Grecia
Ελληνικά κέρματα ευρώ
La Grecia e l’euro
di Giorgios Glynos
2 maggio
L’Eurogruppo, riunito in sessione straordinaria a Bruxelles, vara il meccanismo di sostegno finanziario triennale grazie al quale saranno versati alla Grecia 110 miliardi di euro, 80 a carico dei paesi dell’eurozona e 30 dell’FMI. Il governo greco annuncia un ulteriore piano di austerità da 30 miliardi in 3 anni, che prevede duri tagli salariali e pensionistici per i dipendenti pubblici, interventi normativi nel settore privato e aumenti delle tasse.
Luci e ombre nella crisi
La crisi finanziaria della Grecia ha reso manifesta la cronica incapacità dei suoi governi di portare avanti un’efficiente politica economica, di cui ha mostrato l’inadeguatezza in relazione sia alla gestione degli importanti obblighi che derivano dalla partecipazione dello Stato all’Unione economica e monetaria comunitaria, sia allo sfruttamento delle relative opportunità di crescita e ristrutturazione. Al tempo stesso, la crisi ha fatto risaltare la debolezza e la vulnerabilità dell’eurozona in termini di struttura e funzioni, evidenziando la perdita di produttività che ha caratterizzato alcune delle nazioni meridionali dell’Unione Europea e l’impossibilità di risolvere questo problema con il coordinamento delle politiche economiche e soprattutto finanziarie nazionali, attraverso il Patto di stabilità e crescita.
Il fatto che gli Stati europei si siano mobilitati per fronteggiare la crisi greca suscita però alcune conclusioni incoraggianti a proposito dell’integrazione comunitaria. In primo luogo, prova che l’istituzione dell’euro va oltre logiche strettamente economiche e politiche. Essa è stata e continua a essere più di un progetto economico: è anche un processo istituzionale e politico di integrazione, che mira a raggiungere un equilibrio dinamico. L’integrazione europea può procedere con un andamento più o meno veloce che in passato, ma di certo è costantemente in moto. Questo è un aspetto cruciale, perché se il processo si fermasse o indietreggiasse, le conseguenze non sarebbero solo di natura economica ma, minando la credibilità di una delle istituzioni chiave dell’Unione, cioè l’euro, renderebbero inevitabili anche imprevedibili esiti politici, con implicazioni ed effetti a catena sull’intera struttura europea. Per queste ragioni, nonostante la fragilità strutturale dell’eurozona e le responsabilità degli esecutivi greci per la loro politica economica, i governi degli Stati comunitari non hanno potuto accettare una così grave sconfitta dell’Europa e sono andati oltre le miopi previsioni politiche a breve termine.
In questa sede ci proponiamo di esaminare la crisi finanziaria della Grecia e la decisione dei governi dell’eurozona di creare un meccanismo di sostegno monetario, analizzando in quale misura le soluzioni adottate costituiscano un importante passo verso il completamento dell’edificio dell’euro, oltre che un atto indirettamente utile a una più profonda integrazione comunitaria.
Cause e sviluppo della crisi greca
Fino all’ottobre 2009, senza curarsi dell’insorgere della crisi economica mondiale, i problemi fiscali della Grecia sono stati gestiti dall’eurozona con i tipici meccanismi previsti dal Patto di stabilità e crescita. Fino a quel momento la Grecia aveva tenuto sotto controllo il suo debito pubblico, nonostante fosse uno dei più alti in Europa, superando il 100% del PIL.
Nel 2004, l’anno dei Giochi olimpici di Atene, nei confronti della Grecia era stata aperta la procedura per deficit eccessivo, che nell’eurozona era già stata utilizzata per Francia e Germania. Nel caso greco, tuttavia, la scoperta che, in aggiunta al deficit fiscale, vi era anche un problema nella rilevazione dei dati riguardanti il deficit e il debito pubblico accrebbe le preoccupazioni e suscitò vivaci dibattiti all’interno delle istituzioni comunitarie e nella stampa, ventilandosi l’ipotesi che la Grecia avesse utilizzato elementi statistici falsi fin dal suo ingresso nell’area euro nel 2001.
Per quanto concerne alcuni dei parametri previsti dal Trattato di Maastricht per questo ingresso (livelli di inflazione nominale, tassi d’interesse a lungo termine, tasso di cambio per almeno due anni entro i margini normali di fluttuazione previsti dal meccanismo di cambio del Sistema monetario europeo) non c’erano dubbi, né avrebbero potuto esserci. L’ipotesi di falsificazione, perciò, riguardava i due parametri del deficit e del rapporto debito/PIL. A tale proposito si deve ricordare che durante la fase di fondazione dell’euro, la domanda se tutti gli Stati avrebbero soddisfatto pienamente questi due parametri era stata ampiamente sollevata, essendo palese che alcuni avrebbero trovato arduo soprattutto rispettare gli standard previsti per il debito. Per questo, sebbene si fosse ripetuto che tutti i parametri avrebbero dovuto essere soddisfatti in maniera puntuale e stringente, era diffusa la convinzione che i principi politici di unità e solidarietà avrebbero prevalso sui rigidi criteri economici, così da rendere abbastanza elastiche le disposizioni relative. Effettivamente, nonostante la sua rigorosa enunciazione degli standard finanziari, è il Trattato stesso a permetterne un’interpretazione flessibile attraverso alcune sue espressioni: riguardo al deficit pubblico specifica come il rapporto con il PIL non debba superare il valore di riferimento (3% nominale) a meno che esso «sia diminuito sostanzialmente e in maniera continua, raggiungendo un livello che si avvicina al valore di riferimento» o, in alternativa, che «l’eccesso rispetto al valore di riferimento sia solamente temporaneo ed eccezionale e il rapporto rimanga vicino al valore di riferimento». Anche in relazione al debito, il Trattato stabilisce che il suo rapporto con il PIL non debba superare il valore di riferimento (60% nominale), a meno che «non stia sufficientemente diminuendo e si avvicini al valore di riferimento a un ritmo soddisfacente». Le parole ‘magiche’ dell’interpretazione politica corrispondono a concetti non quantificabili: sostanzialmente, vicino, temporaneo, eccezionale, sufficiente, soddisfacente. Senza queste parole ‘magiche’, come avrebbero fatto ad accedere all’eurozona altre nazioni, come il Belgio o l’Italia, con un debito che superava il 100% del PIL? Allora si valutò come questi Stati avessero sufficientemente ridotto il loro debito e sarebbero stati quindi in grado di raggiungere il rapporto programmato del 60% del PIL a un ritmo soddisfacente. Alla richiesta, avanzata dal governo di Atene nel maggio 1998, di esprimersi in relazione all’ingresso della Grecia sulla base di questi casi, il Consiglio unanimemente decise di adottare per la Grecia la stessa interpretazione flessibile dei criteri finanziari. La sua dichiarazione recitava: «Il Consiglio nota il sostanziale progresso effettuato dalla Grecia verso il raggiungimento dei criteri di convergenza. La decisione del governo greco di proseguire le politiche di consolidamento finanziario e di rinforzo strutturale, nell’intento di raggiungere l’integrazione nel terzo livello dell’Unione economica e monetaria a partire dal 1° gennaio 2001, è più che benvenuta. In quella data verrà giudicato il progresso della Grecia, nello stesso modo in cui è stato valutato quello degli altri Stati che sono entrati nell’Unione il 1° gennaio 1999». Analizzando questa decisione, appare chiaro come in quel periodo fosse più preoccupata la Grecia della ‘contabilità creativa’ e della falsificazione di dati di alcuni suoi partner che non viceversa. Gli altri Stati, tuttavia, la rassicurarono che quando sarebbe arrivato il suo momento, cioè due anni dopo, avrebbero mostrato lo stesso livello di comprensione, ciò che in effetti fecero. La responsabilità connessa con l’ingresso nell’euro, in definitiva di natura essenzialmente politica, fu condivisa da tutte le parti coinvolte e nessuno ingannò gli altri durante questo processo.
Nel 2004, il dibattito sulla falsificazione da parte della Grecia dei dati statistici ebbe vita breve e conseguenze abbastanza ridotte, consistenti in una serie di raccomandazioni tecniche sui modi per migliorare i metodi di rilevazione e analisi delle statistiche. Tre anni più tardi, nel 2007, gli organi istituzionali comunitari, constatando che la Grecia aveva corretto i suoi problemi di deficit eccessivo, si limitarono ad adottare le consuete espressioni di sollecitazione affinché lo Stato, allo stesso modo degli altri, perseverasse nei suoi sforzi di ulteriore consolidamento finanziario. Durante tutto questo periodo, i mercati finanziari non reagirono agli sviluppi descritti. Continuarono a garantire prestiti alla Grecia a tassi decisamente bassi, all’incirca equivalenti a quelli adottati nei confronti della Germania, così come era accaduto fin dal suo ingresso nell’euro. La stessa cosa si verificò nell’aprile 2009, quando, ancora una volta, le istituzioni comunitarie rilevarono un deficit eccessivo nelle finanze pubbliche greche per l’anno 2008. La Grecia ebbe raccomandazioni sulla necessità di correggere l’eccedenza entro il 2010, con la specificazione che la situazione sarebbe stata valutata nuovamente nell’ottobre 2009, così da esaminare se l’obiettivo fosse stato raggiunto o se fossero invece necessarie misure più stringenti. Anche in questa occasione i mercati non reagirono, nonostante che poco prima dell’ottobre 2009 le statistiche e i rapporti dei ministeri competenti avessero spostato le previsioni di deficit a oltre il 6%, in altre parole il doppio rispetto alla soglia del 3% indicata nel Trattato. Dopo le elezioni nazionali, che si tennero in ottobre, il nuovo governo dichiarò che il deficit sarebbe stato attorno al 13%, annuncio che causò reazioni a catena da parte sia delle istituzioni comunitarie e dei governi dell’eurozona, sia delle agenzie di rating e, infine, dei mercati. Rispuntò la questione della falsificazione dei dati relativi alle finanze pubbliche al tempo dell’ingresso nell’euro e la discussione si estese al problema dell’affidabilità del modus operandi dell’eurozona e, in particolare, del Patto di stabilità e crescita.
I mercati internazionali interpretarono questo quadro come indicativo dell’impossibilità della Grecia di garantire la copertura del suo imponente debito pubblico nel futuro e né l’approvazione del bilancio del 2010 né la procedura di deficit eccessivo li convinsero che si stesse ponendo in atto un adeguato e credibile sforzo per raddrizzare la situazione. Come conseguenza, i tassi di interesse per i finanziamenti alla Grecia iniziarono a crescere in maniera drammatica. La differenza tra i rendimenti dei bond del governo greco e quelli tedeschi, che fungono da parametro di confronto, si ampliò enormemente, rendendo estremamente alti i costi dei prestiti. L’adozione da parte del governo greco di un ulteriore programma di stabilità, per quanto ben accolta dalla Commissione Europea, non riuscì a infondere fiducia ai mercati e alle agenzie di rating internazionali. Nel febbraio 2010, il rendimento dei bond con scadenza a due anni raggiunse la differenza senza precedenti di 347 punti base e quello dei bond con scadenza decennale di 270 punti base. Gradualmente divenne sempre più evidente che la Grecia non sarebbe stata in grado di onorare le proprie obbligazioni creditizie da sola. Scenari di bancarotta, con le loro ripercussioni sull’intera eurozona, conquistarono i titoli dei giornali: il fallimento di una nazione parte dell’eurozona avrebbe rappresentato un avvenimento unico nella storia economica, quanto lo era stata la istituzione stessa dell’euro e del mercato comune.
Due ulteriori aspetti meritano di essere sottolineati a proposito della crisi greca. In primo luogo, una parte rilevante del debito greco è nelle mani di banche e istituti finanziari di Stati dell’area euro cosicché una potenziale bancarotta della Grecia lederebbe non solo l’edificio dell’euro, ma l’intero sistema finanziario ed economico di tutti gli Stati membri. In secondo luogo, durante lo svolgersi di questi avvenimenti anche le differenze di rendimento dei bond degli altri paesi dell’eurozona hanno cominciato a salire. Sebbene tali nazioni non possano necessariamente essere accusate di condotte finanziarie irresponsabili, i dati evidenziano come la loro partecipazione all’euro per circa un decennio sia coincisa con una considerevole perdita di competitività. La crisi internazionale ha innalzato le loro necessità di indebitamento in maniera significativa, mentre il diminuito livello di competitività rispetto alle economie dei paesi dell’Europa settentrionale ha messo in dubbio persino la loro capacità di servire il debito pubblico. Sembra dunque che il ‘virus’ greco, come è stata chiamata questa crisi, stia minacciando anche altri paesi.
L’economia greca dall’ingresso nell’eurozona allo scoppio della crisi
Analizziamo allora quali fattori hanno condotto la Grecia alla crisi. L’ingresso nell’euro e nella politica monetaria comune ha comportato due importanti cambiamenti: per prima cosa sono stati eliminati i rischi delle transazioni di valuta e in secondo luogo si è resa possibile una diminuzione dei tassi d’interesse. Questo è accaduto naturalmente in tutti gli Stati dell’eurozona, ma per quanto riguarda la Grecia l’impatto è stato più rilevante. Questi cambiamenti di portata storica avrebbero potuto avere un’influenza positiva sulla competitività del paese se chi era incaricato di predisporre le politiche economiche avesse impegnato mezzi e volontà per trasformare certe sfide in opportunità. Poiché, al contrario, la politica economica si è limitata a monitorare passivamente lo sviluppo della nazione, massimizzando i profitti politici a breve termine, non sorprende che i due cambiamenti abbiano inciso in negativo.
L’eliminazione dei rischi valutari, assieme alle garanzie de facto provenienti dalla partecipazione dello Stato al mercato comune europeo, avrebbe potuto generare ampie opportunità di attirare investimenti diretti esteri ma sfortunatamente questa significativa agevolazione non ha potuto compensare i gravi svantaggi presentati dall’economia greca. La diffusa corruzione nella pubblica amministrazione, derivante da un sistema politico clientelistico, unita alla rigidità dei mercati (e in particolare del mercato del lavoro), ha fatto in modo di scoraggiare l’afflusso di investimenti esteri. Analogamente, i bassi tassi d’interesse nel settore sia pubblico sia privato avrebbero potuto stimolare in maniera sostanziale investimenti pubblici e privati interessati allo sviluppo e all’espansione di nuovi settori economici. Ci si è, invece, indirizzati soltanto sul consumo, con il risultato di un altissimo indebitamento pubblico e privato.
Negli anni successivi all’ingresso della Grecia nell’eurozona, il suo tasso di crescita economica è stato costantemente molto al di sopra della media europea. La crescita, tuttavia, derivava dai finanziamenti al settore immobiliare e al credito al consumo e dalle spese pubbliche. Questa situazione era solo in parte rilevata nei rapporti e nelle raccomandazioni emanati dalla Commissione Europea e dal Consiglio d’Europa (ECOFIN ed Eurogruppo), che sollecitavano la Grecia a procedere con cambiamenti strutturali tali da rafforzare la competitività della sua economia, ma nello stesso tempo concentravano i loro suggerimenti sulla necessità di ridurre il debito e il deficit fiscale. Il deficit commerciale, che rifletteva la progressiva perdita di capacità di competere del paese, appariva in pratica come una priorità secondaria, o piuttosto una materia di analisi più per gli economisti che per i politici. Per quale ragione? In breve, perché non faceva direttamente parte di nessuno degli impegni assunti dallo Stato in relazione al Patto di stabilità e crescita. Invece, prima dell’ingresso nell’eurozona, il deficit commerciale estero di un paese costituiva un’importante priorità politica, poiché aveva ricadute sulle sue riserve di valuta e poteva condurre alla necessità di contrarre prestiti in valuta straniera, cosicché si doveva prevedere obbligatoriamente una serie di misure per risolvere situazioni a rischio, come per esempio la svalutazione. Il deficit fiscale era, al contrario, una priorità politica secondaria, dato che poteva essere gestito attraverso finanziamenti monetari. Da questo importante cambiamento nelle priorità discendono effetti notevoli, che possono in estrema ipotesi portare da un lato a un eccessivo debito pubblico, dall’altro a un’erronea percezione che i problemi di competitività non necessitino più reazioni politiche immediate. In altre parole, il deficit commerciale è stato cancellato dall’agenda della gestione quotidiana e considerato soltanto come un problema di politica a lungo termine.
Un’ultima questione che vale la pena trattare riguarda l’utilizzo da parte della Grecia delle sovvenzioni comunitarie e dei fondi di coesione sociale. La parte principale dei fondi dell’UE è stata destinata alle infrastrutture, con progetti in tutto il paese che hanno innegabilmente migliorato la qualità della vita, ma che solo nel lungo periodo potranno accrescere la produttività. Al contrario, gli investimenti in risorse umane, che avrebbero rafforzato la competitività, la crescita endogena e il reddito tassabile, sono stati ridotti. Come risultato, la crescita non ha condotto a risultati fiscali positivi e la Grecia si è ritrovata estremamente debole nel momento in cui ha dovuto affrontare la crisi economica internazionale.
Sono state queste, e non la falsificazione delle statistiche, le ragioni della crisi.
Debolezza strutturale e deficienze dell’edificio dell’eurozona
Ci si deve a questo punto chiedere se la struttura e i metodi dell’eurozona possano essere criticati a proposito della crisi greca e, in caso di risposta positiva, in cosa consista la sua responsabilità.
Durante i negoziati per il Trattato di Maastricht, nel 1991, si è discusso a lungo se un’unione monetaria che condivide la stessa valuta possa funzionare senza una politica fiscale comune. Questa – si è sostenuto – imporrebbe regole di obbedienza nell’esercizio delle politiche economiche e sociali degli Stati membri e sanerebbe gli squilibri e la perdita di competitività causata dall’attività di un mercato comune e dall’esercizio di una singola politica monetaria. Si è però obiettato che una tale impresa comporterebbe una situazione politicamente e giuridicamente molto vincolante, con ricadute non solo sulla gestione della politica economica, e condurrebbe anche a un’amministrazione collettiva del debito pubblico (per esempio, attraverso l’emissione di strumenti comuni, come gli eurobond) e a regole cogenti lesive della concorrenza (cioè l’esatto opposto della Strategia di Lisbona, adesso chiamata ‘Europa 2020’). Accettare una politica fiscale comune avrebbe significato un’unione politica molto avanzata, che al tempo di Maastricht non esisteva, così come non c’era alcuna forma di solidarietà sociale (come emerge con evidenza dalla predisposizione delle clausole di non-salvataggio, a norma delle quali gli Stati membri non possono farsi garanti del debito di un altro paese della Comunità, o dalle previsioni riguardanti il divieto di finanziamento monetario del debito pubblico degli Stati membri). Un’unione così politicamente avanzata non esiste neanche ai nostri giorni, né ci si aspetta che possa nascere facilmente in un prossimo futuro. Inoltre, una politica fiscale comune non richiede soltanto decisioni politiche vincolanti per tutti i partecipanti, ma necessita altresì di una legittimazione democratica di tutte le decisioni, o attraverso continue concessioni di tutti i governi e Parlamenti, un qualcosa di estremamente difficile, oppure tramite l’elezione e l’insediamento di una leadership politica europea sotto il controllo del Parlamento Europeo, il che è ancora più improbabile.
L’unica disposizione di rilievo all’interno del Trattato di Maastricht riguarda il divieto di deficit eccessivo per gli Stati membri, definito con l’adozione del Patto di stabilità e crescita, che ha introdotto il concetto di congiuntura economica. Secondo tale impostazione, in una congiuntura economica regolare o favorevole, agli Stati membri si richiedono bilanci ciclicamente aggiustati, vicini al pareggio o in avanzo. In linea di principio, questo dovrebbe facilitare il superamento di un’eventuale congiuntura economica sfavorevole, attraverso la riduzione del deficit e del debito pubblico eccessivo. La Commissione e il Consiglio sono responsabili, insieme con gli Stati membri, dell’attuazione del Patto. I loro obblighi includono l’individuazione dei deficit eccessivi, il monitoraggio della loro gestione, le raccomandazioni per la loro correzione. In caso di mancata osservanza, hanno non solo la capacità ma anche l’obbligo di imporre sanzioni di natura finanziaria. L’esperienza ha mostrato, tuttavia, che esprimere ‘solidarietà’ attraverso l’ingiunzione di ammende non salva una nazione dalla bancarotta. Al contrario, una politica del genere al limite può provocarla.
Argomentazioni molto valide e ragionevoli furono avanzate da economisti, politici, uomini d’affari e semplici cittadini per evidenziare le ragioni per le quali gli obiettivi posti dal Trattato di Maastricht, in particolare l’istituzione di una valuta europea comune, non fossero realizzabili. L’euro è stato adottato nonostante tali catastrofiche previsioni, e le ha smentite con successo per un decennio (1999-2009). Quando è sopraggiunta la crisi economica internazionale, seguita dal crollo fiscale della Grecia, l’eurozona si è trovata a far fronte a sfide che hanno messo in risalto la sue storiche debolezze e carenze strutturali. Si sono rese necessarie decisioni fondamentali su due fronti. Si è dovuto reagire per recuperare il controllo dello sviluppo e fronteggiare i mercati internazionali – inclusi gli speculatori –, affrontando con efficacia la crisi greca per evitare la bancarotta di uno degli Stati membri e il suo effetto domino. Il pericolo che la crisi si espandesse ad altre nazioni e ai loro sistemi bancari era sensibile e le disposizioni del Trattato relative alle clausole di non-salvataggio e alle sanzioni in caso di mancata osservanza delle raccomandazioni apparivano inadeguate alla gravità della situazione e delle sue implicazioni. Ci si è dovuti altresì occupare di un’altra evidente realtà, cioè che un discreto numero di Stati membri stava sperimentando una sostanziale, e sconcertante, perdita di competitività.
La risposta dell’eurozona
La prima reazione è stata politica. I capi di Stato e di governo dei paesi membri sono stati estremamente eloquenti nel manifestare il loro comune impegno a mantenere la stabilità della zona euro. Il loro obiettivo era rassicurare i mercati, ma non sono stati sufficientemente convincenti, anche perché gli unici strumenti a loro disposizione erano i già citati meccanismi di ‘assistenza attraverso sanzioni’. I mercati internazionali hanno rimarcato l’evidente contraddizione tra il sistema giuridico delle clausole di non-salvataggio del Trattato e le dichiarazioni politiche dell’Eurogruppo sulla concessione di garanzie e hanno iniziato a mettere in discussione non solo l’attendibilità del rating di credito della Grecia, ma anche la credibilità dell’intero sistema dell’eurozona. Decisioni impellenti dovevano essere adottate da un’Unione che aveva appena superato una lunga crisi istituzionale, dovuta alla mancata adozione della Costituzione europea e al faticoso iter di ratifica del Trattato di Lisbona.
Senza ombra di dubbio la Grecia poteva essere considerata un caso eccezionale di mancanza di solidità e di malagestione, al punto da giustificare l’eurogruppo se avesse deciso di non intervenire per evitarne la bancarotta e alla fine di escluderla dall’euro. Svariate opinioni furono espresse in tal senso, tuttavia si è verificato esattamente l’opposto. Non solo la Grecia è stata sostenuta, ma sono state adottate misure di assistenza finanziaria che vanno ben al di là delle disposizioni di non-salvataggio previste a Maastricht: 80 miliardi di euro, in forma di prestito bilaterale, sono stati garantiti in cooperazione con il Fondo monetario internazionale, che ha offerto 30 miliardi aggiuntivi. Il quantitativo totale di 110 miliardi di euro non ha precedenti in forme di assistenza di questo tipo. Gli organismi europei, inoltre, hanno accertato che il ‘virus da sovraindebitamento’ non era esclusivamente greco, ma stava colpendo varie altre nazioni, portando ad accumulare deficit di competitività. Ne è scaturita la creazione di un piano di sostegno da 750 miliardi di euro. Secondo le misure concordate, in caso di attivazione, l’FMI verserà 250 miliardi di euro, gli altri Stati europei 440 miliardi, sempre attraverso prestiti bilaterali; ulteriori 60 miliardi saranno assegnati alla realizzazione di un meccanismo comunitario di assistenza agli Stati in occasione di eventi straordinari. La Banca centrale europea ha avallato queste decisioni e allentato la sua politica sul finanziamento indiretto del debito pubblico, accettando come garanzia collaterale strumenti di debito di banche commerciali degli Stati membri, a prescindere dalla loro valutazione da parte delle agenzie internazionali di rating.
In tal modo, si è dimostrata risolutamente la volontà politica di affrontare il primo problema strutturale dell’eurozona, il salvataggio dalla bancarotta. Il secondo problema, quello della perdita di competitività, è una sfida di più lungo termine. La questione della direzione economica (secondo la terminologia tedesca) o del governo economico (secondo l’espressione francese) è però all’ordine del giorno. Per esaminare il problema è stata istituita una commissione guidata dal presidente del Consiglio Europeo. Vi sono, naturalmente, differenti approcci e divergenti opinioni, come si è sempre verificato nella storia dell’integrazione europea, ma si tratta di una sfida concreta e di grande momento.
La risposta della Grecia
Il governo che si è insediato a seguito delle elezioni nazionali dell’ottobre 2009 si è trovato di fronte una serie di problemi senza precedenti. In aggiunta ai due enormi deficit, ha dovuto gestire una notevole perdita di credibilità a livello sia nazionale sia internazionale: in ambito domestico, le promesse che erano state profuse durante la campagna elettorale dovevano necessariamente essere disattese, mentre all’estero bisognava ricostruire fiducia e prestigio. La prima indicazione delle intenzioni del governo è stata manifestata attraverso il bilancio del 2010 e il programma di revisione del patto di stabilità. Avendo mancato di convincere i mercati, pochi mesi dopo il governo ha accettato un programma senza precedenti di consolidamento fiscale e di cambiamenti strutturali, in cambio del piano di salvataggio FMI-eurozona.
Le prime misure applicate sono state drastiche. Gli stipendi del sovradimensionato settore pubblico greco sono stati tagliati del 25-30%; il sistema di sicurezza sociale è stato ristrutturato attraverso sostanziali riduzioni delle pensioni, incremento dei contributi e innalzamento dell’età pensionabile; il mercato del lavoro, infine, è stato riformato. Questi provvedimenti di diminuzione delle spese e rialzo delle tasse hanno condotto a una significativa riduzione del deficit del 45% nel primo semestre del 2010. Tuttavia, la fiducia sui mercati internazionali è lontana dall’essere riguadagnata. La differenza di rendimento dei bond greci nel mercato secondario rimane molto alta, così da impedire al governo di ricorrere a finanziamenti primari a lungo termine. La previsione che le misure indicate comporteranno una decisa recessione per almeno i prossimi due anni porta i mercati e gli investitori a chiedersi se il governo greco sarà in grado di attuare il programma e al tempo stesso servire il suo debito. Senza alcun dubbio, i mesi fino alla fine del 2010 saranno cruciali per la Grecia, così come per l’intera eurozona.
Conclusioni
I governi degli Stati dell’eurozona, incluso quello greco, hanno adottato decisioni molto importanti che hanno superato le previsioni iniziali. I leader politici, a prescindere dalla loro connotazione ideologica, dagli interessi nazionali e dalle pressioni dell’opinione pubblica, si sono uniti per salvare non soltanto la Grecia ma, ciò che è più rilevante, il futuro dell’euro. Attraverso queste decisioni i governi dell’eurogruppo hanno mostrato come il concetto di solidarietà non sia costituito da un approccio di tipo morale sul ‘bene e male’, ma sia piuttosto rappresentato da un criterio di realismo politico. È parimenti importante che queste decisioni abbiano superato le disposizioni del Trattato, frutto degli equilibri politici dei decenni passati, e che in molte nazioni siano state adottate con l’approvazione dei parlamenti nazionali; che siano, di conseguenza, fondate su una base di legittimazione democratica.
Sarebbe sbagliato valutare queste misure esclusivamente come decisioni prese in stato di emergenza, come modo di gestire un evento straordinario, senza aspettarsi che esse prendano la forma di cambiamenti istituzionali permanenti. Come nel caso di ogni crisi, quella globale ha corretto e ricalibrato il funzionamento complessivo dei sistemi economici e finanziari internazionali e i modelli di produzione e consumo. Bisogna quindi attendersi una riforma effettiva e duratura del funzionamento dell’eurozona, in particolar modo se ci si prefigge di rafforzarne la posizione nel sempre più competitivo mercato globale. In questo senso, il dibattito sul futuro dell’eurozona e dell’euro, e indirettamente dell’Unione nel suo complesso, è appena cominciato.
Quali conclusioni possono essere, infine, tratte dal rapporto tra la Grecia e l’euro? A causa delle dimensioni e della forza della sua economia, finora la Grecia non è stata una forza trainante o un attore di primo piano nel processo di integrazione europea. Si è limitata generalmente ad accodarsi, spesso con qualche difficoltà e con molto ritardo. Nell’istituzione del meccanismo di supporto europeo, tuttavia, la debolezza della Grecia è riuscita a farle occupare una posizione centrale, un qualcosa di simile a quanto accadde alla metà degli anni 1980, quando la fragilità greca all’interno del mercato comune che si stava formando giocò un ruolo chiave nella creazione dei Programmi integrati mediterranei, precursori della politica economica dell’Unione e della politica di coesione sociale. Non sarebbe, perciò, un’esagerazione sostenere che, in queste circostanze, siano gli anelli più deboli della catena ad avere una parte cruciale nel generale consolidamento di un gruppo, della sua stabilità e unità di intenti.
La Grecia dall’indipendenza a oggi
L’indipendenza
Entrata a far parte dell’Impero ottomano dopo la caduta di Costantinopoli (1453), la Grecia rimase sotto il suo dominio fino ai primi decenni del 19° secolo. Il potere imperiale, per lungo tempo incontrastato, andò gradualmente sfaldandosi per l’azione congiunta di diversi fattori interni e internazionali. Tra essi ebbero un ruolo cruciale da un lato l’indebolimento del controllo centrale e il consolidarsi di forti tendenze centrifughe, dall’altro la crescente pressione della Russia sulla Penisola Balcanica. Fu in questo duplice contesto che, negli ultimi decenni del 18° sec., iniziò a prendere forma il movimento nazionalista greco, il quale ebbe il suo nucleo più importante nei fanarioti, la potente aristocrazia mercantile greca di Costantinopoli e dei principali empori del Mediterraneo, assai influente ai vertici stessi dell’Impero e, in alcuni casi, a livello internazionale.
Già nel 1770, durante la guerra russo-turca, tutta la Grecia si sollevò, appoggiata dalla flotta zarista, ma la rivolta fallì per mancanza di un’efficiente organizzazione e per l’incertezza degli obiettivi politici. I presupposti più immediati per la lotta d’indipendenza contro i Turchi maturarono nei primi decenni dell’Ottocento e, più specificamente, nel contesto dei moti europei degli anni 1820. Il motore dell’insurrezione nazionale fu l’Eterìa, una società segreta patriottica fondata a Odessa nel 1814 e guidata da Alessandro Ipsilanti, aiutante di campo dello zar di Russia Alessandro I. Grazie anche a un complesso gioco di politica internazionale – in cui ebbero un ruolo decisivo la Russia, la Gran Bretagna, la Francia e l’Egitto – nel 1821 la Grecia insorse: il 7 marzo Ipsilanti entrò in Moldavia, dove tentò invano di sollevare la popolazione romena e occupò poi con pochi Greci Bucarest, ma fu costretto a rifugiarsi in Ungheria; riuscì invece la rivolta nel Sud, guidata da suo fratello Demetrio. Ai massacri turchi di notabili e dignitari ecclesiastici nel Fanari (il quartiere greco di Costantinopoli da cui traeva origine l’Eterìa) e altrove, i patrioti risposero proclamando, il 1° gennaio 1822, l’indipendenza della Grecia e costituendo un governo nazionale con a capo Alessandro Maurocordato. A favore della Grecia, si mosse l’opinione pubblica liberale dell’Europa e anche il presidente statunitense James Monroe inviò un messaggio di solidarietà agli insorti. L’intervento della flotta e dell’esercito egiziani segnò la crisi della rivoluzione: attaccata nel 1825, nonostante l’eroica resistenza (assedi di Missolungi e dell’acropoli di Atene), nell’estate 1827 tutta la Grecia continentale era nuovamente soggetta ai Turchi.
L’indipendenza ellenica divenne allora problema politico europeo: la conferenza di Londra per la Grecia convocata nel 1827 stabilì il principio della mediazione russo-franco-britannica per imporre al sultano un armistizio e il riconoscimento dell’autonomia greca. Ma solo dopo la distruzione della flotta turco-egiziana per opera delle tre potenze europee nella rada di Navarino (1827) e una campagna di guerra che vide i Francesi combattere in Morea e la Russia impegnata contro la Turchia, con la Pace di Adrianopoli (1829) il sultano sconfitto si impegnò ad accettare che la Grecia divenisse uno Stato indipendente.
Il regno di Grecia
Il Protocollo di Londra (1830) diede origine al Regno di Grecia, limitato territorialmente tra il Golfo d’Arta e quello di Volos, mentre la Gran Bretagna conservava il possesso delle isole Ionie (cedute ai Greci solo nel 1863). La convenzione del 1832 attribuì la corona a Ottone di Wittelsbach, figlio di Luigi I di Baviera. Il nuovo Stato, privato delle regioni più produttive (Tessaglia, Macedonia, Creta), dovette anche addossarsi i debiti della guerra di liberazione, diventando economicamente dipendente da Londra. Circondato da funzionari bavaresi, Ottone governò autocraticamente, attirandosi l’odio dei suoi sudditi fino al 1844, quando fu costretto a concedere una Costituzione. Cercò quindi di approfittare della crisi in Crimea (1853-56) per conseguire ingrandimenti territoriali a spese dell’Impero ottomano, ma dovette subire l’occupazione del Pireo a opera di una flotta franco-britannica.
Deposto Ottone da un colpo di Stato militare nel 1862, un’assemblea costituente elesse re, su designazione della Francia, dell’Inghilterra e della Russia, Giorgio I, figlio di Cristiano IX di Danimarca, e stabilì un regime di democrazia liberale (1864). Il primo impulso allo sviluppo economico e civile fu dato al paese dall’azione di governo di Charilaos Trikupis (1882-90), ma le modeste risorse della Grecia non ressero allo sforzo volto a realizzare le aspirazioni dell’irredentismo: l’intervento nel conflitto balcanico del 1885-86 fallì e la guerra contro i Turchi per la liberazione di Creta (1897) si concluse con una sconfitta. Un periodo di avvenimenti rilevanti corrispose al governo di Eleftherios Venizelos, salito al potere nel 1910, il quale promosse un’efficace riforma costituzionale (1911) e la ricostruzione delle forze armate e, all’indomani delle guerre balcaniche, assicurò al paese, con i Trattati di Bucarest e Londra (1913), importanti acquisti territoriali (Giannina, Salonicco, Kavalla, Creta e le isole dell’Egeo tranne il Dodecaneso, divenuto possedimento italiano). La Prima guerra mondiale vide lo scontro tra la Corona, favorevole agli Imperi centrali, e il Partito liberale di Venizelos, favorevole all’Intesa. Dopo aver tentato di forzare la volontà del re Costantino I, nel 1916, con l’appoggio degli Anglo-Francesi, Venizelos guidò una rivolta armata, costituendo un nuovo esercito e un governo provvisorio, obbligando il sovrano ad abdicare (1917) e spingendo il suo successore Alessandro alla dichiarazione di guerra agli Imperi centrali, alla Turchia e alla Bulgaria. Il Trattato di Sèvres (1920) assegnò alla Grecia la Tracia orientale fino al Mar Nero, la penisola di Gallipoli e il territorio di Smirne.
Nonostante i successi internazionali, Venizelos fu battuto nelle elezioni del 1920, quando, morto re Alessandro, un plebiscito restaurò sul trono il deposto re Costantino. L’occupazione di Smirne da parte della Turchia di Mustafa Kemal (settembre 1922), infranse l’idea di espansione nella penisola anatolica, che aveva avuto in Venizelos uno dei principali sostenitori, e costrinse Costantino ad abdicare a favore del figlio Giorgio II. Nel 1923 la Pace di Losanna chiuse il conflitto con la Turchia, imponendo alla Grecia sacrifici territoriali; l’accordo greco-turco stabilì il principio dello scambio delle popolazioni alloglotte e, pur ponendo il problema di dare sistemazione a più di 1.200.000 Greci che ritornavano in patria, consolidò l’unità nazionale.
Nel 1924, una rivoluzione promossa dalle sfere militari abbatté la monarchia e instaurò, con voto dell’assemblea nazionale costituente, la repubblica; nel nuovo regime riuscì a prevalere nel 1928 la corrente liberal-nazionale di Venizelos, che attuò il reinserimento della Grecia nella politica europea e mediterranea attraverso una serie di accordi con l’Italia (1928), la Iugoslavia (1929) e la Turchia (1930). Non ebbe però successo nel consolidamento della democrazia repubblicana e nel 1933 la vittoria elettorale dell’opposizione filomonarchica provocò la caduta del suo ministero. Fallito il tentativo di riconquista rivoluzionaria del potere effettuato nel 1935 dai venizelisti, un colpo di Stato restaurò la monarchia.
Dalla Seconda guerra mondiale alla Repubblica
Ioannis Metaxas, al governo dal 1936, instaurò un regime dittatoriale sul modello fascista, prendendo per sé i principali dicasteri e facendosi nominare capo del governo a vita (luglio 1938). La politica estera prudente da lui seguita nella crisi internazionale allora in atto non gli impedì di riorganizzare l’esercito e di provvedere alla costruzione di una linea fortificata che prese il suo nome. Respinto nell’ottobre 1940 l’ultimatum di Benito Mussolini che imponeva alla Grecia l’occupazione militare di basi strategiche in territorio greco, la Grecia resistette con efficacia alle forze italiane, nonostante l’inferiorità tecnica e numerica, fino all’invasione tedesca del 1941. Nell’aprile di quell’anno i Tedeschi entrarono in Atene, istituendo un governo collaborazionista, mentre Giorgio II e il governo riparavano a Creta e poi al Cairo. Tra il 29 aprile e l’11 maggio le truppe italiane completarono l’occupazione delle isole dello Ionio e dell’Egeo.
Iniziata l’offensiva alleata, nella seconda metà del 1943 prese vigore la resistenza: l’EAM, il Fronte di liberazione nazionale, espressione di organizzazioni politiche e sindacali progressiste, e il suo braccio armato ELAS (Esercito popolare di liberazione nazionale), avevano già il controllo di vaste zone del paese quando, nell’autunno 1944, ebbero inizio gli sbarchi anglo-americani. Intanto il primo ministro Ghiorgos Papandreu, rientrato ad Atene, aveva condotto una politica di avvicinamento con l’EAM, accogliendone nel suo governo una larga rappresentanza. La situazione era delle più difficili: la popolazione decimata dalla guerra, dalla fame, dalle malattie, l’attrezzatura agricola e industriale sconvolta, quasi interrotte le comunicazioni per la perdita quasi totale del materiale ferroviario e della flotta mercantile, disastrosa la situazione finanziaria. Particolarmente scottante si presentava, dal punto di vista politico, la questione istituzionale, avendo l’EAM assunto posizione nettamente contraria alla monarchia, e quella del disarmo dei partigiani, che l’EAM avrebbe voluto condizionare a un pari scioglimento delle forze armate di destra. In dicembre, le dimissioni dei sette ministri comunisti misero in crisi il governo di Papandreu e contemporaneamente ebbero luogo in Atene i primi scontri fra polizia e dimostranti; fu dichiarato lo stato d’assedio e la tutela dell’ordine affidata alla guarnigione inglese. La situazione precipitò nel 1945: dopo un vano tentativo di compromesso, con la mediazione inglese, scoppiò la guerra civile tra le organizzazioni partigiane dell’ELAS e dell’EAM, sostenute dal Partito comunista, e le forze governative fautrici del regime monarchico, che fu restaurato con il referendum del 1° settembre 1946. La guerriglia continuò durante tutto il 1947 e portò alla costituzione di un governo repubblicano popolare provvisorio, guidato da Markos Vafiadis, finché l’offensiva iniziata il 15 aprile 1948 dalle forze monarchiche con il concorso anglo-americano abbatté la resistenza comunista (1949).
Gabinetti di coalizione per lo più effimeri si alternarono fino al 1956, quando Kostantinos Karamanlis, alla testa di un nuovo partito (Unione radicale) conquistò la maggioranza alle elezioni. In politica estera la Grecia appoggiò le aspirazioni di unione dei Ciprioti, ponendo in crisi sia i rapporti con la Gran Bretagna, sia quelli con la Turchia, a causa della minoranza turca cipriota. Nel 1963, dimessosi Karamanlis, le elezioni videro la vittoria dell’Unione di centro e la conseguente formazione del governo di Papandreu, la cui politica progressista e di distensione verso le sinistre sollevò una forte opposizione tra i conservatori. L’ascesa al trono di Costantino II, nel 1964, accentuò la virulenza dello scontro. Dopo la scoperta di un complotto di ufficiali repubblicani, con la partecipazione del figlio del presidente del Consiglio, Andreas, per abbattere la monarchia e far uscire la Grecia dal patto Atlantico, il re pretese le dimissioni di Papandreu, ma questi si appellò all’opinione pubblica, rivendicando il suo diritto di capo del partito di maggioranza assoluta a ricostituire il governo e pretendendo, in linea subordinata, una nuova consultazione elettorale. Il sovrano cercò allora con ogni mezzo di pressione di spezzare la maggioranza parlamentare dell’Unione del centro, fino a formare un governo d’affari, incaricato di organizzare nuove elezioni per il 1967. Ma le elezioni non ebbero luogo perché il 21 aprile un colpo di Stato portò al potere un gruppo di militari guidato dalla giunta militare formata da Ghiorgos Papadopulos, Stylianos Patakos e Nikolaos Makarezos.
La dittatura militare durò poco più di sette anni. Un tentativo di rovesciarla, compiuto da re Costantino il 13 dicembre dello stesso 1967, fallì e costò al sovrano prima l’esilio e poi, nel 1973, la detronizzazione ufficiale con la proclamazione della Repubblica. L’opposizione clandestina al regime trovò via via le sue espressioni politiche e organizzative e a cominciare dal 1972 venne gradualmente allo scoperto con manifestazioni e proteste, in particolare del mondo studentesco. Nel maggio 1973 si ebbe un tentativo di rivolta per iniziativa di un settore della Marina militare, nel novembre dello stesso anno la brutale reazione del regime alle manifestazioni studentesche e operaie seguite all’occupazione studentesca del Politecnico di Atene aprì una crisi nello schieramento governativo. Solo l’anno successivo, però, in seguito allo scacco subito a Cipro, dove il regime militare greco tentò di rovesciare il presidente cipriota Makarios, subendo una dura reazione militare turca, la giunta militare fu costretta a dimettersi. Venne richiamato dall’esilio l’ex premier Karamanlis, che formò un governo di salvezza nazionale e ripristinò gli istituti e le libertà democratici, convocando per il 17 novembre le prime elezioni libere.
Il ritorno alla democrazia
La netta vittoria elettorale di Karamanlis e il risultato del referendum popolare indetto subito dopo (8 dicembre 1974) sancirono la definitiva abolizione della monarchia e l’instaurazione di una repubblica presidenziale. Nel giugno 1975 veniva approvata la nuova Costituzione ed era eletto il primo presidente della Repubblica, Costantino Tsatsos. Grazie alla politica moderata di Karamanlis, un clima di sicurezza e stabilità prevalse nel paese; nel 1979 venne decisa l’adesione alla CEE, operativa dal 1981, e nel 1980 fu deliberato anche il reingresso nella NATO. Il governo greco iniziò quindi a ristabilire buoni rapporti con i paesi balcanici, l’URSS e il mondo arabo. Rimase però irrisolto il contenzioso con la Turchia su Cipro, sui confini nel Mar Egeo, disseminato di isole greche in prossimità delle coste turche, sulle popolazioni musulmane della Tracia e sui beni dei Greci estradati dalla Turchia. Anche l’andamento negativo dell’economia destava preoccupazioni, suscitando malcontento tra i lavoratori. Le elezioni legislative anticipate del 1977 segnarono un ridimensionamento dei consensi nei riguardi del partito del premier, Nuova Democrazia; si affermò invece il Movimento socialista panellenico (PASOK) di Andreas Papandreu: grazie alle sue promesse populiste di radicali cambiamenti sociali e al suo forte carisma personale, Papandreu conquistò, ai danni delle formazioni centriste e dei comunisti, il ceto medio urbano, gli operai e i contadini. Alla scadenza del mandato di Tsatsos, Karamanlis lasciò l’incarico di presidente del partito di maggioranza e di primo ministro, per passare alla presidenza della Repubblica (5 maggio 1980). La guida del partito venne affidata a Ghiorgos Rallis, anch’egli esponente di ND, il quale formò un nuovo governo. Il calo di popolarità di ND si manifestò con la sua sconfitta alle elezioni legislative del 1981, vinte dal PASOK. Karamanlis assicurò il passaggio dei poteri in condizioni ineccepibili di legalità e di tranquillità.
Papandreu costituì quindi il primo governo socialista nella storia della Grecia e tentò, ma senza riuscirvi fino in fondo, di introdurre alcuni dei cambiamenti promessi nel suo ambizioso programma; il maggiore insuccesso lo registrò nella gestione dell’economia, per cui si vide costretto ad adottare severe misure di austerità. Sul piano della politica estera la Grecia entrò in un periodo di continui attriti con i suoi alleati, ma dando prova di pragmatismo e flessibilità, il governo assunse posizioni più moderate ed europeiste, accantonando le prime idee del PASOK, che propugnavano l’uscita del paese dalla NATO e dalla CEE. Nelle relazioni con gli Stati Uniti, malgrado un ostentato antiamericanismo, non si arrivò mai a rotture drammatiche, neanche nei momenti di più forte tensione e delle accuse ai governanti greci di eccessiva acquiescenza nei confronti del terrorismo mediorientale, che più volte trasformò la Grecia in teatro di sanguinosi attentati. Nonostante un decorso di normale coabitazione tra il moderato presidente della Repubblica e il premier socialista, allo scadere del mandato di Karamanlis (1985) il PASOK gliene negò un secondo e l’anziano uomo politico si dimise; al suo posto venne eletto, dalla maggioranza parlamentare del PASOK e con l’appoggio delle sinistre, il giudice della Corte Suprema Christos Sartzetakis.
Nelle elezioni legislative del 1985 e in quelle amministrative del 1986 il PASOK registrò un lieve calo di consensi, mentre ND, sotto la guida di Kostantinos Mitsotakis, realizzò un sostanziale recupero della sua influenza elettorale. Travolto dalla crisi economica e dalle accuse di gravi scandali politico-finanziari rivolte contro Papandreu e quattro suoi ministri, il PASOK venne sconfitto alle elezioni del 1989. Tuttavia ND, non avendo conquistato la richiesta maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, dovette allearsi con i comunisti della Coalizione della sinistra e del progresso, dando vita a un governo provvisorio, il quale, dopo aver garantito il deferimento a una corte speciale dei dirigenti del PASOK accusati di malversazioni, indisse nuove elezioni per il novembre dello stesso anno. Dinanzi a una nuova impasse elettorale e a un grave dissesto della finanza pubblica, si ricorse a un governo di tecnici con l’appoggio esterno di ND, del PASOK e della Coalizione della sinistra, che ebbe anch’esso vita breve.
Nelle elezioni del 1990, ND riuscì ad assicurarsi la maggioranza. Mitsotakis formò quindi un governo monocolore, mentre alla scadenza del mandato di Sartzetakis fu rieletto presidente della Repubblica Karamanlis. Il governo presieduto da Mitsotakis annoverò tra le sue prime iniziative la firma di un accordo di cooperazione militare con gli Stati Uniti, della durata di otto anni, che ribadiva lo stretto rapporto tra i due paesi e manteneva operanti due delle quattro basi militari statunitensi esistenti sul territorio greco. Tale accordo fu criticato dalle forze di sinistra, che si opposero in modo ancora più netto alla politica economica restrittiva voluta da Mitsotakis e soprattutto ai progetti del governo di limitare il diritto di sciopero. Manifestazioni di protesta e scioperi divennero molto intensi tra il 1992 e il 1993, quando il governo avviò la privatizzazione di varie aziende pubbliche di interesse nazionale, in particolare nel settore dei trasporti.
Il diffuso malcontento popolare fu così alla base della sconfitta elettorale di ND nelle consultazioni politiche anticipate dell’ottobre 1993. Si formò allora un nuovo governo guidato da Andreas Papandreu, il quale pose un freno al programma di privatizzazioni avviato dal suo predecessore ma attenuò nettamente le perplessità che lui stesso e il suo partito avevano manifestato negli anni precedenti circa la partecipazione della Grecia al processo di integrazione europea. Nel marzo 1995 Papandreu favorì l’elezione alla presidenza della Repubblica di Kostantinos Stefanopulos, in passato ministro di ND. Sul piano della politica estera il governo si impegnò, con esito positivo, per la ripresa delle relazioni diplomatiche con la Repubblica ex iugoslava di Macedonia, estremamente critiche fin dal 1991, quando la Grecia si era opposta al riconoscimento dello Stato macedone nato in seguito alla dissoluzione della Iugoslavia, nel timore di possibili rivendicazioni territoriali nei confronti della Macedonia greca. Alla fine del 1995 l’azione dell’esecutivo risentì delle numerose polemiche sorte intorno al ruolo assunto dalla moglie di Papandreu, Dimitra Liani, nelle principali decisioni dell’anziano leader, che fu costretto a dimettersi nel gennaio 1996.
A sostituirlo nel ruolo di capo del governo fu chiamato l’esponente socialista Costas Simitis, che già da qualche mese aveva assunto nei confronti di Papandreu una posizione critica, dimettendosi da ministro dell’Industria e sostenendo la necessità di un profondo rinnovamento del partito. Mentre i rapporti con la Turchia conoscevano nuovi momenti di tensione, a causa del permanere del contenzioso sulla delimitazione delle acque territoriali nel Mare Egeo e dei contrasti tra la comunità greca e quella turca a Cipro, l’esecutivo varò una serie di riforme economiche necessarie per l’ingresso della Grecia nell’Unione monetaria europea. Simitis rafforzò le misure di austerità in campo economico, soprattutto dopo l’esito delle elezioni legislative del settembre 1996, che registrarono una crescita dei consensi dell’opposizione di sinistra, ma nello stesso tempo confermarono la maggioranza socialista in Parlamento. Il nuovo governo presieduto da Simítis si pose come obiettivi prioritari il contenimento dell’inflazione e la riduzione del disavanzo pubblico, al fine di rispettare i criteri stabiliti per la partecipazione all’Unione economica e monetaria. Le misure di austerità, con pesanti tagli alla spesa sociale, causarono ancora numerosi scioperi di protesta, sia nel settore privato sia in quello pubblico.
Il governo Simitis, riconfermato nel 2000, portò la Grecia all’adesione, nel gennaio 2001, alla moneta unica europea mentre, sul piano internazionale, il riavvicinamento alla Turchia fu sancito nel 1999 dalla caduta del veto di Atene all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea e nel 2002 da uno storico accordo fra i due paesi per la costruzione di un gasdotto destinato a rifornire la Grecia. Simitis si trovò tuttavia a fronteggiare un crescente malcontento poiché la politica rigorosa per entrare nell’area dell’euro aveva avuto come rovescio della medaglia il rallentamento della crescita economica. Nel dicembre 2003 abbandonò la presidenza del PASOK e venne sostituito da Ghiorgos Papandreu, figlio di Andreas. Le elezioni anticipate del marzo 2004 videro la sconfitta socialista e l’affermazione di ND, guidata da Costas Karamanlis, nipote di Konstantinos. Il nuovo governo varò un piano ambizioso di modernizzazione e di vendita dei settori produttivi rimasti di proprietà pubblica, ma dovette fronteggiare una situazione sociale ed economica caratterizzata da una disoccupazione diffusa e dagli alti tassi di inflazione. Nel febbraio 2005 venne eletto presidente Karolos Papoulias, esponente socialista ed ex ministro degli Esteri. Nel febbraio 2007 il governo, dopo aver rischiato la sfiducia parlamentare, rilanciò il proprio impegno verso un corso riformatore a tappe accelerate. Tuttavia il deteriorarsi della situazione economica sollevò un diffuso malcontento, sfociato nel 2008 e nel 2009 in un susseguirsi di scioperi e manifestazioni di protesta e infine nelle dimissioni del governo. Dopo le elezioni vinte dal PASOK è divenuto premier Papandreu.