GRAVITAZIONE
. La caduta dei corpi pesanti (gravi) sulla Terra rientra come caso particolare nel fatto generalissimo che due masse in presenza, poste comunque nello spazio, sono sollecitate mutuamente da una forza attrattiva, che è la cosiddetta gravitazione universale. L'espressione matematica di questa forza (proporzionale al prodotto delle masse e in ragione inversa al quadrato delle distanze) è stata dimostrata da I. Newton nella sua opera Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), stabilendo in modo preciso: 1. che codesta forza attrattiva è capace di spiegare il moto dei pianeti intorno al Sole e dei satelliti intorno ai pianeti, in particolare della Luna intorno alla Terra; 2. che la forza attrattiva per cui la Luna descrive la sua orbita (ellittica) intorno alla Terra è quella stessa che produce la caduta dei gravi sulla superficie della Terra. E così la teoria newtoniana della gravitazione universale è divenuta la base della dinamica planetaria, anzi addirittura della dinamica cosmica.
L'idea della gravitazione nell'antichità. - In un'epoca in cui non si poteva nemmeno porre il problema di una verifica quantitativa, la veduta qualitativa che la legge del peso debba rientrare in una legge più generale di attrazione cosmica si affaccia alla mente di quei filosofi greci che sono i veri precursori della scienza moderna. Si era osservato che, mentre i corpi pesanti cadono al suolo, alcuni corpi leggieri (come la fiamma) tendono invece verso l'alto; per quei filosofi (che non avevano una chiara idea della spinta dell'aria) i due fatti si unificavano nella veduta che i corpi tendono ad avvicinarsi ai loro simili: la Terra alla Terra, e il fuoco al fuoco, che occupa le alte regioni stellari. Questa tendenza fu pensata come un fatto assolutamente generale in rapporto con la circostanza che le diverse qualità della materia si trovano in natura, non già mescolate fra loro, ma distinte in grandi masse: la massa della Terra, e quelle dell'acqua (mare), dell'aria e del fuoco.
Empedocle e Anassagora, verso la metà del sec. V a. C., esprimono assai nettamente l'idea di questa attrazione, più generale della gravità, che porta a separare nel mondo le materie simili, distinguendole da un caos primitivo.
Empedocle fondava la sua cosmogonia su due forze, fra loro opposte, l'una attrattiva e l'altra repulsiva, che designava miticamente come "Amore" e "Odio". Nella fase cosmogonica in cui ci troviamo predomina l'"Odio", che porta a separare i dissimili; l'attrazione dei simili risulta quindi come effetto di codesta forza repulsiva, data l'ipotesi fondamentale che la materia riempia tutto il mondo senza vuoti: ipotesi che, al pari di Anassagora, Empedocle riprende da Parmenide d'Elea.
Anassagora invece pone a base del suo sistema cosmogonico il moto di rivoluzione del mondo (originato da un impulso del νοῦς) che si estende progressivamente a una sfera sempre più vasta: questo moto genera una forza centrifuga che agisce disegualmente sulle diverse qualità di materia e tende quindi a separarle, onde, per effetto dell'ipotesi che il mondo sia tutto pieno, risulta ancora un'attrazione tra i simili.
La medesima legge di attrazione delle materie simili compare nel sistema di Democrito (verso il 400 a. C.). Qui si ha un sistema di atomi delle più varie forme, che si muovono liberamente nel vuoto in tutte le direzioni (per inerzia) deviando in mille modi per i reciproci urti. Appunto per effetto di urti obliqui si genera il moto vorticoso di un atomo e poi di un sistema di atomi, che origina il nostro mondo; e in questo appare una forza centrifuga e una forza centripeta, agenti similmente sulle forme degli atomi simili, che si risolvono in attrazione di questi. I frammenti di Democrito non ci conservano notizie un po' chiare sul modo con cui l'autore spiegava tale attrazione; solo in via d'ipotesi si può pensare che la sua spiegazione si avvicinasse a quella dei neodemocritei moderni, p. es. all'ipotesi di N. Fatio de Dulliers, filosofo ginevrino contemporaneo di Newton, che fa nascere la gravitazione dall'urto di particelle mobili in tutte le direzioni: quelle che più tardi G.-L. Lesage designava come "corpuscoli ultramondani".
Le vedute sulla gravitazione dei nominati filosofi non sembrano essere state superate dagli antichi. Ma un'eco di esse si trova nel Timeo di Platone, ove la gravità appare come caso particolare di una legge di attrazione delle materie simili, che è concepita in qualche modo idealisticamente, l'unità dell'idea o specie comune figurando quale motivo di avvicinamento. In Aristotele invece questa legge cede il posto alla spiegazione della caduta dei "gravi" e della salita dei "leggieri", basata sulla tendenza dei corpi a un lu0go naturale, che è loro proprio. Più tardi, nella scienza ellenistica, una qualche idea della gravitazione si ritrova nelle speculazioni degli stoici e dei neoplatonici sulla causa delle maree, in cui si riconosce l'influenza della Luna.
Il concetto della gravitazione prima di Newton. - Le concezioni e le ipotesi degli antichi riappaiono nei pionieri della scienza moderna; è naturale quindi che l'idea della gravitazione si trovi fin dagl'inizî della nuova dinamica cosmica, e non si diminuisce il merito di Newton constatando che la teoria matematica da lui fondata viene a coronare in una forma precisa una serie di tentativi precedenti.
L'idea platonica di una gravitazione cosmica, comprendente in sé la legge del peso, compare già in quel trattato di N. Copernico (De revolutionibus orbum coelestium libri VI, Norimberga 1543) che richiama in vita l'antica intuizione eliocentrica di Aristarco di Samo, e - col nuovo sistema del mondo - costituisce il primo e più essenziale presupposto della dottrina newtoniana. Più esplicitamente la stessa veduta si trova in Keplero. Sebbene egli concepisca l'inerzia della materia come tendenza a restare in quiete nel luogo ove si trova, il sommo astronomo, dotando i corpi celesti di un'anima motrice, viene in realtà a conferir loro una disposizione naturale al moto rettilineo che vede poi comporsi con l'appetentia o forza gravitazionale cui si è accennato. Infatti egli dice: "La gravità è un'affezione reciproca dei corpi e tende alla loro unione... Se due pietre fossero poste vicine in qualche luogo del mondo, fuori dell'azione di altri corpi, esse, a somiglianza di due magneti, si riunirebbero in qualche luogo intermedio, percorrendo intervalli in ragione inversa della loro massa. Se la Luna e la Terra non fossero ritenute da qualche forza animale o da altra equipollente..., la Terra ascenderebbe verso la Luna, percorrendo la cinquantaquattresima parte dell'intervallo, e la Luna discenderebbe verso la Terra...".
Il confronto con l'azione dei magneti era suggerito dalla pubblicazione del De Magnete di G. Gilbert (1600). La salita dei gas più leggieri dell'aria non faceva piu eccezione alla gravità sulla Terra; Keplero vede bene che essa è l'effetto della pressione dell'aria, sollecitata a cadere da una forza maggiore; e le celebri esperienze sul barometro di Torricelli dimostrano inconfutabilmente la cosa. La misura della forza attrattiva fra i corpi celesti non è stimata sempre egualmente da Keplero. Egli dice che, se la Terra fosse posta sull'orbita di Saturno, l'attrazione del Sole diminuirebbe in ragione del quadrato della distanza; ma in altri casi pare che supponga tale forza inversamente proporzionale alla distanza. La prima ipotesi viene naturalmente suggerita dalla concezione magnetica, se la forza attrattiva sia pensata come un irraggiamento (così come da R. Hooke nel 1674). Comunque, poco dopo Keplero, l'espressione della forza attrattiva dei corpi celesti in ragione inversa al quadrato della distanza si trova nell'Astronomia philolaica di F. Boulliau (Bullialdo; 1645). E. P. Femiat formula esplicitamente l'ipotesi che essa sia proporzionale alla massa attraente del Sole.
Importa specialmente rilevare come gli studî fatti prima di Newton conducessero a chiarire quello che sembra il paradosso della teoria della gravitazione: cioè che la rotazione di un pianeta attorno al Sole si può assimilare all'interminabile caduta del corpo rotante, quando questo sia dotato inizialmente di un moto traslatorio che si prosegue indefinitamente per inerzia (tale moto tendendo da parte sua ad allontanare il pianeta dal centro dell'orbita, secondo la tangente). Questa assimilazione è implicita nella comprensione galileiana del sistema di Copernico (principio d'inerzia e composizione dei moti), ma in maniera più esplicita risulta dal calcolo della forza centrifuga, istituito da C. Huygens. Anzi dalla misura di questa forza, combinata con la terza legge di Keplero, si trae un'immediata dimostrazione della formula che dà la gravitazione, quando si adotti l'ipotesi semplificativa che le orbite dei pianeti siano cerchi. Infatti designando con t i tempi periodici dei pianeti e con ri i raggi dei cerchi da essi descritti, la terza legge di Keplero viene espressa dalla fomula ti2 = cost. ri3. Ma la forza centrifuga, che la forza centripeta della gravitazione deve equilibrare, è data - secondo Huygens - dalla massa mi moltiplicata per il quadrato della velocità che è 2 πri/ti, e quindi la forza d'attrazione deve valere
che per la suddetta terza legge kepleriana, si può scrivere
Si sa che questa dimostrazione si affacciò alla mente di Newton fino dal 1666, e che nel 1684 veniva riscoperta da E. Halley, appartenente allo stesso circolo di Newton, mentre solo Newton riuscì a calcolare la forza centripeta per masse descriventi orbite ellittiche, secondo le prime due leggi del moto planetario di Keplero. Troviamo così, già nell'ambiente prenewtoniano, e poi nell'ambiente stesso degli amici di Newton, i problemi da cui doveva scaturire la grande scoperta.
Ma esistevano anche tendenze in certo senso contrastanti. Generalmente, i filosofi che cercavano una spiegazione cosmica della gravità non si appagavano di postulare un'attrazione reciproca delle masse in presenza e di assegnarne positivamente la misura. Ma, sotto l'influenza delle idee democritee, in diverse guise risorgenti contro le qualità occulte degli scolastici, volevano dare una ragione meccanica di codesta forza: che significa rappresentare la tendenza all'avvicinamento siccome effetto di urti o di pressioni di mezzi mobili; perché pareva loro conforme a un sano criterio di filosofia naturale non concedere alla materia altre proprietà essenziali o primitive che l'estensione, la durezza e l'impenetrabilità o tutt'al più l'elasticità.
Questa tendenza filosofica, dopo Galileo, ha avuto il suo principale assertore in Descartes, che in specie ha cercato di dedurre la legge del peso dall'ipotesi fondamentale di un fluido o etere riempiente - senza vuoti - tutto lo spazio, e nel quale si darebbero dei moti vorticosi (tourbillons). Sebbene questa teoria sia sotto diversi aspetti manchevole, non si deve dimenticare che - dopo la scoperta di Newton - essa ha potuto essere ripresa e modificata da Huygens (1691), che, supponendo il moto di rotazione d'un fluido leggiero avviluppante la Terra, riesce a dedurne la legge del peso: il peso d'un corpo è eguale allo sforzo con cui (per effetto della forza centrifuga) un'eguale quantità di fluido tende ad allontanarsi dal centro della Terra.
La stessa repugnanza a introdurre un'attrazione dei corpi lontani manifesta Galileo rifiutando di ammettere un'influenza della Luna sulle maree. E i suoi criterî si ritrovano nella sua scuola.
G. A. Borelli (che insieme con D. Cassini ha studiato il moto dei satelliti di Giove) rileva che il mantenimento dei pianeti in orbite circolari attorno al Sole dà luogo a una forza centrifuga che deve essere contrastata da una tendenza o forza opposta, ma, evitando di parlare d'attrazione, cerca di spiegare l'apparenza di questa con la pressione di due strati di etere di densità diverse, fra cui i pianeti navigherebbero (1666).
Tale era l'ambiente storico in cui sorse la grande costruzione di Newton; e con le idee che dominavano la filosofia naturale, l'atteggiamento agnostico e positivo della dottrina newtoniana dovette venire in conflitto; cosicché, dopo Newton, i tentativi di dare una spiegazione meccanica della gravitazione (riprendendo le antiche vedute di Anassagora e di Democrito) si fanno tanto più insistenti: abbiamo menzionato il tentativo di Huygens e quello di Fatio de Duillier (ripreso da Lesage), ma altri tentativi di simil genere si proseguono fino ai nostri giorni.
Quando A.-C. Clairaut scrisse la sua teoria della forma della Terra dedotta dai principî dell'idrodinamica (1743), le teorie dei vortici di tipo cartesiano lottavano ancora col sistema newtoniano; e, anzi, Clairaut introduce qui un riferimento cruciale alle misure, mostrando che le due ipotesi condurrebbero a diversi valori dello schiacciamento polare della Terra; e solo lo schiacciamento portato dalla teoria newtoniana riesce ad accordarsi con le osservazioni.
Newton e la gravitazione universale. - La pubblicazione dei Philosophiae naturalis principia mathematica di I. Newton, nei quali sono per la prima volta esposti nella loro generalità la nozione e la legge della gravitazione universale e le sue principali conseguenze, data dall'anno 1687, in cui Newton compiva il suo quarantacinquesimo anno d'età. Ma non esiste alcun dubbio che la concezione di una gravitazione universale non si fosse affacciata alla mente del grande scienziato molti anni prima, e in particolare in quell'anno 1666 in cui egli, eccezionalmente, soggiornò alquanto nel suo paesello natio, per proteggersi dalla peste che infieriva nelle città. La tradizione vuole che colà la fortuita caduta di una mela dall'albero abbia destato in Newton il desiderio d'indagare col calcolo se la forza diretta verso la Terra, che agiva sulla massa della Luna e la tratteneva sulla sua orbita, non fosse senz'altro quella stessa che, in prossimità della Terra, determinava la caduta di tutti i corpi secondo la notissima legge di Galileo, tenendo naturalmente nel detto calcolo il debito conto della legge dell'inverso del quadrato della distanza, già allora riconosciuta valevole per quanto riguardava le attrazioni dei pianeti e dei satelliti. La distanza della Luna dalla Terra era nota con sufficiente esattezza. Assai meno esattamente si conosceva invece allora la misura del raggio della Terra in base alle poche e non concordanti determinazioni della lunghezza di un grado di meridiano. Rimaneva quindi incerto il rapporto fra la distanza della Luna e il raggio terrestre. Occorreva inoltre ammettere preventivamente - ciò che solo la risposta affermativa al quesito posto avrebbe poi potuto giustificare a posteriori - che l'attrazione sull'unità di massa e quindi l'accelerazione, in prossimità della superficie della Terra, fosse identica a quella di un'egual massa concentrata nel centro terrestre. Indicando quindi con R il raggio della Terra, con D la distanza Terra-Luna, la forza dovuta all'attrazione dellaTerra sull'unità di massa della Luna, e quindi la sua accelerazione centripeta, avrebbero dovuto essere, in vicinanza della Luna, eguali al prodotto dell'accelerazione g = 9,8 m./sec.2 alla superficie della Terra, per il quadrato del rapporto R/D, ossia eguali a g (R/D)2. Sostituendo i valori allora generalmente ammessi, il rapporto R/D risultava eguale a circa 56, e quindi il prodotto anzidetto a un'accelerazione centripeta di circa 0,0031 m./sec.2 D'altra parte la stessa accelerazione centripeta poteva calcolarsi dalla condizione che la Luna dovesse rimanere stabilmente sulla sua orbita supposta circolare, e risultava eguale a 0,0027 m./sec.2 I due valori della stessa accelerazione risultanti nel rapporto di 31 a 27 erano troppo sensibilmente differenti, perché Newton potesse rispondere affermativamente al quesito che si era posto. Pare anzi che, tornato ai suoi studî di ottica, che in quel periodo lo occupavano intensamente, Newton non si sia per qualche anno ulteriormente occupato della questione.
Ma essa era ormai una questione posta e che molti cercavano di risolvere. Nello stesso anno 1666 R. Hooke tentava di verificare sperimentalmente se la forza di gravità della Terra variasse con l'altezza, senza peraltro giungere a risultati concludenti, ma riaffermando ancora, qualche mese dopo, che i moti planetari dovessero potersi spiegare con le ordinarie leggi della meccanica, e quindi dedurre anche da poche osservazioni. Aggiungiamo ancora che Newton nel 1679, in uno scritto richiestogli per gli Atti della Società delle scienze dallo stesso Hooke, che ne era segretario, propose un nuovo metodo per porre in evidenza il moto di rotazione della Terra, per mezzo dell'osservazione della deviazione dalla verticale di un corpo liberamente cadente. Essendo l'esperienza supposta nell'immediata vicinanza della superficie terrestre, la forza dovuta alla gravità era stata naturalmente considerata costante, come nella consueta legge galileiana della caduta dei corpi. La Società delle scienze incaricò Hooke di eseguire quell'esperienza, che però, data l'esiguità dell'altezza della caduta (27 piedi), non condusse, né poteva condurre, ad alcun apprezzabile risultato. In quell'occasione Hooke scrisse a Newton una lettera, nella quale sollevava qualche difficoltà teorica circa quello scritto newtoniano e specialmente circa un disegno in esso contenuto; lettera che più tardi, dopo la definitiva scoperta della legge della gravitazione universale, Hooke ricordò, con discutibile buona fede, come provante che Newton ritenesse ancora nell'anno 1679 la gravità della Terra assolutamente invariabile con l'altezza. Newton, evidentemente disgustato, si rinchiuse in sé stesso, come era sua abitudine.
Si giunge così al 1682-83, in cui fu resa nota la nuova misura dell'arco di meridiano eseguita da J. Picard. In base ad essa il raggio R della Terra veniva a risultare definitivamente circa 1/60 della distanza D fra la Terra e la Luna. Newton rivide allora il suo calcolo del 1666 e, con la più grande emozione, trovò confermata con esattezza superiore a 1/100 la sua antica previsione. La forza che tratteneva la Luna sulla sua orbita era della stessa natura e aveva la stessa origine di quella che determinava la caduta dei corpi alla superficie della Terra. I quattro anni seguenti, trascorsi nel raccoglimento del suo studio di Cambridge, bastarono a Newton per redigere l'opera che fu, ed è tuttora, giudicata come la più mirabile che sia mai apparsa nel campo delle scienze naturali.
Va aggiunto che, in quell'intervallo, varie delle singole questioni circa la gravitazione vennero ancora discusse fra gli scienziati del tempo, e in particolare tra R. Hooke, C. Wren ed E. Halley. Essi tentarono insieme nel 1684, ma non riuscirono, di dimostrare che un piccolo corpo materiale, attratto da uno maggiore, secondo la legge dell'inversa del quadrato della distanza, avrebbe dovuto finir col muoversi intorno ad esso su un'orbita ellittica, quando solamente avesse ricevuto inizialmente un impulso laterale. E su cotesto argomento Halley interpellò anche, qualche tempo dopo, lo stesso Newton, il quale gli mostrò allora il manoscritto della sua grande opera, nella terza parte della quale, fra molte altre, era risolta anche quella questione. A stento il non invidioso Halley strappò a Newton la promessa che l'opera immortale verrebbe presentata alla Società delle scienze, senza attendere la morte del suo autore, come Newton si era proposto. E quando ciò avvenne, egli chiuse l'entusiastica apologia, che ne fece, con la celebre frase: "Tutto è stato fatto: non vi è più nulla da fare".
La presentazione scatenò la polemica con Hooke, che Newton prevedeva. Essa fu finalmente composta dallo stesso Halley, da una parte col riconoscimento dell'assoluta priorità di Newton in quello che costituiva la portata universale della teoria, dall'altra col riconoscimento di Newton che qualche particolare teorema della sua opera era anche stato indipententemente scoperto da Wren, Hooke e Halley.
La legge della gravitazione universale venne da allora definitivamente concepita e formulata, ammettendo che due masse M1 e M2, alla distanza D l'una dall'altra, debbano sempre attirarsi mutuamente con una forza F espressa dalla formula
nella quale G rappresenta una costante per qualsiasi specie di materia, la costante universale della gravitazione.
I rapporti di questa legge con le leggi di Keplero vennero particolarmente caratterizzati da Newton per mezzo del seguente interessantissimo avvicinamento di ciascuna di esse a una sua fondamentale conseguenza, la quale è, nello stesso tempo, un elemento costitutivo essenziale della legge newtoniana.
1ª legge. - L'orbita di un pianeta è una ellisse col Sole in uno dei fuochi.
Conseguenza. - L'attrazione è inversamente proporzionale al quadrato della distanza.
2ª legge. - Il raggio vettore descrive in tempi eguali eguali aree.
Conseguenza. - Sul pianeta agisce una forza di attrazione, che ha la sua origine nel Sole.
3ª legge. - I cubi delle distanze medie sono proporzionali ai quadrati dei tempi periodici.
Conseguenza. - Su tutti i pianeti agisce la medesima forza di attrazione.
Newton, con notevole abilità matematica dimostra queste tre correlazioni nei due sensi, passando cioè dalle leggi di Keplero alle conseguenze, oppure dalle conseguenze alle leggi, ciò che stabilisce, almeno in senso assai largo se non assoluto, la loro equivalenza.
Per la sistematica deduzione formale delle conseguenze della legge newtoniana furono elaborati importanti metodi matematici e in particolare la teoria del potenziale (newtoniano). V. potenziale.
Per quanto riguarda l'accettabilità della formula dai punti di vista fisico e matematico, senza addentrarci in difficili e complesse discussioni, ricordiamo solamente che lo stesso Newton aveva rilevato l'assurdità fisica dell'ammissione di forze realmente agenti a distanza, senza la partecipazione di un mezzo, e temperato la sua affermazione dicendo che i fenomeni si svolgono come se esistessero effettivamente coteste forze, senza peraltro arrischiarsi a interpretarle per mezzo di qualche ipotesi all'uopo escogitata: "hypotheses non fingo". Assai più grave di questa antica riserva fisica si presenta, dal punto di vista logico, la difficolta più recentemente sollevata a proposito di alcune conseguenze dell'espressione formale della legge, quando la si volesse applicare a tutto l'universo supposto infinito. Allora la forza generale di attrazione agente su una singola massa, per es. sulla Terra, diverrebbe infinita e indeterminata, a meno di non ammettere che la densità della distribuzione delle masse dell'universo non tenda a zero al crescere della distanza; un'ammissione quindi, stranamente geocentrica riguardo a una legge che era sempre stata considerata come l'emblema dell'eliminazione di ogni geocentricità. Non sarà forse superfluo aggiungere che la suddetta difficoltà non viene, in linea di principio, rimossa dal fatto che nel sistema galattico il sistema solare, e quindi la Terra, si trova in realtà in una situazione centrale di densità media (relativamente) elevata, perché la difficoltà dipende essenzialmente dalla distribuzione delle masse all'infinito. Essa può perdere invece la sua importanza quando si ammetta, secondo alcune vedute moderne, che l'universo possa essere finito. Ad ogni modo a questo punto è interessante ricordare che furono fatte numerose proposte di modificare formalmente la legge di Newton, facendovi particolarmente intervenire anche degli esponenti negativi funzioni delle distanze, senza peraltro raggiungere risultati soddisfacenti. Fra le molte altre, è notissima la formula discussa da P.-S. Laplace
dove α è un'opportuna costante.
Ulteriori convergenze e verifiche della legge di Newton. - Per farci un'idea circa il grado di esattezza della legge di Newton, osserviamo che essa contiene, oltre la costante assoluta G, elementi variabili, cioè le distanze e le masse, che intervengono le prime attraverso i loro quadrati e le seconde attraverso i prodotti di due di esse. Cerchiamo perciò di renderci dapprima conto dell'esattezza della legge osservando, direttamente o indirettamente, qualche sua conseguenza variando entro vasti limiti gli elementi di una categoria e il meno possibile quelli dell'altra, p. es. osservando effetti di gravitazione (accelerazioni) su una stessa massa, provenienti da distanze notevolmente differenti, ciò che ordinariamente si dice verificare la parte della legge newtoniana relativa alle distanze; o osservando, viceversa, su masse notevolmente differenti, effetti gravitazionali provenienti da distanze poco differenti, ciò che si dice verificare la parte della legge relativa alle masse. Dopo ciò diverrà evidentemente di grande interesse verificare anche direttamente l'effettiva costanza della G nelle condizioni più varie in cui possiamo osservare o sperimentare.
L'astronomia ci permette brillantemente le due prime categorie di verifiche. Secondo S. Newcomb, l'esattezza dell'esponente 2 è confermata, per quanto riguarda le distanze, a meno di 1/5000 del suo valore, come conseguenza dell'importo dell'accelerazione g alla superficie della Terra e della parallasse, e quindi dell'accelerazione, della Luna, e ciò per i valori di R contenuti fra il raggio della Terra e quello dell'orbita lunare; con altrettanta esattezza, attraverso alle perturbazioni sul moto della Luna dovute al Sole, quindi per valori di R contenuti fra lo stesso raggio terrestre e il raggio dell'orbita della Terra, circa 24.000 volte maggiore; mentre con poco maggiore incertezza si può affermare la validità della legge di Newton fino agli estremi limiti del sistema solare, cioè per valori di R fino oltre 25 volte quello del raggio dell'orbita terrestre.
Le osservazioni astronomiche confermano parimenti l'esattezza della legge newtoniana nella parte che si riferisce alle masse. Infatti osservando le accelerazioni di comune origine, cui vengono sottoposti diversi corpi celesti di moli molto differenti, si possono determinare i mutui rapporti delle loro masse, i quali, finché tali rapporti rimangono consistenti, risultano sempre con estrema esattezza in accordo con la legge newtoniana.
La più brillante dimostrazione dell'esatta attendibilità della legge della gravitazione nel campo astronomico è certo quella fornita dalla scoperta del lontanissimo pianeta Nettuno, trovato nel 1846 nel punto esatto del cielo teoricamente previsto da U. Leverrier in base allo studio delle anomalie nel moto del pur lontanissimo pianeta Urano; anomalie che non potevano essere intrepretate come dovute ai pianeti relativamente interni, Saturno o Giove, ma solo a un ignoto pianeta esterno a Urano.
Sono però anche note alcune, invero poco rilevanti, anomalie rispetto alle conseguenze della legge di Newton, le quali, in generale, si riscontrano anche in condizioni alquanto eccezionali. Tra di esse la più importante è quella che si riferisce al moto del perielio di Mercurio. Cotesto pianeta, vicinissimo al Sole, ha un'orbita ellittica di notevole eccentricità, che non rimane fissa nello spazio, ma ruota intorno al Sole con piccolissima velocità. Tale moto, nella teoria newtoniana, s'interpreta per la sua parte maggiore come perturbazione dovuta all'esistenza e al moto degli altri pianeti; ma una lieve rotazione residuale di circa 42″ d'arco per secolo rimane inspiegata. Su questo fatto si tornerà in seguito.
Passiamo ora a considerare più particolarmente la costante universale G, la quale deve risultare indipendente non solo da particolari valori delle distanze e delle masse, ma anche dallo stato fisico o chimico di queste ultime e del mezzo in cui esse sono poste. Essa deve inoltre essere costante rispetto al tempo. Ma osservazioni puramente astronomiche non permettono né la determinazione della G, né quella delle singole M, perché esse, in ultima analisi, forniscono sempre solo, per i varî corpi celesti, o i valori dei rapporti delle loro masse rispetto a una di esse, p. es. a quella della Terra, oppure i valori dei rispettivi prodotti G M, ma non mai i due fattori separati. P. es., l'accelerazione della Terra verso il Sole è di circa 0,6 cm./sec.2, a una distanza da esso di circa 15.1012 cm. L'accelerazione della Luna verso la Terra è di cica 0,27 cm./sec.2, p, alla distanza da essa di circa 4.1010 cm. Se con S e E indichiamo le masse del Sole e della Terra, avremo 0,6 = GS/(15.1012)2, e 0,27 = GE/(4.1012)2, che ci permetteranno di calcolare GS e GE, e quindi il rapporto S/E eguale a circa 300.000, ma non isolatamente, né S, né E, né tanto meno G.
Per giungere alla determinazione di G occorre quindi un supplemento non astronomico di esperienza, il quale permetta in qualche modo di valutare la massa della Terra, o, ciò che in fondo equivale, la sua densità media Δ, oppure direttamente la costante universale G.
In corrispondenza a cotesti suoi due aspetti, il problema può venire impostato secondo due differenti criterî.
Per vedere chiaramente l'applicazione del primo, supponiamo che un corpo di massa nota m sia sospeso in vicinanza della superficie della Terra, ove è attirato con la forza verticale p, notoriamente costituita dal suo peso. Nello stesso tempo cotesto corpo sia pure attirato con una forza f da una massa M misurabile e localizzabile, rappresentata da una montagna, o da qualche altra accidentalità della superficie terrestre di forma e costituzione nota, oppure da un corpo artificialmente preparato e portato nella vicinanza di m. Ammesso che l'attrazione della Terra sui corpi esterni a essa sia tale come se tutta la sua massa fosse concentrata nel suo centro, e indicando con R il suo raggio, con Δ la sua densità media, con d la distanza delle due masse m e M, avremo, per il peso p del corpo di massa m, le due note espressioni:
per la forza f l'espressione f = GM m/d2. Ora dal rapporto fra la seconda espressione b) di p e quella di f si ricava l'espressione della densità media
La determinazione di Δ è dunque ricondotta a quella del rapporto delle quantità p e f direttamente misurabili. Ma eliminando dall'espressione di f, per mezzo dell'espressione a) di p, la costante m, avremo pure l'espressione:
dalla quale si può ricavare il valore della costante della gravitazione per mezzo di quelli misurabili di p e di f.
Il secondo criterio invece è fondato sull'effettiva misura dell'attrazione di due masse artificiali M1 e M2 poste alla distanza d. Essendo cotesta attrazione f = G M1 M2/d2, avremo senz'altro:
Ma nota la G possiamo calcolare senz'altro l eliminando m fra le due espressioni a) e b) di p. Si avrà:
Un numero rilevante di esperienze è stato eseguito secondo cotesti due criterî, il secondo dei quali è evidentemente di gran lunga preferibile per la determinazione di Δ, perché indipendente da qualsiasi ipotesi sulla costituzione interna della Terra; mentre il primo, nelle sue due accennate possibilità di realizzazione, è particolarmente indicato per la determinazione di Δ e delle sue variazioni da luogo a luogo.
Tutte le esperienze suddette si possono eseguire osservando fenomeni statici, quali ad es. deviazioni dalla verticale di un filo a piombo, equilibrî di bilance ordinarie o di torsione, ecc., oppure fenomeni dinamici, quali oscillazioni di pendoli, di bilance, ecc.
Esperienze secondo il primo criterio e con masse naturali, sono state iniziate fin dalla prima metà del sec. XVIII e, a intervalli, proseguite fino ai tempi nostri, cercando di eliminare sempre meglio le incertezze dovute alla conoscenza, inevitabilmente imperfetta, della distribuzione della densità nelle grandi masse naturali, fino a sostituirle in ultimo con grandi masse di acqua marina, eseguendo le misure in sommergibili. In complesso esse hanno confermato per la densità media della Terra il valore 5,53 che differisce estremamente poco da quello medio previsto da Newton.
Esperienze secondo il primo criterio, ma con masse ausiliarie artificiali, furono esse pure tentate fin dai tempi di Newton e proseguite fino a tempi recentissimi con mezzi sperimentali di estrema esattezza.
Finalmente esperienze basate sul secondo criterio, che essendo estremamente delicate non poterono iniziarsi prima del 1798 da H. Cavendish, ma che, essendo da ogni punto di vista preferibili per quanto riguarda la determinazione della G, vennero ripetute in varie forme e con mezzi sempre più raffinati fino agli ultimi anni del secolo passato, permisero di determinare il valore della costante universale della gravitazione con un errore probabile minore di 1/500 e condussero al valore G = 6,66 × 10-3 cm.3/sec.2 gr.
È pure interessante ricordare che furono fatte anche accurate esperienze per dimostrare l'indipendenza della gravitazione dallo stato fisico e chimico delle masse e in particolare dalla loro temperatura, come pure dall'esistenza e dallo stato di medî interposti. A proposito di quest'ultima questione sono assai interessanti le considerazioni e le esperienze di Q. Maiorana sull'assorbimento della gravitazione attraverso alle masse stesse, che dimostrano che, se un tale fenomeno esiste, come qualche esperienza del Maiorana parrebbe far presumere, esso è a ogni modo di un ordine estremamente lieve.
È finalmente necessaria un'ultima osservazione sul fatto che dai tempi di Newton in qua si è sempre tacitamente ammessa l'identità della massa gravitante e della massa inerte, cioè della massa misurata in base alla legge della gravitazione e della massa misurata in base alla seconda legge fondamentale della meccanica. Ora nessuna necessità logica impone cotesta ammissione. Essa deve dunque essere verificata sperimentalmente. Ciò pure è stato fatto, e le esperienze di R. Eötvös assicurano che questa identità può ritenersi verificata con la massima esattezza. Tale identità è divenuta un postulato essenziale della fisica moderna (v. massa).
Campo di gravitazione e tentativi per rappresentarlo. - L'idea di un'azione a distanza, senza alcuna partecipazione del mezzo, ripugna alla nostra mente. Prima ancora che venisse scoperta la gravitazione universale e la sua legge, erano stati fatti varî tentativi per interpretare la forza che tratteneva i pianeti e i satelliti sulle loro orbite, fra i quali quello, a dir vero assai vago, ma per un certo tempo molto diffuso, basato sulla teoria già ricordata dei vortici di Descartes. L'importanza estrema della legge newtoniana indusse però a superare quell'avversione e quasi a dimenticare le riserve esplicitamente espresse dallo stesso Newton. La scoperta poi di Ch.-A. Coulomb che le cariche elettriche si attirano o si respingono secondo una legge analoga alla newtoniana, legge per la quale fu persino ripetuta, assai meno a proposito, l'ampollosa frase di Halley, che tutto ormai, anche per il campo elettrico, fosse stato fatto, contribuì per un certo tempo ad abituare alle pretese forze a distanza nella fisica. Ma poco più tardi furono proprio alcune teorie dapprima a base elettrica e in seguito a base elettrodinamica quelle che tentarono di sostituirsi all'ipotesi delle azioni gravitazionali a distanza, dirimendo nello stesso tempo le difficoltà segnalate e in particolare quella relativa al moto dei perielî in vicinanza del Sole, per cui, come aveva già rilevato lo stesso Newton, sarebbe bastato che l'esponente della distanza, nella legge della gravitazione, non fosse stato esattamente eguale a 2.
Fra le varie teorie di quel tempo per interpretare la legge della gravitazione, ancora indipendenti dall'elettricità, ricordiamo quella del 1836 di O. F. Mossotti, fondata, a quanto pare, su un' idea solamente qualitativa di Th. Aepinus. Lo spazio sarebbe ripieno di etere le cui particelle (molecole), come pure quelle materiali, si respingerebbero tra loro, mentre fra una molecola di etere e una di materia dovrebbe esistere una forza attrattiva alquanto superiore alle precedenti forze repulsive. Da cotesta ammissione segue matematicamente che due masse materiali, immerse nell'etere, debbano attirarsi con la legge newtoniana. Questa teoria di Mossotti non risolve in fondo la difficoltà delle forze a distanza, ma merita una certa considerazione, perché nello spirito di essa vennero più tardi fondati varî tentativi di teorie della gravitazione a base elettrica, per es. da F. Zöllner, e a base elettrodinamica da H. A. Lorentz. Ma non conviene indugiare su queste né su altre numerose teorie del sec. XIX, perché si sa ormai che tutte sono affette da un difetto di principio, che esclude la possibilità di utilizzarle non solo nella loro forma originale che si proponeva di andar al fondo della difficile questione, ma anche nelle loro forme modernamente attenuate, che si limitavano ad aspirare a una semplice rappresentazione del fenomeno della gravitazione. Ecco in riassunto la situazione.
Si premetta che, dall'ultimo quarto del secolo precedente in poi, era stato ammesso che non fosse più il caso d'insistere nel pretendere che le teorie fisiche fornissero sempre un vero e proprio modello meccanico del fenomeno. Tale pretesa era stata in linea generale abbandonata innanzi al preciso dilemma di rinunziare o alle equazioni elettrodinamiche di C. Maxwell o alla loro rappresentazione meccanica. E fu allora il fatto, che tali equazioni, nonostante l'impossibilità di una loro interpretazione meccanica, erano state tanto utili (basti ricordare la previsione e la scoperta delle onde elettromagnetiche), quello che indusse i fisici a ritenere in generale sufficiente raggiungere per i varî fenomeni espressioni che, senza implicare assurdi o contraddizioni rispetto ai principî precedentemente accolti, ne rappresentassero formalmente e in modo esatto gli aspetti. Alcuni fisici accettarono cotesta rinuncia alla rappresentazione meccanica dei fenomeni come una dolorosa necessità, altri, fra cui H. Poincaré, come logica conseguenza della struttura concettuale della nostra fisica. A ogni modo solo in tal senso oggi si deve considerare la ricerca d'una teoria della gravitazione.
Tutte le teorie della gravitazione concepite anteriormente all'anno 1912 ammettono ipoteticamente, come elemento primitivo, l'esistenza nello spazio di qualche entità fisica, dalla quale dovrebbe poi potersi dedurre, ancora ipoteticamente, un campo di gravitazione, all'atto pratico equivalente a quello astratto della legge di Newton per es., in base alla teoria del potenziale newtoniano. Codesta entità fisica era sempre stata supposta o di natura scalare (come sono notoriamente l'energia, la temperatura, ecc.), o di natura vettoriale (come le forze elettriche, magnetiche, ecc.). Orbene, si può dimostrare matematicamente che non è possibile soddisfare a tutte le condizioni che la nostra esperienza ci obbliga a imporre a un'eventuale teoria della gravitazione, partendo, sia da un'entità primitiva di natura scalare, sia da una di natura vettoriale.
È perciò che, dopo numerose discussioni avvenute nel primo decennio di questo secolo, A. Einstein abbandonò definitivamente le vie fino allora generalmente battute, anche da lui stesso, e decise di assumere, come elemento primitivo fondamentale, un'entità fisica di natura immediatamente più elevata di uno scalare e di un vettore cioè un tensore del secondo ordine, iniziando così la serie delle teorie tensoriali. La fisica matematica era da tempo abituata a considerare tensori nello studio dei mezzi continui, e in particolare nell'elasticità e nella dinamica dei fluidi.
La teoria einsteiniana della gravitazione. - La teoria della gravitazione di Einstein è strettamente inquadrata in quella che ordinariamente si dice teoria della relatività generale. La primitiva teoria della relatività, ristretta ai moti rettilinei e uniformi, che ha in un certo senso rivoluzionato la fisica al principio di questo secolo, fu estesa da Einstein nel 1915, dopo quasi un decennio di tentativi, ai moti quali si vogliano. Per fare ciò egli dovette passare dalla nota adozione dello spazio rappresentativo dei fenomeni fisici costituito dal nostro consueto spazio euclideo al quale si supponeva solo di aggiungere una dimensione per rappresentare il tempo, senza peraltro alterarne il carattere essenzialmente euclideo, a uno spazio rappresentativo di natura straordinariamente più ampia, che grossolanamente possiamo dire stia allo spazio rappresentativo della teoria precedente, come un corpo elastico deformato sta allo stesso corpo prima della deformazione. E ciò per ragioni eminentemente formali. Ma l'ampliamento che offriva la formale adozione dei metodi della geometria differenziale, nella trattazione di quel problema, era notevolmente più ampio di quanto strettamente pareva occorrere per la sola generalizzazione della relatività. Fu allora che Einstein ebbe la geniale intuizione di conglobare, con quel problema, quello ormai annoso della gravitazione. È materialmente impossibile dire, senza un complesso e difficile formulario matematico, quale sia la particolare struttura della teoria che ne è venuta a risultare. Bisogna limitarsi a fare qualche parallelo, qualche avvicinamento fra alcuni aspetti di essa e qualche cosa nota.
In primo luogo si è detto che qualsiasi teoria doveva introdurre nello spazio un certo elemento fisico a variazione continua, da cui dovevano scendere direttamente le forze gravitazionali; si è anche aggiunto che cotesto elemento doveva essere d'indole tensoriale. E Einstein di fatto introdusse un tensore del second'ordine, che poteva assolvere contemporaneamente un ufficio fisico e uno geometrico. Così ebbe inizio ciò che fu spesso detto la geometrizzazione della fisica. Il tensore fisicamente rappresentava il potenziale (einsteiniano) della gravitazione, mentre geometricamente rappresentava quel tensore che determina la metrica degli spazî curvi. E così che si è realizzato, nella modesta forma adottata dalla fisica moderna, la rappresentazione del campo della gravitazione. Che cosa esso effettivamente sia, non si sa; però se si avvicina il tensore con cui s'intende rappresentarlo al tensore che rappresenta tutte le possibilità della metrica di uno spazio curvo (riemanniano), i due tensori si possono ridurre a variare nella stessa maniera, nello spazio e nel tempo, e quindi in un certo senso si possono identificare, se solamente s'impone al tensore della metrica dello spazio di modificarsi rispettando una certa legge, espressa dalle equazioni einsteiniane. Allora la metrica e quindi anche il potenziale della gravitazione risultano soggetti a una certa legge, che si riduce proprio a quella newtoniana in prima approssimazione.
Le risultanze di questa teoria einsteiniana sono quindi, formalmente, sempre una generalizzazione della corrispondente teoria classica; ma qualitativamente differiscono quasi sempre solo in proporzioni trascurabili e in generale non osservabili. Solo in qualche caso eccezionale i divarî fra teoria einsteiniana e teoria classica risultano sensibili e in generale in senso favorevole alla nuova teoria. In particolare il moto d'un pianeta nelle condizioni di Mercurio risulta con una rotazione del perielio di 43 secondi d'arco per secolo quasi identica a quella di 42 secondi che la teoria classica aveva tanto, e sempre invano, cercato di spiegare. Per particolari, v. relatività.
Bibl.: I. Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica, Londra 1687; id., Principii di filosofia naturale. Teoria della gravitazione, trad. italiana con note critiche di F. Enriques e U. Forti, Roma 1925; D. Brewster, Memoir of the Life, Writings, and Discoveries of Sir I. Newton, Londra 1855; 2ª ed., 1893; A. De Morgan, Essays on the Life and Work of Newton, Chicago 1914. Per l'antichità: F. Enriques e G. Diaz de Santillana, Storia del pensiero scientifico, I, Milano 1932. Per i tentativi di spiegazione meccanica della gravitazione: C. Isenkrahe, Isaac Newton und die Gegner seiner Gravitationstheorie, programma del ginnasio di Crefeld 1877-78; J. Zenneck, Gravitation, in Encykl. der math. Wiss., V, i, Lipsia 1903, pp. 25-67.