Ascoli, Graziadio Isaia
Graziadio Isaia Ascoli, nato a Gorizia nel 1829 da ricca famiglia ebraica e formatosi nell’ambiente plurilingue della città, si dedicò da autodidatta allo studio delle lingue e della linguistica, pubblicando a soli 17 anni il saggio Sull’idioma friulano e sulla sua affinità colla lingua valaca. Entrato in contatto con il mondo scientifico tedesco e con vari studiosi italiani nel tentativo di fondare una rivista (i giovanili «Studi orientali e linguistici», di cui uscirono tre soli volumi), dall’anno 1861 si trasferì a Milano, chiamato a ricoprire nella neonata Accademia scientifico-letteraria la cattedra di Grammatica comparata e lingue orientali (nel 1863 da lui ridenominata di Linguistica).
Dapprima studioso soprattutto di indeuropeistica (Lezioni di fonologia comparata del sanscrito, del greco e del latino, 1870), Ascoli si orientò poi verso gli studi romanzi e la dialettologia italiana, contribuendo anche in questo campo all’affermarsi del metodo storico-comparativo e realizzando il progetto di una rivista scientifica, l’«Archivio glottologico italiano», per «dotare l’Italia di uno strumento che, nell’ambito della linguistica, le consentisse di affermarsi in Europa» (Gusmani 2004: 203). L’«Archivio glottologico italiano» accolse nel primo numero (1873) tanto il suo Proemio, che saldava insieme «impegno civile e questione linguistica» (ivi) e manifesto polemico nei confronti delle posizioni linguistiche manzoniane (➔ Alessandro Manzoni), quanto i Saggi ladini, premiati dall’Accademia delle scienze di Berlino. Sulla rivista apparvero in seguito altri suoi fondamentali contributi come gli Schizzi franco-provenzali e le Lettere glottologiche. Nel 1882 ripubblicò nel suo «Archivio» l’articolo L’italia dialettale (scritto nel 1880 per l’Encyclopaedia Britannica), primo tentativo di classificazione rigorosa dei dialetti italiani.
Membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione (1882-99), presidente nel concorso per i vocabolari dialettali nel 1890-1895 (Poggi Salani 1995), Ascoli lasciò l’insegnamento nel 1902 e morì a Milano nel 1907.
Fonti essenziali per lo studio della lingua e delle idee linguistiche di Ascoli sono, oltre alla sua vasta produzione scientifica, i ricchissimi materiali autografi custoditi nel suo Archivio (Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei): dai quaderni giovanili di esercizi di lingua, di traduzioni e di spogli d’autori italiani, agli abbozzi e ai manoscritti di opere edite e inedite, ai carteggi scientifici e alle lettere private. I suoi primi quaderni (dal 1834) testimoniano «che la conoscenza e l’uso dell’italiano, del tedesco e dell’ebraico erano pressoché paritari, e rivelano una spiccata tendenza alla comparazione lessicale, specie fra italiano e tedesco, ma anche fra le tre lingue» (Bonomi 1995: 30). Un glossario di circa 600 voci del 1843 (Voci italiane ricercate che trovansi negli scritti dei Classici e d’altri scrittori unitamente a diverse frasi di questa lingua colla loro spiegazione) mostra un giovane Ascoli intento a conquistare l’italiano letterario e a «ripercorrere le orme dell’educazione classicista d’ogni età» (Cartago 2001: 405) nella sua formazione linguistica di non toscano nato in terra di confine.
Alle valutazioni sulla scarsa ‘italianità’ della prosa scientifica ascoliana, dovuta alla provenienza geografica periferica, si sono sommati giudizi critici riguardo allo stile, ritenuto originale ma eccessivamente complesso, e alla scarsa modernità espressiva di «una scrittura giudicata obsoleta e ridondante» (Dardano 2007). Lo stile di Ascoli mostra una certa evoluzione nel tempo e una differenziazione a seconda dei generi: gli scritti scientifico-documentari, come i Saggi ladini, appaiono meno elaborati retoricamente e caratterizzati da una diversa testualità rispetto a un testo argomentativo programmatico e polemico come il Proemio (Dardano 2007), che si connota diversamente anche rispetto alle lettere private di argomento scientifico scritte a colleghi e allievi (caratterizzate da «un livello di formalità medio» (Savini 2007: 277). La lingua di Ascoli appare invece sostanzialmente omogenea e immutata nel tempo e nei generi testuali, letteraria in senso tradizionale, con punte arcaizzanti e auliche, ma anche con tratti di forte originalità espressiva, specie nel lessico. Se ne delineano i caratteri principali, sulla scorta degli spogli di Poggi Salani (2001), Savini (2007), Dardano (2007).
A livello grafo-fonetico, si segnala la preferenza per alcune forme tradizionali e di uso ormai meno corrente: la -j finale nei plurali da -io atono (studj, avversarj, dizionarj, operaj), e -j- tra vocali (ajuola, ajuti, operajo, pajono); la conservazione del dittongo anche dopo palatale (crogiuolo, figliuoli), e il generale rispetto del dittongo mobile (sonava, risonato); i tipi culta, surge, istoria, dilicato; la scelta, consapevole, di forme senza rafforzamento: imagine, academia, abondanza («io mi sono abituato e rimango a tale ortografia», scriveva nel 1872 a D’Ovidio: cfr. Poggi Salani 2001: 303); la i- prostetica: in iscritto, in istile, non isvilupparsi; apocopi e troncamenti (de’ promotori, con facil sicurezza); l’uso di -d eufonica (Ned è certo).
Anche nella morfosintassi si rileva la predilezione per forme all’epoca in regresso: nei verbi (vegga, richiegga, stieno), nei pronomi (ell’è tuttavolta un’invidia, le costoro discipline, tal facoltà […] cui [= che] l’umanità non aveva peranco raggiunto; disinvoltura […] con che [= cui] il tedesco è ricorso); il tipo vi ha, vi hanno «c’è, ci sono»; i connettivi (diguisaché, per guisa che, eziandio, laonde, tuttavolta); gli avverbi (almanco, di leggieri, imprima, peranco, poscia); l’uso di participi e gerundi, di costrutti con l’infinito, di nessi relativi («Contro la quale affermazione», ecc.).
Anche l’ordine artificioso delle parole, ricco di anteposizioni e distanziazioni, è improntato a uno stile tradizionale, e «svolge un ruolo primario nel fondare l’architettura dei periodi» (Dardano 2007). Nella prosa scientifica di Ascoli predominano infatti periodi lunghi e complessi (ma «si alternano talvolta con i periodi brevi, creando effetti di contrasto», ivi), ricchi di connettivi e subordinate, di strutture bi-trimembri e di enumerazioni, di parallelismi (come … così ..., quanto ... tanto ...) e di incisi che consentono di precisare il ragionamento.
Nella scrittura ascoliana le strategie dell’argomentazione scientifica si combinano infatti con l’uso delle tecniche retoriche, e a questa esigenza rispondono anche la frequenza dei binomi disgiuntivi o avversativi («un principio o un’innovazione»; «la scienza, o meglio l’energia riflessiva»), le antitesi («quella miracolosa versione della Bibbia, che ruppe l’unità della fede e creò l’unità della nazione»), i vari tipi di ripetizione (tipico, per es., il ricorrere nel Proemio del lessico di parole-chiave come saldo, fermo e derivati) e di riprese lessicali come ‘rinforzo concettuale’, l’uso abbondante di ma testuale iniziale che segnala gli snodi logici del pensiero. Costituisce una delle marche più tipiche dello stile ascoliano il ricorso agli usi figurati, a metafore che tramano fittamente anche la sua scrittura epistolare e «che colpiscono per la loro pregnanza e originalità» (Savini 2007: 282), come alcune celebri immagini del Proemio («le fermissime rotaje dell’unico uso», «Parigi è il gran crogiuolo in cui si è fusa e si fonde l’intelligenza della Francia», «gli operaj dell’intelligenza», «l’antichissimo cancro della retorica», ecc.), l’uso di inediti traslati attinti alle scienze naturali e applicati alla linguistica (selezione naturale, inocular l’istinto, la vegetazion dell’alfabeto, svolgimento dei germi primitivi).
Nel lessico, accanto a una forte componente tradizionale e aulica, con punte anticheggianti (cansare «evitare», disumazione «dissotterramento», doglianza «lamentela», raddurre «ricondurre», travolgersi «mutarsi»), si notano «un vigoroso ingresso del neologismo contemporaneo» (Poggi Salani 2001) e la creazione di nuove voci o nuove accezioni (multistirpe, popolanesimo, pseudo-italiano) in particolare nell’ambito della terminologia linguistica (De Felice 1954), come neo-latino, dialettologo, glottologo, continuatore e succedaneo (agg., detto di fenomeno fonetico). Molto del lessico e delle metafore ascoliane sono presenti già negli abbozzi del Proemio (saldezza della lingua, crogiuolo, attrito perpetuo, serbatojo della lingua, ecc.; Morgana 2007).
L’edizione di carteggi e di documenti del suo archivio ha ampliato le conoscenze sulla partecipazione di Ascoli al dibattito sull’italiano postunitario, sui dialetti e sulle condizioni culturali e scolastiche del paese (Morgana 2007), e ha precisato l’evoluzione della sua riflessione sulle questioni linguistiche. Nel 1863 egli stendeva una lezione per il suo corso, rielaborata solo in parte per l’articolo Lingue e nazioni (1864), dove sottolineava le ragioni storiche e l’importanza della lingua letteraria comune come fondamento e motore dell’unità nazionale («Noi siam fratelli in lingua ed in lettere»; Morgana 2001: 312).
Il suo dissenso dalle teorie fiorentiniste e dalle «esorbitanze manzoniane» manifestato nei carteggi (Santamaria 1997; Morgana 2009) e le sue idee sui modi in cui avrebbe potuto realizzarsi l’unità linguistica si esprimevano già nel 1868 in alcuni appunti polemici poi non pubblicati, scritti appena dopo l’uscita della relazione manzoniana Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla, dove Ascoli sosteneva l’esigenza di «suscitare l’attività intellettuale della nazione» che avrebbe creato «la saldezza della lingua» (Morgana 1997; 2001).
Sono importanti anche i vari abbozzi e i materiali preparatori per seguire le fasi di elaborazione del Proemio (anche l’autografo, preparato da Ascoli per la tipografia, presenta varianti rispetto alla stampa nel 1873 sull’«Archivio glottologico italiano»). In esso Ascoli prendeva le mosse dal Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, pubblicato dal 1870, opera di Giovan Battista Giorgini, genero di Manzoni, e di Emilio Broglio, ministro della Pubblica Istruzione, per criticare già dal titolo (Novo, secondo gli esiti moderni e parlati del fiorentino, e non Nuovo, la forma usata in tutta Italia sulla base del fiorentino letterario trecentesco diventato lingua letteraria comune) la pretesa di imporre il fiorentino parlato dai ceti colti come «una manica da infilare» a un paese come l’Italia in cui non c’erano le condizioni per realizzare dall’alto, con un nuovo modello normativo, l’unità linguistica; né si potevano cancellare di colpo le varietà dialettali parlate. Solo creando condizioni culturali diverse e più progredite, riducendo l’analfabetismo e facendo circolare più largamente in tutti gli strati sociali la «culta parola», cioè la lingua letteraria, che rappresentava già la base linguistica comune a tutta Italia, si sarebbe potuto diffondere l’uso dell’italiano e realizzare a poco a poco «questo gran bene della sicurezza della lingua».
Ascoli analizzava con chiarezza la situazione italiana e la sua specificità e arretratezza rispetto ad altri paesi europei (la Francia e la Germania, dove l’unità linguistica si era realizzata con modalità diverse), evidenziava i mali endemici della tradizione culturale italiana («la scarsa densità della cultura e l’eccessiva preoccupazione della forma»), e sollecitava a «quella larga spira di attività civile che poi debba travolgere in ferma unità di pensiero e di parola tutte le genti d’Italia».
Nel 1874 Ascoli, intervenendo al IX congresso pedagogico di Bologna sui problemi dell’insegnamento grammaticale nelle scuole elementari, ritornò sul problema di lingua e dialetti, già toccato nel Proemio con la difesa del bilinguismo, difendendo il «lavoro di comparazione continua» tra dialetto e lingua nel processo di educazione linguistica dei bambini dialettofoni (Raicich 1982: 427). Importante è anche la Lettera sulla doppia questione della lingua e dello stile, a un «Carissimo amico» (Ruggero Bonghi; cfr. Morgana 2009), datata Milano 16 luglio 1875, ma pubblicata sulla «Perseveranza» il 12 aprile 1880, in cui Ascoli metteva in guardia dalla «seduzione pericolosa» esercitata dall’arte del Manzoni, «esito ultimo e limpidissimo di un’operazione infinitamente complicata», e dalla «mala ginnastica letteraria, che usurpa il nome di scuola manzoniana», causa di «una certa monelleria che viene invadendo le lettere, e anche la scuola» (Ascoli 2008: 52-53).
Ancora nella chiusa dell’articolo L’italia dialettale, Ascoli ribadiva le «esagerazioni deplorevoli» a cui si erano prestate le teorie del Manzoni, che avevano portato a una «nuova artifiziosità», a cui bisognava porre rimedio «con l’azione moderatrice del lavoro sempre più largo, più assiduo e veramente collettivo della risorta intelligenza nazionale» (Ascoli 2008: 60). La diagnosi di Ascoli doveva rivelarsi in gran parte fondata. La sua riflessione, nonostante le differenze dalle posizioni di Manzoni, concordava con queste nel mettere il problema della diffusione della lingua nazionale al centro delle questioni dell’Italia postunitaria, e nell’individuare come essenziale il ruolo della scuola e dell’educazione linguistica.
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