sintassi e la morfologia, e che la g. riflette. Si potrebbe pensare che qui D. abbia di mira non le lingue inalterabili perché convenzionali, ma quelle naturali in cui domina l'uso, ma mal si comprenderebbe l'allegazione di Orazio, scrittore che si è servito di un senno regularis (e il rapporto tra ‛ doctrinatae poetriae ' degli antichi, tra cui certo quella di Orazio aveva per D. il primo posto, e lingua regolare è chiaramente indicato in VE II IV 3). D'altronde che anche nel latino grammaticale ci fossero per D. variazioni di uso almeno nel lessico, sembra risultare dal luogo citato di Cv IV VI 3 (uno verbo molto lasciato da l'uso in gramatica). Parrebbero così profilarsi " due diversi concetti dell'uso: di cui l'uno corrompe il volgare, mentre l'altro non corrompe ma semplicemente opera una periodica selezione della grammatica " (Grayson). Andrà quindi ammesso che probabilmente nel Convivio D. si trova impigliato in alcune difficoltà concettuali, conseguenti a una non perfetta messa a punto della nozione di ‛ grammaticalità ' del latino; meno verosimilmente, che i passi ricordati del II e IV libro rivelerebbero una crisi di quella stessa nozione quale risulta dal I libro del Convivio e più chiaramente dal De vulg. Eloquentia.
Il raffronto tra le rispettive qualità del latino e del volgare ha un ruolo fondamentale nel pensiero linguistico dantesco all'epoca dei due trattati. Tale confronto è dapprima impostato nel I libro del Convivio in rapporto (come occorre tener sempre presente) a un problema concreto, la, giustificazione del fatto che il commento alle canzoni volgari sia steso in volgare e non in latino. Un commento latino, argomenta D., non sarebbe stato, come dev'essere, servo e subietto dei testi da commentare, ma sovrano, e per nobilità e per vertù e per bellezza. Per nobilità, perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile. Il latino antico è quello medesimo che oggi avemo, mentre il volgare a piacimento artificiato si transmuta, cosa che abbiamo sotto i nostri occhi solo a confrontare la situazione di cinquant'anni fa con l'attuale (ed è qui, sul tema della mutevolezza del volgare, che D. inserisce l'annuncio di un'opera di Volgare Eloquenza che intende scrivere). Ancora, il latino sarebbe stato sovrano per vertù, se virtuoso è ciò che riesce a realizzare quello a cui è ‛ ordinato ', e tanto più virtuoso quanto meglio lo realizza. Così lo sermone, lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso quello che più lo fa; onde, con ciò sia cosa che lo latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far non può, sì come sanno quelli che hanno l'uno e l'altro sermone, più è la vertù sua che quella del volgare. Infine, sarebbe stato sovrano per bellezza. Bello è ciò in cui le parti debitamente si rispondono, per che de la loro armonia resulta piacimento, come ad esempio è bello un canto quando le voci di quello, secondo debito de l'arte, sono intra sé rispondenti. Dunque quello sermone è più bello ne lo quale più debitamente si rispondono [ le parole; e più debitamente si rispondono ] in latino che in volgare, però che lo volgare seguita uso, e lo latino arte: onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile (Cv I V 7-14). Nei capitoli successivi seguono altre argomentazioni, di cui ecco le più interessanti. Il latino non sarebbe stato, come necessario, conoscente delle canzoni volgari: infatti lo latino conosce lo volgare in genere, ma non distinto: che se esso lo conoscesse distinto, tutti li volgari conoscerebbe... e così in qualunque uomo fosse tutto l'abito del latino, sarebbe l'abito di conoscenza distinto de lo volgare. Ma questo non è; ché uno abituato di latino non distingue, s'elli è d'Italia, lo volgare [ inghilese ] da lo tedesco; né lo tedesco, lo volgare italico dal provenzale. Neppure potrebbe il latino conoscere gli amici del volgare: lo latino non ha conversazione con tanti in alcuna lingua con quanti ha lo volgare di quella, al quale tutti sono amici; e per conseguente non può conoscere li amici del volgare; è bensì vero che esso pur conversa con alquanti amici de lo volgare, ma non è familiare di tutti (Cv I VI 7-11). Inoltre il latino non avrebbe potuto essere misuratamente obediente dei testi volgari, tra l'altro proprio per la sua superiorità, perché anche santa lo comandamento di questo signore [le canzoni] averebbe esposite molte parti de la sua sentenza - ed espone, chi cerca bene le scritture latinamente scritte - che non lo fa lo volgare in parte alcuna; né avrebbe potuto adempiere il comandamento delle canzoni che comandano e vogliono essere esposte a tutti coloro che possono comprenderle. E lo latino non l'averebbe esposte se non a' litterati, ché li altri non l'averebbero inteso. Onde con ciò sia cosa che molti più siano quelli che desiderano intendere quelle non litterati che litterati, seguitasi che non averebbe pieno lo suo comandamento come 'l volgare, che da li litterati e non litterati è inteso. Anche, lo latino l'averebbe esposte a gente d'altra lingua, sì come a Tedeschi e Inghilesi e altri, ma allora avrebbe passato lo loro comandamento, esponendo il loro contenuto (sentenza) a chi non può cogliere la loro bellezza: perché nulla cosa per legame musaico [cioè " musicale " ] armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia; ed è per questo che Omero non è stato tradotto in latino e che i versi del Salterio, tradotti dall'ebreo in greco e da questo in latino, hanno perso la loro dolcezza di musica e d'armonia (Cv I VII 8 e 11-16). Fin qui le ragioni ‛ negative ' dell'uso del volgare. Seguono le ragioni ‛ positive '. La scelta del commento volgare e non latino è stata mossa da liberalitade, cioè desiderio di dare a molti, di dare utili cose e sanza essere domandato lo dono, dare quello (VIII 1-2). Il latino non avrebbe così servito a molti, perché li litterati fuori di lingua italica non averebbono potuto avere questo servigio, e quanto ai letterati italiani, per la loro avarizia e ignobiltà non ne avrebbero tratto profitto; lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti, cioè principi, baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati (IX 2-5). Solo a chi è veramente nobile può essere utile la sentenza de le canzoni, che intende inducere li uomini a scienza e a vertù, e i nobili sono quasi tutti volgari (§§ 7-8). Infine un commento volgare e non latino può offrire un dono non dimandato, perché il volgare darà se medesimo per comento, che mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire de lo latino, che per comento e per chiose a molte scritture è già stato domandato (§ 10). Al commento volgare D. è stato mosso da naturale amore de la propria loquela (CV I X 5), in polemica contro i malvagi che disprezzano l'italiano e lodano il provenzale: così per questo convento la gran bontade del volgare di sì [si vedrà]; però che si vedrà la sua vertù, sì com'è per esso altissimi e novissimi concetti convenevolemente, sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare (affermazione che pare una risposta alla tesi di Egidio Colonna sopra riportata): tale manifestazione è più piena in prosa che in poesia, per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[tim]o e lo numero regolato (Cv I X 12). Dopo un capitolo di polemica contro i detrattori del volgare italiano, D. passa a chiarire le ragioni del proprio intimo legame con la sua lingua naturale: essa gli è più prossima di qualunque altra, perché lo volgare è più prossimo quanto è più unito, che uno e solo è prima ne la mente che alcuno altro, e che non solamente per sé è unito, ma per accidente, in quanto è congiunto con le più prossime persone, sì come con li parenti e con li propri cittadini e con la propria gente. E questo è lo volgare proprio; lo quale è non prossimo, ma massimamente prossimo a ciascuno (XII 5-6); gli è amica per la sua bontade, com'è vero che in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto sì è più amato e commendato, e questa capacità, come già detto, è propria del volgare italiano; da esso D. ha ricevuto grandissimi benefici, perché questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano... per che manifesto è lui essere concorso a la mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere. Ancora, questo mio volgare fu introduttore di me ne la via di scienza, che è ultima perfezione, in quanto con esso io entrai ne lo latino e con esso mi fu mostrato: lo quale latino poi mi fu via a più innanzi andare (XIII 4-5); con esso è stato legato da un medesimo studio: infatti ciascuna cosa studia naturalmente \a la sua conservazione: onde, se lo volgare per sé studiare potesse, studierebbe a quella; e quella sarebbe acconciare sé a più stabilitade, e più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime. E questo medesimo studio è stato mio, sì come tanto è palese che non dimanda testimonianza (§§ 6-7). Donde l'appassionata conclusione del libro (§ 12): Questo [il commento volgare] sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato [lo scrivere in latino] tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.
Che la discussione sulla legittimità di un commento volgare si distenda per quasi tutto il libro proemiale del Convivio, dimostra quanto il problema era scottante per Dante. Riassumendo la varia casistica delle argomentazioni dantesche, appare che i superiori pregi del latino sono connessi al suo stesso carattere di ‛ artificialità ': il latino è regolare e stabile (e l'esigenza di stabilità è canone fondamentale per la mente medievale), e possiede un'armonia e una capacità espressiva assai più collaudate del volgare. La difesa del volgare è legata invece al riconoscimento del suo carattere di naturalità, del suo rapporto intimo col parlante e scrivente, e d'altra parte alla sua possibilità di essere inteso da un pubblico più vasto dei pochi esperti di latino, elemento decisivo nella prospettiva democratica e pedagogica che D. assume nel Convivio. L'iniziativa di un commento volgare è anche legata a un movente sperimentale (esperire il volgare in un settore, quello dei commenti, tradizionalmente dominato dal latino), e soprattutto alla volontà di trarre in luce le potenziali capacità del volgare stesso, e in questo senso la legittimazione del commento volgare s'intreccia inscindibilmente a una politica culturale di alternativa all'egemonia del provenzale e forse anche (come non è detto ma probabilmente sottinteso, se si pensa che il maggiore esperimento di prosa didattica anteriore a D. è il Tresor di Brunetto Latini) del francese. D'altra parte le argomentazioni del I libro del Convivio si sogliono considerare un po' troppo in blocco, sia pure un blocco venato di contraddizioni. Pare invece evidente che esse sono disposte secondo una linea in progresso, e che la difesa del volgare è una tesi in fieri, che si sviluppa e precisa via via nel corso stesso della discussione. Senza arrivare, s'intende, a mettere in discussione le ragioni di superiorità del latino, D. infatti perviene ad attenuarle e sfumarle strada facendo. Se dapprima il volgare è dichiarato senz'altro inabile a esprimere molti contenuti di competenza del latino, in seguito è affermata la sua capacità di manifestare altissimi e novissimi concetti al più alto livello, quasi come per esso latino; se dapprima uno dei discrimini tra latino e volgare è posto nella stabilità del primo rispetto alla fluidità dell'altro, in seguito si riconosce che tuttavia la strutturazione formale del volgare entro una tecnica poetica rigorosa lo può condurre, anzi ha già avviato a condurlo, a più stabilitade.
Di qui muove la teoria del volgare nel De vulg. Eloq., opera che già nel suo stesso piano concettuale s'inserisce in quella legittimazione del volgare che il Convivio ha iniziato. Suo scopo è infatti non solo la dimostrazione della possibilità di un'eloquenza volgare, fondata su norme parallele a quella latina, ma precisamente la fissazione di leggi retoriche rigorose per la poesia volgare, cioè di quegli elementi costruttivi non casuali ma ‛ regolati ' che appunto conferiscono stabilitade a una lingua. Pertanto in essa si approfondisce, e caratteristicamente fin dalle prime battute, il tema del confronto col latino discusso nel I libro del Convivio. Dopo aver abbozzato alcune caratteristiche differenziali del volgare e della gramatica, D. così prosegue: Harum quoque duarum nobilior est vulgaris [scil. locutio]: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat (VE I I 4). Le due prime argomentazioni proseguono manifestamente quelle analoghe del Convivio (priorità e maggior diffusione del volgare). Nuova è la terza e conclusiva, e nuova è la complessiva proclamazione di maggior ‛ nobiltà ' del volgare. D. ha per così dire portato sul piano del diritto le constatazioni di fatto sulla ‛ necessità ' del volgare svolte nell'altro trattato. In particolare, ha trasformato il binomio arte - uso in quello ‛ convenzione ' - ‛ natura ', caricando il secondo termine del segno positivo. Donde poi la necessità di precisare quella nozione di artificialità del latino che nel Convivio non era esplicitata. È stato osservato che dietro all'affermazione di maggior nobiltà del volgare in quanto, anche, naturale rispetto al latino artificiale, sta un parametro concettuale di tipo scolastico, quello per cui l'‛ arte ' è subordinata alla natura, diretta emanazione di Dio, di cui è imitazione, onde vostr'arte a Dio quasi è nepote (cfr. If XI 97 ss.). Ma importa il fatto che D. abbia voluto servirsi per il suo scopo concreto di questo parametro. Lo sviluppo delle argomentazioni del Convivio porta dunque a una vitale contraddizione con una delle tesi là sostenute. A taluni interpreti (per primo il Rajna) è parso che la contraddizione sia apparente, poiché nel I del Convivio si parlerebbe di uno specifico volgare, quello italiano, nel De vulg. Eloq. invece del volgare in quanto linguaggio universale, coincidente con la " facoltà stessa del linguaggio ". Ma è ben difficile riscontrare nel testo dantesco tracce di questa sottile distinzione. Mentre secondo il Parodi si ha nei due trattati uno spostamento del punto di vista non già sul piano del confronto tra le due lingue, quanto riguardo alla considerazione della natura e dell'arte, poiché da una parte la prima è giudicata, nella sua essenza generale, più nobile, ma dall'altra la seconda, in quanto progresso della natura, appare superiore. Il che è vero, ma non muta i termini del problema.
Ciò non significa naturalmente la minima diminuzione del riconoscimento di superiorità effettuale del latino. Per tutto il De vulg. Eloq., al contrario, la ‛ regolarità ' della lingua e dell'ars dei latini è vista come la ragione essenziale per cui la prassi poetica e la teorizzazione dell'eloquenza volgare devono assumere a modello i poetae regulares e le doctrinatae poetriae (cfr. in particolare VE II IV 3). E quella regolarità è precisamente connessa all'artificialità del latino stesso. Per questa semplice ragione non convincono le ipotesi del Vinay, per cui la valutazione del latino come lingua artificiale e l'esaltazione del volgare sarebbero messi in crisi dai successivi sviluppi del pensiero politico di D., incentrati sull'idea di universalismo imperiale (il cui strumento linguistico era di necessità il latino), nel IV del Convivio e nella Monarchia (ma è stato obiettato che la fedeltà all'idea imperiale non esclude ma implica la coscienza dell'italianità), e poi anche dalla funzione fondamentale di guida che Virgilio assume nella Commedia. Una spia del mutato atteggiamento sarebbero i versi di Pg VII 16-17, in cui Sordello così apostrofa Virgilio: O gloria di Latin... per cui / mostrò ciò che potea la lingua nostra: per il Vinay saremmo di fronte a un'implicita ritrattazione, e i versi significherebbero: " Il volgare d'Italia è la lingua dei latini in quanto tali, la ‛ gramatica ' è la lingua dei latini in quanto destinati da Dio a governare il mondo: l'uno e l'altra ‛ lingua nostra ' per la congiunta italianità e universalità di Roma ". La spia resterebbe in ogni caso debole; ma è stato anche osservato che lingua nostra, come nostro sermone altrove, potrebbe semplicemente significare ‛ lingua umana '.
Comunque del problema del latino D. non ha più parlato dopo l'epoca del Convivio e del De vulg. Eloq., il che è pure significativo, se si considera che ancora all'altezza del Paradiso (canto XXVI) ci sarà spazio per la palinodia di una precedente convinzione in materia linguistica: dov'è anzi verosimile, secondo ha indicato il Contini (in " L'approdo letterario ", n.s. IV [gennaio-marzo 1958] 27), che la sottolineatura dell'intrinseca variabilità di ogni lingua naturale, anche quella di Adamo, suoni implicita continuazione dell'atteggiamento agonistico verso l'immutabile gramatica, come " una sorta di blasone interno alla Commedia, ad autogiustificare il paradosso del poema sacro in una lingua peritura ". Da altro punto di vista, quella palinodia sottrae un importante elemento al sistema complessivo entro cui, al tempo del De vulg. Eloq., si reggeva anche la concezione dell'immutabilità del latino. Alla legge dell'intrinseca mutevolezza delle lingue enunciata nel trattato facevano infatti eccezione da una parte il latino, in quanto linguaggio convenzionale, creato appunto perché mutevole non fosse, e la lingua adamitica, ‛ concreata ' col primo uomo da Dio stesso. In Pd XXVI questa seconda eccezione viene a cadere, e la maturazione di pensiero che ne è alla base colpisce di fatto più che di striscio anche il concetto della ‛ grammaticalità ' del latino, anche se D. non ne ha tratto in pratica le conseguenze implicite. E v. LINGUA: le teorie dantesche sulla lingua.
Bibl. - La bibliografia sulla nozione dantesca di latino e di volgare è molto vasta, e coincide in gran parte con la bibliografia generale sul De vulg. Eloq.; si daranno perciò le indicazioni essenziali: F. D'Ovidio, Sul trattato De vulg. Eloq. di D.A. (1873), poi in Versificazione romanza. Poetica e poesia medievale, II, Napoli 1932 (= Opere di F. D'O.., IX II) 263-273; P. Rajna, Il primo capitolo del trattato De vulg. Eloq. tradotto e commentato, in Miscellanea di studi in onore di A. Hortis, Trieste 1910, 126-127; ID., Il trattato De vulg. Eloq., in Lectura D. - Le opere minori di D.A., Firenze 1906, 200, 204-205; ID., in D. - La vita - le opere - le grandi città dantesche. D. e l'Europa, Milano 1921, 80, 82; E.G. Parodi, in " Bull. " XXII (1915) 267-268; B. Nardi, Il linguaggio (1921), poi in D. e la cultura medievale, Bari 1949², 230-233; M. Barbi, in " Studi d. " XIII (1928) 158-159; Zingarelli, D. 570; Busnelli-Vandelli, Convivio 87-89 e passim; Marigo, De vulg. Eloq. LXI-LXV, 7-10, 72-75 e passim; F. DI Capua, Insegnamenti retorici medievali e dottrine estetiche moderne nel De vulg. Eloq. di D. (1945), poi in Scritti minori, II, Roma 1959, 261-264; A. Pagliaro, I " primissima signa " nella dottrina linguistica di D. (1947), poi in Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1956, 228 ss.; B. Terracini, Il De vulgari Eloquentia e le origini della lingua italiana, Torino 1948, 67 ss.; A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950, 92-112; G. Vinay, Ricerche sul De vulg. Eloq., in " Giorn. stor. " CXXXVI (1959) 236-258; ID., La teoria linguistica del De vulg. Eloq., in " Cultura e Scuola " 5 (1962) 33-35; A. Schiaffini, Interpretazione del De vulg. Eloq. di D., Roma 1963, 35-38; C. Grayson, " Nobilior est vulgaris ": latino e volgare nel pensiero di D., in Dante. Atti della Giornata internazionale di studio per il VII centenario, Faenza 1965, 101-121 (= Centenary Essays on D. by Members of the Oxford D. Society, Oxford 1965); B. Panvini, Il latino e il volgare nel pensiero di D., in " Siculorum Gymnasium " n.s., XIX 1 (1966) 113-124 (poi in D.A., De vulg. Eloq., a c. di B. Panvini, Palermo 1968, 11-15); G. Favati, Osservazioni sul De vulg. Eloq., in " Annali Facoltà Lettere Filosofia Magistero Univ. Cagliari " XXIX (1961-65) 168-184; M. Pazzaglia, Il verso e l'arte della canzone nel De vulg. Eloq., Firenze 1967, 118-129; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P.V. Mengaldo, I. Introduzione e testo, Padova 1968, L-LXIV.