grammatica storica
Come indicò Saussure (1916), la lingua si può studiare in due modi: o lungo l’asse della simultaneità, descrivendo il sistema di fenomeni esistente in un momento dato, in una certa comunità di parlanti, in un luogo definito, in altre parole descrivendo il sistema dei rapporti fra i termini (suoni, forme, costrutti, ecc.) coesistenti in un determinato stato della lingua; o lungo l’asse del tempo, illustrando l’evoluzione di un certo elemento nell’intervallo fra l’epoca A e l’epoca B. Si avrà, nel primo caso, una grammatica sincronica (o descrittiva), nel secondo caso una grammatica diacronica (o storica). Sebbene ci si sia accorti (Meillet 19262: 404; Jakobson 1966: 15-16) che sincronia e diacronia non si possono separare nettamente e vanno considerate come punti di vista differenti da cui si traguarda il medesimo oggetto, i due tipi di approccio nella maggior parte dei casi si distinguono per temi e per metodi d’indagine.
Che la lingua cambi nel tempo (oltre che nello spazio) è nozione comune, fondata sulla personale esperienza di ognuno. Da una geniale rielaborazione di tale esperienza individuale muove, all’inizio della storia linguistico-letteraria italiana, la riflessione di ➔ Dante sulla natura del volgare, dell’uso vivo e dell’uso letterario, consegnata a pagine famose del Convivio (I, v, 8-9) e del De vulgari eloquentia (I, ix, 4-10). In quest’opera si ha la formulazione del principio della mutevolezza linguistica nel tempo (Quapropter audacter testamur quod si vetustissimi Papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus loquerentur: «Abbiamo perciò l’audacia di dichiarare che, se i più antichi abitanti di Pavia risorgessero ora, parlerebbero una lingua diversa o dissimile da quella dei moderni Pavesi»), già presente nel Convivio:
Onde vedemo ne le cittadi d’Italia […] da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico che, se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante.
Aggiornando la terminologia impiegata da Dante, si può dire che l’oggetto della linguistica storica è la somma dei cambiamenti avvenuti in un segmento temporale determinato all’interno di una comunità geograficamente definita che usa, per tutti i bisogni della comunicazione pratica, un linguaggio uniforme, obbediente cioè alla stessa grammatica.
Se si vuole studiare in una prospettiva strutturale una varietà linguistica antica, uno dei problemi principali è di solito costituito dall’incompletezza dei dati, che sono spesso insufficienti a ricostruire il sistema oggetto di analisi (per es., l’inventario fonologico del milanese del Duecento, confrontato da una parte con quello del latino del IV secolo d.C., dall’altra con quello del dialetto attuale). Per questo il linguista storico ha bisogno di testi: quanto più numerosi sono i documenti scritti in una certa varietà antica, e quanto più essi sono qualitativamente differenziati (poesia, prosa letteraria, testi di carattere pratico, ecc.), tanto più completa e affidabile sarà la ricostruzione di quel particolare stato grammaticale. Dall’illustrazione di qualche esempio concreto potranno venire alcune indicazioni di metodo generale.
A tutta prima si potrebbe pensare che i testi versificati, in quanto il linguaggio poetico intenzionalmente scarta dal linguaggio comune, risultino poco utili ai fini descrittivi di una varietà antica. Al contrario, in forza dei cosiddetti dati obiettivi (rima e computo sillabico), riferibili all’originale per necessità logica determinata dalla struttura stessa del testo poetico, lo studio delle opere in versi consente di attingere i risultati descrittivi più precisi e sicuri. Così, i poemetti di Bonvesin de la Riva si prestano perfettamente a individuare il sistema fonologico, almeno vocalico, del milanese medievale (la limitazione è opportuna perché Bonvesin ammette l’assonanza, cioè la possibilità che si corrispondano in rima corpo e poco, coppie divergenti per la qualità delle consonanti comprese tra la vocale tonica e l’atona finale, che sono invece identiche). Salvioni (1911), dopo aver mostrato che in Bonvesin le voci del tipo corpo, poco, ecc. (che in milanese moderno hanno una o aperta) non possono assuonare con le voci del tipo fogo, novo, ecc. (che in milanese moderno hanno ö), ne inferì che, alla fine del Duecento, l’o proveniente da ŏ tonica in sillaba libera era di qualità diversa dall’o corrispondente a ŏ tonica in sillaba chiusa, e aveva probabilmente già raggiunto la fase moderna ö. Perciò, concludeva Salvioni in forza d’un principio di simmetria strutturale, doveva già esistere anche ü da ū. Con un ragionamento analogo, inoltre, Salvioni dimostra che il milanese di Bonvesin già distingueva la quantità delle vocali toniche finali, conosceva cioè opposizioni fonologiche del tipo /a/ ~ /aː/ ed /e/ ~ /eː/.
In modo non diverso riguardo al metodo, Contini provò la presenza nel marchigiano antico della metafonesi sabina (➔ laziali, dialetti), fenomeno graficamente invisibile: ai vv. 232-236 della Giostra delle Virtù e dei Vizî, «solo la pronuncia mórtu, tóstu, póstu evita la rima di ò con ù », intendendo la ù di corruptu, 230, e bructu, 237 (Contini 1960: II, 320).
È opinione diffusa che in napoletano, come in genere nei dialetti alto-meridionali, lo scadimento /a/ > /-ə/ (➔ scevà) di tutte le vocali atone finali (o di tutte le vocali finali tranne -a) sia fatto antico, anche se a lungo nascosto, per ‘inerzia’ culturale, da una grafia di tipo etimologico (➔ fonetica storica, § 1.3 e 3.3). A questo proposito, nei poemetti napoletani trecenteschi di materia medicale (il Regimen sanitatis e le due redazioni dei Bagni di Pozzuoli) mentre sono possibili, da un lato, rime del tipo volontate : licterate «letterati», limenti «elementi» : solamente, prove : trove «trovi», non si dà nessun caso in cui -e o -i etimologica sia in rima con -o (< -u, -o) o -a etimologica. Quindi chiammato non può rimare con sanetate o urbati «orbati», notrimento con giustamente o tormenti, cura con duri o calure «calori», ecc. Se ne può ricavare che, mentre il passaggio -e, -i > /ə/ nel XIV secolo era già fonologizzato, la successiva fase dell’➔indebolimento non si era ancora compiuta, almeno a livello fonologico.
Per quanto riguarda l’altro criterio obiettivo, è appunto l’esame del numero sillabico (e assieme, s’intende, della rima), sempre nell’opera di Bonvesin, a provare che la caduta delle vocali atone finali diverse da -a nel milanese del Duecento non era ancora fonologizzata: in Bonvesin infatti «le vocali finali diverse da -a tendono bensì a cadere, così come spesso e interno […], ma son sempre passibili di conservazione per ragioni ritmico-sintattiche o d’indole particolare, sono cioè in una delicatissima posizione evolutiva, confermata da talune parlate odierne» (Contini 1960: I, 670; la dimostrazione in Contini 2007: II, 1169-1190); il che equivale a dire che la vocale finale di corpo poteva sì dileguare (all’interno di frase e di verso, non davanti a pausa), ma era pur sempre recuperabile in sincronia (era cioè riconducibile alla forma-base corpo mediante una regola sincronica di apocope, come nel fiorentino di Dante cammin è riconducibile a cammino).
Un caso tipico di defonologizzazione nel settore dei fonemi consonantici riguarda la neutralizzazione delle opposizioni /ʤ/ ~ /ʒ/ e /ʧ/ ~ /ʃ/ intervenuta nella storia del fiorentino, fenomeno che si riflette nella pronuncia italiana standard di parole come cami[ʧ]a e pi[ʤ]one < -sj- divergente dalla pronuncia fiorentina, che è ed è sempre stata cami[ʃ]a e pi[ʒ]one (➔ fonetica storica, § 2.2). La ➔ spirantizzazione delle affricate palatali intervocaliche, che ha provocato appunto la ➔ rianalisi dei fonemi /ʃ/ e /ʒ/ < -sj- come varianti di posizione di /ʧ/ e /ʤ/, si presta a esemplificare un altro tipo di dato utile al linguista storico, cioè le osservazioni di carattere metalinguistico, che diventano frequenti nel periodo cruciale per la fondazione di una grammatica italiana, ossia nel primo Cinquecento. Ci si riferisce a una famosa pagina del Polito di Claudio Tolomei (1525), pubblicato con il nome fittizio di Adriano Franci, in cui sono illustrati i due fenomeni della spirantizzazione dell’occlusiva velare (➔ gorgia toscana) e delle affricate palatali intervocaliche (in Richardson 1984: 96):
Dico dunque che qualunque sillaba incomincia da c o da g […], quella sillaba, fuori di dui casi, sempre è aspirata, et nessuna altra in tutta la toscana lingua è aspirata, sì come fuoco, luogo, allaga, vaghi, piaghe, agevole, placido, et altri con questi; perché in tutte queste sillabe se li dà un poco di fiato maggiore, che l’ingrassa et che l’aspira. Da questa regola dissi togliersene via dui casi. Il primo è, non esser questo vero nel principio de le dizioni, come sarebbe cane, conto, cura, chino, gallo, gola, Ghinazano, Guglielmo, ne li quali non si truova aspiratione. L’altro è quando inanzi a queste tai lettere vi fosse consonante et non vocale, come è in fianco, forche, spargo, punge, piangi et altri luoghi come questi, de’ quali nissuno è che s’aspiri.
Tolomei descrive con accuratezza la variazione combinatoria dei fonemi /k/, /ʧ/ e /ʤ/, cioè la loro diversa realizzazione fonetica a seconda del contesto di parola e di frase (il «principio de le dizioni» va inteso come posizione iniziale assoluta). Occorre però indicare subito un elemento problematico, come non di rado accade in questo tipo di testimonianze antiche, che (com’è ovvio) non sono foneticamente verificabili: se infatti il rilievo della spirantizzazione di /k/, /ʧ/ e /ʤ/ è congruente con la fisionomia nota del fiorentino-toscano, sorprende invece l’osservazione relativa alla spirantizzazione di /g/, a cui gli studiosi non hanno ritenuto di dover dar credito (Folena 1956: 501, nota 2).
Comunque sia, quella di Tolomei rimane la prima testimonianza precisa di ‘come funziona’ la gorgia toscana, al di là delle segnalazioni approssimative o impressionistiche di Erasmo da Rotterdam e di Mario Equicola, riferibili al primo decennio del XVI secolo (Fiorelli 1987: 164-166; Ricci in Equicola 1999: 101, 213). Ciò non significa naturalmente che il fenomeno non possa essere anteriore, e anche di molto, al XVI secolo: l’assenza di documentazione diretta sarebbe allora da mettere in conto non solo all’indisponibilità di un segno specifico nell’alfabeto latino, ma anche, e soprattutto, al suo carattere meramente allofonico (➔ allofoni). Diverso è invece il caso della spirantizzazione delle affricate palatali (del tipo pa[ʃ]e, a[ʒ]evole), perché è appunto il rilievo fonologico della collisione di tali allofoni di /ʧ/ e /ʤ/ con le sibilanti palatali provenienti da -sj- ad averne reso possibile la precoce registrazione grafica (ascievolemente in Fantino da San Friano [1275] sul modello di cascione; la via del nosce in una registrazione catastale del 1427 sul modello di bascio: Castellani 1952: I, 31-32).
2.1.1Il nome. Di regola i nomi italiani e romanzi derivano dall’accusativo latino. Ciò risulta con evidenza nei continuatori degli imparisillabi della III declinazione: amore < amorem, ponte < pontem, salute < salutem. In un ristretto numero di casi si è però conservato il nominativo, soprattutto «nei concetti personali, capaci di presentarsi come soggetto agente» (Rohlfs 1966-1969: II, § 344): uomo < homo, moglie < mulier, sarto < sartor, prete < preite < praebyter, ladro < latro, re < rex. I dialetti permettono di aggiungere qualche altro esempio: lig. nevu, istriano e venez. ant. n(i)evo < nepos; napol. sorə, sardo sòrre < soror (si noti in entrambi i casi l’assenza di metafonesi); trevigiano ant. pastre < pastor; il tipo settentrionale avoga(d)ro, tesa(d)ro (-ader, -aire) < advocator, *texator; gli esempi di -s sovrestesa del nominativo, del tipo lomb. filonz «filatore», crivlonz «crivellatore» < -onem + -s (cfr. il sardo nemos «nessuno» < nemo + -s). Si riconosce la conservazione della forma nominativa anche in una serie di femminili imparisillabi in dentale (-tas) con referente inanimato o astratto: Cìvita (nella toponomastica), libèrta, pièta (Dante, Inf. I, 21), podèsta (Dante, Inf. VI, 96), sòccita < societas, tempesta, Trìnita (la chiesa e il ponte fiorentino di Santa Trìnita).
Quanto alla classe dei nomi personali, poiché delle stesse basi lessicali sono documentate in area italoromanza anche le forme derivate dall’accusativo (romagnolo òmən, abruzz. òmənə, calabr. óminu < hominem; tosc. ant. mogliere/-a, venez. mugèr, lomb. muèr, ecc., e dialetti meridionali mugliere, mugghiere, ecc. < muljerem; ven., lomb. e romanesco ant. soror(e), seror(e), lomb. serùr < sororem; it. nipote, ven. nevodo < nepotem; tosc. ant., marchigiano, umbro e laziale sartore, lomb. sartù, ecc. < sartorem), è sembrato lecito inferirne l’esistenza, per la fase protoromanza, di un sistema flessivo (almeno) a due casi valido in genere per i nomi con referente personale (Zamboni 2000: 106-115).
Relitti di genitivo, locativo, ablativo si evidenziano soprattutto nell’onomastica: aquil. e romanesco ant. P(i)etri «Pietro», R(i)enzi «Renzo», Firenze < Florentiae, Rimini < Arīmĭnī (locativi), Acqui < Aquīs, Fondi < Fundīs (ablativi in funzione di locativi), i genitivi plurali Poggio Santoro (Toscana), Romanoro (Emilia); più raramente negli appellativi come candelora < (festa) candelarum con sostituzione di -orum ad -arum, friul. ant. Dì Nocentór «giorno degli Innocenti» (28 dicembre) < dies *innocentōrum per innocent(i)um, sardo domo «casa» < domō ablativo (per -o in luogo di -u).
Nel passaggio dal latino all’italoromanzo il sistema delle cinque declinazioni ha subito un notevole riassestamento (➔ latino e italiano): si sono ben conservate la I (porta), la II (murus) e la III (navis), mentre la IV (fructus, *nŏrus) e la V (facies), tranne numerate eccezioni, sono state assorbite da altre declinazioni (frutt-o come mur-o, nuor-a e facci-a come port-a). Come già risulta da questi ultimi esempi, nonché da serie come quelle dei neutri plurali rianalizzati come singolari della I (folia, pecora, vela) e dei neutri della III confluiti nella II (corpus, pectus, pignus, tempus, marmor), le prime due declinazioni hanno esercitato per tempo una notevole forza d’attrazione, attirando nel loro ambito parole appartenenti in origine ad altre classi flessive: in casi come nuora e faccia il passaggio da una declinazione all’altra (che si denomina appunto metaplasmo di declinazione) ha permesso una più chiara determinazione del genere. Questo sembra il principale motivo per cui, nella lingua e nei dialetti, sono abbastanza numerose la parole che sono passate dalla III alla I o alla II: per es., it. ghianda, fronda, poppa, gli arcaici apa, calla, cota, febbra, froda, greggia, vesta; emil. crosa, neva, nòta «notte», pèla, volpa, zenta; ven. ava «ape», nosa «(la) noce», vida «vite»; calabr. cìnnera, pèlla, fida «fede», turra, ecc. (dalla III alla I); it. fascio, fusto, ghiro, passero, sorcio, gli arcaici collo «colle», crino, nomo, vermo; laziale latto; ven. nevodo/-a; marchigiano pepo; lig., tosc., umbro pescio; calabr. vòmmaru, ecc. (dalla III alla II).
Meno frequenti, nella lingua e nei dialetti, sono i metaplasmi I, II > III: ricordiamo gli arcaismi ale «ala», arme, pome «pomo», fume. Sono residui della IV declinazione latina i tipi la mano → le mano, la fico → le fico, l’aco femm. sing. e plur., caratteristici dell’area mediana e meridionale (tracce se ne trovano però anche in Toscana e al Nord). L’Italia centro-meridionale ha conservato la desinenza etimologica -e(m) della V declinazione nel continuatore di faciem (sicil. la facci; calabr. e salentino la facce; napol. ant. la fazze) e nel suffisso -ĭties (la bellezze/-izzi, la ricchezze/-izzi, ecc.); appartiene anche alla lingua, invece, fede < fidem.
Altre classi nominali sono quantitativamente meno rilevanti, come la serie dei maschili in -a del tipo poeta, pirata, pilota, ecc., e il tipo flessivo imparisillabo barba - barbane «zio», avo (-us) - avone «nonno», che ha lasciato tracce soprattutto nei dialetti nella categoria dei nomi di parentela (ma anche nei cognomi derivati da nomi propri, del tipo Andreani e Cesaroni; ➔ parentela, nomi di): venez. barba; lig., ven. ed emil. barbàŋ; pugliese varəvanə «zio» (e su questo modello si è foggiato il meridionale zianə); pugliese e lucano attanə «padre», friul. avóŋ «nonno», napol. vavónə, ferrarese nunóŋ; a questa classe si sono aggregati gli appellativi personali scrivano, sagrestano (con metaplasmo di declinazione), a cui corrispondono, per i nomi femminili, mammana, puttana, marchesana.
Per la formazione del plurale, i nomi in -o, derivati dalla II declinazione latina o a tale modello flessivo assimilati, continuano il nominativo plurale latino in -ī: lupi < lupī. I nomi femminili della I declinazione hanno una -e che potrebbe continuare tanto il nominativo -ae quanto l’accusativo -ās (per palatalizzazione di a provocata da -s ovvero attraverso *-ai; Lausberg 19762: II, § 594). Per i nomi della III, la desinenza -i della lingua è spiegata da alcuni come il risultato della normale evoluzione fonetica di -es (innalzamento di e in i indotto da -s); si è però anche pensato a un’estensione analogica della -i di lupi, avvenuta prima nei maschili, per es., (l)i cane > (l)i cani e poi nei femminili (le volpe > le volpi), ipotesi che parrebbe suffragata dalla «maggior diffusione di -e [che potrebbe continuare direttamente -es] nel plurale delle parole femminili rispetto a quello delle parole maschili (i cane)» nella lingua letteraria antica e nei dialetti, anche toscani (Rohlfs 1966-1969: II, § 366).
Alcuni nomi in -o formano un plurale di valore collettivo in -a, desinenza che continua il plurale neutro latino: il braccio → le braccia, il membro → le membra, l’osso → le ossa, ecc., e (in parole originariamente non neutre) il dito → le dita, il grido → le grida ecc., a cui si possono aggiungere vari arcaismi come le anella, le castella, le vasa, ecc. (si rilevi la caratteristica alternanza di genere tra singolare maschile e plurale femminile e la frequente compresenza nel sistema di plurali di valore singolativo in -i: i bracci, i membri, gli ossi ecc.). In alcune aree settentrionali «la flessione casuale -a, -ane […] fu rifunzionalizzata nella formazione imparisillaba del plurale di una serie di nomi di parentela» (Bertoletti 2006: 172) o con referente personale, secondo lo schema «singolare breve - plurale lungo», del tipo barba - barbani, neza - nezane; milan. tosa - tosan, mata - matan «ragazza, -e», ecc. (da ricordare qui anche il tipo istriano nevo - navudi «nipote/-i», pugl. sórə - sərùrə «sorella/-e», direttamente riconducibile al paradigma imparisillabo latino).
I cambi, o metaplasmi, di genere, riguardano per lo più, com’è comprensibile, i nomi della III declinazione, che fin dal latino risulta indefinita nel genere: arborem si conserva femminile solo in sardo (e in portoghese), mentre altrove passa al maschile (in tosc. al metaplasmo di genere si somma quello di declinazione: albero); il genere latino traspare ancora però in quercia, dial. cerqua < (arbor) quercea e nel settentrionale fa[z]a < (arbor) fagea. pulicem e cimicem, maschili in latino, nei dialetti meridionali, in veneto e in lombardo, sono diventati femminili in toscano. Per l’Italia dialettale si segnala il passaggio al femminile di una serie di antichi neutri (➔ neutro): nel Nord la late, la sal(e), la mel(e), la fel(e), la mar(e); nel Sud sono divenuti femminili i nomi composti col suffisso collettivo -men: la cordame, la ligname, la legume, la fracetume, la untime, la grassime (sono invece documentati anche al Nord la lume e la nome). Per il neoneutro mediano e alto-meridionale, v. oltre, alla fine del sottoparagrafo 2.1.2.
2.1.2 L’articolo. Nell’uso di ➔ Dante – che può essere assunto come un attendibile rappresentante della situazione linguistica fiorentina fra Duecento e Trecento – le forme dell’➔articolo determinativo masch. sing. davanti a consonante sono lo, il e l (tradizionalmente trascritto ’l, perché inteso senz’altro come riduzione di il).
Nel dettaglio, lo, che nell’italiano odierno ha una distribuzione molto ristretta, è in Dante la forma quantitativamente maggioritaria e la sola possibile in posizione iniziale di enunciato (Inf. II, 1: «Lo giorno se n’andava») e all’interno di frase dopo finale consonantica (Inf. I, 27: «si volse a retro a rimirar lo passo»), mentre il e l presentano le medesime condizioni distribuzionali, potendo ricorrere solo all’interno di frase dopo finale vocalica (Inf. I, 15: «che m’avea di paura il cor compunto»; Inf. I, 30: «sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso»).
Sotto il rispetto prosodico, lo e il devono essere considerati, come nell’italiano odierno, fonologicamente proclitici alla parola seguente (➔ parole proclitiche), mentre l è enclitico alla parola precedente. Questo stato di cose, noto come legge di Gröber, suggerisce che il si sia originato, mediante prostesi vocalica, da l, a sua volta riduzione di lo per apocope di -o finale, secondo la trafila: giugne lo tempo → giugne l tempo (come figliuolo mio → figliuol mio) → giugne il tempo (Gröber 1877; Vanelli 1998: 169-214).
La verosimiglianza di una tale ricostruzione è ribadita da considerazioni di natura areale e tipologica: le forme cosiddette deboli dell’articolo, cioè il tipo vocale + l (il, el, al, əl, ecc.), si trovano in varietà, come quelle centro-settentrionali, in cui è normale il troncamento dopo sonante, mentre sono assenti in quelle varietà, come i dialetti centro-meridionali, che nelle stesse condizioni non conoscono l’apocope (napol. o < lo, sicil. ou, ecc.). La stessa presenza del tipo forte l + vocale (lo / lu) in sacche isolate o in aree periferiche del Nord, come il ligure, conferma il carattere innovativo del tipo debole rispetto a quello forte. Si possono aggiungere argomenti d’ordine storico-filologico: ci sono infatti varietà, come il venez. e il friulano centrale, che mostrano nella loro evoluzione il passaggio da una fase antica caratterizzata dall’impiego pressoché esclusivo della forma forte a una fase moderna in cui si è affermato il tipo debole (Stussi 1965: XLIV-XLV; Benincà & Vanelli 1998: 72-73).
Vanno poi ricordate le tracce lasciate negli antichi volgari italiani dalla forma bisillabica dell’articolo. Prescindendo dalla preposizione articolata del tipo (in)nello < in ĭllum, in cui la forma piena si è conservata in una sequenza postconsonantica fissa (Lausberg 19762: II, § 744), ne sono stati segnalati sicuri esempi dal Veneto al Salento: veron. ant. igi filosofi «i filosofi»; pavano ruzzantesco igi umene «gli uomini»; marchigiano ant. ellu fante «il fanciullo»; lucano ant. illo patri «il padre» ~ ella carne; salentino ant. illi codardi ~ ella femina (Formentin 1996 e 2002).
Due diverse forme dell’articolo, cioè lu < illum e lo < *illoc o *ill’hoc (Merlo 1906), sono adibite nell’➔Italia mediana a distinguere il maschile dal cosiddetto neoneutro, così definito per indicarne la soluzione di continuità rispetto al neutro latino: si tratta di una classe morfosemantica in cui rientrano i sostantivi di materia e in genere tutto ciò che non è numerabile (➔ neutro). Dunque in quest’area si distingue lu cane da lo pane, lu férru «il ferro (arnese)» da lo fèrro «il ferro (materia)». Una tale opposizione è propria anche della contigua zona campano-lucano-pugliese (➔ meridionali, dialetti), ma con altra modalità, perché in queste varietà la distinzione è affidata al potere rafforzante dell’articolo neoneutro, che si ritrova anche nell’articolo femminile plurale: napol. [o ˈfjerːə] (arnese) ~ [o ˈfːjerːə] (materia), come e fémm[ənə] < illaec feminae (o -as).
2.1.3 Il pronome. In generale il settore dei pronomi ha conservato meglio la varietà di casi della matrice latina (➔ caso). Nella serie tonica dei pronomi personali di prima, seconda e terza persona singolare l’italiano distingue ancora bene, per forma e funzione sintattica, le forme soggettive derivate dal nominativo latino (io < ĕgo, tu < tū, egli < *illī con la -i del nominativo di quī relativo e interrogativo) dalle forme oggettive e oblique provenienti dall’accusativo latino (me < mē, te < tē) e dal dativo illúi, originatosi sul modello di cui.
Si noti che lui e lei < illaei, insieme alla funzione di oggetto e obliquo preposizionale (ho visto lui / lei, vado con lui / lei, ecc.), in ital. ant. potevano essere usati senza preposizione col valore di oggetto indiretto, secondo etimologia: «rispuos’io lui con vergognosa fronte» (Inf. I, 81); «Ond’io rispuosi lei» (Purg. XXXIII, 91). Com’è noto, nella lingua moderna (con prodromi fin dal Trecento) lui e lei si sono sostituiti a egli, ella nell’espressione del soggetto pronominale (➔ colloquiale, lingua; ➔ personali, pronomi).
Gli ormai arcaici meco, teco < mēcum, tēcum sopravvivono però nei dialetti, anche toscani. Alle prime due persone del plurale, in tutte le funzioni sintattiche, si trovano i continuatori di nōs > noi e vōs > voi (che anticamente potevano ricorrere anch’essi con valore di oggetto indiretto senza preposizione), con la regolare vocalizzazione di -s in un monosillabo, assieme ai quali si ricordano i disusati nosco e vosco; alla terza plurale si ha, in funzione di soggetto, l’arcaico elli(no) / elle(no) e essi / esse, mentre nella lingua odierna si preferisce l’etimologicamente obliquo loro < (il)lōrum, che, nella funzione originaria di genitivo-dativo, può ricorrere senza preposizione (la loro casa, ho detto loro). Per il riflessivo di terza persona la forma tonica è sé < sē.
Per i dialetti si segnala, al Nord, l’evoluzione da un sistema medievale in cui il pronome soggetto di prima e seconda persona singolare è rappresentato dalle forme etimologiche (per es., venez. e milan. ant. eo e tu) a un sistema moderno in cui queste sono state sostituite dalle forme oblique mi < mī e ti (analogico su mi); parimenti, per la terza persona, agli antichi el(o), ela sono per lo più sottentrati lui e lei.
Un’altra caratteristica notevole dei dialetti settentrionali è lo sviluppo, accanto alla serie delle forme soggetto toniche, di una serie di forme atone di uso obbligatorio o facoltativo (clitici soggetto): ven. mi a vago via, ti te parli sempre, lu el vien doman. Nel Centro-Sud, per il pronome soggetto di terza persona singolare e plurale, si usano ora i continuatori di ĭpsum (Abruzzo, Lazio, Campania) ora quelli di ĭllum (Sicilia, Calabria, Puglia, Salento). Nel settore dei pronomi oggettivi / obliqui tonici, per le prime due persone il Nord ha generalizzato il tipo d’origine dativale mi, ti, ben rappresentato anche nel Meridione: per es., laziale a mmi, de ti, ecc. (che sono le forme del roman. ant.); salentino de mie, a ttie; sicil. cu mmia, di tia, ecc.; abbiamo invece la continuazione di mē e tē a Napoli, in Lucania (a mme, [pəˈtːe] «per te», ecc.) e in Puglia (mai e tai, con ai < ē; ➔ frangimento). Da segnalare, in alcune aree del Sud, la continuazione di tĭbĭ nell’obliquo teve, su cui si è foggiato meve (cfr. mebe, tebe e sebe < sĭbĭ nel Ritmo cassinese, meve e teve nei siciliani toscanizzati).
I testi antichi sia settentrionali sia centro-meridionali mostrano tracce di uno stadio arcaico in cui erano compresenti nel sistema pronominale le forme d’origine accusativale e quelle d’origine dativale, caratteristiche a tutt’oggi del sardo e del friulano, in cui le due serie sono, per le prime due persone del singolare, in opposizione funzionale (per es., friul. al cjale mè «(egli) guarda me», al è vignût cà di mè «è venuto da me» ~ a mi mi plâs «a me mi piace»). La funzione del riflessivo di terza persona nei dialetti può essere ricoperta da sé o da si (paralleli a me/mi, te/ti), ma spesso è assunta dal pronome personale: ven. el no pensa che a elo; abruzz. [nam ˈbɛnʣə ka ˈisːə] «non pensa che a sé stesso».
Per la serie dei pronomi personali atoni, che sono sintatticamente ➔ clitici (non possono cioè essere separati dal verbo se non da un altro clitico), le forme del toscano-italiano sono: mi < mē e mī, ti < tē e *tī (e analogamente per il riflessivo si < sē e *sī: in queste forme accusativo e dativo dovevano convergere per ragioni fonetiche); gli (oggetto indiretto maschile) < (il)lī (con palatalizzazione dovuta alla posizione prevocalica), le (oggetto indiretto femminile) < *(il)lae (ma l’italiano antico aveva li ambigenere); lo, la, li, le (oggetto diretto) < (il)lum, (il)lam, (il)lī, (il)lae o (il)lās. Per la prima persona plurale il toscano antico reca tracce di no < nos, ma le forme normali sono ne (se non da nos per evoluzione fonetica ininterrotta – cfr. Lausberg 19762: II, § 727 – forse da *nes, forma pronominale del latino arcaico equivalente a nos; è invece da respingere la base inde, pur difesa da Rohlfs 1966-1969: II, § 460, da cui deriva il ne avverbiale e partitivo) e il moderno ci < ecce hīc, di origine suppletiva; per la seconda persona plurale il toscano antico conosce vo < vos, ma la forma normale è già in antico vi, anch’esso (come ne) d’origine discussa (da vos, da un latino arcaico *ves oppure dall’avverbio ibi in funzione suppletiva). Quanto ai dialetti, ci si limita a ricordare le caratteristiche forme che esprimono l’oggetto indiretto ambigenere di terza persona singolare e plurale, cioè ghe in larga parte del Nord, di origine non chiara (ven. a ghe parlaria mi «gli / le parlerei io»), [nkə] / [ngə]< hince al Sud (barese ng[ə] piacev’ u vin[ə] «gli / le piaceva il vino»).
Nei pronomi relativi (➔ relativi, pronomi) l’italiano distingue una forma con valore di soggetto e oggetto (che < quem e quĭd: l’uomo che ride, il libro che ho comprato) e una usata per esprimere l’obliquo, con o senza preposizione (cui < cui: la persona di cui ti ho parlato; il fatto (a) cui ti riferisci; lo dice Mario, la cui onestà è riconosciuta da tutti). Anticamente (e a lungo nell’uso letterario) cui ha potuto indicare anche l’oggetto diretto: «e caddi come l’uom cui sonno piglia» (Dante, Inf. III, 136). Gli antichi dialetti settentrionali e (alto-) meridionali possedevano, accanto all’obliquo che, una forma relativa nominativa chi < quī in funzione di soggetto: bergamasco ant. colù chi non à pader; napol. ant. chille chi gramatica legeno. In alcune zone del Sud il pronome relativo è espresso da ca (napol. a primma casa ca truov[ə]), che è originariamente la congiunzione dichiarativa qu(i)a. Come pronome relativo assoluto si usa chi < qui (l’ital. ant. e i dialetti conoscono in questa funzione anche cui).
L’italiano possiede un sistema di dimostrativi a tre gradi di vicinanza (➔ dimostrativi, aggettivi e pronomi): questo (corrispondente alla prima persona) < eccu(m) istu(m), codesto o cotesto (corrispondente alla seconda persona) < eccu(m) ti(bi) istu(m), quello (corrispondente alla terza persona) < eccu(m) illu(m). Per i pronomi dimostrativi riferiti a persone la lingua ha forme soggetto in -i: questi, quegli (quei); forme originariamente oblique, ma poi impiegate anche in funzione di soggetto, sono costui/costei, colui/colei, costoro/coloro (cotesti/cotestui, ecc. sono invece ormai disusati); il modello di queste serie è evidentemente egli/lui/lei/loro. Nei dialetti meridionali e in sardo la stessa tripartizione è espressa in modo diverso, cioè ricorrendo a ipsu(m) per il secondo grado: quistu/kistu/kustu «questo», quissu/kissu/kussu «codesto» < eccu(m) ipsu(m), quillu / killu/kuḍḍu «quello». Le varietà dell’➔ Italia mediana e alto-meridionale in cui esiste il genere neoneutro hanno per questo forme dimostrative distinte da quelle del maschile: laziale késto pane ~ kistu cane; napol. [ˈkestaˈlːardə] «questo lardo» (con raddoppiamento fonosintattico) ~ [ˈkistəˈkanə] «questo cane», ecc.
2.1.4 Il verbo. L’italiano continua nell’infinito le quattro coniugazioni del latino, secondo lo schema: I cantāre > cantare; II timēre > temere; III vivĕre > vivere; IV dormīre > dormire. Anche in italiano, peraltro, si manifesta la tendenza del latino e del (proto)romanzo a livellare la II e la III coniugazione, in particolare nelle forme finite, tendenza che risulta più spiccata nei dialetti centro-meridionali e diventa completa fusione nel sardo (➔ coniugazione verbale; ➔ morfologia). Ne è indizio tra l’altro il cambiamento, o metaplasmo, di coniugazione subito da molti verbi nel passaggio dal latino all’italiano: miscēre > méscere, mordēre > mòrdere, movēre > muovere, respondēre > rispóndere, ridēre > rìdere, ecc. (dalla II alla III); cadĕre > cadére, sapĕre > sapére (dalla III alla II).
I verbi in -io della III sono passati alla IV: capire (però capére arcaico e dialettale nel senso di «essere contenuto»), fuggire, rapire, morire (< morio per morior). Come appunto mostra quest’ultimo esempio, i deponenti del latino classico sono passati alla coniugazione attiva: mināri > mināre > menare; sequi > sequĕre > sequīre > seguire; mori > morĕre > morīre > morire; nasci > nascĕre > nascere.
Sono ancora produttive in italiano la I (per es., silurare da siluro) e la IV, nel tipo con ampliamento in -isco (per es., i composti parasintetici del tipo imbellire, imbruttire). Si noti, d’altro canto, che verbi fortemente irregolari come posse e velle si sono ‘regolarizzati’ – già in latino volgare – secondo il modello della II coniugazione (*potēre, *volēre; però it. posso, possono < pŏssum, pŏssunt, di contro al tipo meridionale pozzə < *poteo).
Si indicano qui di seguito alcuni elementi di particolare interesse nella storia della flessione verbale (➔ flessione; ➔ coniugazione verbale), limitandoci all’ambito del toscano-italiano e della lingua letteraria.
(a) Indicativo presente. La seconda persona singolare esce in -i, in parte per evoluzione fonetica regolare (dormi < dormīs e anche vivi < vivĭs e temi < tĭmēs, per effetto palatalizzante di -s), in parte per analogia (canti < cante [desinenza arcaica che Dante impiega in rima] < cantas). La prima persona plurale in tosc. ant. mostra molto presto la desinenza -iamo, che subentra alle tre uscite etimologiche -amo, -emo, -imo, riscontrabili nel senese duecentesco e ancora vitali nei dialetti mediani (Castellani 1952: I, 139-142); come indica l’arcaica alternanza, nel fiorentino del XIII secolo, tra avemo < habēmus e abbiamo < habeamus, dovemo < debēmus e dobbiamo < debeamus, si tratta dell’estensione della desinenza del congiuntivo. Nella terza persona plurale la -o è epitetica (➔ epitesi), a partire dalle forme *cantan, *temen, *vivon, *dormon, cui si doveva pervenire per caduta foneticamente regolare della consonante finale di cantant, ecc. (Merlo 1909); la desinenza -ono < -un(t) è stata estesa alla II e alla IV coniugazione.
(b) Indicativo imperfetto. Alla prima persona singolare la desinenza etimologica in -a (io amava, temeva, dormiva e io era), l’unica usata dalle Tre Corone, attraverso la codificazione grammaticale di ➔ Pietro Bembo resiste a lungo nell’uso letterario, finché soltanto con ➔ Alessandro Manzoni riesce a imporsi il tipo moderno in -o (per influsso del presente: io canto, io sono), i cui primi esempi ricorrono in fior. già nella seconda metà del XIV secolo. Normale, nella lingua letteraria, è l’oscillazione tra il tipo -eva, -iva e il tipo -ea, -ia, che si è originato per dissimilazione (v - v > v - Ø) in quei verbi della II e III coniugazione contenenti -v- nella radice (habebam > aveva > avea, vivebam > viveva > vivea, debebam > deveva > devea).
(c) Congiuntivo presente. Alla seconda persona singolare il fior. ant. opponeva -i della I coniugazione (canti < cantes) a -e delle altre classi (abbie < habeas, diche < dicas). «Alla fine del sec. XIII - principio del sec. XIV […] a Firenze […] si tende all’unificazione in -i di tutte le desinenze» (Castellani 1952: I, 70) e dunque si ha canti, abbi, dichi; infine «l’odierna desinenza -a nei congiuntivi dei verbi in -ére, -́ere, -ire si trova qua e là dall’inizio del XIV secolo [per es. in Dante, Inf. VIII, 57: «Di tal disïo convien che tu goda»], e si generalizza fra Trecento e Quattrocento» (Castellani 1952: I, 72).
(d) Congiuntivo imperfetto. Alla prima persona singolare nell’ital. ant., accanto all’odierno -i, si trova ancora la desinenza etimologica -e < canta(vi)ssem, ecc. (Inf. XIII, 25: «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» ~ Inf. XXXII, 1: «S’ïo avessi le rime aspre e chiocce»); del resto l’oscillazione tra -e ed -i alla prima persona si riflette nell’alternanza tra -e ed -i alla terza (Inf. IV, 64: «Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi»). La polimorfia tipica delle terze plurali nella lingua antica (-assero, -essero, -issero; -assono, -essono, -issono, ecc.) è in rapporto con l’analoga polimorfia delle terze plurali del passato remoto.
(e) Passato remoto. Il paradigma del passato remoto debole (accentato sulle desinenze) della I coniugazione corrisponde alle relative forme del latino volgare: cantai, cantasti, cantàut (> cantò), cantàimus (> cantàmmus > cantammo), cantastis, cantarunt (> cantaro). Alla terza persona plurale l’antico -aro è stato prima affiancato e poi sostituito da -arono, per analogia sulla desinenza del presente (cantano); altre forme di terza plurale variamente documentate nell’uso letterario antico sono cantarno (da -arono per sincope), cantòro, cantòrono, cantorno (con la -ò della terza singolare), cantònno (usata in rima anche da Dante, d’origine toscana occidentale). Analogamente nei verbi della coniugazione in e abbiamo battéi, battésti, (battéo >) batté, battémmo, battéste, (battéro >) battérono e nei verbi della IV dormii, dormisti, (dormìo >) dormì, dormimmo, dormiste, (dormiro >) dormirono. Un’altra formazione debole, diffusa nei verbi della II e III coniugazione, è rappresentata dal tipo *credètti, che utilizza la desinenza -ètti del perfetto *stetui (per il classico steti): credètti, credésti, credètte, credémmo, credéste, credèttero; questo paradigma spesso si affianca, nella lingua antica e letteraria, a un tipo forte (chiesi / chiedetti, persi / perdetti, tacqui / tacetti, ecc.; cfr. anche diedi / detti).
I verbi della II e III coniugazione, in latino, avevano tre tipi di perfetto forte (accentato sulla radice), che si sono continuati nell’italiano:
(i) formazione in -ī (vīdī > vidi);
(ii) formazione in -sī (mīsī > misi, dīxī > dissi);
(iii) formazione in -ui (habui > *hebui > èbbi).
Nel latino volgare erano rizotoniche la prima persona singolare e plurale e la terza persona singolare e plurale (dìxi, dìxit, dìximus, dìxerunt, per il classico dixērunt), era rizoatona la seconda persona singolare e plurale (dixìsti, dixìstis): questo schema accentuativo rimane inalterato in molti dialetti italiani, in cui la prima persona plurale è rimasta rizotonica (lucchese dìssimo, èbbimo, fécimo, ecc.; sicil. àppimu «avemmo», pòttimu «potemmo», vìnnimu «venimmo», ecc.); si è invece modificato in italiano, perché la prima persona plurale ha spostato l’accento sulla desinenza per analogia con il tipo debole credemmo; inoltre le persone rizoatone si sono riformate sul tema del presente: dicesti, dicemmo, diceste. Tipica della lingua antica è la polimorfia della terza persona plurale: dissero, dissono, dissoro, disseno, disserono (Schiaffini 1926: XIV-XXIV; Castellani 1952: I, 142-156; Nencioni 1989: 11-188).
Per quanto attiene al perfetto del verbo essere, per spiegare il vocalismo di fui (lat. fŭī) si è ipotizzata la presenza di «un tratto fonetico arcaico, il mantenimento di u lunga» pur innanzi a vocale (Serianni 1998: 99) ovvero un’influenza metafonetica di -ī a contatto (Lausberg 19762: II, § 905): comunque sia, il vocalismo di fui si è esteso per analogia a fu, fummo, furono (anticamente anche fòro, fuòro, fuòrono, forme anche queste con vocalismo irregolare), mentre fosti e foste muovono da *fusti e *fustis.
(f) Futuro. «Si può credere che tra le cause dell’ostracismo dato dalle lingue romanze al futuro latino sia che esso veniva a coincidere nella forma con altri tempi, amabo per es. con amabam» (Parodi 1957: I, 55), e così cantabi(t), cantabimus ~ cantavi, cantavimus. Avrà inoltre giocato a sfavore del futuro organico la diversità di formazione nelle varie coniugazioni (cantabo, timebo, vivam, dormiam). Fatto sta che nella Romània per esprimere il ➔ futuro si fece ricorso a costruzioni perifrastiche di vario tipo, la più diffusa delle quali, propria anche dell’italiano, consiste nella sequenza infinito + forme ridotte del presente indicativo di habere (con fissazione dell’accento sul verbo ausiliare): *cantarao > canterò, *cantaras > canterai, *cantarat > canterà, *cantar(ab)emus > canteremo, *cantar(ab)etis > canterete, *cantaran(t) > canteranno (per il passaggio, tipico del fiorentino, di -ar- atono a -er- ➔ fonetica storica, § 2.2).
(g) Condizionale. Un’altra neoformazione romanza è il ➔ condizionale, modo verbale inesistente in latino, costituito dalla perifrasi infinito + forme ridotte del perfetto o dell’imperfetto di habere; il suo valore è quello di un futuro del passato (disse che canterebbe/avrebbe cantato) e di modo dell’irrealtà nell’apodosi del periodo ipotetico (se potessi, canterei). Il tipo cantare habui (*hebui) è proprio del toscano e dell’italiano: canterei, -esti, -ebbe, -emmo, -este, -ebbero (anticamente, con una polimorfia analoga a quella delle terze persone plurali del perfetto e del congiuntivo imperfetto, anche -ebbono, -ebboro, ecc.). Il tipo cantare habebam è proprio di molti dialetti italiani e della lingua poetica (nella quale si ritiene eredità dei siciliani; ➔ Scuola poetica siciliana); è però abbastanza raro che se ne abbia la flessione completa (per un quadro generale
cfr. Rohlfs 1966-1969: II, §§ 593-599): le forme più diffuse e frequenti sono quelle di prima persona singolare e di terza persona singolare e plurale (cantaria/canteria «canterei» e «canterebbe», cantariano/canteriano/-ieno «canterebbero»).
Tipico dei dialetti centro-meridionali (oltre che dello spagnolo) è il condizionale derivato dal piucchepperfetto indicativo latino, che (ancora una volta attraverso il modello dei siciliani: cfr. gravara, sembrara, sofondara in Giacomo da Lentini) ha lasciato tracce nella lingua letteraria, nella quale è particolarmente diffuso e persistente: fòra < fueram, -at, fòrano < fuerant (con lo stesso vocalismo di fòro «furono»).
(h) Imperativo. Alla seconda persona singolare il tipo etimologico a tre uscite (-a, -e, -i) è nei testi antichi un tratto toscano ma non fiorentino (Castellani 1952: I, 41): in italiano abbiamo dunque canta e tieni/leggi come dormi, mentre sono distinte le seconde plurali, uguali alle rispettive forme dell’indicativo (cantate, tenete/leggete, dormite). Nel fior. ant. non era ancora avvenuta la
sostituzione delle forme dell’imperativo dei verbi dare, fare, stare, andare colle forme corrispondenti dell’indicativo (tipo dai o da’ in luogo di da con raddoppiamento della consonante iniziale della parola seguente – ma il vecchio imperativo si conserva quand’è unito a un’enclitica: dammi) (Castellani 1980: I, 33).
Forme congiuntive in funzione d’imperativo sono sii e siate, abbi e abbiate, sappi e sappiate.
(i) Participio passato. I tipi deboli hanno le desinenze -ato (I: cantātus), -ito (IV: finītus) e -uto (II e III, dai verbi in -uĕre: tribūtus); quest’ultima forma si è estesa largamente entro la coniugazione in e, in cui ha spesso sostituito o affiancato forme forti, attaccandosi in genere al tema dell’infinito (avuto, caduto, dovuto, perduto, veduto, ecc.), più di rado al tema del perfetto (vissuto) o del presente (bevuto e le forme arcaiche o dialettali vagliuto «valso» e possuto «potuto»). I participi forti si dividono nelle classi in -to (dictus, natus), in -sto (posĭtus, quaesĭtus per quaesītus), in -so (acce(n)sus, arsus), con rimodellamenti vari dovuti a fenomeni di attrazione analogica (Rohlfs 1966-1969: II, §§ 623-625).
Per quanto riguarda il nome, in italiano antico era possibile che il determinante (personale) seguisse o precedesse il determinato senza di (obliquo senza preposizione): «il nodo Salamone», «il porco Sant’Antonio» (Dante), «a casa la donna», «la Dio mercè» (Boccaccio), «la moglie Menelao» (Brunetto Latini), ecc.
Per la sintassi dell’articolo è di norma rispettata nella lingua antica la cosiddetta legge Migliorini, per la quale il complemento di materia retto da articolo determinativo + nome vuole la preposizione articolata (il fiorino dell’oro ~ uno fiorino d’oro). Senza articolo, invece, si usavano nomi che non avevano bisogno di essere specificati o individualizzati, come i geografici e gli etnici, evidentemente trattati alla stregua di nomi propri: «le piaghe c’hanno Italia morta, io piovvi di Toscana, onde Puglia e Proenza già si dole» (Dante, Purg. VII, 95), «ingannao Fiorentini, Romani so’ mala iente» (Anonimo romano Cronica VII); e così i nomi che designano enti unici e indeterminati: «io vidi più di mille in su le porte / da ciel piovuti» (Inf. VIII, 82-83; cfr. ancora oggi da terra, a mare). Senza articolo potevano ricorrere anche i possessivi («e sua nazion sarà tra feltro e feltro»: Inf. I, 105) e tutto («Ed una lupa, che di tutte brame»: Inf. I, 49).
Accanto al si impersonale la lingua antica aveva il tipo homo cantat «si canta», equivalente al francese on chante (➔ impersonali, verbi); i due costrutti sono compresenti nella seguente terzina dantesca: «Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, / montasi su in Bismantova e ’n Cacume / con esso i piè; ma qui convien ch’om voli» (Purg. IV, 25-27).
Almeno fino alla metà del Trecento vige la ➔ legge Tobler-Mussafia, per la quale è obbligatoria l’enclisi alla forma verbale dei pronomi e delle particelle pronominali atone nelle seguenti condizioni:
(a) in principio di frase: «Ruppemi l’alto sonno ne la testa» (Inf. IV, 1);
(b) dopo le congiunzioni e, ma: «Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo» (Inf. XII, 139); «ma vassi per veder le vostre pene» (Inf. XII, 21);
(c) all’inizio di una principale posposta alla propria subordinata: «Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch’a la mente altrui mi rechi» (Inf. VI, 88-89).
A dire il vero, nel secondo e soprattutto nel terzo contesto […] è dato spesso incontrare eccezioni nei testi antichi, sicché le tre condizioni sintattiche descritte si devono intendere disposte, in relazione all’obbligo dell’enclisi al verbo, in senso scalare, dal più al meno (Formentin 2007: 27).
Nei testi antichi, del resto, l’enclisi alla voce verbale può ricorrere anche al di fuori delle condizioni previste dalla legge di Tobler-Mussafia (si parla allora di enclisi libera): «dritto sì come andar vuolsi rife’mi» (Purg. XII, 7). Circa l’ordine dei pronomi atoni (➔ clitici), nel fiorentino del Duecento prevale la sequenza lo mi, cioè accusativo + dativo, norma ancora rispettata da Dante («E se non fosse ch’ancor lo mi vieta»: Inf. XIX, 100), mentre già nel Decameron di Boccaccio il tipo arcaico coesiste con il tipo moderno me lo in proporzioni pressoché uguali. Per tutto il Trecento resiste gliele invariabile, in cui l’ordine è quello arcaico accusativo + dativo («gliele perdonerebbe liberamente» «i peccati a lui»: Boccaccio, Dec. I, 1): in seguito all’introduzione della combinazione me lo, nel corso del XV secolo gliele venne rianalizzato come «a lui lo», con la conseguente possibilità di flettere le in lo, la, li, le.
In testi appartenenti per lo più all’area mediana, tra il pronome atono e il verbo si può interporre la negazione, un altro avverbio o (più raramente) elementi lessicali di diversa natura: «lu cor […] lo non recepia» (Ritmo su sant’Alessio), «tuttu lo ’m balia tenete» (Ritmo cassinese), «li granni ci non potiano» (Buccio di Ranallo, Cronaca aquilana), «la anche tirava» (Trattati di santa Francesca Romana).
Quando un infinito dipende da un verbo modale, aspettuale o di movimento, nella lingua antica il pronome atono sintatticamente determinato dall’infinito si cliticizza di norma al verbo reggente (la cosiddetta risalita del clitico), mentre l’italiano moderno permette di unire il clitico sia all’uno che all’altro (lo voglio salutare/voglio salutarlo): «là i potrai vedere» (Inf. VI, 87), «non mi volea far cristiano» (Dec. I, 2), «s’incominciò a confortare» (Dec. X, 9), «dopo alcun ballo s’andarono a riposare» (Dec. II, Intr. 3).
Nel fiorentino antico la selezione dell’ausiliare essere o avere (➔ ausiliari, verbi) coi riflessivi è sensibile al carattere inizialmente intransitivo o transitivo della struttura sintattica: e dunque al tipo «E io, che del color mi fui accorto» (Inf. IV, 16), con l’ausiliare essere come in sono venuto, si contrappone il tipo «Ancisa t’hai per non perder Lavina» (Purg. XVII, 37), con l’ausiliare avere come in hai ucciso il nemico.
Per la sintassi del periodo si segnalano alcuni costrutti particolari, come la coordinazione asindetica di due imperativi (va dormi «va’ a dormire»; ➔ congiunzioni); la coordinazione di gerundio e verbo di modo finito («Il quale, avendo disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona, e a quella molta gente e di varie parti fosse venuta […], subito […] da ciò si ritrasse»: Dec. I, 7); la coordinazione di un infinito a una subordinata esplicita precedente («Perché fossimo a tanto beneficio […] più ferventi, e muoverci ad amore verso Lui»: Franco Sacchetti, Sermoni evangelici, XLVIII); la cosiddetta ➔ paraipotassi, per cui la frase principale viene coordinata tramite e alla dipendente che precede: «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio» (Inf. XXX, 115), «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò» (Dec. I, 1).
È ben documentato già in Boccaccio, ma non è davvero frequente prima del XV secolo, il fenomeno convenzionalmente chiamato ellissi del che (sia congiunzione che pronome relativo), per cui vengono semplicemente giustapposte alla principale frasi appunto relative, dichiarative o completive col congiuntivo: «e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare» (Dec. I, 4).
In italiano antico sono possibili tipi di ➔ accordo del participio passato che la lingua moderna non consente più. Il costrutto del tipo «fu tagliato la cipolla» (Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi IV), «fu dato a lui gli stadighi» [«ostaggi»] (Morelli, ivi) presenta «una forma impersonale di verbo transitivo costituita da essere + participio neutro» (Brambilla Ageno 1964: 163), seguita da un nome in funzione di oggetto (come nella frase «cum factum fuerit missam» della Peregrinatio Aetheriae). Analogo a questo è il tipo rappresentato dal tempo composto di un verbo intransitivo inaccusativo (cioè con ausiliare essere): «essendo venuto […] la compagnia de’ Bardi» (Donato Velluti, Cronaca di Firenze), «t’è entrato nell’animo cento pensieri» (Alessandra Macinghi Strozzi, Lettere LIX).
La lingua antica conosce anche sporadici esempi di accordo col soggetto del participio di verbi transitivi e intransitivi inergativi (cioè con ausiliare avere): «la corte ha tutta mangiata» (Framm. del Buovo d’Antona), «avendo più miglie […] caminati» (Masuccio Salernitano, Il Novellino 4).
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