GRAZIA, Leonardo, detto il Pistoia
Figlio di Matteo di Nardo fu battezzato l'8 nov. 1503 nella cappella di S. Michele in Cioncio a Pistoia (Bisceglia, p. 100).
Matteo di Nardo (1474-1544), che nell'atto di battesimo del figlio è citato con il cognome di Grati, era "dipintore", secondo quanto attestano un documento del 1502 e un altro del 1528, dove viene menzionato come Matteo Grazia (Pacini, pp. 153-155;). In atti pubblici del 1540 e del 1541 risulta avere anche l'appellativo "del Freddurello" (ibid., p. 100).
Solo di recente, e grazie al ritrovamento di nuovi documenti, è stato possibile eliminare gli equivoci che si erano creati in sede storico-critica, quando la personalità artistica del G. era stata confusa con quella di altri suoi conterranei, quali Leonardo Malatesta, Bartolomeo Guelfo e Leonardo di Bernardino (ibid., p. 99).
Alcune brevi note biografiche sul G. le tramandò Vasari, che lo ricordava soprannominato "il Pistoia per esser pistolese" e allievo di Giovan Francesco Penni.
È probabile che, prima di un eventuale incontro con Penni, il G. avesse appreso dal padre i primi rudimenti della professione, e avesse approfondito la propria formazione grazie al contatto con gli artisti attivi in Pistoia (ibid., p. 100).
Sulla prima attività del G. non rimangono tracce documentarie: l'indicazione di Filangieri che ricordava il G. presente a Napoli all'inizio degli anni Venti è basata infatti sull'errata identificazione del G. con quel "Pistoja" autore nel 1522 degli affreschi nel chiostro del Carmine; ma la notizia è piuttosto da riferire a Bartolomeo Guelfo, l'altro pistoiese attivo a Napoli nei primi decenni del Cinquecento (Leone de Castris, 1996, p. 128 n. 6).
Di sicuro si sa che il G. si trovava nella città natale nel 1528, quando fu pagato per lavori di restauro a un Crocifisso della chiesa di S. Zeno (Bisceglia, p. 101).
È anche testimoniata la sua presenza nel 1530 a Lucca, dove entrò in rapporto di lavoro con Agostino Marti che lo denunciò per non aver mantenuto fede ai patti, costringendolo a un periodo di prigione (ibid.; Concioni - Ferri - Ghilarducci, p. 231). Nei documenti lucchesi il G. è qualificato come maestro, a indicare già una sua indipendente attività di pittore. A Lucca avevano lavorato in precedenza altri pittori pistoiesi e vale la pena di ricordare che il Vasari dice operoso nella città toscana anche quel Luca Penni, fratello di Giovan Francesco (ibid.). Si è supposto che in questo lasso di tempo il G. avrebbe condotto a termine l'Annunciazione in S. Martino a Lucca, firmata "Leonardus Grazia pistoriensis faciebat", caratterizzata da un accentuato perinismo (Bisceglia, p. 101).
Problematica è la definizione cronologica del soggiorno romano del G., solo in parte documentato. Il 21 genn. 1534 il G. risulta versare 2 scudi all'Accademia romana di S. Luca per la propria aggregazione (Leone de Castris, 1996, p. 331): non era dunque tra gli artisti iscritti prima del sacco di Roma (1527), che pagavano per la reiscrizione solo uno scudo (Rossi, pp. 55 s.). A ulteriore testimonianza di ciò sta l'assenza del suo nome nelle liste pervenuteci del censimento effettuato a Roma tra la fine del 1526 e l'inizio dell'anno successivo (ibid.). Tali considerazioni non escludono però del tutto che il G. fosse a Roma anche prima del 1526, o meglio agli inizi degli anni Venti, quando sarebbe potuto entrare in contatto con Giovan Francesco Penni, con il quale sembra aver collaborato nel Noli me tangere, oggi al Prado, realizzato per la cappella della Maddalena a Trinità dei Monti intorno al 1524 (Leone de Castris, 1996, p. 86, che segnala una copia di mano del solo G. nei depositi di Capodimonte).
Al periodo romano sono state ricondotte le tre tavole, raffiguranti tutte la Madonna con Bambino e s. Giovannino (Galleria Borghese, nn. 370, 388, 428), le prime due attribuite al G. da Bologna (1959, p. 74) e la terza da Leone de Castris. La loro datazione è stata fissata a prima del sacco (Bisceglia, p. 100), o la si è ritenuta oscillante fino al quarto decennio (Leone de Castris, 1996, p. 86). Le tavole erano state in passato ricollegate alla scuola di Raffaello (Della Pergola, nn. 370 e 428, ambito di Giulio Romano; n. 388, cerchia di Perin del Vaga). In effetti rielaborano motivi desunti da Raffaello e dalla sua scuola. Nella tavola n. 370 è evidente la derivazione dal fondale architettonico della pala di Giulio Romano in S. Maria dell'Anima (ibid.).
Altra notizia sull'attività romana del G. la forniva Baglione, quando menzionava l'aiuto dato da Iacopino Del Conte, da poco arrivato nella città papale, al G. nell'esecuzione della pala per S. Pietro in Vaticano (sagrestia dei canonici) raffigurante la Vergine con il Bambino e i ss. Anna, Pietro e Paolo, collocabile intorno al 1537 (Zeri).
Al quarto decennio sono anche generalmente riferite tre opere, anch'esse conservate nella Galleria Borghese (Bisceglia, pp. 101 s.): una Lucrezia, olio su lavagna, già ricordata alla metà del Seicento come opera del G. e ascritta successivamente alla maniera di Iacopino (Della Pergola, p. 39); una Venere e una Cleopatra attribuite nel passato talvolta a Giulio Romano e in seguito all'ambito di Baldassarre Peruzzi (ibid.). Si caratterizzano per un gusto semplificativo della forma dalla fredda lucidità alabastrina e dai contorni un po' duri.
Agli ultimi anni del soggiorno romano sono state ricondotte alcune opere quali la Madonna col Bambino e s. Giovannino (n. 388) della Galleria Borghese o la Madonna col Bambino della Galleria regionale della Sicilia a Palermo, avvicinata alle opere napoletane (Leone de Castris, 1996, p. 86).
Attivo agli inizi degli anni Quaranta a Napoli (Bisceglia, p. 102), gli è stato restituito il dipinto con Venere e Cupido del Museo nazionale di Capodimonte, proveniente dalla raccolta d'Ávalos, che per la semplificata riduzione formale e la levigatezza quasi metallica del colore è accostabile ai nudi femminili della Galleria Borghese (Leone de Castris, 1996, p. 88).
Come rammentava Vasari, il G. dipinse per l'altare maggiore della chiesa di Monteoliveto la Presentazione al tempio, adesso al Museo nazionale di Capodimonte, sicuramente realizzata entro il novembre del 1544, quando fu affidata la commissione a Vasari per realizzare un altro dipinto con lo stesso soggetto ma "con nova invenzione".
Stando a quanto affermato da Bartolomeo Maranta (in Barocchi), la sostituzione fu causata dal fatto che Simone sarebbe stato raffigurato con le fattezze dell'avvocato fiscale Antonio Barattuccio, considerato "uomo crudele e non misericordioso" secondo una tradizione in seguito ripresa e amplificata da Celano (1692).
In un documento del febbraio 1545, nel quale è elencato tra i periti di fiducia del pittore Pietro Negroni nella causa per la pala Mastrogiudice, il G. risulta risiedere presso il vescovo di Ariano Diomede Carafa (Leone de Castris, 1996, p. 331). Per lui avrebbe realizzato due pale, una, menzionata da Vasari, con la Lapidazione di s. Stefano in S. Domenico Maggiore, andata dispersa; l'altra, con S. Michele Arcangelo, per l'altare della sua cappella in S. Maria del Parto.
L'opera, detta del "demonio di Mergellina", venne segnalata da D'Engenio (p. 665) come opera di suprema bellezza eseguita da "Lunardo il Pistoia", attribuzione rimasta invariata fino ai tempi recenti. Bologna (p. 74) la diceva documentata al 1542, mentre Leone de Castris (1996, pp. 88, 129 n. 30) riporta il 1550 come anno di fondazione della cappella Carafa.
In base al confronto con le opere napoletane fin qui citate, sono stati attribuiti alla mano del G. altri due dipinti, eseguiti in tono minore e senza particolare ambizione. Si tratta del Battesimo di Gesù nella chiesetta di S. Maria della Neve e del Salvatore (Museo nazionale di Capodimonte), già ricordato come opera del Pistoia da D'Engenio (p. 237) nella "Sacrestia […] della Casa Professa vicino S. Chiara", passato più tardi nel convento e poi sull'altare maggiore del Gesù Vecchio (Leone de Castris, 1996, p. 88).
Al 1545 risale la commissione per la pala con l'Assunzione della Vergine per la cattedrale di Altamura (Santoro), inviata da Napoli alla fine del 1546 ed esposta al pubblico sull'altare maggiore il 14 giugno 1548 (Leone de Castris, 1996, pp. 331 s.).
Il fatto che nei documenti relativi alla pala sia citato anche Leonardo Castellano, allievo di Negroni e cognato di Giovan Filippo Criscuolo, talvolta ha spinto a identificare "Leonardo da Pistoia", cioè il G., con lo stesso Castellano (Previtali), che probabilmente fu solo un aiuto, attivo in modo limitato (Leone de Castris, 1996, p. 88).
Altre opere della bottega sono state individuate in Lucania, ed è stato ipotizzato che Antonio Stabile, che firmò nel 1569 la pala di Tramutola, fosse stato alunno del G. (ibid.).
Il 26 giugno 1548 il G. si impegnò a dipingere l'ancona dell'altare maggiore per la chiesa dell'Annunziata in Napoli, forse una Crocifissione (D'Addosio). Con questo soggetto sono tuttora esistenti due opere di pertinenza dell'Annunziata: una, centinata, ancora in chiesa; l'altra, di formato rettangolare, oggi al Museo civico di Castelnuovo. Entrambe sono da considerarsi varianti più tarde della pala documentata al 1548 o forse repliche con intervento di aiuti (Leone de Castris, 1996, p. 95).
All'ultimo periodo dell'attività del G. è stata ricondotta la Resurrezione con le Marie al sepolcro del Gesù alle Monache, testimonianza dell'ormai schematizzata formula devozionale da lui prediletta (ibid.).
Nella chiesa di S. Giovanni Maggiore D'Engenio (p. 57) citava come opera del Pistoia un dipinto (Madonna col Bambino) oggi disperso ma allora nella cappella, edificata nel 1549, del mercante fiorentino Tommaso Cambi, amministratore dei d'Ávalos (Leone de Castris, 1996, p. 129 n. 19).
Non si conosce la data di morte del G. che, secondo Vasari, dovette avvenire a Napoli.
Fonti e Bibl.: G. Vasari, Le vite… (1568), a cura di G. Milanesi, IV, Firenze 1879, p. 648; C. D'Engenio, Napoli sacra (1623), Roma-Napoli 1624, pp. 57, 238, 665; G. Baglione, Le vite…, Roma 1642, p. 75; C. Celano, Notizie del bello, dell'antico e del curioso nella città di Napoli (1692), a cura di A. Mozzillo - A. Profeta - F.P. Macchia, Napoli 1970, p. 870; G. D'Addosio, Origine, vicende storiche e progressi della Real S. Casa dell'Annunziata di Napoli, Napoli 1883, p. 147; G. Filangieri, Documenti per la storia, le arti e le industrie delle provincie napoletane, III, Napoli 1885, pp. 448 s.; F. Zeri, Intorno a Gerolamo Siciolante, in Bollettino d'arte, XXXVI (1951), pp. 141, 148 n. 6; O. Santoro, Note sul quadro dell'Assunta dell'altare maggiore nella cattedrale di Altamura, in Altamura. Bollettino dell'Archivio, Biblioteca, Museo civico, 1955, nn. 3-4, pp. 85-89; P. Della Pergola, La Galleria Borghese. I dipinti, II, Roma 1959, pp. 39, 92 s., 109 s.; F. Bologna, Roviale Spagnolo e la pittura napoletana del Cinquecento, Napoli 1959, pp. 73 s.; P. Barocchi, Scritti d'arte del Cinquecento (1971), IV, 1, Torino 1978, pp. 884 s.; G. Previtali, La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, Torino 1978, p. 47 n. 5; G. Conciani - C. Ferri - G. Ghilarducci, I pittori rinascimentali a Lucca, Lucca 1988, p. 231; P.L. Leone de Castris, La pittura in Italia. Il Cinquecento, II, Milano 1988, pp. 487, 513 n. 14; S. Ferino Pagden, Giulio Romano pittore e disegnatore a Roma, in Giulio Romano, Milano 1989, pp. 82, 85, 94 n. 114, 252 s.; A. Pacini, La Chiesa pistoiese e la sua cattedrale nel tempo. Repertorio di documenti (1451-1550), Pistoia 1994, pp. 153, 155; P.L. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli, Napoli 1996, ad indicem; A. Bisceglia, Esperienze artistiche fuori contesto: da Pistoia al Viceregno di Napoli, in Fra' Paolino e la pittura a Pistoia nel primo '500 (catal.), Padova 1996, pp. 99-102, 105; S. Rossi, Virtù e fatica. La vita esemplare di Taddeo nel ricordo "tendenzioso" di Federico Zuccari, in Federico Zuccari, le idee, gli scritti, a cura di B. Cleri, Milano 1997, pp. 55-57; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIV, p. 553.