grandi e popolo
Il pensiero politico di M. è percorso da una visione dicotomica della società. Molteplici sono i luoghi, sia del Principe sia dei Discorsi, in cui egli ricorda, in varie formulazioni, che in ogni Stato si trovano «due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi» (Discorsi I iv 5). Tale partizione della compagine sociale non dipende, per M., da processi storici determinati; piuttosto è un aspetto costitutivo, un momento strutturale di ogni società, quale che sia la sua latitudine o epoca. Non mancano tuttavia le eccezioni: i regni del «Turco» e del «Soldano» si presentano agli occhi di M. come un’indistinta massa di sudditi entro una società senza alcuna articolazione interna, mentre Roma, durante la sua fase imperiale, vide emergere un terzo protagonista, l’esercito, capace di svolgere un ruolo di condizionamento della vita pubblica addirittura di maggior rilievo rispetto agli «umori» dei grandi e del popolo.
Proprio perché prescinde dalla storia, la partizione in g. e p. ha un carattere estremamente indeterminato e generico. In forza di ciò, essa omologa sotto di sé una fenomenologia politica assai varia e diversificata. Quest’operazione riesce in quanto le due categorie hanno un contenuto naturalistico che consente loro di attraversare, inattaccabili, il tempo storico, e tale contenuto è costituito dalla passione dominante che muove grandi e popolo. Precisamente, g. e p. si caratterizzano per il desiderio di dominare dei primi e per l’assenza di questa passione nei secondi. Ne risulta che, secondo M., g. e p. non possono che intrattenere un rapporto conflittuale, almeno allo stato latente: il desiderio di dominio dei grandi si traduce in oppressione del popolo, mentre la mancanza di volontà di dominio del popolo non dà luogo a passiva sottomissione, ma esplica un’attività di resistenza alle brame dei grandi. Va tuttavia precisato che M., nel corso delle sue analisi, si mostra consapevole dei rischi insiti in una partizione tutta risolta nella dimensione naturalistica, le cui maglie larghe potrebbero lasciar sfuggire parte della variegata e molteplice dinamica del reale. Così, nei fatti, egli è poi ben attento a non sovrapporre sotto l’uniformità del mantello della generica categoria di grandi, per es., realtà storiche non assimilabili con profitto teorico, quali quelle del patriziato romano, della nobiltà feudale medievale o dell’oligarchia mercantile veneziana.
Il rapporto tra g. e p. è esaminato da M. da una duplice prospettiva, repubblicana e monarchica. Rispetto alla forma di governo repubblicana, egli è interessato a evidenziare il ruolo del conflitto fra g. e p. nel mantenimento delle istituzioni del «vivere libero»; invece, nei riguardi della monarchia, o principato – per usare la formula che egli di gran lunga predilige per designare la forma di potere monocratica –, la sua attenzione si concentra sul rapporto che il sovrano deve intrattenere con i «due umori», volendo conservare il potere. Si potrebbe dire che la dialettica tra g. e p. viene considerata dal basso e dall’alto. Dal basso, in riferimento alla repubblica, per il riverbero che la dinamica sociale ha sul piano delle istituzioni; dall’alto, per il principato, in quanto sono le esigenze del potere la lente attraverso cui le forze sociali vengono considerate. La seconda prospettiva appare dominante nel Principe, mentre la prima prevale di gran lunga nei Discorsi. Occorre aggiungere che la seconda è ben lungi dall’essere assente dal commento liviano, nel quale molti sono i luoghi che affrontano questioni attinenti al potere regio.
Considerata dal punto di vista del principe, la presenza di g. e p. in ogni compagine politica si risolve interamente nella questione del consenso. Tranne il tiranno il quale, con arbitrio e licenza, governa contro tutto e tutti, nessun principe può ragionevolmente pensare di fare a meno del consenso dei suoi sudditi. Si pone però una questione: di chi, in pratica, il principe dovrà ottenere il consenso? Di entrambi gli «umori»? O dovrà fare un’opzione, orientandosi sull’uno piuttosto che sull’altro? La questione non riceve una risposta univoca da Machiavelli. Le scelte del principe, infatti, dipendono dal contesto in cui si trova ad agire. Un conto è, per es., essere principe di una monarchia ereditaria da lungo tempo consolidata in cui, grazie soprattutto a un articolato ed efficiente apparato istituzionale, i sudditi sono usi a obbedire; altro è, invece, essere un principe nuovo, da poco asceso al potere, in forza magari proprio del sostegno di uno dei «due umori» in una situazione di incomponibile conflittualità sociale. Quelli indicati sono, peraltro, proprio i casi su cui M. maggiormente indugia. Si parta allora dalla seconda alternativa. L’analisi del profilo teorico di questo caso è svolta da M. in Principe ix, un capitolo a lungo sottovalutato, la cui centralità nell’economia del trattato è stata evidenziata solo a partire dal lavoro interpretativo di Gennaro Sasso (1966). L’oggetto del cap. ix è costituito dalla posizione in cui si vengono a trovare quei principi che sono giunti al potere «con il favore delli altri sua cittadini» (§ 1) e che M. definisce «civili». Qui la questione del consenso si pone in termini radicali, situandosi nel momento fondativo del potere autocratico. M. precisa: «si ascende a questo principato o con il favore del populo o con quello de’ grandi». E ciò perché la via a tale principato si apre solo in presenza di un conflitto che non può essere ulteriormente mediato dalle preesistenti istituzioni – che si suppongono repubblicane – tra le divergenti passioni dei «dua umori»: la passione dei grandi, che «desiderano comandare e opprimere el populo», e quella del popolo, che «desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi» (§ 2). Quanto allora accade è che
vedendo e’ grandi non potere resistere al populo, cominciano a voltare la reputazione a uno di loro e fannolo principe per potere sotto la sua ombra sfogare il loro appetito; il populo ancora, vedendo non potere resistere a’ grandi, volta la reputazione a uno e lo fa principe per essere con la sua autorità difeso (§ 3).
Si comprende come il principe nuovo «civile» debba in parte il suo potere all’essersi reso disponibile al ruolo di emissario di interessi altrui. Di qui derivano la precarietà e la scarsa autonomia della sua posizione, alla quale deve cercare di porre rimedio. Tuttavia – ed è questo il nodo centrale del discorso machiavelliano – la posizione del principe «civile» non è indifferente rispetto all’«umore» che lo ha sollevato al potere. Assai più precaria e a rischio è la condizione del principe favorito dai grandi rispetto a quello sostenuto dal popolo:
Colui che viene al principato con lo aiuto de’ grandi, si mantiene con più difficultà che quello che diventa con lo aiuto del populo, perché si truova principe con di molti intorno che gli paiono essere sua equali, e per questo non gli può né comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favore populare, vi si truova solo e ha d’intorno o nessuno o pochissimi, che non sieno parati a ubbidire (§§ 4-5).
Netta è, dunque, la sproporzione tra la situazione del principe «civile» nobiliare e quella del principe «civile» popolare: la posizione del secondo appare assai più solida di quella del primo. Infatti, per mantenere il consenso del popolo – e quindi dare adeguate «barbe e correspondenzie» al suo potere – il principe «civile» popolare non dovrà provvedere ad altro che i «cittadini, sempre e in ogni qualità di tempo, abbino bisogno dello stato e di lui» (§ 27). Diversamente, il principe nobiliare non potrà mai ritenersi veramente al riparo dalle insidie che i grandi gli possono portare, data la loro connaturata ambizione e intelligenza politica. Questo non vuol tuttavia dire che M. ritenga la sua sorte segnata in partenza. A lui si offre, comunque, una via di uscita che, se percorsa per tempo, gli potrà risparmiare una fine politica anticipata. Quello che dovrà fare sarà sbarazzarsi quanto prima del favore dei grandi per sostituirlo con il sostegno del popolo. Come M. spiega, si tratta di una strada meno impervia da percorrere di quanto potrebbe apparire:
Il che gli fia facile, quando pigli la protezione sua [del popolo]. E perché li uomini, quando hanno bene da chi credevano aver male, si obligano più al beneficatore loro, diventa el populo subito più suo benivolo che s’e’ si fussi condotto al principato con e’ favori sua (§§ 15-16).
Le indicazioni contenute in Principe ix si trovano ripetute, con l’ausilio dell’esemplificazione storica, in due capitoli dei Discorsi. Si tratta dei capp. xvi e xl del libro I. Discorsi I xvi tesse l’elogio di Clearco, tiranno di Eraclea, per avere compreso l’urgenza di «liberarsi dal fastidio de’ grandi», da cui pure era stato sollevato al potere, e di «guadagnarsi il popolo» (§ 20), e per avere quindi, appena ne ebbe «conveniente occasione», fatto tagliare «a pezzi tutti gli ottimati, con una estrema soddisfazione de’ popolari» (§ 21). Proprio per non essersi conformato all’esempio di Clearco, il cap. xl sottopone invece a severa critica la condotta di Appio Claudio (→), figura di spicco del decemvirato, il cui grave errore fu rinunciare al consenso del popolo – che aveva favorito la sua ascesa – per sostituirlo con quello dei grandi. Così,
per tenere la tirannide e’ si fece inimico di coloro che gliele avevano data e che gliele potevano mantenere, e amico di quelli che non erano concorsi a dargliene, e che non gliene arebbono potuta mantenere; e perdessi coloro che gli erano amici, e cercò di avere amici quegli che non gli potevano essere amici (§ 34).
Appare dunque univoca, senza che si registri discordanza tra Principe e Discorsi, la linea di condotta che M. suggerisce al principe appena sollevato al potere da uno qualunque dei due «umori», entro un quadro di forti tensioni: è solo sul popolo, e non sui grandi, che egli può fondare il suo potere. Ora, non v’è dubbio che la diffidenza e l’avversione nei confronti dei grandi si ritrovino anche nell’analisi del caso di un regno da lungo tempo «stabilito e fermo». Si deve tuttavia sapere che le indicazioni che si possono leggere nella pagina machiavelliana, allorché l’esame si sposta sui regni consolidati, non sono però del tutto sovrapponibili con quelle riguardanti il principe nuovo. E ciò in quanto il presupposto, anche se mai apertamente esplicitato, da cui M. muove è che g. e p. siano componenti strutturali e permanenti del corpo sociale. Vero è che il principe, all’occorrenza, può e deve sbarazzarsi di questo o quel signore, vero è che, alla bisogna, non deve esitare a eliminare quelli che si siano palesati suoi nemici, ma ciò non vuol dire che M. pensi alla loro eliminazione come classe sociale. Naturalmente, da questo non consegue che il principe debba poi rapportarsi nel medesimo modo a entrambi gli «umori». Ma sarà opportuno riportare un passo relativo al regno di Francia che illustra il pensiero di M. sul punto:
E gli stati bene ordinati ed e’ principi savi hanno con ogni diligenzia pensato di non disperare e’ grandi e di satisfare al populo e tenerlo contento, perché questa è una delle più importanti materie che abbia uno principe. In tra e’ regni bene ordinati e governati a’ tempi nostri è quello di Francia, e in esso si truovono infinite costituzioni buone, donde depende la libertà e sicurtà del re; delle quali la prima è il parlamento e la sua autorità. Perché quello che ordinò quello regno, conoscendo l’ambizione de’ potenti e la insolenzia loro, e iudicando essere loro necessario uno freno in bocca che gli correggessi, – e da l’altra parte conoscendo l’odio dello universale contro a’ grandi fondato in su la paura, e volendo assicurargli, – non volle che questa fussi particulare cura del re, per torgli quello carico che potessi avere co’ grandi favorendo e’ populari, e co’ populari favorendo e’ grandi; e però constituì uno iudice terzo che fussi quello che sanza carico del re battessi e’ grandi e favorissi e’ minori: né poté essere questo ordine migliore né più prudente, né che sia maggiore cagione della securtà del re e del regno. [...] E di nuovo concludo che uno principe debbe stimare e’ grandi, ma non si fare odiare dal populo (Principe xix 19-24).
È evidente che, scrivendo prima che non si devono «disperare» e poi, addirittura, che si devono «stimare», M. ritenga che un sovrano debba necessariamente tener conto della presenza sociale dei grandi, anche se questo non significa che essi abbiano per lui la medesima affidabilità politica del popolo, che rimane sempre la sua primaria fonte di consenso.
Una conferma inaspettata di quanto appena detto si trova in un passo proprio di quel cap. ix del Principe dedicato, come s’è visto, al principe nuovo, nel quale, spingendo lo sguardo oltre il momento della presa del potere, M. sviluppa un ragionamento sulla condotta che il principe deve osservare nel lungo termine:
E per chiarire meglio questa parte, dico com’e’ grandi si debbono considerare in dua modi principalmente: o si governono in modo col procedere loro che si obligano in tutto alla tua fortuna, o no. Quegli che si obligano, e non sieno rapaci, si debbono onorare e amare (§ 10-11).
Prima di abbandonare il principato e venire alla dialettica tra g. e p. in ambito repubblicano, si devono ancora considerare tre casi affrontati da M., che costituiscono eccezioni rispetto all’una e all’altra delle tipologie appena esaminate. Dei tre casi, uno si caratterizza per il fatto di suggerire al principe una linea di condotta in controtendenza con quanto finora visto; gli altri, invece, per un numero di «umori» diverso dai due che M. aveva dichiarato che «in ogni città si truovono».
Il primo è illustrato in Discorsi I lv. Qui, dopo aver stabilito uno stretto nesso tra struttura sociale e forme di governo, M. afferma l’idoneità della monarchia alle sole società «inequali», ovvero a quelle caratterizzate dalla presenza dei «gentiluomini», che «oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente» e che, «oltre alle predette fortune comandano a castella, e hanno sudditi che ubbidiscono a loro» (§§ 18-19). Da queste parole si capisce che egli ritenga l’esistenza di un ceto di signori feudali, che di fatto e di diritto esercita sui propri domini un potere sovrano, incompatibile con un ordinamento istituzionale repubblicano, poiché «tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d’ogni civiltà» (§ 21). Pertanto, chi volesse istituire una repubblica, in presenza di «inequalità», dovrebbe anzitutto eliminare i «gentiluomini», per creare una condizione sociale di «equalità» (→) in forza della quale l’imperio della legge – il tratto distintivo dei regimi del «vivere libero» – unicamente si rende possibile. In modo del tutto analogo dovrà procedere anche il fondatore di una monarchia. Solo che, spiega M., la sua azione non dovrà dirigersi control’«inequalità». È infatti l’«equalità» quella che dovrà rimuovere per sostituirla con l’«inequalità», in quanto è la presenza dei «gentiluomini» a determinare l’assetto sociale adeguato a «farvi uno regno». Fatto però dei «gentiluomini» il requisito sociale del regime monarchico, era naturale che M. dovesse deflettere dalla linea filopopolare che aveva seguito in altre occasioni. E, in effetti, per M. il principe non dovrà cercare il consenso del popolo, ma proprio invece di quella nobiltà feudale che ha tratto dall’«equalità», per realizzare un sistema di potere in cui i sudditi siano tenuti in uno stato di permanente soggezione. Egli dovrà, quindi, fare corpo unico con i «gentiluomini» affinché
mediante quegli mantenga la sua potenza ed essi mediante quello la loro ambizione, e gli altri siano constretti a sopportare quel giogo che la forza, e non altro mai, può fare sopportare loro. Ed essendo per questa via proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi gli uomini ciascuno negli ordini loro (§§ 27-28).
I capp. iv e xix del Principe contengono invece, rispettivamente, un caso di dialettica sociale semplificata e uno, per dir così, di dialettica complicata. Per il regno del «Turco», di cui si discute nel cap. iv, non si può parlare di una vera e propria articolazione sociale, in quanto il potere ha di fronte a sé un’unica massa compatta e indistinta di sudditi. Mancano qui i grandi, poiché i sovrani di quel regno hanno fatto in modo di governare le loro province attraverso un corpo di ministri e funzionari alle dipendenze dello Stato. E sempre poi hanno badato a che alcuno di essi non usasse la sua posizione per acquistare una qualche forma di potere personale sui sudditi che amministrava, spostandoli di continuo da una provincia all’altra. Per questo, conclude M, ai regni come quello del «Turco» non si possono applicare gli usuali precetti che valgono per i principati sia di antica sia di nuova formazione.
Il cap. xix contiene, invece, una lunga digressione sugli imperatori romani da Marco Aurelio a Massimino, volta a sottolineare il ruolo pubblico di un terzo attore (oltre ai consueti g. e p.):
Ed è prima da notare che, dove nelli altri principati si ha solo a contendere con la ambizione de’ grandi e insolenzia de’ populi, gl’imperadori romani avevano una terza difficultà, di avere a sopportare la crudeltà e avarizia de’ soldati (§ 28).
È interessante notare come M., nel corso della sua analisi, attenui progressivamente il peso dei grandi nella dialettica sociale fino a renderlo trascurabile. Così, a dettare l’agenda politica rimangono nuovamente due soli attori: il popolo e l’esercito che ha sostituito i grandi. E l’indicazione che M. avanza per questo caso ricalca quella di Discorsi I iv riguardo le società «inequali». Non al popolo dovrà fare riferimento il principe, bensì ai soldati, in nome della regola per la quale
non potendo e’ principi mancare di non essere odiati da qualcuno […] debbono fuggire con ogni industria l’odio di quelle università che sono più potenti. E però quelli imperadori che per novità avevano bisogno di favori estraordinari, si aderivano a’ soldati più tosto che a’ populi (§§ 32-33).
La riflessione che M. svolge sugli «umori» nell’ordinamento repubblicano è interamente consegnata ai Discorsi. Le premesse dell’approccio machiavelliano rimangono, nella sostanza, invariate rispetto al principato: 1) ogni compagine politico-sociale è divisa in g. e p.; 2) g. e p. intrattengono un rapporto conflittuale; 3) l’insidia maggiore alle istituzioni politiche viene principalmente dalla smodata ambizione dei grandi. Ma se queste premesse servivano nel caso del principato per analizzare forme e modi del consenso che il monarca poteva ottenere dalle parti sociali, esse, allorché si viene alla repubblica, diventano la base di un discorso del tutto differente. Quello che, per la repubblica, a M. interessa mostrare è l’effetto del conflitto fra g. e p. sulla dinamica politico-istituzionale. La sua tesi è che le lotte sociali non sono causa d’instabilità e anarchia, ma degli ordinamenti e delle leggi su cui poggia e si regge la stessa libertà repubblicana. Gli interpreti hanno sottolineato ripetutamente il carattere rivoluzionario di questa impostazione. E della rottura teorica che stava operando, abbracciando questa posizione, M. era il primo a essere consapevole; egli si rendeva ben conto di essersi messo «per una via» che non era «suta ancora da alcuno trita», la quale, quand’anche egli non fosse riuscito a percorrere fino in fondo, avrebbe nondimeno dovuto costituire il sentiero obbligato su cui si sarebbero dovuti incamminare quanti fossero venuti dopo di lui.
In Discorsi I iv M. propone la formulazione più netta e precisa della sua posizione. Dopo avere respinto «la opinione di molti» per cui Roma era stata «una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione» che se non fosse stato per «la buona fortuna e la virtù militare» (§ 2) non sarebbe durata a lungo, dichiara con una certa enfasi:
Io dico che coloro che dannano i tumulti intra i nobili e la plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori e alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano (§ 5).
Non era possibile definire Roma «una republica inordinata», quando tutta la sua storia repubblicana era costellata di «tanti esempli di virtù», di «buona educazione» e di «buone leggi». Se così era stato, lo si doveva, per M., proprio a «quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano». Perché essi, in verità, non partorirono mai «alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà» (§ 7).
E, tuttavia, quando si segua nel dettaglio l’intera argomentazione machiavelliana, emerge più d’un motivo che autorizza a chiedersi se il Segretario fiorentino sia poi riuscito a dare una fondazione teorica alla sua tesi; o, quantomeno, a chiedersi in quali termini ed entro quali limiti vi sia effettivamente riuscito. In effetti, all’inequivoca dichiarazione programmatica sulla bontà politica dei conflitti sociali sopra riportata, M. non riesce a dare uno svolgimento parimenti limpido, coerente e lineare. Così, al dunque, la tesi rivoluzionaria di cui si era assunto il patrocinio gli si rivelerà assai più complicata da maneggiare di quanto avesse immaginato.
La questione viene introdotta in Discorsi I ii, all’interno della discussione sui modi di fondazione di una repubblica a costituzione mista. Per M. non vi sono che due modi in cui tale fondazione possa avvenire:
per l’azione di «uno solo […] e ad un tratto» o per il tramite del «caso e in più volte e secondo li accidenti» (§ 3). Sparta rappresenta un caso del primo modo, in quanto essa ebbe la buona ventura di imbattersi in Licurgo che «ad un tratto» «ordinò in modo le sue leggi […] che […] fece uno stato che durò più che ottocento anni, con somma laude sua e quiete di quella città» (§ 28). Roma, invece, esemplifica il secondo modo, poiché «non ostante che non avesse uno Licurgo […] nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la plebe e il senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore lo fece il caso» (§ 30). Parlando di «caso», M. intende dire che la costituzione mista di Roma fu il prodotto finale di un processo inintenzionale, non deliberatamente voluto da alcuno. Ora, l’azione del «caso» non consistette in altro che nella «disunione che era intra la plebe e il senato». Furono pertanto le lotte fra g. e p. che consentirono infine anche a Roma di arrivare a quella costituzione mista che Sparta invece ricevette «ad un tratto» da Licurgo.
Come si vede, è la fase costituente della repubblica romana quella in cui M. ha inizialmente scorto il positivo dispiegarsi del conflitto sociale. Una più ravvicinata lettura del cap. ii, associato al cap. iii, fornisce conferma di ciò. Nel cap. iii si viene informati che, alla cacciata dei Tarquini, poco mancò che l’aristocrazia senatoriale sfruttasse l’occasione per impossessarsi del potere e imporre alla compagine politica il proprio dominio assoluto. Si rischiò allora di passare da una tirannide, quella dei Tarquini, a un’altra, quella della nobiltà. E se non accadde fu unicamente per la violenta reazione della plebe, fu perché «si levò il popolo contro di quella». Messa quindi alle strette, alla nobiltà non restò allora altra via che «per non perdere il tutto […] concedere al popolo la sua parte» (Discorsi I ii 34), vale a dire il tribunato. L’istituzione del tribunato, che si aggiungeva ai preesistenti consolato e senato, portava a compimento l’architettura della costituzione mista di Roma, con la qual cosa, avendovi ormai «tutte le tre qualità di governo la parte sua» era «più stabilito lo stato di quella republica». Con ciò, Roma ormai poteva dirsi «una republica perfetta». Ma tale però non sarebbe diventata senza la «disunione della plebe e del senato» (§ 36).
Giunto a questo punto del suo ragionamento, quanto ci si aspetterebbe di vedere è un M. tutto impegnato a mostrare come la costituzione mista avesse reso inattuale il conflitto fra g. e p., dal momento che, disponendo ormai di un organo rappresentativo, ciascun «umore» poteva far valere le proprie ragioni nelle forme pacifiche della legalità. Non è però questa la strada che M. decide di battere. Egli, infatti, dichiara che le lotte tra g. e p. erano proseguite anche dopo l’introduzione della costituzione mista, continuando, non diversamente da prima, a promuovere la causa della libertà. Era però questa una tesi non facile da sostenere, dal momento che – e M. non se lo nascondeva – erano state proprio le lotte fra g. e p. che, assumendo «modi […] straordinarii e quasi efferati» (Discorsi I iv 8), avevano, a partire dall’epoca dei Gracchi, provocato la crisi della repubblica. Ciononostante, egli ritiene di potere ancora mantenere il suo assunto di partenza, secondo il quale i conflitti vanno considerati un fattore di libertà, grazie all’introduzione di un nuovo argomento: per quanto destabilizzanti, le lotte sociali sono una necessità inevitabile per quelle repubbliche che, volendo fare una politica di conquista, come Roma, «si vogliono valere del popolo». E, infatti, se non si desse al popolo modo di «sfogare l’ambizione sua», non si renderebbe poi disponibile, rischiando la vita, ad andare in guerra (§ 8).
Quest’argomento, introdotto nel capitolo iv di rincalzo a quello iniziale, finirà per occupare interamente i due capitoli successivi, il v e il vi. Ed esso eclisserà la tesi originaria di Machiavelli. Così, di qui in avanti, l’insopprimibile conflitto tra patrizi e plebei sarà considerato come il risvolto negativo, ma ineliminabile, di quelle repubbliche che, avendo propensioni egemoniche, hanno la necessità di inserire il popolo all’interno delle istituzioni per impiegarlo poi militarmente.
Nel cap. v, questa posizione viene proposta a partire dalla discussione intorno alla «guardia della libertà», un’istituzione che M. ritiene centrale negli equilibri costituzionali repubblicani per la preservazione della libertà. Il problema è quello di stabilire a quale «umore» vada affidata quest’istituzione, ai grandi o al popolo. Sebbene propenda per la soluzione popolare (§ 8), M. fa eco alla posizione dei fautori della tesi opposta, quando riconosce che è l’animo inquieto della plebe a essere «cagione d’infinite dissensioni e scandoli in una republica» (§ 9). Accadde infatti a Roma
che per avere i tribuni della plebe questa autorità nelle mani, non bastò loro avere un consolo plebeio, che gli vollono avere ambedue. Da questo ei vollono la censura, il pretore e tutti gli altri gradi dell’imperio della città; né bastò loro questo, che, menati dal medesimo furore, cominciarono poi col tempo a adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la nobiltà; donde nacque la potenza di Mario e la rovina di Roma (§§ 10-11).
Visto come le cose andarono a Roma, verrebbe da concludere che si dovrebbe fare di tutto per evitare che la «guardia della libertà» finisca nelle mani della turbolenta plebe. È proprio questa la direzione verso cui inclina il cap. v; sennonché M. precisa che vi è una circostanza in cui non solo si può, ma addirittura si deve assegnare proprio al popolo la «guardia della libertà», e questo è quando il valore perseguito da una repubblica non è la libertà, ma la conquista. Per chiarire il suo pensiero, M. adduce le opposte soluzioni offerte da Sparta e Venezia, da un lato, e da Roma, dall’altro. Sparta e Venezia, che non intendevano fare una politica di conquista, poterono pertanto affidare proficuamente la «guardia della libertà» ai grandi ed escludere il popolo da ogni ruolo nelle istituzioni cittadine. Con questa scelta, entrambe si assicurarono una vita interna tranquilla e poco travagliata, e perciò più lunga, per l’assenza di quei conflitti che sarebbero derivati dall’attivazione politica del popolo. Ma poiché Roma aveva come intento primario una politica estera ambiziosa, non le era possibile seguire la via spartana e veneziana. Avendo bisogno del suo apporto militare, dovette forzatamente conferire la «guardia della libertà» al popolo e accettare, di conseguenza, l’inevitabile prezzo che ciò comportava: una vita interna agitata da tumulti e «dissensioni» che ne accorciarono sensibilmente l’esistenza.
La conclusione raggiunta dal cap. v costituisce il punto di partenza del cap. vi, l’ultimo di quelli dedicati al tema delle lotte sociali. Sin dalle battute iniziali, risulta subito chiaro quale sia ormai l’argomento sul quale M. ha deciso di puntare per dare una fondazione teorica al conflitto tra g. e p.:
Noi abbiamo discorso di sopra gli effetti che facevano le controversie intra il popolo e il senato. Ora sendo quelle seguitate infino al tempo de’ Gracchi, dove furono cagione della rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli effetti grandi che la fece, sanza che in quella fussono tali inimicizie (§§ 2-3).
Come si vede, la prospettiva dalla quale M. guarda al conflitto sociale è completamente mutata. Alla giustificazione per avere consentito a Roma di conseguire «gli effetti grandi che la fece» corrisponde la loro netta condanna per avere provocato la fine della libertà repubblicana. Non è più la libertà, dunque, che può legittimare il conflitto, ma solo la conquista: se non fosse per il loro apporto alla conquista, bisognerebbe fare di tutto per bandire le lotte sociali, visto il loro effetto destabilizzante, dalla vita pubblica. Vero è che M., nell’ultimo capoverso del capitolo, revoca il certificato di esistenza storica al modello aconflittuale veneto-spartano, sostenendo l’effettualità del solo modello conflittuale romano, sulla base dell’argomento che soltanto quello Stato dotato di adeguate risorse militari può sperare di navigare con successo tra i marosi della politica. Ma quest’osservazione, tuttavia, non sposta in alcun modo il profilo che la questione ha nel frattempo assunto. Che M. indichi Roma come modello senza alternativa non è infatti dovuto alla sua capacità di coniugare insieme libertà e potenza militare. In Discorsi I vi il Segretario fiorentino non si mostra più interessato agli effetti dei conflitti sulla libertà poiché ha ormai maturato la convinzione che il loro valore sta altrove. Se così non fosse, non si leggerebbe, proprio verso la fine del capitolo, nello sforzo conclusivo di giustificare le lotte tra g. e p.: «quelle inimicizie che intra il popolo e il senato nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana grandezza» (§ 37).
A ripercorrere i capitoli che vanno dal ii al vi del libro I dei Discorsi appare evidente come M. abbia dato alla sua teorizzazione dei conflitti sociali una duplice fondazione, sulla base di argomenti che si escludevano a vicenda, essendo ciascuno valido per un diverso momento della vita repubblicana. E come, soprattutto, egli sia stato indotto alla seconda fondazione dalle difficoltà a mantenere la prima, che faceva delle lotte fra g. e p. un fattore di libertà, oltre il momento costituente. Si deve tuttavia aggiungere che egli non prese mai interamente coscienza di ciò. Nella sua mente, in effetti, le due fondazioni si sovrapposero e, non potendosi integrare, fecero alternativamente sentire la loro voce. Non altrimenti si possono spiegare le molte oscillazioni che si riscontrano nei luoghi dei Discorsi in cui M. ritorna sulla dialettica tra grandi e popolo. Così solamente si può comprendere come accanto a pagine in cui lo si trova impegnato a definire con rigore e precisione i termini entro cui le lotte possono operare a favore della libertà – come Discorsi I xvii, in cui si dice che «i tumulti e altri scandoli [...] non nuocono», se non laddove la «materia» sociale è «corrotta» (§ 13), o come Discorsi I xxxvii, in cui si afferma che solo quando la contesa fra gli «umori» trapassa dal piano degli «onori» a quello della «roba», essa manifesta tratti politicamente distruttivi – se ne trovino altre in cui dichiara che è il conflitto in quanto tale a possedere un potenziale eversivo sempre a rischio di attualizzazione, come è detto in Discorsi I xl, in cui solo per l’insipienza del già ricordato Appio Claudio si evitò che il «troppo desiderio del popolo d’essere libero» e il «troppo desiderio de’ nobili di comandare» (§ 27) provocassero la fine della repubblica o, come ancora si dice in Discorsi II xxv, dove si legge che Roma si salvò dalla «tanta disunione […] intra la plebe e la nobiltà» unicamente per l’effetto di coesione sociale che ebbe il sopravvenire della minaccia esterna portata dai Veienti. E c’è anche da chiedersi se M. avrebbe conservato la medesima impostazione alle Istorie fiorentine, qualora avesse avuto chiaro in mente lo spazio politico specifico in cui i tumulti giovano alla libertà.
Non avrebbe infatti avuto più senso interrogarsi sulle ragioni per cui a Roma i conflitti avevano giovato alla causa della libertà, mentre a Firenze erano stati propiziatori di sciagure, quando essi, passata la fase della fondazione dello Stato, erano stati anche nella repubblica antica non meno esiziali che in quella moderna.
Bibliografia: G. Sasso, Intorno a due capitoli dei Discorsi (1966), poi in Id., Studi su Machiavelli, Napoli 1967, pp. 111-59; G. Sasso, Principato civile e tirannide (1982-1983), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 351-490; G. Cadoni, Il Principe e il popolo, «La cultura», 1985, 23, pp. 124-202; P. Larivaille, Nifo, Machiavelli, principato civile, «Interpres», 1989, 9, pp. 150-95; G.G. Balestrieri, La posizione del capitolo IX del Principe nel pensiero di Machiavelli, «Teoria politica», 2008, 24, pp. 61-88; G.G. Balestrieri, Machiavelli e la doppia fondazione della dottrina dei conflitti sociali, «La cultura», 2010, 48, pp. 459-99.