grammatica
La più antica grammatica italiana che si conosca è trasmessa, anonima, dalle prime carte del codice Reginense Latino 1370 della Biblioteca Apostolica Vaticana (nota perciò come Grammatichetta vaticana; il medesimo codice contiene anche una trascrizione del De vulgari eloquentia di Dante). Il testo risulta copiato nel 1508 da un esemplare allora conservato a Firenze nella Biblioteca medicea, oggi perduto. Quando la breve Grammatichetta, nel XIX secolo, attirò l’attenzione degli studiosi, si discusse dell’attribuzione: chi l’assegnava a Lorenzo de’ Medici, chi a ➔ Leon Battista Alberti. Oggi nessuno dubita della paternità di quest’ultimo, specialmente dopo l’acquisizione delle prove aggiuntive fornite da Grayson (cfr. Alberti 1964). Il testo, edito per la prima volta da Trabalza (1908), si legge ora nell’edizione curata da Grayson (con riproduzione fotografica integrale; cfr. Alberti 1964) e in quelle a cura di Patota (cfr. Alberti 1996 e 2003). La Grammatichetta, che si suppone scritta tra il 1434 e il 1438, è basata sull’uso vivo fiorentino (a differenza delle prime grammatiche italiane a stampa, più tarde, dell’inizio del XVI secolo, fondate sul linguaggio letterario). L’intento di Alberti non era normativo: non voleva imporre regole, ma riconoscerle. L’opera era infatti proposta come una sorta di prova da utilizzare nel dibattito linguistico del tempo, per dimostrare che anche il volgare, a ben esaminarlo, era di per sé regolato, proprio come il latino. Alberti voleva verificare prima di tutto se una grammatica del volgare fosse realizzabile.
La grammatica italiana nacque dunque come confronto con la grammatica latina, perché l’idea stessa della grammatica si legava al latino, a tal punto che ➔ Dante, nel De vulgari eloquentia, aveva identificato direttamente latino e grammatica. A giudizio di Dante, però, non tutte le lingue erano dotate di grammatica, la quale era prerogativa di quelle regolate e letterarie, come il latino stesso e il greco. Alberti non aveva letto il De vulgari eloquentia, che rimase sconosciuto fino all’inizio del XVI secolo, ma era al corrente delle discussioni tra gli umanisti a proposito della formazione del volgare, e da esse prese lo spunto. Quindi la prima grammatica italiana nacque anche da una riflessione storica, oltre che dal desiderio di promuovere la dignità del toscano.
Se la Grammatichetta di Alberti non fosse rimasta inedita, sarebbe risultata cronologicamente la prima stampata in Europa. Le successive grammatiche italiane, invece, sono posteriori a quella castigliana di Antonio Nebrija, la quale detiene il primato, essendo stata pubblicata nel 1492.
La prima grammatica italiana stampata uscì ad Ancona nel 1516 dalla bottega di un tipografo di origine vercellese, Bernardino Guerralda. Era intitolata Regole grammaticali della volgar lingua (edizione moderna a cura di Richardson: Fortunio 2001; riproduzione fotografica nell’edizione a cura di C. Marazzini e S. Fornara: Fortunio 1999), e ne era autore un umanista e uomo di legge, Giovanni Francesco Fortunio, che si trovava allora in qualità di podestà ad Ancona, dove morì l’anno dopo. Tali Regole furono seguite dalle Prose della volgar lingua, di ➔ Pietro Bembo, stampate nel 1525. Le Prose di Bembo, però, non sono esclusivamente un trattato grammaticale, e anche il titolo ne dichiara il contenuto più ampio: dei tre libri di cui si compongono, solo il terzo è una grammatica, mentre i primi due parlano della storia, della formazione, dei pregi e caratteri del volgare, e definiscono il livello stilistico da conseguire mediante l’imitazione di modelli, identificati in primo luogo nella poesia di ➔ Francesco Petrarca e nella prosa più elevata del Decameron di ➔ Giovanni Boccaccio (non in tutta l’opera, dunque), e solo in maniera subordinata in Dante, autore macchiato, agli occhi del Bembo, dal difetto di un eccessivo abbassamento del livello linguistico e stilistico nelle parti più realistiche della Commedia. Le Prose sono un trattato in forma dialogica, secondo il gusto del tempo, seguendo prima di tutto il modello dei dialoghi di Cicerone. Anche la parte strettamente grammaticale, nel libro terzo, è svolta in forma dialogica, per di più con un uso quasi nullo dei tecnicismi grammaticali. Il modello normativo bembiano, che si impose nel corso del Cinquecento, fu poi divulgato in forma più schematica da altri autori.
Le due grammatiche di Fortunio e di Bembo si differenziano nettamente dal più antico esperimento di Alberti e hanno in comune il fatto di non basarsi sulla lingua viva, ma di codificare il modello costituito dagli autori del Trecento: si fondano cioè sulla lingua letteraria del passato. Benché i principi e i modelli a cui guardarono sia Bembo sia Fortunio non appaiano diversi nella loro essenza (per la comune ispirazione agli autori del Trecento), le due opere finiscono tuttavia per rivelarsi assai distanti nel metodo, nell’impostazione e nella forma. Fortunio procede fornendo una serie di regole numerate in ordine progressivo, rispettivamente relative ai nomi, pronomi, verbi e avverbi, a cui seguono le norme dell’ortografia. Sotto queste regole, si affastellano esempi di Dante, Petrarca e Boccaccio, con una pletora di osservazioni di natura filologica. Bembo, invece, discorre compiutamente di lingua, di letteratura, di retorica, e alla fine offre un libro di grammatica indubbiamente prescrittiva, e descrittiva dell’uso degli autori, ma esposta in forma discorsiva e mai schematica, calata com’è nel genere dialogico. Molte norme che si sono imposte nell’italiano trovano qui il primo deciso codificatore (per es., l’eliminazione dell’articolo maschile el al posto di il, l’abolizione del pronome lui soggetto a favore di egli, ecc.).
La linea grammaticale che fa capo a Bembo proseguì con autori quali Giulio Camillo Delminio, Rinaldo Corso e sopratutto Ludovico Dolce, le cui Osservationi – che ebbero otto edizioni in vita dell’autore, dal 1550 al 1568 (cfr. la presentazione di Guidotti, in Dolce 2004) – godettero di grande fortuna, pur essendo oggetto di qualche polemica, e stabilirono un modello, per es. per l’accoppiamento stabile del trattato grammaticale con quello di metrica (qui collocato nel IV libro, a chiusura della trattazione, posizione finale che divenne poi canonica fino al Novecento, fino ai manuali di Migliorini e di Battaglia-Pernicone). I grammatici non bembiani e antibembiani, a cominciare da ➔ Gian Giorgio Trissino, rimasero in posizione minoritaria e subalterna. Le loro opere sono non di rado assai curiose, come quella di Matteo di San Martino, ma non furono determinanti per la stabilizzazione della norma italiana.
La Toscana era rimasta indietro nella corsa cinquecentesca alla realizzazione dei libri di grammatica, prodotti da intellettuali dell’Italia del Nord, quali erano Bembo e Fortunio. Nella questione della grammatica entrava anche lo spirito campanilistico, per la rivalità tra regioni e stati italiani, e nel 1572 il granduca Cosimo de’ Medici incaricò gli accademici fiorentini di realizzare una grammatica toscana «con più brevità e agevolezza che sia possibile» (➔ accademie nella storia della lingua). L’Accademia fiorentina, però, nonostante l’invito del granduca, non arrivò alla stesura di regole condivise e ‛ufficiali’. È ben vero che nel 1552 (la data di stampa ha un margine di incertezza, perché non compare nel libro) era stata pubblicata una grammatica toscana, quella dell’accademico Pierfrancesco Giambullari, con il titolo De la lingua che si parla et scrive in Firenze (ma nei manoscritti autografi il titolo è Regole della lingua fiorentina; cfr. Bonomi in Giambullari 1986: XIX e 7), ma la accompagnava un dialogo di Giovan Battista Gelli, Sopra le difficultà di mettere in regole la nostra lingua, in cui in sostanza si negava ogni definitiva codificazione grammaticale in nome della varietà e libertà della parlata naturale. Solo quando il bembismo penetrò finalmente nella cittadella fiorentina, portandovi il riconoscimento dell’autorità dei modelli letterari, anche a Firenze si sviluppò la grammatica, prima con Lionardo Salviati e poi, in forme più ricche ed elaborate, più attente alla lingua parlata e alla sintassi, con Benedetto Buommattei, autore del trattato Della lingua toscana (1643; edizione moderna a cura di Colombo: Buommattei 2007), che traeva ispirazione dal De causis linguae latinae di Giulio Cesare Scaligero e a cui fu giustamente riconosciuta grande autorevolezza.
Tra le grammatiche più importanti del secolo seguente vanno ricordate due opere che hanno in comune l’analogo ambiente ecclesiastico in cui nacquero, essendo entrambe legate agli studi che si svolgevano in seminario, seppure in città diverse: le Lezioni di lingua toscana del fiorentino Domenico Maria Manni (1737) furono tenute nel seminario vescovile di Firenze, ma poi dedicate nella stampa al duchino Vittorio Amedeo di Savoia, futuro re di Sardegna alla morte del padre Carlo Emanuele III; il manuale di Salvatore Corticelli (1745) fu ideato a uso del seminario di Bologna, e a questo scopo ridotto a «metodo» (si intendeva con ciò l’esposizione ordinata a fini didattici, secondo una procedura ricavata sul modello di quella in uso per l’insegnamento del latino, come spiega l’autore stesso). Molti altri interventi su questioni grammaticali avevano avuto obiettivi diversi, e quindi risultavano assai meno sistematici, essendo nati in forma di commento o giunta ad altri testi (si pensi, nel Cinquecento, alle osservazioni di Ludovico Castelvetro), o presentandosi in forma alfabetica (come, nel Seicento, le Particelle di Cinonio, pseudonimo di Marc’Antonio Mambelli). Osservazioni sparse, per quanto ricche, erano anche quelle contenute ne Il torto e il diritto del Non si può del padre Daniello Bartoli, splendido esempio di elegante polemica contro i divieti arbitrari e capricciosi dei grammatici autoritari. La materia grammaticale, con speciale riguardo all’ortografia e alla punteggiatura, fu riassunta in forma sintetica da Bartoli nel trattato Dell’ortografia italiana (Roma, 1670).
Da Corticelli in poi, la sorte della grammatica si legò più strettamente alla scuola, mentre in precedenza era stata essenzialmente il riflesso delle discussioni tra letterati e delle polemiche pro e contro il toscano, pro e contro l’Accademia della Crusca. Nel XVIII secolo, inoltre, si verificarono condizioni nuove: l’insegnamento dell’italiano entrò nella didattica della scuola (non solo di quella dei seminari), seppure in posizione ancora molto marginale e subalterna al latino, e su di esso si esercitò l’influenza delle idee linguistiche d’Oltralpe. Nel 1731, per es., fu pubblicata a Torino una traduzione della grammatica di Claude Lancelot con il titolo di Nuovo metodo per apprendere agevolmente la lingua latina: questo libro, più volte ristampato, fu utilizzato quando l’insegnamento dell’italiano fu introdotto (solo un giorno la settimana) nella scuola superiore. Nel Nuovo metodo entravano infatti qua e là limitate aggiunte (via via più rade, con il procedere dell’opera), al seguito delle regole del latino, poste sotto il titolo Per l’italiano, in modo che l’insegnamento delle due lingue procedesse almeno all’inizio, per quanto possibile, in parallelo. Ben altro respiro didattico nell’esame della norma caratterizza un libro in cui si avverte fin dal titolo la nuova sensibilità illuminista, la snella e limpida Gramatica ragionata della lingua italiana di Francesco Soave (Parma, 1771; edizione moderna a cura di Fornara: Soave 2001), ideata per la riforma scolastica del Collegio dei Nobili di Parma, nella quale si vollero applicare i principi del pensiero illuministico di John Locke e di Étienne Bonnot de Condillac. La riforma non fu poi messa in atto e Soave fu licenziato, ma la sua grammatica era ormai pubblicata ed esibiva nel titolo il termine «ragionata», che richiama l’analogo aggettivo presente nel frontespizio della Grammaire générale et raisonnée di Port-Royal (1a ed. 1660). La fortuna di ristampe che toccò a questo libro fu meritatamente lunga e duratura, mentre la prima edizione del 1771 risulta rarissima.
Tra le grammatiche scolastiche dell’Ottocento, celebri e largamente adottate furono quelle di Giovanni Gherardini per la scuola elementare, e soprattutto quella di Basilio Puoti, il celebre purista napoletano (➔ purismo), che si avvalse dell’aiuto di Leopoldo Rodinò e del giovane Francesco De Sanctis, suo allievo. Ampio discorso si potrebbe aprire sulle grammatiche italiane per stranieri, che rispondono a esigenze diverse, anche se si legano in parte alla grammaticografia italiana per italiani (cfr. Silvestri 2001; Mattarucco 2003; Pizzoli 2004). Alcune sono di notevole dimensione e sono mosse da ambizioni teoriche, come quella di Angelo Cerutti, che fu collaboratore di Alessandro Biagioli (celebre maestro di italiano a Parigi): si fregia del titolo di Grammatica filosofica della lingua italiana (18352), anche se poi l’ammirazione per César Chesneau Du Marsais, più volte esibita, si congiunge alla condanna puristica dell’Ortis foscoliano, accusato di essere «un composto di gallicismi e scipitezze».
Dunque anche alcuni maestri di lingua italiana operanti all’estero o attivi in scuole private italiane per stranieri tentarono la realizzazione di manuali del genere, il cui smercio prometteva qualche vantaggio economico. È interessante notare come la grammatica si legò talora ad altri strumenti di consultazione: per es., l’ampio dizionario enciclopedico di Antonio Vanzon (in 8 voll., 1828-1842) porta nel primo tomo, a precedere il dizionario vero e proprio, una ricca Esposizione grammaticale ragionata (che ebbe anche vita autonoma; si noti, ancora una volta, il titolo di impronta illuministica). Anche in quest’occasione la grammatica si legò al dizionario, come del resto era accaduto già in passato: nel Cinquecento, Acarisio era stato autore di un’opera che si presentava al tempo stesso come Vocabolario, gramatica, et orthographia de la lingua volgare (1543); ancor prima di Acarisio, Liburnio aveva pubblicato nel 1526 Le tre fontane, una curiosa opera ibrida, che si cita di solito come il primo vocabolario italiano, ma che è al tempo stesso un vocabolario ordinato per autori (Dante, Petrarca e Boccaccio, le tre «fontane» della lingua, appunto) e, ciò che qui più ci interessa, per categorie grammaticali. La categoria grammaticale era dunque in questo caso lo strumento a cui ricorrere per dare ordine al lessico.
Lasciati da parte questi precedenti relativi al connubio tra grammatica e vocabolario, tornando alla grammatica dell’Ottocento, si può considerare che con il diffondersi delle idee manzoniane la grammatica della lingua viva prese lentamente piede, in forme tuttavia più o meno eclettiche, nonostante gli autori facessero largo riferimento, nei titoli e nelle prefazioni, alla «lingua parlata» o all’«uso moderno». Tra le grammatiche manzoniane si può citare quella di Oreste Boni (del 1883: Grammatica della lingua parlata con gli esempi cavati dal Manzoni, annunciava nel titolo), quella di Policarpo Petrocchi (1887, per i ginnasi, le scuole tecniche e le scuole militari) e infine quella di Morandi e Cappuccini (1894, per il ginnasio e le scuole normali e tecniche). La Grammatica italiana dell’uso moderno di Raffaello Fornaciari (del 1879, tra le più complete dell’Ottocento, assieme a quella assai minuziosa dell’abate dalmata Giovanni Moise, del 1867, 2a ed. 1878) costituisce la prima parte di un dittico completato dalla Sintassi italiana dell’uso moderno del medesimo autore (1881). Le due opere di Fornaciari sono assai meno manzoniane di quelle precedentemente citate, nonostante il doppio richiamo esplicito all’«uso», che qui tuttavia è sempre misurato sulle costanti diacroniche, mediante il riconoscimento del ruolo degli scrittori, oltre che dei diritti della ragione e del gusto (cioè i medesimi principi che a suo tempo erano stati seguiti dagli autori della grammatica razionale e ragionata). La produzione commerciale di grammatiche e la frequente riproposta della medesima opera in diverse versioni (adattate, accresciute o abbreviate a seconda dei diversi tipi di scuola) furono comunque favorite dal nuovo ordinamento dell’istruzione del regno unitario, e quindi dal mercato librario ormai nazionale, palestra di concorrenza per l’editoria; anzi, il legame tra scuola, editoria commerciale e libro di grammatica (legame che dura tuttora) si fece allora saldo, producendo non solo testi di mediocre fattura, ma anche opere originali e di qualità, come alcune di quelle che abbiamo menzionato (cfr. Catricalà 1991).
All’inizio del Novecento, tuttavia, la grammatica incontrò un gigantesco ostacolo nella diffusione del pensiero autorevole di ➔ Benedetto Croce, secondo il quale la lingua era creazione individuale e le regole non avevano alcun fondamento scientifico. La grammatica fu declassata a pseudo-concetto, mero espediente pratico e didattico. La prima ampia e meditata Storia della grammatica italiana di Ciro Trabalza (1908), a tutt’oggi non sostituita (le sintesi più recenti sono di più agile formato: Patota 1993 e Fornara 2005), ebbe la ventura di uscire proprio nel pieno dell’affermazione del pensiero crociano: anzi l’autore aderì senza riserve ai principi di Croce, addirittura condannando la materia del proprio libro, il quale veniva presentato come destinato a mostrare in qual modo la storia della grammatica italiana equivalesse alla storia del fallimento e disfacimento di questa disciplina.
L’uscita del libro di Trabalza suscitò un dibattito assai vivace sulla funzione della grammatica e sul senso della sua storia, con interventi di Croce stesso, di Karl Vossler, di Giovanni Gentile, oltre che di crociani minori, spesso più rigidi nella loro dottrina di quanto non fossero i maestri. Nonostante ciò, al libro di Trabalza fu riconosciuto anche da Croce e Gentile, non a torto, un valore documentario: la ricchezza dei dati lo rende ancora oggi uno strumento di studio insostituibile, anche se in molti punti da aggiornare, e ciò a prescindere dall’esibita fede crociana e idealistica, o dalla preferenza espressa per la grammatica di ispirazione manzoniana, alla quale l’autore dedicava attenzione speciale alla fine dell’opera, dando anche spazio allo sviluppo della ➔ grammatica storica, nata nell’Ottocento, la quale per suo statuto non si interessa della lingua in atto, non della lingua-modello degli autori, ma delle ‘regole’ del passaggio dal latino all’italiano, della sua genesi e del suo primitivo sviluppo. Nel 1890 il linguista tedesco Wilhelm Meyer-Lübke pubblicò la prima edizione della grammatica storica dell’italiano e dei dialetti toscani, poi ridotta e tradotta da Matteo Bartoli e Giacomo Braun nel 1901.
Lo sviluppo della grammatica descrittiva e normativa, intesa come studio di livello alto, fu rallentato e danneggiato dalla condanna di Croce. Anche a livello di scuola elementare, laddove la filosofia crociana non avrebbe comunque contestato il libro di grammatica per il suo valore pratico e strumentale, non erano mancati avversari che avevano fatto sentire la loro voce già prima di Croce: ➔ Graziadio Isaia Ascoli, in un intervento rivolto al IX Congresso pedagogico italiano (1874), aveva affrontato la questione «se s’abbia o non s’abbia a adoperar la grammatica nell’insegnar la lingua nazionale agli allievi delle scuole elementari», e aveva ricordato che uno studioso del calibro di Jacob Grimm, «il più potente grammatico d’Europa», autore di una grande grammatica scientifica del tedesco, poteva essere citato appunto come avversario dell’insegnamento grammaticale della lingua materna, in nome della naturalezza, del libero svolgimento delle facoltà del linguaggio. A questa avversione per la grammatica Ascoli contrapponeva la proposta di nuove grammatiche contrastive, che giungessero all’italiano attraverso raffronti con il dialetto. Da questo spunto di Ascoli prese più tardi avvio, con la riforma scolastica del 1924 e per ispirazione del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, la serie dei volumetti di esercizi Dal dialetto alla lingua, diretti dalla Società filologica romana, compilati da autori destinati a divenire celebrità nel campo della linguistica (Benvenuto Aronne Terracini, Carlo Tagliavini, Bruno Migliorini), e preceduti da un libretto con identico titolo, ma sottotitolato Nuova grammatica italiana per la IV, V e VI elementare (1917), dello stesso Ciro Trabalza, che si è già citato come storico della grammaticografia italiana. Durante gli anni del fascismo, tuttavia, Trabalza mutò strada, realizzando con Ettore Allodoli La grammatica degl’italiani (1934), non scolastica, ma rivolta al pubblico medio, presentata come un contributo al rinnovamento spirituale della nazione, alla «disciplina nazionale» e alla necessità di espandere la cultura italiana nel mondo, tentando di conciliare manzonismo e tradizione letteraria (sono infatti citati gli esempi degli scrittori, da Dante ai moderni, compreso Mussolini).
Molte sottili indicazioni grammaticali, con analisi puntuali, si trovano in un manuale precedente (1918), di Pier Gabriele Goidànich, che fu pubblicato con dichiarati fini scolastici, ma che risultò improponibile nella scuola per la sua ostica costruzione e per la troppo ricca documentazione scientifica. Furono invece riusciti esempi di grammatiche, al tempo stesso ineccepibili scientificamente e capaci di parlare a un pubblico di principianti, quelle allestite nel 1941, a seguito della riforma Bottai della scuola media, da due grandi linguisti, Bruno Migliorini e Giacomo Devoto. Erano due opere diverse tra loro; quella di Migliorini si segnalava fra l’altro per un ricchissimo e moderno apparato di esercizi applicativi, oltre che per la modernità del modello linguistico e per l’alleggerimento didattico delle parti normative obsolete. Devoto arrivò a inserire nelle pagine finali la descrizione dello «stile indiretto libero», mostrando di voler introdurre nella grammatica nozioni di stilistica (ma non la metrica, che invece, secondo tradizione antica, già cinquecentesca, è presente, seppur ridotta al minimo, in quella di Migliorini).
A metà del Novecento, dunque, la grammatica italiana normativa o descrittiva, intesa come libro complessivo e come manuale di riferimento scientifico, non esisteva praticamente più, ma solo sopravviveva il suo utilizzo didattico, anche quando gli autori erano stati sostenuti da maggiori ambizioni che non osavano palesare o palesavano cautamente. Indubbiamente, questo era un effetto del pensiero crociano che aveva agito anche là dove non vi era totale accordo con l’impostazione idealistica. Ancora nel 1951, nella grammatica di Salvatore Battaglia e Vincenzo Pernicone, che pur si impose come testo importante, gli autori avvertivano di non aver inserito esercizi, ma di avere ugualmente pensato alla scuola media superiore, pur ribadendo di non essere fautori dell’insegnamento grammaticale in questo ordine di istruzione. Il distacco dai principi idealistici si profilava, ma ancora incerto.
Nel secondo Novecento, però, furono superate le tendenze abolizioniste della grammatica e si cercò nelle grammatiche scolastiche una forma adatta agli utenti nuovi e ai tempi mutati, in modo da staccarsi da quella che Lorenzo Renzi ha chiamato la «secolare pedanteria» (Renzi, Salvi & Cardinaletti 1988-1995: 13). Questo riguarda la scuola e le sue esigenze, che facilmente sono poi scivolate verso forme di ibrido eclettismo, mescolando talora l’antica pedanteria mai morta (anzi spesso rinata in forme anche peggiori, perché pretenziose e camuffate dall’apparente esibita modernità) con alcune tendenze più o meno superficialmente ricavate dalla linguistica generativa e testuale. Un rinnovamento ben più rilevante avvenne quando diverse grammatiche si staccarono dalla dimensione pedagogica e didattica e si misurarono con la dimensione della ricerca, allo scopo di portare un contributo sul piano scientifico, senza complessi di inferiorità e senza esitazioni di sorta. La grammatica tornava così là da dove era stata allontanata dal trionfo del pensiero idealistico. Tra le opere che si collocano in questo spazio stanno quelle che dovremo considerare di riferimento per l’italiano d’oggi. Esse si ispirano (ovviamente) a principi diversi nel portare a compimento un processo di maturazione e mutamento che comunque è stato influenzato da un cambiamento di prospettive nelle forme e tecniche di descrizione della lingua, passando attraverso lo strutturalismo, il generativismo e la linguistica testuale, oltre che attraverso la sensibilità della sociolinguistica. Ciò vuol dire che la grammatica di oggi fa i conti con una serie di variabili di natura storica, geografica, testuale, di registro, approfondendo i propri scopi descrittivi ed esplicativi, e staccandosi in tutto o in parte dall’intento normativo proprio dell’antica tradizione legata alla questione della lingua (➔ educazione linguistica). Non sempre questo sviluppo moderno, tuttavia, ha messo completamente da parte la funzione normativa, senza la quale è del resto difficile rispondere adeguatamente a quello che resta pur sempre uno degli scopi principali per i quali l’utente ricorre alla grammatica: quando è assalito dal dubbio e cerca consiglio per scegliere o trovare la forma migliore e più corretta di espressione.
Limitando il confronto alle due grammatiche oggi più note e di maggiore dimensione, quella di Luca Serianni (1998) con la collaborazione di Alberto Castelvecchi, e quella di Renzi, Salvi & Cardinaletti (1988-1995), possiamo dire che la prima risponde meglio all’intento normativo, pur nel sostanziale arricchimento di prospettiva, e la seconda (opera di una équipe) propone un più netto rinnovamento metodologico, in chiave generativa, per l’aderenza all’uso corrente e reale, anche là dove si stacca dalla tradizione che un tempo si sarebbe detta «pura». Inoltre Serianni offre sovente indicazioni di grammatica storica, segnalando l’uso diverso del passato rispetto alla lingua moderna. La grammatica di Renzi, al contrario di quella di Serianni, arriva a esibire un sostanziale distacco dalle esigenze di chi la consulti frettolosamente alla ricerca di una specifica norma, e promette a questo tipo di lettore «lagrime e sangue», trattandosi di un’opera specialistica, completa e rigorosa, ma di consultazione non facile, anzi quasi impossibile senza l’uso dell’indice analitico posto nel terzo volume. Alla distinzione tra «giusto» e «sbagliato», la grammatica di Renzi sostituisce la distinzione, propria della moderna linguistica, tra «accettabile» e «non accettabile», dove «non accettabile» equivale ad «agrammaticale». Una frase come sé stesso ha lodato Mario viene dunque segnalata con l’asterisco che contrassegna ciò che è agrammaticale, cioè impossibile nella realtà dell’italiano (un pronome riflessivo non può trovarsi nella posizione di soggetto della frase). Un esempio come questo mostra l’attenzione non solo per quello che c’è nella lingua, ma anche per quello che non c’è e non può esserci, secondo un nuovo modo di descrivere la norma, in positivo ma anche in negativo. Le forme agrammaticali risultano dunque, in questa prospettiva, cosa ben diversa rispetto a quelle che la grammatica tradizionale definiva scorrette, e molte forme scorrette (ma non per questo agrammaticali) vengono esaminate, discusse e spiegate, come per es. la cosiddetta ridondanza o ripresa pronominale «a me mi piace». Infatti queste forme possono non essere gradite e gradevoli, ma di fatto sono realmente usate in italiano, seppure a livello colloquiale nel parlato spontaneo, e per questo sono registrate a scopo descrittivo e documentario, a volte anche con la spiegazione delle ragioni del loro successo, e con il paragone (se occorre) con l’uso dialettale. La grammatica così concepita, dunque, non mira più in alcun modo a insegnare la lingua bella, o la lingua-modello, ma vuole descrivere la realtà e spiegare il funzionamento del meccanismo linguistico. Va notato che il giudizio di grammaticalità qui espresso non è basato su un corpus di testi o di registrazioni di parlato, cioè su dati oggettivi, ma sulla personale competenza e sensibilità dei membri dell’équipe. Ugualmente opera collettiva è la grammatica dell’italiano antico di Renzi & Salvi (2010).
Anche la grammatica storica, della quale già abbiamo indicato i precedenti ottocenteschi, ha saputo dotarsi nel Novecento di strumenti di eccellenza. Si possono indicare come testi di riferimento la Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti di Gerhard Rohlfs, in tre volumi, arricchita nella traduzione italiana (1966-1969) rispetto all’originale in lingua tedesca (1949-1954), e la Grammatica storica dell’italiano di Pavao Tekavčić (3 voll., 1972). Il materiale riunito da Rohlfs è di eccezionale vastità, e il confronto con il testo di Meyer-Lübke che abbiamo citato precedentemente mostra, fin dal titolo, la novità e l’arricchimento di quest’opera, in cui il quadro si amplia ben al di là della Toscana e della lingua letteraria (entrambe comunque ben documentate), includendo i dialetti dell’Italia settentrionale, centrale, meridionale e insulare, considerati oggetto di indagine scientifica a pari diritto rispetto alla lingua, studiati dunque nei loro fenomeni e nella genesi delle loro forme, messi a confronto con il latino e con gli esiti toscani. L’impostazione risulta fortemente influenzata dalla vasta esperienza di dialettologo propria dell’autore, che collaborò alla raccolta del materiale per AIS, l’Atlante italo svizzero (Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz), che documenta le parlate della Svizzera meridionale e dell’Italia peninsulare e insulare. La grammatica storica di Rohlfs tratta nel primo volume la fonetica, nel secondo la morfologia, nel terzo e ultimo la sintassi e la formazione delle parole. La sintassi, in particolare, rappresentava una novità significativa, perché questa parte non era stata svolta da Meyer-Lübke; tuttavia la materia che viene di solito giudicata più ricca e preziosa nella grammatica di Rohlfs è quella relativa alla fonetica, seguita dalla morfologia. La grammatica storica, come del resto abbiamo già anticipato illustrando la sua nascita ottocentesca, occupa uno spazio particolare e distinto perché non si pone intenti normativi, ma unicamente storico-descrittivi. Tale impostazione è ancor più evidente in un’opera come quella di Rohlfs, in cui l’attenzione va a tutte le epoche e alle parlate del popolo di tutte le regioni italiane, nella sua ricchezza e varietà.
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