Croce, Gramsci e il comunismo
Sulla questione del comunismo esiste tra Croce e Antonio Gramsci un intreccio che non si riduce all’esistenza di una comune problematica, sia pure diversamente affrontata. Per l’autorità che – agli occhi di Gramsci – Croce ebbe nell’Italia dei «primi 15 anni del secolo» (Croce a Tatiana Schucht, 17 agosto 1931, in A. Gramsci, T. Schucht, Lettere 1926-1935, a cura di A. Natoli, C. Daniele, 1997, p. 764), ogni tema della cultura e della vita civile non poteva non passare attraverso il vaglio critico del filosofo di Pescasseroli. In effetti, questa tensione critica di Gramsci in relazione a Croce risulta presente anche nelle successive svolte della biografia del capo del PCI (Partito Comunista d’Italia), in particolare al momento del suo ritorno in Italia nel 1924 e nel periodo della prigionia (1926-37). Così, a cominciare dal socialismo nel periodo 1914-17, successivamente per il comunismo, si può dire, in prima approssimazione, che Gramsci sentì costantemente l’esigenza di pensare la propria posizione come capace di resistere alle critiche mosse dal filosofo liberale, dal critico della democrazia, dal teorizzatore della ‘storia etico-politica’, dal sacerdote della ‘religione della libertà’.
Il ‘nodo’ del comunismo si presenta pertanto, in prevalenza, come una specifica relazione che con Croce fu istituita da Gramsci. Questo fatto non è da sottovalutare: dato il ruolo che quest’ultimo ebbe nella storia del PCI, e poi sopratutto per la pubblicazione, tra il 1947 e il 1951, delle Lettere dal carcere e dei Quaderni del carcere, il modo in cui egli affrontò il compito di tradurre il marxismo in lingua italiana, e il comunismo in un concreto linguaggio storico-politico, proprio in risposta alle critiche provenienti da Croce, incise in modo non superficiale sulle fattezze sia del marxismo sia del comunismo italiani (questo processo non fu del resto affatto ovvio; cfr. F. Chiarotto, Operazione Gramsci: alla conquista degli intellettuali nell’Italia del dopoguerra, 2011). Dal lato opposto, se manca quasi del tutto un confronto di Croce con Gramsci (esso si riduce a quattro recensioni che il filosofo dedicò, tra il 1947 e il 1949, ad alcune delle pubblicazioni gramsciane postume), è vero che il socialismo prima, e il comunismo poi, furono delle realtà teoriche e pratiche da Croce costantemente prese in considerazione. Di questo interessamento si dirà nelle pagine che seguono, senza omettere di precisare da subito che esso divenne agli occhi di Gramsci, negli anni del carcere, un indice sempre più netto della funzione politica che il filosofare crociano era andato assumendo, in relazione agli avversari presenti e immediati, come il fascismo, ma anche per rispetto a un avversario meno imminente, ma da Croce – a parere di Gramsci – considerato decisivo a lungo andare, e cioè il comunismo.
Il rapporto di Gramsci con Croce in relazione al socialismo può essere illuminato grazie a un nesso testuale collocabile all’altezza del febbraio 1917, appena pochi giorni avanti lo scoppio della rivoluzione in Russia. Nell’articolo Margini, pubblicato nel numero unico della Federazione giovanile socialista (FGS) piemontese «La Città futura» (interamente curato e scritto da Gramsci), si legge:
È stato detto: il socialismo è morto nel momento stesso in cui è stato dimostrato che la società futura che i socialisti dicevano di star creando era solo un mito buono per le folle. Anch’io credo che il mito si sia dissolto nel nulla. Ma la sua dissoluzione era necessaria. Il mito si era venuto formando quando era ancor viva la superstizione scientifica […]. È avvenuta la débâcle della scienza [...] ed è quindi tramontato il mito che essa aveva contribuito potentemente a suscitare. Ma il proletariato si è rinnovato […]. È avvenuto un processo di interiorizzamento: si è trasportato dall’esterno all’interno il fattore della storia. A un periodo di espansione ne succede sempre uno di intensificazione. Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo-scienziati è stata sostituita: la volontà tenace dell’uomo (A. Gramsci, La Città futura. 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, 1982, pp. 25-26).
Il riferimento è allo scritto La morte del socialismo, pubblicato da Croce nel 1911 nella «Voce» con lo pseudonimo di Falea di Calcedonia e quindi raccolto nel volume Cultura e vita morale. Qui Croce, dopo aver notato che «il “passaggio dall’utopia alla scienza”» altro non è che l’abbandono dell’ideale «ingenuo e quasi bambinesco» dell’uguaglianza intesa come «concetto aritmetico e geometrico» (e irrealizzabile perché opposto alla vita, che è «ineguale e irregolare») a favore del «terreno della storia», osservava che questo passaggio nulla ha a che vedere con la «scienza» (Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 1914, pp. 170-72). Ciò che Karl Marx fece, enunciando la tesi del prossimo avvento del proletariato alla direzione della vita sociale al posto della borghesia, fu formulare «una previsione, grandiosa senza dubbio, ma sostanzialmente simile alle tante previsioni analogiche che facciamo di continuo innanzi ai casi che colpiscono la nostra fantasia» (p. 173; per questa accezione di ‘previsione’ cfr. la recensione di Croce al libro di L. Limentani, La previsione dei fatti sociali, «La Critica», 5, 1907, pp. 235-36; e cfr. Rapone 2011, p. 284).
La previsione marxista servì a introdurre il socialismo nella storia: ma in questo modo esso anche morì, perché divenne politica esercitata in condizioni concrete e nazionali, non astratte e ideali. Così accadde in Germania, dove «la classe operaia […] si era […] addomesticata, fusa con la democrazia, affiatata con gl’interessi generali del paese, ossia con quelli della classe dominante» (Cultura e vita morale, cit., p. 176). E neanche l’ultima apparizione del «gran sogno di Marx» nel sindacalismo soreliano è sfuggita a questo destino di morte: «il riformismo, il democratismo, il demagogismo» si infiltrarono anche in esso
e il “sentimento di scissione” non l’aveva garantito abbastanza, forse anche perché una scissione teorizzata è una scissione superata; né il “mito” lo scaldava abbastanza forse perché il Sorel, nell’atto stesso di crearlo, lo aveva dissipato dandone la spiegazione dottrinale (p. 177).
Il punto di contatto tra le posizioni di Croce e Gramsci è anche quello della loro divergenza. Per Croce il socialismo è dinnanzi all’alternativa tra il «fantasma di sogno e di poesia» (p. 174) creato da Marx e dai suoi predecessori ‘utopistici’, e la concreta politica, condotta secondo le sue regole eterne. Il presente è l’unica realtà, e al suo interno si possono dare contrasti e lotte, che però saranno sempre astratti – e dunque meramente distruttivi – se condotti in nome di ideali universali, cioè arroganti per sé quella ‘totalità’ che può essere data solamente dalla dinamica plurale di tutti i momenti (cfr. N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, 1975, pp. 80-84). La funzione del socialismo è stata positiva, ma solo in quanto ha contribuito a ravvivare (con lo stimolo a introdurre misure sociali di equità e giustizia) la dinamica interna alla società presente e sciogliendosi in essa.
La ‘previsione’ presuppone la fiducia nell’esistenza di una dinamica necessaria della storia. Qui è il punto in cui Gramsci ripete la posizione di Croce, ma per distinguersene immediatamente (cfr. Rapone 2011, pp. 283-88). Ciò che egli chiama «processo di interiorizzamento» presuppone infatti un nesso tra pensiero e realtà, tra teoria e pratica, sganciato dalla credenza superstiziosa in un fine preordinato della storia; ma anche, tendenzialmente, emancipato dalla distinzione crociana tra conoscenza e azione (cfr. la nozione di «modello» o «legge» come «espedienti metodologici» in La Città futura, cit., p. 29). Se vista come un processo politico, la previsione può dunque essere ridefinita come «universale concreto», cioè un processo di unificazione delle volontà sotto principi pratici o «massime giuridiche» (pp. 5-6).
Ecco perché Gramsci, accettando la critica di Croce, vi sottrae il ‘mito’ nell’accezione soreliana: perché Georges Sorel l’aveva appunto spostato dalla sfera della conoscenza a quella pratica, vedendovi l’immagine che del futuro si fa una forza collettiva in azione (cfr. G. Sorel, Réflexions sur la violence, 1908; trad. it. Riflessioni sulla violenza, in Id., Scritti politici, a cura di R. Vivarelli, 1963, p. 114). Non casualmente, su quel passo di Croce Gramsci torna nei Quaderni, osservando che il «mito» soreliano «non è altro che la [crociana] “teoria delle passioni” con un linguaggio meno preciso e formalmente coerente» (Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 1975, p. 888). E riscrivendo a distanza di circa un anno questo passo, Gramsci, ripensando la propria tesi, definisce la teoria soreliana del mito come
la “passione” del Croce studiata in modo più concreto, è ciò che il Croce chiama “religione” cioè una concezione del mondo con un’etica conforme, è un tentativo di ridurre a linguaggio scientifico la concezione delle ideologie della filosofia della praxis vista attraverso appunto il revisionismo crociano (p. 1308).
A questa altezza (siamo nel 1932) a Gramsci risulta chiaro che Croce ha revisionisticamente ridotto la teoria marxiana dell’ideologia al suo solo aspetto critico-distruttivo, abbassando la politica a ‘passione’; mentre Sorel, pur prendendo le mosse da questa revisione, ha recuperato alcuni aspetti di concretezza dell’ideologia, ripristinando il nesso tra passione, rappresentazioni polemiche e volontà politica collettiva; ma è rimasto al di qua di una comprensione del ruolo del partito politico (cfr. pp. 1556-57, in cui accanto a Sorel si ricorda la recensione di Croce a Limentani e il saggio su Il partito politico come giudizio e come pregiudizio, del 1912). Solamente se «i partiti politici» vengono intesi come «il crogiolo dell’unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico reale» (Quaderni del carcere, cit., p. 1387), sarà anche possibile sottrarre la politica al suo confinamento nella ‘passione’, e diverrà pensabile il processo per cui la ‘ragione’ stessa (dunque la ‘storia’) emerge dalle lotte, non è loro presupposta (cfr. Frosini 2013). Diventerà possibile, cioè, il processo di costituzione autonoma delle classi subalterne a classi egemoni.
Il nesso tra volontà politica e conoscenza era stato sistemato da Croce mediante la teoria dei distinti, che teneva insieme l’eternità dei concetti o forme dello Spirito e il mutare o avvicendarsi delle posizioni storiche in lotta tra loro, senza che una potesse mai prevalere sulle altre. Con la Prima guerra mondiale, come è noto, questo schema entra in un periodo di intensa rielaborazione (cfr. Sartori 1997, pp. 169-201; Galasso 1990, 20022, pp. 250-59, 343-89): il piano delle categorie viene gradualmente identificato con il liberalismo, che nella Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932) riceverà il nome di «religione della libertà». Ma l’annuncio di questa posizione è già nella nota del 1927 Il presupposto filosofico della concezione liberale, poi inclusa, con il titolo La concezione liberale come concezione della vita, nel volume Etica e politica. Qui la «concezione liberale della vita» è definita una «concezione metapolitica» nella quale
si rispecchia tutta la filosofia e la religione dell’età moderna, incentrata nell’idea della dialettica ossia dello svolgimento, che, mercé la diversità e l’opposizione delle forze spirituali, accresce e nobilita di continuo la vita e le conferisce il suo unico e intero significato (Etica e politica, 1931, p. 285).
Il liberalismo diventa insomma quella particolare confessione politico-culturale in cui però si incarna la storia nella sua essenza, come dinamico, non arginabile fluire delle diverse posizioni.
Questa innovazione ha radici e implicazioni politiche, da riconoscere nel mutato scenario dell’Europa postbellica, con la progressiva dissoluzione, in Italia e in Europa, dello Stato liberale e della società che gli corrispondeva. La netta distinzione tra classe dirigente e classi dirette viene messa in forse, nell’Europa del dopoguerra, da una generalizzata crisi di autorità, conseguenza delle dinamiche sociali innescate dallo stesso conflitto e del processo di catalisi scatenato dalla rivoluzione bolscevica. La complessa sistemazione elaborata da Croce a proposito del socialismo e della sua ‘morte’ rischiava di ritrovarsi priva di referenti reali, per lo spostamento complessivo di tutti gli attori in gioco: delle classi dominate, che tumultuosamente sfidavano l’egemonia borghese, e delle classi dominanti, che si avviavano a sperimentare nuove forme di egemonia, non più ottenibile grazie al presupposto della passività politica, sociale e culturale della grande maggioranza della popolazione (cfr. in generale Galasso 1990, 20022, pp. 260-303).
La morte del socialismo non era più un fatto spontaneo, sia perché i processi di assimilazione delle classi popolari da parte delle politiche statali accadevano dappertutto in forme diverse, mediante l’avvio di inedite politiche demografiche e del lavoro (ciò che si chiamò in vario modo, ma con il costante riferimento alle ‘masse’ come protagoniste – oggetto o soggetto – della nuova epoca); sia perché, accanto e contro il socialismo era nato il movimento comunista, che – legandosi al primo Stato operaio – si presentava per definizione come inassimilabile dalla società borghese. Un intervento attivo, ‘ideologico’, da parte del liberalismo, per sorreggere quello schema di nitida divisione dei compiti (secondo l’asse dirigenti/diretti) che in precedenza era già dato in modo ‘spontaneo’, appariva pertanto inevitabile.
Su questo nuovo terreno Croce si muove secondo tre linee principali di intervento. Anzitutto, sul piano metodologico, egli mette in opera quel processo di trasformazione della propria filosofia che coincide con l’elaborazione della ‘storia etico-politica’, della ‘religione della libertà’, dello ‘storicismo assoluto’, e che culmina nella Storia come pensiero e come azione del 1938. In connessione organica con ciò, Croce sviluppa negli anni Venti e Trenta non solamente un’ampia produzione storiografica, ma anche una riflessione sulla storia e sulla fenomenologia dei suoi avversari (‘antistoria’), che ha il suo avvio pubblico importante nel discorso su Antistoricismo letto al VII Congresso internazionale di filosofia, tenutosi a Oxford dal 1° al 5 settembre 1930 (cfr. Giammattei 2009). Infine, a partire dalla metà degli anni Trenta, si accentua nel lessico crociano la riflessione sulla ‘malattia’ e la ‘crisi’ della civiltà, da lui identificata con la stessa Europa (cfr. Ciliberto 1983; Maggi 2003; Conte 2005, pp. 141-236). Ora, per la prima volta, la possibilità della morte della civiltà appare concretamente: non solo la ‘storia’ ha degli avversari, ma questa opposizione, da esterna, si è trasformata in un morbo che mina dall’interno la fibra della vita dell’Europa.
Se si traducono queste immagini in linguaggio storico-politico concreto, si può dire che l’elaborazione del concetto di ‘storia etico-politica’, ‘storicismo’, quindi di ‘religione della libertà’, è come l’organon del rinnovato intervento liberale. Mentre le riflessioni sull’‘antistoricismo’ e sulla ‘malattia’ testimoniano di un’acutizzazione progressiva della lotta, condotta dapprima contro il comunismo, quindi contro il fascismo, quindi (a partire dalla metà degli anni Trenta) contro il nazismo. Quest’ultimo fu pensato da Croce come una «forza di rinascente, radicale “giacobinismo”, simmetrico a quello che s’era sviluppato e imposto in Russia» (Ciliberto 1983, p. 98). A tale altezza, comunismo e nazismo sono accomunati da Croce sotto la stessa categoria, che però – si noti – investe il fenomeno bolscevico di riflesso, come una sorta di ritorno sull’URSS di ciò che era maturato nel nucleo tedesco della civiltà. In secondo luogo, va anche registrato il fatto che Croce non aveva sentito il bisogno di far intervenire quella riflessione sulla ‘fine della civiltà’ già in relazione al fascismo italiano, che anzi nel 1945 – dopo la fine dell’esperienza hitleriana – banalizzerà, definendolo «una imitazione […] tra canagliesca e buffonesca» del comunismo sovietico (L’esempio della Russia, «Quaderni della “Critica”», 1945, 1, 3, p. 113).
In questo intervento la polemica di Croce si indirizza al ritorno del comunismo e del marxismo in Italia. In scritti come Per la storia del comunismo in quanto realtà politica («La Critica», 1943, 41, pp. 100-08), Considerazioni sul problema morale del tempo nostro («Quaderni della “Critica”», 1945, 1, 1, pp. 1-15) e L’immaginario passaggio del comunismo marxistico dall’utopia alla scienza («Quaderni della “Critica”», 1947, 3, 9, pp. 11-18) egli pensa anzitutto
a cotesti rovinosi “intellettuali”, a cotesti professori italiani o di altri paesi, che per lunghi anni non si erano accorti del marxismo […] e ora si sono dati a smaniare per esso e a celebrarlo e ad inculcarlo e a somministrarlo nelle loro false scritture (L’immaginario passaggio, cit., p. 17; e cfr. Gl’«intellettuali» e la politica, «Quaderni della “Critica”», 1945, 1, 3, pp. 115-16).
Il tono acrimonioso in questi passaggi non è però solo di chi ritiene di possedere una verità che altri preferiscono ignorare (una verità che aveva enunciato in Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900): da lettere e ricordi personali, in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, 1868, 19382, pp. 265-312; cfr. Luporini 1973, pp. 1588-89). Questo elemento, pur presente, non può essere disgiunto dal rifiuto politico di riconoscere al PCI cittadinanza culturale nell’Italia liberata, dalla necessità politica, cioè, di assimilare «nazionalisti» e «comunisti», «reazionarii» e «rivoluzionarii» sotto la categoria di «concezione attivistica della vita», cioè di quel discendente del «romanticismo» (quasi una comune «fonte avvelenata») che aveva condotto alla catastrofe europea (Considerazioni sul problema morale, cit., pp. 14-15; e cfr. Cesa 1966, pp. 755-56; Garin 1966, pp. 494-95 nota).
In definitiva, se le diverse inflessioni delle posizioni di Croce a proposito di comunismo, fascismo e nazismo vanno lette alla luce della congiuntura politica, è vero però che in esse si dà un’asimmetria strutturale. Il crollo della Germania ridefinisce tutti gli elementi in gioco, collocando il tema della ‘malattia’ dell’Europa al suo stesso centro. Il nazismo è un fatto che obbliga a una riflessione concettuale, a un intervento filosofico nuovo (cfr. Ciliberto 1983). In precedenza, invece, l’idea dell’antitesi che, secondo Croce, si era venuta a formare tra la ‘civiltà’ e i suoi vari avversari (fascismo e comunismo, ma anche il rinnovato protagonismo cattolico, dopo il Concordato del 1929 con lo Stato italiano) poteva ancora essere pensata – pur già con abbondante ricorso al lessico della ‘malattia’ – grazie al paradigma della ‘morte’: nel senso, definito da Croce, di un risolversi dell’antitesi entro il grande campo liberale, capace di assorbire tutto, perché coincidente con la storia, la civiltà moderna, l’idea di Europa.
C’è insomma una ‘resistenza’, da parte di Croce, fino al 1933, a prendere atto della sostanziale novità rappresentata dai nuovi regimi postliberali; esattamente come, dopo il 1945, c’è una volontà di ridicolizzare il fascismo e ostracizzare dall’Italia il comunismo. Negli anni Venti e nei primi anni Trenta si trattava cioè sì di attrezzarsi per la mutata situazione (storia etico-politica e religione della libertà), ma evitando di riconoscere che gli avversari del liberalismo portassero realmente qualcosa di nuovo. Simmetricamente, dopo la caduta della Germania hitleriana, Croce credette di poter trattare il periodo precedente (almeno in Italia) come una parentesi.
Nel settembre 1917 Croce ridicolizza i «socialisti russi» addebitando loro una «miranda infantilità», per il fatto di immaginare che sia possibile fare politica fuori dall’orbita della nazione (La guerra italiana, l’esercito e il socialismo, in Pagine sparse, serie II, Pagine sulla guerra, 1919, p. 226). Ma già nel giugno 1918, ribadendo il suo disprezzo per chi si era permesso di pubblicare i trattati diplomatici, è già abbozzato uno schema ermeneutico a due assi, la cui intersezione servirà poi sempre a inquadrare il fenomeno sovietico: l’arretratezza russa e «la pretesa di trattare la politica come morale» (Sopravvivenze ideologiche, in Pagine sparse, serie II, cit., p. 258). Quest’ultimo tratto si vede in ciò, che i bolscevichi ripetono un atteggiamento che fu illuministico, giacobino: l’indebita mescolanza dell’assoluto con il relativo, dell’immutabilità dei principi (che tutti sempre unisce) con la variabilità delle relazioni di potenza (che dividono). Pretendendo di giudicare e condannare moralisticamente gli altri Stati, i russi sono degni «di ripugnanza e ribrezzo, come […] persona che sia affetta da morbo schifoso» (p. 259).
È qui già introdotta l’immagine della malattia, vista però, per il momento, come una formazione residuale ed esteriore. Questo giudizio poggia sull’altro asse analitico: dove – si domanda Croce – se non in un Paese arretrato come la Russia, era possibile che «alcuni così detti “intellettuali”, ripetitori di formolette apprese nei caffè e nelle birrerie zurighesi», potessero ergersi «a giudici di onestà […] a giudici di interi popoli e Stati» (p. 257)? La virgolettatura degli ‘intellettuali’ va anch’essa compresa all’interno di questo schema. Come si argomenta in un articolo dell’agosto 1918 (Il pensiero russo secondo due libri recenti), nella Russia ottocentesca il contatto accelerato tra una cultura nazionale arretratissima e le punte avanzate del pensiero occidentale ha prodotto un eccitamento che ha irrimediabilmente minato la capacità di ragionare di un’intera cultura: per cui – a denominare tale degenerazione – occorrerebbe coniare l’espressione «ragionare alla russa» (p. 288). Ciò chiarisce anche perché
laddove gli altri popoli hanno una scienza e una cultura (grande o piccola che sia), la Russia abbia invece, come si suol chiamarla, una “intellettualità”, qualcosa che non è propriamente né scienza né cultura, ma un accalorato disputare di tutto e un eruttare paradossi: qualcosa che, in sostanza, somiglia assai a ciò che in buono e semplice italiano si chiama “stravaganza” (Sopravvivenze ideologiche, cit., p. 289).
Questo schema a doppio asse (inferiorità e astrattismo) viene messo a punto in Tre socialismi, dell’ottobre 1918 (poi in Pagine sparse, cit.). Qui, accanto al socialismo ‘nazionale’, che appoggia l’imperialismo e il colonialismo e ‘muore’ meritando «lode di coerenza e di serietà» (p. 290), fanno la loro comparsa altri due tipi, irriducibili e opposti al primo: il socialismo delle classi contro la nazione, e il socialismo «umanitario, millenario», entrambi presenti in forma eminente «in Moscovia» (pp. 291-92). In sostanza, la ‘confusione’ della mente russa e l’assenza di una vera cultura rendono concepibile un fatto come la rivoluzione bolscevica, in cui un pugno di ‘intellettuali’ ha preso il potere e pretende, da quella postazione, di sovvertire la regola eterna della storia, cioè la distinzione tra politica nazionale di potenza e universalità della vita etica. Ma appunto, questa manifestazione di degenerazione e morbo non aggredisce l’Europa, perché rimane ben fuori di essa. A condizione, beninteso, di impedire alle classi lavoratrici europee di lasciarsi influenzare dall’esempio russo.
Di qui discende l’«iniziale indulgenza» (Garin 1966, p. 282 e cfr. pp. 275-87) di Croce verso il fascismo; e anche il colore di fondo del suo posteriore «antifascismo di tipo conservatore», che fu critico del fascismo «in quanto sfuggito, a un certo punto, al controllo di chi aveva voluto farsene strumento contro le forze popolari in ascesa» (E. Garin, La cultura italiana tra ’800 e ’900, 1962, pp. 22-23). Così, nella postilla Liberalismo, pubblicata nella «Critica» del 20 marzo 1925, Croce giudica non «vano o malvagio lo sforzo dell’autoritarismo o reazionarismo, che interviene in certi momenti a salvare la società mercé le dittature e le restrizioni della libertà» («La Critica», 1925, 23, p. 126). Mentre, a fronte di ciò, «lo sforzo del socialismo» è elogiato in quanto «gli ideali che esso persegue si sono attuati e si vengono attuando, se anche non proprio secondo gli schemi escogitati dai suoi teorici e utopisti» (p. 126): vale a dire, nella misura in cui esso va a ‘morire’, confluendo nel mondo liberale.
A questa altezza il pericolo bolscevico in Italia e in Europa appariva sventato, e per Croce si trattava (in Italia) di contenere il fascismo: un compito che rivelò ben presto le sue difficoltà (il manifesto antifascista è del 1° maggio). A partire da questo momento, le tappe scandite dalla Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), da Antistoricismo (1930), dalla Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932) e infine dalla Storia come pensiero e come azione (1938), segnano il trasferimento e progressivo approfondimento della diagnosi di ‘malattia’ dalla Russia bolscevica all’Europa. Le radici della malattia, scrive Croce nella Storia d’Italia (1928, p. 250) sono già nell’Europa del 19° sec., e la presenza di «regimi antiliberali» (Antistoricismo, «La Critica», 1930, 28, p. 407) nel presente secolo ne dimostra il carattere endemico e attuale.
In questo quadro, segnato dal progressivo spostamento dei margini della malattia dall’‘Oriente’ arretrato all’‘Occidente’ civile, a partire dal 1930 si registra un ritorno di attenzione sul comunismo. Se ancora nel 1928 Croce aveva evocato il «pericolo asiatico, che rovescerà sulla piccola Europa onde travolgenti di popoli turanici, eccitate e dirette dal bolscevismo», solamente come «immaginazioni proiettate nell’avvenire, a cui si conferisce la realtà di forze prepotenti» (Pessimismo sociale, «La Critica», 1928, 26, pp. 311-12), in Antistoricismo la riflessione è più complessa, perché la crisi è ora generalizzata:
Più o meno presso ogni popolo di Europa, nelle varie sfere della vita intellettuale ed artistica, morale e politica, si nota oggi una sorta di decadenza del sentimento storico, quando non addirittura uno spiccato atteggiamento antistorico (Antistoricismo, cit., p. 401).
Questo antistoricismo si manifesta in due forme distinte: quella ‘futuristica’ degli irrazionalisti e quella razionalistica astratta dei ‘classicisti’, protese verso un futuro e un passato staccati entrambi dalla storia concreta. Le conformazioni assunte da queste due forme sono «l’imperialismo e nazionalismo, il socialismo marxistico, lo statalismo che si decora del nome di “etico”, la ripresa cattolica e clericale, e via enumerando» (p. 406).
Croce allude principalmente a comunismo sovietico e fascismo italiano, a cui i suoi ascoltatori al Congresso di Oxford agevolmente aggiunsero l’industrialismo americano (cfr. B. Blanshard, The seventh international Congress of philosophy, «The Journal of philosophy», 1930, 22, p. 592). Tutte queste forme, rimarca Croce, non contengono alcunché di nuovo, non essendo altro che «impoverimento mentale, debolezza morale, eretismo, disperazione, nevrosi, e, insomma, un’infermità, da superare con la pazienza e con la costanza, come tutte le infermità» (Antistoricismo, cit., p. 407).
Il comunismo condivide con altre forme di antiliberalismo una concezione non dialettica della realtà e della storia, in quanto fissa astrattamente un suo singolo elemento a matrice che domina assolutamente su tutti gli altri. La ‘vita’ viene da esso violentata in nome di un ideale trascendente. Questo ideale è per il comunismo «la concezione della economia come fondamento e matrice di tutte le altre forme della vita» (B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, 1991, p. 51). Qui Croce parla del concetto di comunismo, come emerge – a suo avviso – nettamente dal pensiero di Marx. Da tale concetto discende che «una società, configurata secondo quel concetto materialistico, non potrebbe esser mai altro che meccanismo», «un esercito […] o una ciurma di schiavi, ancorché ben nutriti e bene addestrati» (p. 52). Ma poi, nell’Epilogo della stessa opera, precisa che «il comunismo, che si suol dire essere oramai disceso nei fatti e attuatosi in Russia, non si è punto attuato in quanto comunismo, ma […] come una forma di autocratismo» (p. 433). Mentre
fuori della Russia, quello pseudocomunismo […] non si è finora esteso o è stato soppresso appena si è affacciato, e, in verità, nell’Europa occidentale e media mancano le due condizioni che erano nella Russia: la tradizione czaristica e il misticismo (Storia d’Europa, cit., pp. 432-33).
La contraddizione è solo apparente, dato che la riduzione della società a una ciurma di schiavi è solamente il prodotto della «teoria» e della «logica» del comunismo, il quale però, «fin quando non giunge alla pienezza del suo rifabbricare che è un demolire la vita umana, e non si fa dittatura continuata e tirannia», ma al contrario, «coi suoi miti, pur anima di un qualsiasi ideale politico classi sociali estranee alla politica e le sveglia e le disciplina e ne inizia una sorta di educazione, dimostra anch’esso le sue virtù» (p. 53): che è, a ben vedere, la ripresa in nuovi termini e condizioni della tesi della ‘morte’ del socialismo. Così, il comunismo come concetto e il comunismo sovietico si distinguono, perché il secondo irrigidisce (in quanto ‘orientale’) quelle determinazioni che il primo assume flessibilmente, disponendosi a venire a patti con la civiltà occidentale. Per cui il comunismo sovietico, paradossalmente, non è comunismo precisamente perché corrisponde esattamente al suo concetto; mentre il vero comunismo è quello che, morendo, riesce a farsi ‘storia’ trasfigurandosi nel liberalismo.
In questo modo Croce è riuscito a tenere insieme l’esigenza di assorbire le rivendicazioni delle classi popolari sotto l’egemonia liberale e il ruolo di protezione dall’espansione del bolscevismo, svolto dal fascismo italiano. Se è vero che il comunismo sovietico entra, a pieno titolo, nella grande categoria di ‘antistoricismo’, è altrettanto vero che la sua peculiare rigidità ‘orientale’ garantisce all’Europa una salvaguardia dalle sue conseguenze estreme. Fino a quando, nel 1935, Croce dovrà riconoscere:
Non è da negare che una voragine si sia aperta tra il passato e il presente, e un nuovo giacobinismo […] tutto piantato sull’astratta economia e sull’astratta forza politica, si osservi da per ogni dove, che pretende costruire nuove società umane col calcolo e con la tecnica e sostituire all’uomo complicato, ossia civile, l’uomo semplificato, all’uomo storico l’uomo tratto fuori della storia o, piuttosto, l’animale addestrato (Gli studi storici nella varietà delle loro forme e i loro doveri presenti, «La Critica», 1935, 33, p. 8, corsivo mio).
Ma appunto, nel frattempo c’era stata la novità dell’hitlerismo.
Si è visto sopra come nei Quaderni del carcere la nozione crociana di ‘politica’, e quindi di ‘ragione’ e di ‘storia’, vengano nettamente criticate. Ciò è possibile grazie alla conquista, come Gramsci afferma, del «concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica», che invece nel 1917 era ancora malinteso da lui, in quanto era «tendenzialmente piuttosto crociano» (Quaderni del carcere, cit., p. 1233). È questa conquista ciò che gli rende possibile una rilettura dell’intera produzione di Croce alla luce della politica, cioè della funzione pratica del suo intervento culturale.
Questa funzione pratica ha al suo centro quella «vera riforma intellettuale e morale» (p. 852) da Croce realizzata nell’Italia del primo quindicennio del secolo, quando egli seppe rinnovare profondamente la cultura e legare l’Italia all’Europa. Di tale riforma vanno anzitutto scandite le tappe, in particolare la svolta marcata dalla guerra:
Elaborazione della teoria della storia etico-politica. [...] Ma il più significativo della biografia scientifica del Croce è che egli continua a considerarsi il leader intellettuale dei revisionisti e la sua ulteriore elaborazione della teoria storiografica è condotta con questa preoccupazione: egli vuole giungere alla liquidazione del materialismo storico ma vuole che questo svolgimento avvenga in modo da identificarsi con un movimento culturale europeo. L’affermazione, fatta durante la guerra, che la guerra stessa può dirsi la “guerra del materialismo storico”; gli sviluppi storici e culturali nell’Europa orientale dal 1917 in poi: questi due elementi determinano il Croce a svolgere con maggior precisione la sua teoria storiografica che dovrebbe liquidare ogni forma, anche attenuata, di filosofia della praxis (pp. 1214-15).
La guerra, con l’emergere della logica della potenza, e la rivoluzione, con l’affacciarsi dell’ambizione egemonica della classe operaia, sono i due grandi punti di riferimento della storia etico-politica, del rinnovato intervento liberale. Gramsci riconosce chiaramente il nesso – più volte messo in luce nelle pagine precedenti – tra l’atteggiamento di Croce verso il socialismo/comunismo e l’idea di Europa, che per lui è identica alla civiltà. Nel momento in cui il filosofo italiano percepisce la necessità di rinsaldare un mondo che inizia a sfaldarsi, quella funzione di ‘riforma intellettuale e morale’ da lui svolta mostra i propri limiti, in quanto si sposta in posizione dominante un elemento in essa già presente, ma inizialmente occultato dalla sua spinta progressiva. Questo elemento è ciò che Gramsci chiama ‘revisionismo’, dando al termine un’accezione assai ampia: a comprendere tanto la critica crociana del marxismo, che nel dopoguerra si approfondisce fino a diventare una liquidazione di «ogni [sua] forma, anche attenuata»; quanto la capacità di assorbire le classi dominate entro le coordinate del mondo borghese, mediante una costante opera di attrazione dei loro potenziali intellettuali e il loro trasferimento su un piano di riferimenti culturali slegati dal ‘popolo nazione’. Negazione del marxismo in quanto filosofia e forma di sapere tout court, e negazione della capacità delle classi subalterne di organizzarsi in modo autonomo, sono due elementi concomitanti della stessa strategia.
Per questa ragione, quando nel 1932 esce la Storia d’Europa (di cui può leggere solamente i primi tre capitoli; cfr. F. Frosini, I Quaderni tra Mussolini e Croce, «Critica marxista», 2012, 4, p. 65), l’angolo prospettico dal quale Gramsci la legge è quella di un approfondimento del ‘revisionismo’, non dell’antifascismo dell’autore. La Storia d’Europa, egli afferma, «è un trattato di rivoluzioni passive» (Quaderni del carcere, cit., p. 1088): essa mostra come il giacobinismo sia stato assorbito e metabolizzato dal liberalismo. Che valore può avere questa presentazione nel mondo attuale? Il fascismo, nota Gramsci, si presenta in effetti come quella posizione che intende salvare il vecchio mondo assorbendo le novità proposte dalle classi popolari, dal nuovo giacobinismo. Esso è «la forma di “rivoluzione passiva” propria del secolo XX» (p. 1089). La Storia d’Europa potrebbe pertanto funzionare da ‘modello’ per i possibili sviluppi del fascismo.
Riflettendo sulle reazioni fasciste suscitate dalla Storia d’Europa – in cui si mettono in luce i rischi ai quali si va incontro, se si critica l’ordine e la gerarchia in nome della libertà – Gramsci osserva:
Ma bisognerebbe vedere se proprio questo il Croce non si proponga, per ottenere un’attività riformistica dall’alto, che attenui le antitesi e le concilii in una nuova legalità ottenuta “trasformisticamente” (Quaderni del carcere, cit., p. 1261).
In questo modo Croce contribuirebbe «a un rafforzamento del fascismo, fornendogli indirettamente una giustificazione mentale dopo aver contribuito a depurarlo di alcune caratteristiche secondarie» (p. 1228), e farebbe così da «tramite fra la stabilizzazione del capitalismo, a cui la socialdemocrazia tendeva in Europa fin dal dopoguerra, e quella operata in Italia dal fascismo» (Rossi, Vacca 2007, p. 53). Questo giudizio trova un punto di arrivo nella lettera del 6 giugno 1932 a Tatiana Schucht:
Collocata in una prospettiva storica, della storia italiana, naturalmente, l’operosità del Croce appare come la più potente macchina per “conformare” le forze nuove ai suoi interessi vitali (non solo immediati, ma anche futuri) che il gruppo dominante oggi possieda e che io credo apprezzi giustamente, nonostante qualche superficiale apparenza (Lettere 1926-1935, cit., p. 1023).
Questa lettera fa parte di una serie di cinque missive, inviate tra il 18 aprile e il 6 giugno, tutte dedicate a Croce e alla Storia d’Europa. In esse il prigioniero sintetizzò i risultati ai quali era giunta la sua ricerca: scrivendole alla cognata, egli sapeva che esse sarebbero state trasmesse al capo del partito, Palmiro Togliatti. In questo giudizio su Croce va rintracciata pertanto una concreta indicazione strategica, la necessità di considerare l’antifascismo liberale in Italia come un elemento attivo, in una sorta di concordia discors, dentro il fascismo, proprio a causa della comune necessità di escludere – data la nuova situazione creata dall’esistenza dell’URSS – ogni possibilità di ripresa del comunismo e del marxismo. In sostanza, Gramsci sosteneva che Croce era il principale elemento di resistenza alla conquista, da parte dei comunisti, dell’egemonia in Italia, perché la funzione ‘revisionistica’ (nel senso sopra definito) che egli esercitava nell’Italia fascista, riusciva a immettere nel blocco di potere borghese le forze sociali nuove, suscitate dall’esperienza della guerra e dalle trasformazioni (sopratutto economiche) del dopoguerra. Strappare queste forze a quel potere di attrazione era un compito essenziale, da assolvere contestualmente a qualsiasi ipotesi di lotta contro il regime.
È significativo il fatto che immediatamente dopo la morte di Gramsci proprio queste cinque lettere venissero pubblicate nella rivista teorica del PCI con il titolo redazionale Benedetto Croce giudicato da Antonio Gramsci («Lo Stato operaio», 1937, 11, 5-6, pp. 290-97), e che la tesi in esse contenuta trovasse poi registrazione in un articolo (L’eredità letteraria di Antonio Gramsci) pubblicato da Togliatti il 30 aprile 1944 ne «l’Unità» (P. Togliatti, Scritti su Gramsci, a cura di G. Liguori, 2001, p. 95). Ma a questa altezza siamo già in una fase differente: posteriore all’avvento del nazismo e, infine, anche alla sua caduta e alla fine del fascismo in Italia. Le tesi contenute nei Quaderni di Gramsci furono elaborate prima di tutto ciò, e spettò ad altri adattarle e cambiarle per renderle efficaci nella nuova fase.
Rimane il fatto che, come si è visto sopra, dopo il 1943 e il 1945 non cambiò l’attitudine di Croce verso il comunismo, la necessità dell’alternativa tra la ‘morte’ e la non cittadinanza. Ciò si registra anche nella reazione a ciò che di Gramsci si venne pubblicando dopo il 1945. Dinanzi alle Lettere dal carcere Croce tentò la prima strada, passando sotto silenzio le missive della primavera del 1932, e leggendo tutto il libro alla luce di quella del 17 agosto 1931 ricordata all’inizio di questo scritto:
Come uomo di pensiero – commentò – egli fu dei nostri, di quelli che nei primi decennii del secolo in Italia attesero a formarsi una mente filosofica e storica adeguata ai problemi del presente, tra i quali anch’io mi trovai come anziano verso i più giovani («Quaderni della “Critica”», 1947, 3, 8, p. 86).
Tuttavia, questa dichiarazione di annessione di Gramsci al liberalismo dovette essere smentita con l’uscita di Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948). Qui Croce si vide costretto a riconoscere che anche il pensiero di Gramsci era ormai compromesso da quello che ai suoi occhi appariva come un «ostacolo di origine politica e di partito» («Quaderni della “Critica”», 1948, 4, 10, p. 79), cioè il marxismo.
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