GRAZIA (lat. gratia; gr. χάρις)
Questo termine, fra i molti significati che ritiene nell'uso corrente - come di dote che rende gradito chi la possiede, di benevolenza e di favore che ne deriva, di beneficio che n'è l'effetto, di riconoscenza o gratitudine che ne è il contraccambio - è passato nel linguaggio cristiano e in quello dei teologi cattolici specialmente, a un senso affatto proprio e fondamentale in tutta l'economia della religione rivelata e massime della vita e dottrina cristiana: a indicare un'assoluta gratuità e soprannaturalità di dono divino.
Concetto, divisioni e denominazioni. - Le religioni storiche riconoscono da Dio, come causa prima, il dono dell'essere con gli altri beni di natura che l'accompagnano; dono gratuito, perché non potuto meritare dall'individuo, e perciò "grazia". Ma la religione d'Israele prima, e poi la religione cristiana che la portò al suo compimento (Matt., V, 17), aggiungendo alla rivelazione naturale la rivelazione positiva e soprannaturale, riconosce da Dio, oltre il dono dell'essere naturale, un altro dono, e come un altro essere, di un ordine non contrario, ma superiore affatto alla natura; ossia, non indebito solo al merito dell'individuo, com'è anche il dono dell'essere naturale, ma a qualsiasi esigenza di natura creata o creabile. Questa elevazione della creatura a un ordine divino, importa una speciale somiglianza e una partecipazione arcana alla stessa natura di Dio: quindi è la "grazia" per eccellenza. Ma essa inchiude nel suo concetto un doppio elemento: negativo, nell'esclusione dell'indegnità, del peccato; e positivo, nella conseguente "giustificazione", che induce nell'anima un abito o qualità permanente, come una nuova natura, accompagnata da proprie facoltà che sono le virtù infuse; e presuppone insieme tutta una serie di atti, mozioni, ispirazioni o impulsi destinati a prepararla, conservarla e accrescerla; e perciò compresi dapprima nello stesso termine complesso di "grazia divina" o anche auxilia gratiae. Nel primo e più nobile senso di abito o condizione permanente, è chiamata già da Pietro Lombardo e S. Tommaso "grazia abituale"; nel secondo, come aiuto della prima o atto transeunte, è detta auxilium gratiae, e più tardi "grazia attuale", termine non usato ancora da S. Tommaso. Con la più sottile analisi poi del concetto dell'una e dell'altra, altre distinzioni e denominazioni s'introdussero per la maggiore ricerca di precisione, massime dopo il Concilio di Trento e le controversie del sec. XVI; secondo che si considera la grazia nella sua causa o nei suoi effetti, nelle sue operazioni o funzioni svariate, nel soggetto o nel fine, e questo o prossimo, o remoto, o fine ultimo, e via dicendo. Così, nel primo riguardo, che è della causa efficiente, si distingue, come dice S. Tommaso, Deus donans e il donum Dei; o, come parlano altri teologi, e lo stesso Pietro Lombardo con S. Agostino, la gratia dans, Dio datore stesso della grazia, e la gratia data, che è il dono di Dio, sia in quanto solleva la natura (gratia Dei) sia in quanto la sana e la ristaura in Cristo (gratia Christi). E questa gratia data et non reddita, come parla Sant'Agostino, considerata nel suo effetto e intento soprannaturale (finis primarius), si dice. con altra distinzione approvata da S. Tommaso (II, 1, q. 111, art. 1), gratum faciens, quando perfeziona e fa accettevole a Dio chi la possiede, ovvero gratis data, quando se ne considera la mera gratuità in ordine all'utilità altrui, come certi carismi soprannaturali. In riguardo al soggetto che la riceve, si distingue la grazia che sta nell'essenza dell'anima (abituale) e quella che è nelle potenze o facoltà dell'anima; e questa è grazia esteriore, se tocca i sensi, come, ad esempio, i sacramenti, la predicazione, i miracoli; è grazia interiore, se è ricevuta nell'anima stessa e per sé non apparente all'esterno, se non in quanto ridondi nel corpo; grazia interiore che può essere perfettiva dell'intelligenza o della volontà, e come suol dirsi, grazia di mente o di cuore, o l'una e l'altra cosa insieme, come è l'illustrazione dell'intelletto con la mozione della volontà che la consegue. Per rispetto al modo o all'operazione propria si distingue in varî termini, di grazia operante e grazia cooperante, come già da Pietro Lombardo e poi da S. Tommaso (ivi, articolo 2°), e ancora, preveniente, concomitante e susseguente, secondo la maniera dell'influsso nell'atto vitale; o più semplicemente, come distingue poi il Concilio tridentino (sess. VI, cap. V), grazia eccitante, quella che previene e alletta alla libera operazione, e grazia adiuvante (gratia adiuvans) quella che corrobora la volontà nel volere ed eseguire ciò che la grazia eccitante ha suggerito. Quanto all'efficacia dell'una e dell'altra grazia, di quella che muove e di quella che aiuta, si ha la divisione più celebre, dopo le controversie protestanti e poi gianseniste massimamente, in grazia sufficiente, che dà il potere, ma non infallibilmente l'operare, e grazia efficace, quella che va infallibilmente congiunta col suo effetto, cioè con l'atto salutare. Tutte queste divisioni o denominazioni, e altre ancora che si trovano fatte da teologi, riguardano la stessa realtà considerata ora sotto l'uno, ora sotto l'altro rispetto, sebbene sempre tale che la natura creata non può avere esigenza alcuna ad essa, ma solo quella potenza che i teologi chiamano obbedienziale: ossia una potenza, o capacità, che si considera in ordine a Dio datore della grazia, ed è una disposizione non meramente ideale, ma fisica e reale, come quella che abilita la creatura stessa a una vera causalità o materiale o strumentale, per cui la creatura può cooperare vitalmente alla mozione soprannaturale della grazia.
Fondamenti biblici e dogmatici. - Della grazia in genere si ritrova la rivelazione essenziale nell'economia stessa dell'Antico Testamento, come nei passi della Scrittura, massime dei Salmi, in cui si riconoscono i gratuiti benefizî di Dio, a esaltazione dell'uomo e a salvezza delle anime, oltre l'annunzio dei futuri doni e carismi dell'era messianica. Ma molto più si trova nel Nuovo Testamento; il quale perciò si chiama legge di grazia e di amore. E anzitutto nei Sinottici troviamo accennati gli elementi, che saranno poi svolti nella sintesi dottrinale della grazia, come la paternità di Dio e la divina adozione dell'uomo, e la sua destinazione al regno di Dio, sia in quanto esso "è dentro di noi", sia in quanto è a noi estrinseco, cioè in quanto ci fu da Dio "preparato fino dalla prima costituzione del mondo". Assai più spiegati li troviamo nel quarto Vangelo; particolarmente col Logos, o Verbo eterno, che "illumina tutti gli uomini", che "è pieno di grazia e di verità della cui pienezza noi tutti abbiamo ricevuto"; infine, e con la maggiore pienezza, che non altera ma chiarisce la precedente rivelazione, nelle lettere di S. Paolo: così il doppio ordine di cognizioni, naturale l'uno e l'altro soprannaturale, rivelato da Dio, la volontà salvifica di Dio rispetto a tutti gli uomini, la missione misericordiosa di Cristo, la gratuita elezione e giustificazione, l'efficacia e la varietà dei carismi, la necessità e la potenza della mozione divina negli atti salutari, e altri elementi. Fra i quali S. Pietro afferma essere quaedam difficilia intellectu (II Pietr., III, 16) dopo aver accennato ai maxima et pretiosa nobis promissa (I, 4) per cui diveniamo consortes, ossia partecipi, della divina natura; partecipazione che è designata pure come figliolanza (adottiva) e conseguente somiglianza e unione con Dio inabitante nell'anima, conferendole il diritto all'eredità divina, cioè alla felicità e visione intuitiva di Dio (I Giov., III, 2).
Svolgimento dogmatico. - Da questi principî della rivelazione positiva, l'alta speculazione dei Padri e Dottori della Chiesa venne poi svolgendo e chiarendo la dottrina della grazia, fino dai primi secoli, al lume congiunto della Scrittura e della tradizione della Chiesa, prendendo a ciò l'impulso dalla necessità di respingere le negazioni o alterazioni tentate dalle insorgenti eresie. Così, già tra i Padri apostolici, Clemente Romano ne afferma la virtù trasformatrice, dovuta all'effusione del sangue di Cristo; Ignazio martire la vita largita per Cristo col doppio effetto di sciogliere dal peccato e stringere nella carità; Policarpo l'efficacia operatrice della salvezza; Ireneo la rinascita spirituale a una nuova somiglianza con Dio; e così altri Padri susseguenti fanno eco nell'ammettere una tale elevazione, che alcuni chiamano anche "deificazione", della natura umana. Che se i Greci con gli altri orientali insistono sulla bontà della natura creata da Dio e sulla libertà umana, nell'elevazione e operazione arcana della grazia, contro gli eretici dei loro tempi (v. gnosticismo; manicheismo), non ne dissentono i Latini, come Ambrogio, Girolamo, e lo stesso Agostino, chiamato poi "il Dottore della grazia".
S. Agostino, anzi, nelle prime sue opere contro i manichei, parve quasi esagerare le forze e la dignità della natura per la difesa del libero arbitrio. Ma negli scritti susseguenti, provocati dai "nemici della grazia" (v. pelagianesimo), fu condotto a rilevare sempre più fortemente il punto della necessità e dell'efficacia della grazia, che i più audaci, col britanno Pelagio e lo scoto Celestio, negavano essere necessaria a tutti gli atti salutari; i più moderati invece (semipelagianesimo) al principio della salute (initium fidei) e alla perseveranza finale: gli uni e gli altri condannati ben presto dai papi (Innocenzo I, Zosimo, Celestino I, Leone Magno, ecc.) e dai concilî che i papi approvarono, come il Milevitano del 416, il Cartaginese del 418, l'Efesino del 431 e l'Arausicano (Orange) del 529. Con ciò e papi e concilî approvarono la dottrina della necessità ed efficacia della grazia, propugnata contro gli eretici, ma insieme dichiararono che "profundiores difficilioresque partes incurrentium quaestionum... non necesse habemus astruere". Che se non definirono i punti accessorî o più astrusi delle questioni della grazia, condannarono però sempre l'estremo opposto, di quelli che per esaltare la grazia trascorrevano alla negazione della libertà, come i predestinaziani - fra cui il prete Lucido nel 473, condannato poi dai sinodi di Arles e di Lione - in quanto supponevano indotta dalla predestinazione divina una necessità antecedente e assoluta in tutti gli atti umani, se pure la loro opinione non fu esagerata dai semipelagiani che la confutarono. Essa fu poi certo sostenuta dal monaco Gotescalco nel secolo IX, condannato pure da parecchi concilî (a Magonza nell'848, a Quierzy o Carisiacum nell'849 e 853, ecc.; v. predestinazione; predestinaziani). Ma essendovisi opposto il filosofo Scoto Eriugena con negare addirittura la stessa divina prescienza, da lui confusa con la predestinazione, fu anch'egli condannato nel concilio di Valenza in Francia; il quale non contraddisse però, nonostante qualche divergenza di termini, a quello di Quiercy.
La dottrina conciliatrice della Chiesa - che tenne il mezzo tra gli estremi accennati - fu poi ridotta a sintesi, chiarita e difesa dagli scolastici, quali S. Anselmo d'Aosta, col suo trattato De concordia praescientiae et praedestinationis nec non gratiae Dei cum libero arbitrio, sebbene non ancora tanto preciso nel distinguere la giustizia naturale dalla soprannaturale; Pietro Lombardo che nelle sue Sentenze (II), identifica tuttavia la grazia abituale con la carità infusa, e questa con lo Spirito Santo inabitante nell'anima; S. Bonaventura di Bagnoregio (Comm. in quattuor libros Sentent.; Breviloquium), che commenta e segue, ma rettifica pure o chiarisce il Maestro delle sentenze; e sopra tutti S. Tommaso d'Aquino che, dopo alcune incertezze delle prime sue opere (come nel commento a Pietro Lombardo In quattuor libros Sentent.), diede la sintesi più perfetta, particolarmente nella Summa Theologica (11, 1, qq. 109-114), dove studia la grazia in sé, nella sua essenza cioè, nella sua necessità e nelle sue divisioni, determinando quindi meglio la sua causa, e infine i suoi effetti, con tutto un rigido sistema conforme alla dottrina della Chiesa.
E la susseguente tradizione dei teologi cattolici nella sua maggioranza fu con questi dottori, e massime con S. Tommaso lasciandosi pure un largo campo libero alle discussioni e divergenze su punti accessorî e spiegazioni particolari, secondo le varie scuole o tendenze, derivate per lo più da principî o indirizzi filosofici che non si opponevano direttamente al dogma.
Così, dentro i termini dell'ortodossia, l'agostinismo propendeva ad amplificare l'impotenza della natura decaduta, e questa tendenza. pericolosa al libero arbitrio, rappresentata da Egidio Romano e poi da Gregorio da Rimini col suo ecletticismo di sentenze agostiniane e nominalistiche, doveva perdurare in molti agostiniani fino al Concilio di Trento, nello stesso dotto Seripando, generale dell'ordine agostiniano e poi cardinale. Che se il tomismo sembrava dar troppo nell'intellettualismo aristotelico, lo scotismo pareva troppo concedere al volontarismo platonico, massime con l'inopportuno suo ricorrere alla libera volontà di Dio, invece che alla necessaria essenza delle cose, contro S. Tommaso. E lo imitava il nominalismo, anzi lo superava di molto, con la sua distinzione fra la "potenza ordinata" di Dio, condizionata cioè all'ordine presente, e la "potenza assoluta", non condizionata da ipotesi alcuna, neppure dell'assurdo; con la quale distinzione la scuola di Guglielmo Occam e di Gabriele Biel faceva passare due diversi insegnamenti o sistemi circa la giustificazione, uno conforme alla dottrina corrente della Chiesa ("potenza ordinata"), l'altro ai proprî principî del nominalismo; per cui era ammessa, ad esempio, come possibile un'elevazione soprannaturale dell'uomo meramente estrinseca o per semplice imputazione o denominazione, senza realtà intrinseca, senza diritto alla vita eterna: sentenza che poi doveva preparare la via alla giustizia prettameme imputativa, e non reale, di Lutero. Non tutti i nominalisti però seguivano fino a questi estremi l'Occam e il Biel, i quali rasentavano talvolta anche il semipelagianesismo, come nell'escludere la necessità di uno speciale Dei auxilium per la preparazione alla grazia abituale: basti ricordare, con Gersone meno preciso, Enrico di Langenstein, Pietro d'Ailly e Marsilio di Inghem, e infine Giovanni Mayr ed Enrico di Oyta coi loro dissensi dal maestro del nominalismo, oltre il già menzionato Gregorio da Rimini, trascinato ben presto dal suo agostinismo all'altro estremo (cfr. K. Feckes, Die Stellung der nominalistischen Schule zur aktuellen Gnade, in Römische Quartalschr., 1924; id., Die Rechtfertigungslehre des Gabriel Biel und ihre Stellung innerhalb der nominalistischen Schule, Münster in W. 1925; id., Gabriel Biel, der erste grosse Dogmatiker da Universität Tübingen seiner wissenschaftlichen Bedeutung, in Theol. Quartalschr., 1927).
Con lo scadimento della scolastica e col rinascimento della cultura pagana all'uscire del Medioevo, rinacquero le antiche tendenze ai due estremi, o contro la grazia divina, o contro la libertà umana: né solamente fra gli umanisti paganeggianti come Lorenzo Valla, ma anche fra uomini di chiesa; e prima nell'inglese Giovanni Wycliffe, che diede nel fatalismo (Omnia de necessitate absoluta fiunt, ecc.) poi nel boemo Giovanni Hus, che ne prese la difesa; indi in Martin Lutero, il quale insegnò che "in ogni opera buona il giusto pecca", che anche "l'opera buona compiuta nel miglior modo è peccato veniale", "che la sola fede (di conseguire la grazia) fa puri e degni" i fedeli, e altre proposizioni (41), condannate da Leone X (1520); le quali poi egli aggravò nell'opera De servo arbitrio, che provocò le sdegnose confutazioni dello stesso umanista Erasmo da Rotterdam; e infine, in Giovanni Calvino che tutti superò nell'inflessibile determinismo predestinaziano, fino a negare all'uomo (nelle sue Institutiones religionis christianae) ogni dignità di libero arbitrio, e a fare Dio stesso autore del peccato e della dannazione, a cui avrebbe predestinato la creatura in modo da sopprimerne l'uso della libertà.
Questi sistemi poi, passando dalla teoria alla pratica per naturale conseguenza, stante il diminuito senso della responsabilità e della libertà umana, non poterono mancare dei più gravi effetti nella vita individuale e sociale; e tra essi, quasi unico freno alla licenza popolare, favorirono l'assolutismo dei principi e dei governi protestanti, presto imitato in paesi cattolici.
Di tali questioni pertanto, che erano il perno di tutta la riforma protestante, dopo lunga preparazione di studî trattò il Concilio di Trento, particolarmente nella sessione VI (De iustificatione). E vi parteciparono, specie nelle discussioni preliminari, tutte le scuole o tendenze varie dei teologi tra i più eminenti di quel secolo, dall'agostiniano Seripando - il cui abbozzo fu però rigettato - al domenicano Catarino e al gesuita Lainez, il quale nell'ampia dissertazione, accolta con plauso e conservata negli atti, accenna alla predestinazione post praevisa merita.
In un decreto di 16 capitoli, il Concilio riassume la dottrina cattolica della giustificazione e della grazia, anatemizzando nei 33 canoni che lo seguono tutti i contrarî errori, ma prescindendo dalle opinionì discusse fra i teologi.
Al determinismo e pessimismo calvinistico si avvicinarono tuttavia, anche dopo il Concilio di Trento, per un'esagerata adesione alla lettera più che al senso di S. Agostino, alcuni teologi di scuole cattoliche: con più tenacità Michele Baio (v. baius), professore dell'università di Lovanio, in una serie di 79 proposizioni, difformi dal giusto concetto di soprannaturale e di grazia, d'integrità e di libertà della natura umana, di peccato e di merito, ecc., proposizioni condannate da S. Pio V (1567), da Gregorio XIII (1579), e di nuovo da Urbano VIII (1641). E il sistema di Baio ebbe poi continuatori in Cornelio Jansen (Giansenio; v.), vescovo d'Ypres nel Belgio, e nei fautori del suo postumo libro Augustinus, di cui furono proscritte (1653) da Innocenzo X, e poi di nuovo da Alessandro VII e da Clemente XI, cinque fondamentali proposizioni (che "vi sono precetti di Dio impossibili"; che "alla grazia interiore non si resiste"; che "Cristo non è morto per tutti", ecc.). Resistendo alle ripetute condanne, i giansenisti estesero alla pratica il loro "pessimismo" teorico, e trascorsero ad altri molti errori contro il dogma e la morale cattolica, irrigidendola particolarmente in un estremo "rigorismo" (presupposero, per es., dei "precetti di Dio impossibili", eppure gravemente obbligatorî) con le proposizioni condannate da Alessandro VIII, nel decreto del 7 dicembre 1690. A queste vanno aggiunte quelle dell'oratoriano Pascasio Quesnel (che "il peccatore non è libero se non al male senza la grazia"; che "la preghiera degli empi è un nuovo peccato, ed è un nuovo castigo ciò che Dio concede loro", ecc.), proposizioni condannate da Clemente XI con la bolla dogmatica Unigenitus dell'8 settembre 1713; e infine quelle, ancora più rivoluzionarie, di Scipione de Ricci vescovo di Pistoia, e del suo "sinodo pistoiese" del 1786, condannate da Pio VI nella bolla Auctorem fidei. L'influenza di questi errori, infiltratisi anche fra i cattolici, massime nella tendenza al rigorismo, al "pessimismo" e simili, e più ancora la necessità e l'impegno di ribatterli, fecero nascere divergenze, manifestatesi talora in ardue discussioni fra gli stessi teologi cattolici. Ma le loro divergenze non riguardarono mai la sostanza, già teologicamente accertata, del sistema dottrinale, circa la necessità, la natura, l'efficacia, la distribuzione della grazia, e il merito che ne deriva.
Sistema teologico della grazia. - Si riduce ai cinque capisaldi accennati, e già analizzati da S. Tommaso:
1. Necessità della grazia. - Essa è triplice: a divenire giusto, cioè alla conversione salutare, a tutto il processo della giustificazione nei suoi varî stadî descritto dal Tridentino (sess. VI); a vivere da giusto, a seguire cioè costantemente la norma della legge divina, considerata l'osservanza della stessa legge sia in universale, sia nel particolare, secondo le due parti essenziali della legge, di fare il bene e fuggire il male; infine a morire da giusto, cioè alla perseveranza finale, a cui va unita la salvezza ed è necessaria perciò la grazia di un aiuto, e affatto speciale, sia perché distinto dal concorso generale di Dio in qualsiasi operazione della creatura, sia perché sovrabbondante, e soprattutto perché congruo, cioè efficace, siccome dato in tali circostanze che Iddio prevede accompagnarsi con l'effetto: onde la creatura non può meritarlo mai, rigorosamente parlando, ma può certamente impetrarlo. Soggetti a discussione restano tuttavia diversi punti, come, ad esempio, se sia proprio necessaria la grazia, e quale, per tutti e singoli gli atti moralmente buoni, contenuti nella legge divina; quale grazia occorra per evitare tutti i peccati, anche i veniali, e quali ad ottenere il menzionato "dono della perseveranza" e via dicendo.
2. Natura. - Altra è quella della grazia attuale, che sta nella mozione e si spiega con la vitalità degli atti, in quanto sono azioni della creatura, e con la loro soprannaturalità, in quanto sono effetti della virtù divina: onde la vitalità n'è quasi il genere, e la soprannaturalità n'è la propria differenza; giacché distingue tale mozione speciale della grazia agli atti salutari, dalla mozione generale, ossia concorso naturale della Provvidenza, a qualsiasi operazione creata. Altra è la natura della grazia abituale, cioè non di un semplice atto o mozione; molto meno di un'estrinseca denominazione o mera imputazione della giustizia di Cristo, come affermarono i protestanti; ma una qualità vera e propria, inerente all'anima, con proprî effetti formali, come remissione del peccato, adozione o inabitazione divina, santità e amicizia con Dio. I quali effetti derivano tutti dall'essere l'uomo per un tal dono consors, ossia partecipe, della natura divina: partecipazione che è l'interna ragione della soprannaturalità della grazia e diviene perciò quasi una nuova natura, accompagnata da proprie facoltà, o abiti operativi degli atti soprannaturali, che sono le virtù infuse con la grazia santificante nella giustificazione. Alcuni punti anche qui sono lasciati alle libere dispute dei teologi, come sulla natura della grazia abituale, che alcuni identificano con la carità, e delle virtù infuse nella giustificazione, se vi si diano cioè, oltre le teologiche, anche le morali; ed altre questioni sottili.
3. Efficacia. - Dalla natura ed essenza segue logicamente la forza o virtù della grazia; ma questa si manifesta nella grazia "sufficiente" in diversa maniera che nell'"efficace". La sufficiente dà il potere, né già remoto soltanto o manchevole di qualcuno dei requisiti per sé necessarî ad operare, come asserì Giansenio, perché allora non sarebbe più sufficiente, ma dà il potere pieno, che si dice dell'atto primo prossimo; non dà però l'operare, ossia non sempre trae con sé l'effetto attuale e ciò solo per il difetto della libera volontà creata: onde si accorda la sufficienza, che è da Dio, con l'inefficacia, che viene dall'uomo. La grazia specificamente efficace, invece, porta la connessione infallibile con l'assenso della volontà; ma ciò in modo da conciliarsi con il libero arbitrio, ossia senza necessità antecedente alla libera azione della volontà mossa dalla grazia. La maniera tuttavia di conciliare quest'efficacia, inseparabile dall'atto, con la libertà dell'arbitrio all'atto medesimo indifferente, non è definita, purché si escluda la dottrina di Calvino, e degli altri fautori della grazia necessitante. Così tra gli stessi cattolici, altri la spiega con la teoria della "predeterminazione fisica", o altra mozione previa: onde la grazia sarebbe effificace per sé stessa, cioè di natura sua connessa con l'assenso della volontà; la quale resterebbe però libera di dissentire, pur non avendo vera potenza di rendere vana la mozione della grazia; il che non sembra ad altri facilmente conciliabile con la definizione del Tridentino (sess. VI, can. IV). Altri ricorre alla teoria "agostiniana" della dilettazione vincitrice (delectatio victrix), per cui l'uomo decaduto è tratto a seguire l'allettamento della maggiore dilettazione indeliberata. Che se questa dilettazione è la grazia, vincerà essa il diletto della concupiscenza e sarà necessariamente efficace; laddove, se prepondera la dilettazione terrena, la grazia sarà vinta, perciò necessariamente inefficace. Ma si oppone in contrario che in una siffatta lotta di dilettazioni la libertà dell'arbitrio sembra ridursi a una semplice indifferenza di giudizio, quale ammettevano i giansenisti con altri novatori; né pare che si salvi quindi chiaramente il giusto concetto dell'efficacia e della sufficienza della grazia, conciliabile con la libertà. Altri, infine, non vogliono riposta l'efficacia della grazia nella virtù o entità fisica di essa, antecedente ad ogni uso di libertà creata, ma l'ammettono conseguente alla futurizione condizionata del consenso medesimo preveduto da Dio nella sua scienza infinita: la quale non è solo "scienza di visione", cioè degli esistenti in qualsiasi differenza di tempo, anche dei futuri liberi assoluti, ma anche scienza dei futuri condizionati" partecipe dell'una e dell'altra, perciò chiamata "scienza media"; e tale quindi che non toglie, ma suppone il libero esercizio della volontà. In ciò sta l'essenza o ragione formale della grazia efficace, che appare quindi conciliabile con la libertà creata. Ma l'esistenza di essa dipende da Dio, ed è perciò dono gratuito, in quanto Iddio per mera sua bontà largisce un tale aiuto che prevede efficace, anziché un altro preveduto da lui sufficiente ma inefficace. Questa inefficacia tuttavia, come l'uso e l'abuso della grazia, dipende dal libero arbitrio della volontà, secondo la sentenza di S. Agostino: consentire vel dissentire proprie voluntatis est. A tale spiegazione - che prende varî nomi secondo varie sfumature, come di molinismo, di congruismo e simili - si accostano nella sostanza i tre Dottori della Chiesa più recenti, S. Francesco di Sales (1567-1622), S. Roberto Bellarmino (1542-1621) e S. Alfonso de' Liguori (1696-1787).
4. Provvidenza o distribuzione della grazia. - Pur restando sempre gratuita, è data sempre a tutti la grazia sufficiente per salvarsi: è data al giusto per continuare nell'osservanza della legge di Dio, e quindi perseverare nella giustificazione; è data al peccatore quantunque ostinato, per convertirsi; e anche all'infedele per giungere alla fede e salvarsi; giacché Iddio, quanto è da sé, "vuole che tutti gli uomini vadano salvi", e "Cristo è morto per tutti", come dice l'Apostolo, e "di tutti gli uomini è Salvatore", sebbene in maniera speciale dei fedeli (I Tim., IV, 10). Questo è di fede, contro gli errori dei pelagiani da una parte e dei protestanti e giansenisti dall'altra; espresso nell'adagio teologico: che "Dio non nega la grazia a quanti fanno ciò che è da loro", sia che lo facciano con le mere forze naturali, sia che lo facciano con l'aiuto della grazia stessa: di che possono disputare i teologi, come in altri punti di questo astrusissimo argomento.
5. Merito delle opere buone. - È il frutto della grazia, ma diviene titolo di giustizia, come intrinseco "valore dell'opera, per cui è dovuto a chi la compie una degna retribuzione", quasi prezzo o mercede dell'opera; perciò atto di giustizia: corona iustitiae (II Tim., IV, 8). La verità del merito è definita dal Concilio di Trento (sess. VI, can. 32), in quanto insegna che "le opere buone dell'uomo giustificato sono doni di Dio, ma insieme veri meriti dello stesso giustificato", onde questi, "per la grazia di Dio e il merito di Gesù Cristo, del quale è vivo membro, merita veramente l'aumento della grazia, la vita etema, e, se muore in grazia, il conseguimento della stessa vita eterna e ancora l'aumento della gloria". Da ciò deducono poi i teologi la natura del merito stretto - meritum condignum - anche antecedentemente alla promessa divina, e quindi la ragione di eguaglianza che Iddio mantiene nella retribuzione, quantunque non vi possa essere costretto dal debito rigoroso di giustizia, che non può darsi nel creatore verso la sua creatura. Ma questa e tante altre questioni, come circa le condizioni richieste per il meritum condignum, e quello per il meritum congruum, il grado dell'intensità necessario, perché gli atti siano meritorî, la perdita e la "reviviscenza" dei meriti, e simili, sebbene siano parte del sistema teologico, non sono propriamente del dogma cattolico, non essendo definite.
Fonti: Si trovano raccolte in Denziger-Bannwart, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum (Friburgo in B. 1928); e in Roüet de Journel, Enchiridion Patristicum, locos SS. Patrum, Doctorum, Scriptorum Ecclesiasticorum continens... (Friburgo in B.), oltreché nella Conciliorum Nova et amplissima Collectio del Mansi (1759-1799), nella Collectio Lacensis (Parigi e Friburgo 1875-1890), ecc.
Bibl.: Oltre le opere citate, sono numerosi gli scritti speciali sulle dottrine dei Padri e degli scrittori greci e latini, specialmente di S. Agostino e di S. Tommaso sul Concilio di Trento e sulle controversie susseguenti dei teologi (De auxiliis); ma più numerosi ancora i trattati generali De Gratia, dei quali si veda il lunghissimo elenco dato da J. Van der Meersch, autore esso pure di un ampio trattato De divina Gratia, Bruges 1910, nel compendio francese pubblicato in Dict. de théologie catholique, Parigi 1920, VI, coll. 1554-1687. Fra le più recenti, v. H. Lange, De Gratia. Tractatus Dogmaticus, Friburgo in B. 1929, il quale riporta pure ad ogni luogo la più scelta e moderna bibliografia.