Grecia
Nome dato alla parte più strettamente peninsulare della penisola balcanica; oggi, comunque, comprensivo di tutto lo Stato greco. I Greci antichi usavano il toponimo Ἑλλάς (moderno Ellade); come provincia romana fu chiamata Acaia, mentre più tardi il nome di Ρωμαῖοι (e di Romania) accomunò i Bizantini tutti (forse sulla scorta di questo ancora in Salimbene Cronica, ediz. Scalia, p. 266, si legge: " Graecia, quae est provintia Romaniae "). E a proposito della citazione di VE I VIII 2, anche se è difficile fissare bene i limiti che D. intese, si può concordare con il Marigo (De vulg. Eloq.) che tra i popoli quos nunc Graecos vocamus " per riguardo al dominio politico si comprenderebbero, in linea di diritto, quasi tutti i popoli della Balcania e dell'Asia Minore ".
Ai tempi di D. la G. era divisa in diversi stati, la cui costituzione era avvenuta quando, durante la quarta crociata, la spedizione aveva deviato dall'obiettivo iniziale e aveva intrapreso la conquista dei territori dell'impero bizantino; agli stati così costituiti si aggiungevano inoltre alcuni possedimenti veneziani, il regno di Tessalonica, il despotato di Epiro, e la signoria del dinasta greco Leone Sgourós. La G. per vedere ricostituita la propria unità territoriale dovrà attendere fino alla conquista turca.
D. nomina direttamente la G. soltanto in due luoghi. In If XX 108 ricorda la condizione della G. durante la guerra di Troia, di maschi vòta, / sì ch'a pena rimaser per le cune, poiché tutti gli uomini validi erano partiti per la guerra.
Per quanto concerne la cultura della G. classica e della civiltà bizantina fruita da D., v. BIZANTINA, Civiltà; CLASSICA, Cultura.
Bibl. - J.-J. Ampére, La Grèce, Rome et D., Parigi 1870.
Lingua. - Già in Vn XXV 3 D. accenna alla particolare situazione linguistica e culturale dell'oriente greco, antico e moderno, in cui i temi dell'alta letteratura (ma qui l'orizzonte è ancora limitato alla poesia d'amore) venivano trattati in una lingua di cultura distinta da quella volgare: anticamente non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d'amore certi poete in lingua latina; tra noi, dico, avvegna forse che tra altra gente addivenisse, e addivegna ancora, sì come in Grecia, non volgari ma litterati poete queste cose trattavano. Il tema è ripreso da D. negli anni di più intensa meditazione linguistica: all'accenno di Cv I XI 14 per l'antica ‛ Grecia ', dove D. ricorda la polemica ciceroniana (Fin. I I) contro coloro che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca, fa riscontro l'affermazione di VE I I 3 che i Græci sono tra coloro, come i romani e altri, che possiedono, accanto a una lingua volgare naturale, una gramatica, cioè una lingua di cultura artificiale (v. GRAMATICA).
Che cosa D. possa intendere per Græci si comprende, sia pure approssimativamente, da VE I VIII 2: dei transfughi da Babele che recano in Europa un ydioma... tripharium e si suddividono in tre rami che occupano zone diverse, tertii, quos nunc Graecos vocamus, partim Europae, partim Asyae occuparunt. Dove è chiaro che non può trattarsi degli abitanti della sola Grecia, bensì di " tutti quelli che al suo [di D.] tempo si chiamavano Greci, cioè gli appartenenti tanto all'impero bizantino quanto alla Chiesa orientale " (Marigo), anche se è impossibile precisare (e per D. stesso sarà stata del resto assai vaga) l'effettiva estensione che egli attribuiva a questo gruppo politico-linguistico. Né aiuta molto in questo senso il successivo passo dello stesso capitolo (§ 5) in cui è fissato il confine occidentale della zona occupata dall'idioma ‛ greco ': il quale, a partire a finibus Ungarorum, sino ai quali si estendono le lingue ‛ germaniche ', versus orientem... occupavit totum, quod ab inde vocatur Europa, nec non ulterius [cioè entro l'Asia] est protractum: dove versus orientem, piuttosto che come " in direzione di sud-est " (Marigo), a lume delle odierne conoscenze geografiche, andrà inteso letteralmente come " verso est " (Panvini), giusta i dati della cartografia medievale, i quali offrono una rappresentazione fortemente spostata verso l'alto della penisola balcanica, che pertanto viene a risultare più o meno sul parallelo dell'Ungaria.
Che dalle coordinate offerte da D. si ricavi, come vuole il Vinay, che egli pone un confine ideale tra Græci e popoli ‛ romanzi ' all'altezza dell'Istria, non pare ipotesi accettabile (v. PROMUNTORIUM YTALIAE).
Per i rapporti di D. con la cultura greca, v. CLASSICA, cultura.
Bibl. - A. Marigo, De vulg. Eloq. 7-8, 47-48, 52-53; G. Vinay, Ricerche sul De vulg. Eloq., in " Giorn. stor. " CXXXVI (1959) 372-373, 380-381; B. Panvini, Origine e distribuzione dei volgari europei secondo il De vulg. Eloq., in " Siculorum Gymnasium " n.s., XIX 2 (1966); poi in D.A., De vulg. Eloq., a c. di B. Panvini, Palermo 1968, 27.
Fortuna di D. in Grecia. - Gli echi di versi danteschi in opere poetiche greche dei secoli XVI e XVII rilevati finora, non sembrano persuasivi; alla stregua del viaggio nell'oltretomba nell'Apòkopos di Bergadìs, tali echi possono essere dovuti più a un sostrato di luoghi comuni della tradizione minore letteraria che a influssi diretti della Commedia. Nelle isole Ionie, dove si aveva una certa dimestichezza con le lettere italiane, non può essere mancata la conoscenza di D. anteriormente al sec. XIX. Anche prima di Dionisio Solomòs (v.), le persone colte, nella maggior parte laureate in Italia, conoscevano e leggevano D., tuttavia senza sentire la necessità di tradurlo. E con l'atteggiamento risorgimentale, favorevole alla questione della lingua, che D. diventa un simbolo utile ai patrocinatori del greco volgare di fronte ai conservatori puristi. Si spiega quindi perché D., introdotto in tali circostanze in G., ebbe un'improvvisa fortuna, ed è significativo che Solomòs, il quale lo aveva invocato, fu, sin da allora, per l'analogia del suo impegno di volgarizzatore, chiamato ‛ D. greco '. D., oltre che nel dialogo polemico e nelle poesie in italiano, ha lasciato qualche traccia anche nelle poesie greche del Solomòs, del quale non abbiamo invece nessuna notizia di eventuali tentativi di traduzione.
Non dovevano tuttavia tardare anche le traduzioni in greco volgare, eseguite da altri e soprattutto per confermarne le possibilità di precisione e di sintesi espressiva. Una verifica in tal senso può essere considerato il breve saggio di traduzione (If XXXIII 1-78) del poeta Aristotele Valaoritis (1824-1879), che in 87 versi decapentasillabi amplificava i 78 dell'originale. Il primo tentativo di traduzione sistematica dalla Commedia si ha soltanto con Panaghiotis Vergotìs (1842-1919), di Cefalonia, nel 1865. Questi, allora giovanissimo, stampava i primi cinque canti dell'Inferno ugualmente nel verso nazionale di quindici sillabe. " Avevamo già pronta la traduzione in lingua dotta, in versi ", egli precisa, " quando improvvisamente ci sopravvenne l'idea sulla questione della lingua ". Lo scrupolo di rendere quei cinque canti nel volgare non lo abbandonò per tutta la vita e ripetutamente egli li ristampò correggendoli e migliorandoli.
Intanto nel 1871 l'università di Atene bandì un concorso per la migliore traduzione della Commedia, allo scopo di onorare la patria adottiva del finanziatore, Trieste. Ma nonostante vi partecipassero ben quattro concorrenti (compreso il Vergotìs), non fu proclamato nessun vincitore. Quando l'anno successivo si ripeté il concorso, fu prescelto Giorgio Antoniadis con una traduzione dell'Inferno in lingua pura, in decapentasillabi (per far rientrare verso per verso l'endecasillabo italiano), condotta con diligenza ma senza alcun segno di sensibilità (il testo, unitamente alle altre cantiche, con introduzione e note, fu pubblicato ad Atene nel 1881). Contro l'attribuzione del premio ad Antoniadis protestò un altro concorrente, T. Paraskevaidis, che attaccò con un libello la giuria denunciandone l'ignoranza dell'italiano, per concludere che la sua condanna era da collegare a sistematiche persecuzioni contro la sua persona. La polemica riprese, questa volta sul piano linguistico, qualche anno dopo, in seguito alla traduzione dell'Inferno da parte di P. Mavrokéfalos, un commerciante di Itaca (Cefalonia 1887) che aveva usato la lingua dotta, con una certa libertà, egli sosteneva, per poter seguire più fedelmente il testo italiano. Un avversario di Vergotìs, G. Rasìs, affermava (1881) che questa traduzione era decisamente superiore, provocando così una delle polemiche più clamorose del secondo Ottocento neoellenico.
Del tutto avulsa dalla realtà linguistica dei tempi e dalla cultura neogreca è la traduzione di C. Musuros, ambasciatore della Porta ottomana, in greco classico e in dodecasillabi (Londra, in tre volumi, 1882-1885; e poi in uno, ibid. 1890). Di questa considerevole impresa non si può apprezzare che lo sforzo di rimanere fedele alla lettera dell'originale. Di quegli stessi anni è la traduzione in greco dotto, in endecasillabi sciolti e del solo Inferno, del fecondo scrittore A. Risos Rangavìs (1802-1892). Di fronte a tante traduzioni in lingua dotta dev'essere venuto spontaneo al poeta Lorenzo Mavilis (1860-1912) di cimentarsi nella traduzione, in terzine, di pochissimi versi (If I 1-7 e Pd I 1-9), come a verificare le possibilità della lingua volgare. Tali possibilità linguistiche e stilistiche furono confermate da Giorgio Kalosguros (1853-1902), come si ebbe a constatare molto più tardi (1905; tutto l'Inferno, Atene 1923). Il verso sciolto di tredici sillabe scorre spontaneo con aderenza lessicale e poetica allo stesso tempo, senza esitazioni e senza fraintendimenti. Si tratta, decisamente, della più valida traduzione dantesca di quegli anni in G., e della più equilibrata, se si tien conto dell'estremismo linguistico che tormentava allora la generalità degli scrittori. Accanto all'opera d'impegno artistico e linguistico, non mancarono imprese divulgative, anche di cattivo gusto, in prosa. È il caso di una pessima traduzione firmata da G. Vutsinàs e D. Stavropulos (1894), " in lingua il più possibile semplice, comprensibile a tutti dalla prima persona istruita all'ultima che riesce appena a sillabare ". Ugualmente divulgativa, più tardi, è la traduzione di Kostas Kerofilas (1878-1960), il quale intraprese " la traduzione allo scopo esclusivo di rendere con esattezza l'originale e ottenere una trasposizione integrale e severa " (Atene 1917, 1922², 1943³). In realtà la lingua è giornalistica e la resa risulta senza molti scrupoli nei confronti sia della correttezza, sia della fedeltà. Si devono qui ricordare alcuni tentativi ispirati a intenzioni più impegnative. Tra il 1919 e il '21 L. Prasinos pubblicava su una rivista di Costantinopoli l'Inferno; anche per questo traduttore, la Commedia era un banco di prova per le possibilità del volgare, e il verso, il decapentasillabo, è sfruttato in modo da superare la congenita monotonia metrica e da raggiungere un'armonia discorsiva abbastanza dignitosa. Anche la traduzione del V canto dell'Inferno, seguita da quella di qualche sonetto della Vita Nuova, dovuta a G. Spatalàs (1919, 1923) risulta discreta e senza stonature nell'uso del volgare.Le commemorazioni dantesche del 1921 non furono celebrate in G. in modo particolare, non certo per mancanza di cultori ma per le esasperate condizioni interne in conseguenza della campagna in Asia Minore, tragicamente conclusasi nel 1922. A K. Palamàs, che già nel 1915 si era occupato di D., non sfuggì tuttavia l'occasione per rinnovare le sue considerazioni su quotidiani e riviste. Altri poeti, come K. Uranis, trovarono l'opportunità di concentrare i loro sentimenti di venerazione in versi più o meno felici. Le celebrazioni devono aver sollecitato, poco più tardi, anche iniziative come il consuntivo su D. nella letteratura neoellenica di G. Spatalàs (1922) e la pubblicazione postuma della citata traduzione dell'Inferno, felicemente condotta da G. Kalosguros. Fino a questo momento, tra le traduzioni complete della Commedia a disposizione delle persone colte, si possono citare: quella onesta, ma inaccettabile per la soverchia arcaicità, di K. Musuros, e quella più diffusa, in prosa, di K. Kerofilas, oltre alla bella (limitata però al solo Inferno) di G. Kalosguros. È di fronte a questa situazione che N. Kazantzakis (v.) si risolse a intraprendere una nuova traduzione complessiva (1932). Lavoratore assiduo e costante, egli portò a termine il lavoro in poche settimane concretando in tal modo una devozione a D. che risaliva al principio del secolo (e della quale era stato partecipe Angelo Sikelianòs, che, a conclusione di letture dantesche, nel 1915 dedicò una poesia a La Madre di Dante). La traduzione s'inserisce in un particolare momento dell'arte di Kazantzakis, quando egli sta per elaborare il suo ampio poema Ὀδύςςεια e quando è ancora in cerca di modi stilistici epici adattabili al mondo contemporaneo. L'endecasillabo, che aveva messo in difficoltà altri traduttori, al Kazantzakis si rivelò malleabile e spontaneo, tanto che lo scrittore, nell'uscire dalla sua impresa della Commedia in greco, scrisse un poemetto in terzine dedicato a D., al quale fece seguire vari altri componimenti in terzine. Con le soluzioni espressive adottate da Kazantzakis (stile rude in un greco demotico aggressivo), la Commedia in veste neogreca torna a porre dei problemi di carattere linguistico, poiché, nonostante da tempo sia maturata la convinzione che D. va tradotto in volgare, si pone ora in questione la misura con la quale si può ricorrere alle forme volgari e dialettali per ottenere un linguaggio poetico valido e lecito.
Dall'ultimo conflitto in poi si sono avute anche due traduzioni della Vita Nuova, l'una dovuta a G. Zervòs (Atene 1944), poeta di gusti e tecnica di evoluto tradizionalismo, e che quindi trovò il modo di farli valere nelle parti poetiche, rese nella medesima metrica dell'originale. L'altra traduzione è di C. Tsapalas (Atene 1948), limitata alle sole parti in versi. Lo Tsapalas è noto esclusivamente per la sua attività dantesca da quando, nel 1932, si occupa con abnegazione di una traduzione della Commedia (del 1953 è la pubblicazione dell'Inferno in terza rima, che, a dispetto delle difficoltà e di pecche di vario genere, è abbastanza aderente e scorrevole alla lettura).
Parallelamente alle traduzioni qui ricordate e ad altre di minor entità, D. ha avuto una presenza più o meno continua nel mondo della cultura ellenica novecentesca, dal 1915 (Sikelianòs, Palamàs) in poi, un po' grazie alle impressioni di viaggio nei luoghi danteschi, un po' per lo stimolo della grande fama acquisita. Una genuina vocazione dantesca, oltre a quella dei traduttori ricordati, è quella del poeta Takis Papatsonis (n. 1895), realizzata in conferenze e articoli in cui sono posti in rilievo i caratteri della religiosità dantesca. Lo stesso poeta, sensibile alle ansie religiose occidentali, è ritornato sull'argomento durante le celebrazioni dantesche del 1965, affiancando la sua perizia alle manifestazioni ufficiali organizzate ad Atene e a Salonicco (nell'università di questa città ha parlato il poeta Giorgio Seferis, premettendo che si è avvicinato ‛ tardi ' a D., impedito dall'estetismo di D.G. Rossetti).
Bibl. - Una rassegna circostanziata, ricca in riferimenti bibliografici, è quella di F.M. Pontani, D. nella letteratura neogreca, in D. nel mondo, Firenze 1965, 255-296; ID., Fortuna neogreca di D., Roma 1966. A complemento, v. Omaggio a D., a c. dell'Ambasciata d'Italia in Atene, Atene 1966.