Green economy
«Viviamo in un’età di trasformazione globale, un’età di economia verde» (Ban Ki-moon)
Strumenti e obiettivi dell’economia ecologica
di Miriam Kennet, Michelle S. Gale de Oliveira e Volker Heinemann
5 giugno
In un rapporto dell’UNEP (United Nations Environment Programme), pubblicato in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, si sottolinea come la cattiva gestione delle risorse naturali costituisca un ostacolo di enorme portata allo sviluppo socioeconomico e si individua negli investimenti per il ripristino ambientale una fonte sicura di reddito e di occupazione.
Il quadro di riferimento
Il recente straordinario incremento dell’interesse per le scienze economiche ecologiche e ambientali e per le occupazioni e le attività ‘verdi’ deriva almeno in parte dalle preoccupazioni suscitate da un cambiamento climatico di origine antropica senza precedenti e in rapido aumento, tale da fare temere per la sopravvivenza stessa della specie umana. Secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura stiamo attraversando la sesta più rilevante estinzione di massa di specie viventi cui la Terra abbia mai assistito, con molti mammiferi, pesci e uccelli a rischio, mentre la crescita della popolazione mondiale, prevista in 9 miliardi nel 2040, fa sì che i poveri diventino sempre più direttamente dipendenti dall’ecosistema e si accentui l’instabilità geopolitica. Le ineguaglianze tra gli individui, tra gli Stati e all’interno di essi, tra le generazioni presenti e future, così come le ingiustizie sociali e ambientali, incidono pesantemente sull’economia mondiale.
Il complesso delle risorse naturali (boschi, mari, terreni agricoli, terre, acque e climi non contaminati, risorse alimentari, foreste equatoriali) che lasceremo ai posteri potrebbe essere molto più ridotto di quello odierno. In conseguenza del cambiamento climatico e dell’innalzamento del livello del mare, le generazioni presenti e quelle future potrebbero trovarsi in un mondo con molte meno aree coltivabili o edificabili, con foreste depauperate, barriere coralline sbiancate, paludi di mangrovie private delle loro funzione protettiva e altre risorse di tutti i tipi, incluse le riserve di pesce e degli altri esseri che vivono negli oceani, rovinate. Le estese aree morte che stanno comparendo nel mare, insieme alla crescente desertificazione, all’erosione del suolo, all’arretramento delle foreste e al peggioramento di tutti i servizi offerti dagli ecosistemi, contribuiscono a porre l’economia in pericolo.
La crisi attuale ha mostrato il deficit conoscitivo delle scienze economiche tradizionali e la necessità di sostituirle con nuovi assunti e nuove teorie, come per esempio quelle di Paul Krugman negli Stati Uniti o quelle contenute nel rapporto coordinato da Joseph Stiglitz e Amartya Sen per la Commissione sulla misurazione della performance economica e il progresso sociale. La Commissione è stata creata nel 2008 per iniziativa del presidente francese Nicolas Sarkozy, con il sistema della contabilità nazionale ambientale promosso dalla direttrice dell’Agenzia europea dell’ambiente Jacqueline McGlade.
L’economia ecologica, introdotta da Herman Daly, pone limiti rigorosi all’idea che «più è meglio di meno». Il pensiero tradizionale riguardo alle scelte decisionali legate all’ecologia presupponeva l’esistenza di riserve naturali infinite, limitandosi semplicemente ad aggregare comportamento umano e soluzioni a esso finalizzate. Se l’aria o il mare sono così contaminati da non poter reggere forme di vita, allora significa che sono stati superati i punti di non ritorno al di là dei quali i sistemi naturali non possono essere recuperati.
Si dimostra così che i classici modelli economici neoliberisti sono insufficienti a risolvere le problematiche odierne: una profonda revisione non basta più, è necessario sostituirli in toto, essendo diventati inadeguati allo scopo. Secondo le teorie tradizionali del mercato, il meccanismo della ‘mano invisibile’ descritto da Adam Smith assicura a ciascuno il beneficio degli investimenti e delle attività dell’Homo oeconomicus razionale, oltre che delle sue preferenze e scelte di spesa. Sebbene queste derivino da propositi egoistici, si presuppone che esse giovino all’intera società. La maggior parte delle persone sul nostro pianeta, tuttavia, non è costituita da istruiti uomini bianchi occidentali e non può scegliere come guadagnarsi da vivere e diventare benestante. L’egemonia assoluta delle teorie di mercato viene perciò messa in discussione in tutti i suoi aspetti: dalla necessità di separare gli investimenti dai depositi bancari, alla sua capacità di risolvere il problema del cambiamento climatico e quello della povertà, che continua a crescere in termini assoluti e relativi.
Da sempre, nello sviluppo economico l’uomo si è affidato al progresso tecnologico per risolvere le sfide che gli si presentavano. Per questo motivo il passaggio dai carburanti fossili ai biocarburanti al fine di permettere il mantenimento degli attuali metodi di trasporto, senza cambiare il mercato, è stato visto come un passo logico, pienamente approvato dalle compagnie maggiori e dai principali soggetti commerciali, come l’Unione Europea. La concorrenza nell’utilizzo del territorio, tuttavia, ha fatto salire il prezzo del carburante, ha ridotto i terreni edificabili e ha portato in tutto il mondo rivolte ‘del pane’, causate dall’acuirsi della povertà e da picchi nei prezzi dei terreni. I crescenti investimenti e la speculazione sono culminati nello scoppio della ‘bolla economica’, con il crollo del valore fondiario che ha condotto in numerose nazioni alla fase di recessione. Terminato il periodo economico detto della ‘grande moderazione’, ci troviamo adesso in una fase di grande contrazione. Gli economisti verdi propongono di adottare soluzioni alternative, piuttosto che semplicemente rimpiazzare una materia prima con un’altra.
L’OCSE ha segnalato come l’economia dell’Italia, al pari di quella di numerosi altri Stati, sia particolarmente vulnerabile agli effetti economici dei cambiamenti ambientali. Alcuni mutamenti nel clima potrebbero avere conseguenze nel campo della salute, dovute all’invasione di specie tropicali vegetali e animali, potenziali agenti patogeni di malattie come la malaria e la febbre dengue. Il riscaldamento globale, causando l’innalzamento del livello del mare, potrebbe minacciare la città di Venezia e la sua laguna e anche molte altre città costiere, così come, per quanto riguarda le altre nazioni, interi Stati composti da piccole isole potrebbero scomparire. L’incremento della temperatura ha anche provocato microclimi più temperati in alcune regioni alpine, con effetti che si ripercuotono sulle dighe e sulla disponibilità di energia idroelettrica. In particolare, il surriscaldamento ha causato lo scioglimento dei ghiacciai e certamente se le cime delle montagne non saranno più coperte di neve verrà danneggiato il turismo e potranno risentirne anche fiorenti attività agricole tradizionali come la produzione di mele o di vino, oppure l’allevamento, soprattutto in Alto Adige. Il dissesto geologico delle pareti dei monti, dovuto a mutamenti dei corsi d’acqua e ad altre modificazioni ambientali, ha provocato diversi tipi di incidenti, fra cui nella primavera 2010 il deragliamento di un treno in provincia di Bolzano. In generale il settore turistico, che rappresenta una parte fondamentale dell’economia italiana, è messo a rischio sia nelle amene località mediterranee, sia nei centri di vacanze invernali, dall’instaurarsi di condizioni climatiche tipicamente tropicali. Il sistema naturale deve far fronte al progressivo cambiamento climatico e allo spostamento verso nord di alcune specie di uccelli, che secondo diversi studi, nell’emisfero settentrionale si verificherebbe a un ritmo fino a 5 m l’anno. Il plancton sta migrando in maniera significativa verso mari più nordici, a causa della crescente acidificazione delle acque.
A questa somma di problemi può dare risposta la rapida espansione della green economy, che ha la particolare attrattiva di offrire lavori rispettosi dell’ambiente e la creazione di 1000 nuove figure professionali, capaci di assicurare uno sviluppo sostenibile. La filosofia dell’economia verde punta alla soluzione della complessa rete delle problematiche sociali e ambientali. Il rapporto Stern, stilato nel 2006 per il governo britannico, ha mostrato che una spesa dell’1% del PIL (la cifra è stata poi portata al 2%) per la difesa dell’ambiente rappresenterebbe sicuramente un’opzione più conveniente rispetto a dover affrontare le ricadute economiche del cambiamento climatico. Il rapporto TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity), patrocinato dall’UNEP e curato da P. Sukhdev (2010), è arrivato a risultati simili, evidenziando i costi ancora più alti causati della perdita di biodiversità. Ne sono un esempio le colonie di api, che stanno subendo una preoccupante moria, secondo una teoria a causa dei disturbi prodotti dalle onde della telefonia cellulare ai loro sistemi di navigazione; il costo dell’impollinazione manuale di intere coltivazioni, che si sta già praticando in Cina, non potrebbe certamente essere affrontato in Occidente.
L’economia verde è una scienza interdisciplinare: da un lato si occupa della teoria del cambiamento ambientale globale in tutti i suoi aspetti e del modo di affrontarlo, dall’altro si impegna nello sviluppo economico, fornendo mezzi di approvvigionamento, di condivisione e distribuzione del patrimonio delle risorse naturali o derivate dal lavoro umano. Si tratta di un approccio olistico di sviluppo, che non può essere spiegato tramite semplicistiche formule matematiche tipicamente lineari o rigide preferenze individuali. Si estende oltre i meri problemi ecologici, includendo più vaste considerazioni relative all’ideologia, alla storia del pensiero, all’evoluzione della società, al livello di obiettivi da perseguire e alla specificità del tempo delle soluzioni, tenendo al centro la scienza sociale ambientale. Da tutto ciò deriva una struttura molto più solida per criticare e sostituire le tradizionali correnti economiche riduzionistiche.
Ambiti, metodologia e contenuti
La green economy abbraccia, dunque, un raggio molto ampio di valori, che comprendono ma non si limitano a quelli inerenti l’ecologia. Il nuovo modo di concepire scopi, metodologie e contenuti della scienza economica sta già portando a un graduale allontanamento dagli assunti neoliberisti.
L’economia moderna, invece di occuparsi strettamente di beni e servizi, deve abbracciare un più vasto spettro di interessi ecologici, culturali e sociali. È indispensabile una visione meno antropocentrica, tale da considerare anche i problemi delle specie non umane, dal momento che in definitiva gli uomini dipendono dalla più ampia rete della vita. Nei modelli economici sono necessarie specifiche spaziali e temporali per distinguere fra i veri ‘fatti’ e quelle che in realtà sono affermazioni normative intese a mantenere lo status quo.
I fenomeni economici richiedono nelle diverse situazioni metodi complessi sia qualitativamente sia quantitativamente. Raccolte di dati inesatti e privi di riscontro sono state regolarmente utilizzate nella creazione di modelli formalizzati, senza preoccupazione per la qualità o la concretezza delle informazioni. I dati empirici di carattere economico attualmente si limitano a misurare attività contingenti e il comportamento dei soli esseri umani, così che l’estrapolazione da essi di supposizioni più vaste si è rivelata fuorviante. L’opinione pubblica infatti non costituisce una fonte conoscitiva attendibile.
La variabile primaria delle economie neoliberiste è stata il prezzo, non il valore, poiché si riteneva che il prezzo fosse sempre una corretta approssimazione del valore, anche nel caso in cui questo sia non del tutto conosciuto o fallace. Si avverte adesso la necessità di approcci pluralistici e di limiti di carattere ecologico, culturale e sociale, che tengano in considerazione fatti e dati forniti da altre scienze.
I discorsi economici attuali rimangono radicati nelle battaglie politiche del passato: così, mentre per il socialismo sostenere la necessità di un’ulteriore deregolamentazione dei mercati è più propaganda politica che scienza economica, le ideologie basate sulla competizione di mercato affermano che le società moderne e avanzate richiedono un alto livello di investimenti, con riduzione delle tasse e dell’intervento pubblico. Si esclude così che le politiche economiche possano contribuire a plasmare la società e permettere lo sviluppo di uno stato più evoluto culturalmente, attraverso l’utilizzo responsabile ed equilibrato di modifiche ecologiche e sociali allo stile di vita.
La questione del ruolo e della qualità della crescita economica è tornata alla ribalta, essendo stato riconosciuto che all’incremento dell’attività economica non corrisponde necessariamente quello del benessere. Ciò che è importante è la qualità, la struttura, della crescita, ed è per questo che va aumentando l’interesse per indicatori alternativi, capaci di dar conto di tali variazioni della qualità.
I problemi ambientali sono sempre più utilizzati come elemento motore dello sviluppo economico. Molte nazioni hanno cominciato, per esempio, a investire sostanziosamente sulle fonti energetiche rinnovabili, se non altro perché in tal modo favoriscono l’economia interna, evitando il ricorso all’importazione di energia dall’estero.
Si denota un nuovo interesse per misure di stabilità indipendenti dalla crescita o addirittura mirate a tassi di crescita più bassi e perfino negativi. I livelli di occupazione sono mantenuti attraverso una più equa distribuzione del lavoro disponibile e l’assicurazione per tutti di un livello minimo di sostegno finanziario, riducendo così la pressione sulla crescita.
I metodi diretti, basati sulla regolamentazione, e quelli indiretti, basati sul prezzo, si usano in commistione. A volte si sostituisce direttamente un prodotto con un altro. C’è inoltre un risveglio dell’interesse per lo scontare i valori futuri, posto in particolare rilievo dai rapporti Stern e TEEB. È una prassi a cui gli economisti ambientali si oppongono in toto, dal momento che è in contraddizione con quella di giustizia intergenerazionale. I meccanismi del prezzo non aggiustato non riflettono le reali carenze e le esternalità, così per rettificare tali lacune sono più largamente accettati i modelli di imposta proposti da Alfred Pigou, che prevedono tasse per compensare le esternalità negative prodotte dall’operatore.
La Green Economy initiative lanciata dalle Nazioni Unite nel 2008 si sofferma sulla crisi delle ‘tre F’ (food, fuel e finance, «cibo, combustibile e finanza») e invoca una soluzione di maggiore crescita. Analogamente l’Agenda di Lisbona 2020 dell’Unione Europea sostiene che è auspicabile e possibile uno sviluppo verde e intelligente.
La prospettiva della green economy, invece, considera la crisi attuale come una combinazione di recessione, peggioramento della povertà, cambiamenti climatici e perdita di biodiversità e propone uno spettro di soluzioni composito, che va da una pluralità di strumenti finanziari, come la regolamentazione del mercato delle quote di emissione consentite in base all’accordo di Kyoto, la creazione di quote di emissione o il razionamento stesso delle emissioni, allo sviluppo di innovazioni tecnologiche verdi. Sostiene, soprattutto, un mutamento nelle abitudini comuni, una riduzione dei consumi non necessari di risorse terrestri e cambiamenti negli stili di vita tali da modificare le carbon footprints individuali, ossia l’impatto delle singole persone sulla produzione di biossido di carbonio: un approccio olistico graduale, che vada oltre le tematiche ecologiche, verso più ampie considerazioni relative all’ideologia, alla storia del pensiero, all’evoluzione della società, al livello di obiettivi da perseguire e alla specificità temporale delle soluzioni.
I diritti di proprietà sui beni comuni sono un altro aspetto, introdotto per la prima volta in questo contesto da Ronald Coase e Garrett Hardin. Quando escludere le persone dall’accesso a una risorsa ambientale contesa è troppo costoso, è probabile che la distribuzione del mercato sia inefficiente. La Tragedia dei beni comuni di Hardin (1968) ha reso noto il meccanismo della non esclusione e della proprietà comune (riferita proprio all’elemento ambientale). Hardin teorizza che in assenza di restrizioni, gli utenti di una risorsa ad accesso libero la utilizzeranno più di quanto non farebbero se dovessero pagare per essa o ne avessero il diritto esclusivo, con conseguente degrado dell’ambiente. Elinor Ostrom ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 2009 per l’analisi del modo in cui le persone che utilizzano risorse di proprietà comune stabiliscono norme di autoregolamentazione per ridurre tale rischio.
L’economia ecologica ( Kenneth Boulding, Nicolas Georgescu-Roegen, Herman Daly e Robert Costanza ( tende ad affermare il ruolo primario dell’energia, delle leggi della termodinamica e delle decisioni democratiche come presupposto del discorso sull’ambiente naturale. Include dunque lo studio dei flussi di energia e delle materie prime e quello dei servizi ecosistemici che entrano nel sistema economico e ne sono prodotti. Per la prima volta si assiste a un cambiamento radicale, in quanto l’economia umana viene intesa come un sottoinsieme del mondo della natura. L’economia ecologica è divenuta strumento delle istituzioni globali: per esempio le Nazioni Unite per la misurazione dei costi del degrado dei servizi ecosistemici impiegano il criterio dell’utilizzo e non quello del valore di tale utilizzo.
L’economia verde agisce in quelli che definisce i quattro pilastri del suo raggio di azione: il mondo politico, quello accademico (in particolar modo scientifico ed economico), la società civile e commerciale (ivi comprese le organizzazioni non governative) e più di recente i consumatori e il pubblico in generale. Si descrive come «un’economia risanatrice, per tutte le persone ovunque siano, per le altre specie, per il pianeta e i suoi sistemi».
Poiché l’approccio inclusivo della green economy ingloba i dati delle scienze naturali e li elabora, molti suoi esponenti sono fisici e biologi con interessi anche economici, così da essere in grado di saldare scienze naturali e sociali. È un approccio dunque sostanzialmente multi- e interdisciplinare e pluralista e le decisioni si basano sui due imperativi abbinati del futuro dell’uomo e della natura. Accetta pienamente l’assunto che tutti abitiamo la Terra e non c’è economia al di fuori di essa e riflette l’attuale consapevolezza riguardo alla complessità del reale, sviluppandosi attraverso il completo e fondamentale recupero filosofico delle origini dell’economia, termine che dal significato della parola greca oikía, «gestione della casa o della proprietà», si è evoluto al concetto di Terra. L’oikonomía di Senofonte è adesso l’amministrazione e il soddisfacimento dei bisogni di tutte le persone del mondo, della natura, delle altre specie, del pianeta e dei suoi sistemi.
L’assetto istituzionale e accademico
L’‘ombrello’ dell’eterodossia economica copre un ampio spettro di metodologie e contributi interdisciplinari, che vanno dai lavori di Pigou sulle esternalità negative (1920), all’analisi di Coase sul ruolo dei diritti di proprietà (1960), allo sviluppo di una solida scuola di pensiero economico alternativo, che comprende l’economia ambientale (John A. Hartwick e Robert M. Solow, Sigfried von Ciracy-Wantrup, Herman Daly, Tom Tietenberg, Anil Markandya, David Pearce, Kenneth E. Boulding, Michael Jacob, Mayer Hillman, Paul Ekins, Graciela Chichilnisky) e l’economia ecologica (Peter Söderbaum, Daly, Juan Martinez- Alier). Altri scrittori verdi e ambientalisti sono, oltre a chi scrive, Jonathan Porritt, Molly Scot Cato, Andrew Dobson, Victor Anderson Jack Reardon e Jeff Turk.
Branca della scienza economica in rapida espansione, la green economy è ormai in grado di influenzare il dibattito economico e trasformare le politiche e le scelte decisionali. Vi fanno riferimento governi, per esempio quello sudcoreano, e istituzioni mondiali, come le Nazioni Unite, l’Organizzazione internazionale del lavoro e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ognuna delle quali ha un’iniziativa di economia verde o un programma di attività verdi. È materia di insegnamento in università di tutto il mondo ed è anche rappresentata dall’indice Dow Jones di Wall Street.
The Green economics institute, che è stato fondato nel 2003 e dal 2005 pubblica The international journal of green economics, pone le sue basi nel movimento verde e ha quindi un preciso orientamento politico, che unisce l’eterodossia economica alla scienza ambientale.
Gli sviluppi della disciplina
La green economy si fonda su idee illuministiche di ragione e diritto, su concetti postmoderni di lotta di potere e di élite, su limiti maltusiani alla crescita, sulla ricerca di sostenibilità e sull’ecofemminismo. L’Illuminismo ha avuto un effetto determinante sul modo di concepire l’economia e il ruolo dell’umanità nel mondo della Natura. Propendeva tuttavia a cercare la logica e la ragione piuttosto che il saggio uso della natura, come spiega Francis Bacon: «La mente umana che supera la superstizione acquista l’autorità sopra la natura ormai disincantata. Ciò che l’uomo vuole imparare dalla natura è come usarla al fine di dominare totalmente sia la natura stessa sia gli altri uomini. Questo è il suo unico proposito». La reazione a 10.000 anni di sfruttamento di animali, di piante e di donne, oltre che di colonie, è al centro dell’attività dell’economia verde.
Questa sostiene che la natura ha un suo valore intrinseco ed estende tale valore a tutte le forme di vita (l’‘ecologia profonda’ di Arnae Ness), perciò ricerca un’attività economica che «soddisfi tutti gli esseri umani, le altre specie, la biosfera, i sistemi e il pianeta». Prende a tratti spunto da una più ampia ideologia, da parti dell’economia buddhista (Ernst Friedrich Schumacher, Satish Kumar) che promuovono sia valori di decentramento, di antimaterialismo e di cooperazione sia l’importanza del concetto di moderazione, al quale si affianca quello di lasciare risorse sufficienti per le future generazioni. Un punto di sviluppo chiave è rappresentato dal libro Silent spring (1962) in cui Rachel Carson descrisse gli effetti del DDT e delle pratiche dell’industria chimica, oltre alla relazione tra economia, industria, ambiente e benessere generale. Questo tipo di argomentazioni fu proiettato nel futuro dal rapporto Brundtland, rilasciato nel 1987 dall’UNCED (United Nations Conference on Environment and Development), in cui si definiva sostenibile «lo sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento delle necessità della generazione presente senza compromettere la possibilità di quelle future di realizzare le proprie». Il concetto di sostenibilità veniva così collegato alla compatibilità tra sviluppo delle attività economiche e salvaguardia dell’ambiente.
Scienza economica della condivisione della Terra e delle sue risorse tra gli uomini ma anche con le altre specie e sistemi del pianeta, per far sì che rimanga ospitale per noi e adatto al nostro modo di vivere, la green economy è anche un’economia del fare, estremamente funzionale. Questo significa, per esempio, che pone la massima attenzione su criteri ecologici in merito a catene di distribuzione e di produzione, sostiene metodi di trasporto più compatibili con l’ambiente, più lenti e a scala più ridotta a livello locale, possibilmente con maggiore utilizzo del treno, la diffusione dello slow food e la decrescita, per mantenersi all’interno della capacità portante dell’ambiente.
Anche l’informatica, inizialmente salutata come risolutrice ancora di salvezza, è divenuta un’importante concausa del cambiamento climatico. Per tale ragione si cerca di scorporare i grandi monopoli, come Microsoft, per favorire compagnie di proprietà collettiva più a misura d’uomo, che utilizzino sistemi open source, e di limitare i consumi energetici delle server farms, tramite la virtualizzazione, l’utilizzo di materiali riciclati e l’ottimizzazione dell’impiego di energia.
Essendo stato riconosciuto che equità e giustizia sociale e ambientale sono in grado di fornire vantaggi competitivi in una moderna economia, sta per finire l’era del dumping ambientale e sociale, cioè dello spostamento della produzione in paesi dove non ci sono regolamentazioni sul rispetto dell’ambiente e degli standard sociali.
Infine deve essere considerato il crescente numero di posti di lavori che nascono grazie a questa vasta e innovativa trasformazione che è l’economia verde. La Green jobs initiative, presentata congiuntamente da ONU, OIL e ITUC (International Trade Union Confederation) nel 2007, descrive i green jobs come «lavori nell’agricoltura, nell’industria, nella ricerca e sviluppo, nell’amministrazione e nei servizi che contribuiscono in modo sostanziale alla difesa o al ripristino della qualità dell’ambiente. In maniera più specifica, ma non esclusiva, lavori che aiutano a proteggere gli ecosistemi e le biodiversità, che riducono il consumo di energia, materiali e acqua attraverso strategie altamente efficienti, che ‘decarbonizzano’ l’economia minimizzando o escludendo del tutto ogni forma di spreco e inquinamento». Nell’ottica dell’economia verde, questo tipo di lavori comprende tutto ciò che è sostenibile e contribuisce alla giustizia sociale e ambientale.
Strumenti e strategie
L’utilizzo di soluzioni tecnologiche (chiamate anche ecotecnologie o geoingegneria) include lo sfruttamento della radiazione solare, la fertilizzazione del mare con ferro, aerosol stratosferici, giganteschi alberi sintetici in grado di assorbire il biossido di carbonio (scrubbers), il controllo dell’albedo terrestre e cittadina, schermi di cattura dei gas serra mediante rimozione dall’aria, crescita delle alghe, modifica dell’albedo urbano, il sequestro e lo stoccaggio di CO2. A questo riguardo vi è una preoccupazione crescente per le conseguenze inaspettate che potrebbero portare alcune di queste metodologie, come per esempio l’inseminazione delle nuvole per la produzione di pioggia, sperimentata in Cina, o l’immissione di particelle di aerosol di zolfo per simulare l’effetto dei vulcani nel raffreddamento del clima terrestre. Il principio precauzionale è un pilastro della green economy, che mette in guardia contro la sperimentazione di tecnologie non verificate.
L’utilizzo di tecnologie verdi comporta l’uso di elementi rari, prevalentemente estratti in Cina, la quale nel 2010 ne ha bloccato l’esportazione per riversarli nel suo mercato interno. Così ha reso la produzione delle tecnologie verdi più dispendiosa e impegnativa.
«Produzione locale per i bisogni locali» significa che il traffico automobilistico privato viene lentamente rimpiazzato da una moderna e competitiva rete di trasporti pubblici a basso tasso di emissioni, tramite il potenziamento del car-sharing, delle vie ciclabili e del trasporto ferroviario. Molti governi inoltre hanno introdotto piani di rottamazione delle automobili per favorire l’acquisto di modelli meno inquinanti. Si stanno diffondendo alternative ancora più ecologiche di slow travel e di conseguenza riacquista fascino il viaggio in treno. Slow travel, slow cities e l’idea italiana di slow food stanno crescendo di popolarità.
Si stima che attualmente l’Europa produca all’anno 10 milioni di tonnellate equivalenti di biossido di carbonio, 25 milioni gli Stati Uniti, 5 milioni la Cina e 1 milione l’Africa. Le politiche introdotte per contrastare questo fenomeno si basano sui concetti di contrazione e convergenza verso uno standard di emissioni pro capite di 2 tonnellate e in secondo luogo sul bilanciamento delle economie globali. Deve essere considerato inoltre che il cambiamento climatico e l’innalzamento del livello del mare sarebbero ulteriormente accelerati dallo scioglimento del permafrost e dal rilascio di quantità catastrofiche di metano. Tra i costi inaccettabili della dipendenza dai carburanti fossili tradizionali si possono anche annoverare i danni dell’inquinamento alle risorse ittiche e le lotte geopolitiche connesse con il sistema di distribuzione dalla Russia al Medio Oriente. Ci si sta quindi avviando a sostituire i carburanti fossili con sistemi di microcogenerazione, fonti rinnovabili e le cosiddette smart grids, cioè «reti intelligenti» di trasporto dell’energia elettrica a media e bassa tensione che collegano aree molto ventose e aree con grande disponibilità solare. La produzione locale e la microcogenerazione di energia sono possibili grazie alle tariffe feed-in, già introdotte in Germania, Regno Unito, Italia e Spagna.
Le polemiche seguite al disastro ambientale causato nella primavera 2010 nel Golfo del Messico dall’affondamento della piattaforma di estrazione del petrolio Deepwater horizon, della British Petroleum (BP), costituiscono un esempio di come si stia iniziando a considerare un fattore limitante, e quindi a porre in discussione, il ruolo dei carburanti fossili e del petrolio nell’economia. Il 10% circa dei fondi pensione nel Regno Unito è collegato alla BP, così che la cancellazione dei suoi dividendi ha finito per coinvolgere profondamente l’economia inglese, allo stesso modo in cui la fuoriuscita del petrolio ha danneggiato l’economia statunitense, facendo fallire le aziende ittiche e mettendo in crisi il turismo costiero. Il prezzo del petrolio è inoltre aspetto centrale della tanto contestata guerra in Iraq, che ha portato a una riduzione della disponibilità generale ad accettare i costi dell’attuale sistema di vita dell’Occidente e a una presa di coscienza di come ideali di libertà, democrazia e non violenza coincidano con la necessità di fonti di energia che siano al sicuro da regimi ostili, tirannici o instabili.
Il Protocollo di Kyoto, che rappresenta un tentativo basato sul mercato di risolvere il cambiamento climatico attraverso il commercio delle quote di emissioni, ha tenuto la conferenza dei paesi aderenti a Copenhagen nel dicembre 2009. L’evento COP15 ha suscitato un interesse senza precedenti, riunendo nella capitale danese la maggior parte dei capi di Stato e più di 40.000 persone, ma di fatto la conferenza è fallita. Nonostante l’evidenza che gli Stati formati da piccole isole potrebbero scomparire a meno che il riscaldamento globale non venga stabilizzato a 1,5 °C, altre nazioni più influenti hanno richiesto che la soglia fosse alzata a 2 °C, a causa dei costi che comporta una tale stabilizzazione.
L’attuale crisi economica è stata in parte causata dalla deregolamentazione del sistema bancario, che ha separato la speculazione finanziaria dall’economia dei piccoli investitori. La regolamentazione è una pietra fondante dell’economia verde come è dimostrato, tra gli altri, dal regolamento REACH (Registration, Evaluation and Authorization of Chemicals) sugli effetti nocivi delle sostanze chimiche e dalla direttiva WEEE (Waste Electrical and Electronic Equipment) sul riciclo di componenti delle attrezzature elettriche ed elettroniche quando se ne acquistano nuove.
Pratica positiva è quella degli incentivi, che possono essere collegati ai proventi di specifiche tasse. In Italia, per esempio, vi è un contributo di 500 euro per l’installazione di motori GPL, di 600 euro per i motori a metano e di 1500 euro per l’acquisto di auto a metano, elettriche o a idrogeno, che producano emissioni di CO2 inferiori ai 120 g/km.
A parte gli impegni unilaterali e gli accordi privati, come i contratti tra un’azienda e quelli colpiti dalle sue emissioni, molto popolare all’interno dell’UNEP, tra i verdi e tra i governi è il cosiddetto green new deal, sviluppato dall’ONU e dal governo sudcoreano e da molti altri paesi, che utilizzano forme di incentivo di tipo keynesiano per riversare moneta nell’economia e indirizzarla verso innovazioni verdi e progetti sostenibili.
Prosperità senza crescita
Si fa sempre più diffusa la consapevolezza che potremmo aver raggiunto il limite della crescita. Stiamo rasentando il circoscritto confine dell’adattabilità della Terra e della capacità portante dell’ambiente, a causa del continuo attacco alle condizioni climatiche sostenibili e dell’utilizzo eccessivo di risorse. Nella prospettiva dell’economia verde, una popolazione femminile dotata di maggior potere e istruita può frenare l’aumento incontrollato della popolazione, contribuendo al tempo stesso all’accrescimento del PIL. Qualcuno addirittura suggerisce che «l’equità è il prezzo della sopravvivenza».
In quest’ottica acquista popolarità in tutta l’Europa il concetto di prosperità senza crescita. In Francia è sorto un Mouvement politique des objecteurs de conscience à la croissance économique, che promuove lo stato stazionario previsto da John Stuart Mill. Piuttosto che essere considerata un tentativo fallito di crescita, la decrescita intenzionale sta guadagnando interesse, se non addirittura favore, da parte del pubblico.
A lungo termine non è più proponibile una crescita che ha portato a un consumo annuo pro capite di oltre 2 tonnellate equivalenti di CO2. L’Agenzia europea dell’ambiente e molte altre istituzioni stanno lavorando su questo e su altri aspetti della contabilità verde. In particolare rappresentano importanti punti di riferimento il monitoraggio degli Obiettivi di sviluppo del millennio dell’ONU, l’indice GRI (Global Reporting Initiative) per la misurazione della responsabilità sociale d’impresa, il coefficiente Gini della diseguaglianza della distribuzione del reddito, l’HDI (Human Development Index), l’Indice di felicità adottato dal Bhutan e molti altri indicatori sociali e di sostenibilità, oltre ai tassi di disoccupazione, deficit commerciale e debito nazionale.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale la politica economica ha incoraggiato un grande consumo di massa, ma questa tendenza viene ormai posta in discussione e si va verso un’era di maggiore austerità e riequilibrio. I prezzi dei prodotti fluttuano, ci sono una recessione economica globale, un pesante debito pubblico e una crescita della disoccupazione in tutta Europa. Molti paesi e molte istituzioni nazionali si volgono alla green economy, nella quale vedono l’unico raggio di speranza in questo scenario per il resto tetro. La Commissione Europea è certa che questa tecnologia verde guiderà a vantaggi competitivi, quindi incoraggia investimenti verdi e inserisce nell’Agenda di Lisbona i concetti di crescita intelligente, inclusiva e verde.
Questo passaggio nell’età dell’economia verde rappresenta un momento estremamente stimolante di innovazione economica, che offre la possibilità di scegliere tra un’infinita gamma di strategie. La conferenza COP16, seguito di Copenaghen COP15, in programma in Messico a dicembre 2010, dovrà valutare le molte cose accadute quest’anno nell’evoluzione della green economy, dei lavori verdi e di un sistema economico molto più efficace. Le economie ambientali, ecologiche e verdi stanno tutte definendo il loro ruolo nel processo che porta allo sviluppo dell’economia del 21° secolo – un’età di trasformazione globale, l’età dell’ampiamente predetta quarta rivoluzione industriale – ‘decarbonizzando’ le nostre economie e lavorando per migliorare il nostro futuro, non per svenderlo!
Tematiche ambientali
Economia e ambiente
Nel corso dell’ultimo quindicennio le tematiche ambientali hanno continuato a suscitare grande interesse nelle diverse comunità di ricercatori, in quanto i processi in atto hanno manifestato crescenti problemi in termini di impatto, di inquinamento e di sempre più modesta sostenibilità delle attività umane sul territorio. I principali temi ambientali sono affrontati oramai abitualmente dai protocolli dei più importanti incontri internazionali, dai vertici dei G8 e dei G20 ai lavori della Commissione Europea.
Gli equilibri ambientali rappresentano il frutto di un sistema di interazioni molto complesso e di difficile interpretazione poiché ai tradizionali processi di interazione fra il sottosistema ‘ambiente naturale’ e il sottosistema ‘ambiente sociale’ si sommano gli elevatissimi livelli di interconnessione tra l’ambiente interno (ossia nel contesto di un sistema territoriale misurato di norma su scala corografica) e quello esterno, ovvero a processi che producono effetti su scala globale o su quella continentale. Si è manifestato con evidenza come le alterazioni del sistema ambiente misurate a livello planetario provochino effetti su scala regionale e come le risposte ai principali problemi locali siano completamente fuori portata rispetto alle capacità di intervento politico e programmatico delle comunità locali. La transcalarità che caratterizza le problematiche ambientali evidenzia come le questioni relative all’ecosistema terrestre debbano essere affrontate in scala globale, anche se gli impatti si misurano soprattutto a livello regionale e locale.
Le grandi aspettative sulla capacità delle nuove tecnologie di portare a soluzione i principali problemi ambientali sono, almeno al momento, rimaste tali anche per le resistenze di alcuni paesi a sottoscrivere e ad accettare il Protocollo di Kyoto. Fra le principali difficoltà presenti nelle agende politiche dei grandi incontri internazionali, riscaldamento globale, biodiversità, cambiamento climatico occupano sempre posizioni di rilievo, cui corrispondono grandi problemi di inquinamento (marino, atmosferico, acustico), di deforestazione, di erosione del suolo e desertificazione, di smaltimento dei rifiuti (tossici e non). La pressione umana sulle risorse ambientali è in costante incremento e la cultura della sostenibilità stenta a manifestare effetti positivi.
Nell’economia dell’ambiente trovano applicazione e si sviluppano le metodologie di studio più promettenti e moderne della scienza economica, come la teoria dei giochi e la valutazione delle opzioni reali. L’individuazione di strumenti di intervento pubblico che siano capaci di internalizzare le esternalità (danni) e di fornire la quantità ottima dei beni pubblici, senza compromettere il funzionamento dei mercati, rimane un tema di rilievo nel quale si sperimentano anche nuove metodologie. Inoltre, data la dimensione internazionale delle esternalità e dei beni pubblici che non permette ad alcuno strumento di intervento, per quanto ben disegnato, di essere implementato se non in forza di accordi volontari tra i paesi, acquistano crescente rilevanza gli studi sull’economia degli accordi (trattati, convenzioni, protocolli, codici di condotta) internazionali e la governance ambientale. La veloce diffusione del termine governance ha portato la Commissione Europea a presentare nel 2009 un Libro bianco per chiarirne il significato e unificarne l’uso. Istituzioni, regole e processi costituiscono gli ingredienti della governance e delle collegate attività di monitoraggio e di enforcement, di livello nazionale e internazionale. Tanto maggiore è il numero dei paesi coinvolti, tanto più complessi sono i problemi di monitoraggio, enforcement e governance, e tanto più basse sono le probabilità che l’accordo, eventualmente raggiunto, venga rispettato in pratica (instabilità intrinseca dei trattati). Il numero dei paesi coinvolti dipende d’altra parte dalle questioni affrontate: riscaldamento globale, assottigliamento dello strato di ozono, piogge acide, deforestazione, biodiversità (non a caso le questioni oggi più gravi) sono problemi globali che richiedono la collaborazione di tutti i paesi. Le ragioni delle difficoltà insite nella stipula dei trattati e ancor più nella loro applicazione pratica sono dovute alle asimmetrie tra benefici e costi. Mentre la distribuzione dei benefici dei miglioramenti ambientali è automatica e generalizzata a tutti i paesi, indipendentemente dai costi effettivamente sostenuti, la distribuzione di questi deve essere concordata. È il tipico caso di fornitura di bene pubblico il cui finanziamento implica che la quota a carico di un paese decresca al crescere di quella a carico dell’altro: ciascuno Stato, cercando di minimizzare il proprio costo, contribuisce a ritardare i tempi dell’intervento.
Al momento si possono perciò individuare tre comparti di ricerca: quello teorico, quello orientato verso gli strumenti di intervento e quello finalizzato all’implementazione pratica delle decisioni. L’economia del benessere, l’ottimizzazione dinamica e l’equilibrio economico generale sono il supporto teorico della disciplina, mentre l’analisi costi-benefici è la base per gli studi applicati. L’ampliamento dei contenuti dell’economia dell’ambiente è andato di pari passo con la crescente importanza della sua duplice finalità, quella di capire come si possano ridurre le perdite di benessere sociale dovute al deterioramento ambientale (inquinamento-esternalità-danno) e come, per motivi di equità verso le generazioni future, si possa rendere la crescita, o sviluppo, presente sostenibile in futuro.
Crescita e sviluppo non sono sinonimi sebbene molto spesso vengano usati come tali. Per crescita economica si intende l’incremento del prodotto interno lordo (PIL), mentre per sviluppo economico si intende un concetto più ampio che include la crescita del PIL ma implica anche il miglioramento di altri indicatori di benessere, quali il tasso di scolarizzazione e la speranza di vita alla nascita, come nello Human Development Index (HDI) delle Nazioni Unite.
Mentre fino agli anni 1990 la politica ambientale rappresentava soltanto casi marginali di intervento pubblico e sembrava destinata a restare sulla carta, ora sta assumendo una relativamente robusta configurazione, tanto che se ne possono cogliere le linee evolutive e le diversità di approccio tra i paesi. Ugualmente, i processi di sviluppo economico che possano ritenersi sostenibili sia rispetto all’ambiente naturale sia rispetto alle economie di mercato e miste, sono al centro dell’attenzione di politici, mass media e opinione pubblica in tutti gli Stati e anche nelle loro aggregazioni internazionali.
Sostenibilità e progresso tecnico
La sostenibilità è diventata un tema sempre più ricorrente soprattutto dopo la pubblicazione, nel 1987, del rapporto della Commissione mondiale su ambiente e sviluppo (WCED, World Commission on Environment and Development) dell’UNEP (United Nations Environment Programme), noto come rapporto Brundtland dal nome della sua presidente e dal titolo Our common future, che ne ha fornito una definizione. Si ha sviluppo (o crescita) sostenibile quando le generazioni presenti, nel soddisfare i propri bisogni, non impediscono a quelle future di soddisfare i loro. A questa dichiarazione di principio è possibile dare un contenuto operativo seguendo uno dei due criteri noti come criterio di sostenibilità forte (strong sustainability) e criterio di sostenibilità debole (weak sustainability), la cui differenza consiste nel ritenere, o meno, possibile la sostituzione tra capitale prodotto dall’uomo (macchinari, costruzioni, computer ecc.) e capitale naturale (petrolio, minerali, foreste ecc.). L’ipotesi di sostituibilità può a sua volta essere più o meno ampia a seconda che si ritenga possibile la completa sostituibilità oppure la si escluda per alcuni tipi di capitale naturale (capitale critico). Il fondamento per la sostituibilità è il progresso tecnico.
Il termine sostenibilità è divenuto pervasivo, lo si usa come slogan parlando di città sostenibile, di politica energetica o dei trasporti sostenibile, di gestione sostenibile dell’acqua, dei rifiuti ecc., mentre esso ha, per l’economia, contorni piuttosto chiari ed è suscettibile di misurazione. Un primo significativo test di sostenibilità si può ottenere dal raffronto della dinamica di crescita del PIL con quella di un dato elemento di pressione ambientale esercitata dall’attività umana di produzione e/o di consumo, quale può essere l’emissione di gas serra o la produzione di rifiuti solidi. Esempi di questa impostazione si hanno con gli indicatori prodotti dall’OECD che seguono una metodologia articolata in stadi. Il primo stadio corrisponde all’individuazione dell’attività economica che genera pressione sull’ambiente (driving force) e alla valutazione quantitativa di tale pressione (per es. la quantità di CO2 emessa); il secondo consiste nel rilevarne gli effetti sull’ambiente (per es., l’accumulo o la dispersione generata dal vento) e il terzo registra la reazione da parte dei soggetti, individui e/o Stato. Questi indici di pressione-stato-risposta, necessari all’attività di monitoraggio, sono ormai piuttosto numerosi. Il raffronto tra la dinamica del PIL, quale driving force aggregata, e quella di uno o più indicatori ambientali, permette di ottenere informazioni sulla sostenibilità. Se il tasso di crescita dell’indicatore di pressione ambientale fosse più alto di quello di crescita del PIL, la crescita non sarebbe sostenibile in futuro. Questo tipo di ragionamento ha portato all’elaborazione della nozione di ‘sganciamento’ (decoupling) quale condizione necessaria per la sostenibilità, con ciò intendendo lo sganciamento dei due tassi di crescita. Si ha sganciamento assoluto quando la crescita del PIL si accompagna a decrescita nella pressione ambientale, mentre si ha sganciamento relativo quando, nonostante crescano entrambi, il tasso di crescita dell’indicatore della pressione ambientale è minore del primo.
Gli studi empirici sulla crescita economica evidenziano come, alla crescita positiva del PIL globale pro capite (grandezza statistica che si ottiene dividendo il PIL globale per la popolazione globale) sperimentata all’inizio del 21° secolo, si sia accompagnata una crescita ancor più elevata nell’utilizzo di alcune risorse naturali. Il tasso di crescita dei rifiuti pro capite è positivo, crescente e maggiore del tasso di crescita del PIL pro capite come pure il tasso di emissione di CO2 e il tasso di crescita della domanda di energia. Data la limitatezza delle risorse naturali (la Terra), il tasso di crescita del PIL pro capite non potrà continuare a essere positivo in futuro a meno che non si riduca il tasso di utilizzo delle risorse naturali (decoupling). Gli effetti sganciamento registrati tra i paesi sviluppati dell’area OCSE sono assai limitati.
In Italia si sono registrati risultati positivi in termini di sganciamento delle emissioni dei principali inquinanti atmosferici (le emissioni di SOx, infatti, hanno fatto registrare una riduzione del 55% negli anni 1980 a fronte di crescita positiva del PIL e una riduzione del 46% negli anni 1990 contemporaneamente alla riduzione del 24% delle emissioni di NOx) e in termini di intensità energetica (quantità di energia assorbita per unità di PIL), dimostrandosi il paese dell’area OCSE a più bassa intensità energetica. A fronte di questi risultati positivi si ha, però, sia una produzione di rifiuti che cresce a un ritmo più che doppio di quello del PIL, sia il più alto tasso di motorizzazione (veicoli a 4 e 2 ruote pro capite) dei paesi dell’OECD e ciò rischia di annullare gli effetti sganciamento degli inquinanti atmosferici.
Al di fuori dell’area OCSE, la Cina (ma anche l’India) sta mostrando un alto tasso di crescita del PIL (tra l’8 e il 9% in termini reali) e un ancor più alto tasso di crescita della domanda di energia; ciò desta preoccupazione in termini di emissioni inquinanti e di disponibilità futura di risorse naturali. Il 16° congresso nazionale del Partito comunista (novembre 2002), nel fissare gli obiettivi di crescita del PIL, ha riconosciuto la circolarità ambiente-economia (circular economy). Successivamente ha espresso la volontà di raggiungere l’obiettivo di crescita sulla base della strategia delle 3R, un modello di sviluppo basato su riduzione, riuso e riciclo delle risorse naturali (Reduce, Reuse, Recycle), lanciato dal Giappone nel 2004, che rende l’approccio (dichiarato) cinese coerente con quello occidentale.
Gli effetti sganciamento o l’implementazione della strategia delle 3R necessitano di un adeguato progresso tecnico, la dinamica del quale risponde alla logica del mercato ossia ai prezzi di mercato. Nelle attuali circostanze di forte e crescente domanda di energia mondiale, per es., si creano gli incentivi per produrla attraverso fonti diverse a seconda della loro disponibilità e dei loro prezzi di mercato. Tanto più alto è il prezzo di una fonte di energia, tanto maggiore sarà la spinta a investire in ricerca per sviluppare fonti alternative, più abbondanti o più a buon mercato. In questo caso il prezzo di mercato dà il segnale giusto indicando la scarsità crescente della fonte e spingendo verso tecnologie alternative (tecnologie di backstop). Vi sono però casi in cui i prezzi di mercato non danno i segnali corretti (perché non includono le esternalità) oppure non esistono. Quando la domanda di merluzzo atlantico, per es., aumenta (caso molto studiato), l’espansione della capacità di pesca dei pescherecci per soddisfarla non deriva da un’evoluzione desiderabile del progresso tecnico perché esso, aumentando l’efficienza del fattore produttivo lavoro, riduce la capacità di riproduzione della risorsa (merluzzo) e dunque ne accelera l’estinzione. Il progresso tecnico non sempre aiuta spontaneamente la sostenibilità, anzi a volte la ostacola (pesca oceanica, foreste), e in questi casi l’intervento pubblico è necessario per riorientarlo verso un’evoluzione compatibile con il benessere sociale.
Altri indicatori, generalmente basati sul criterio di sostenibilità debole, sono stati elaborati per verificare se un paese stia effettivamente percorrendo un sentiero di sviluppo sostenibile. Tali sono il genuine saving, l’ecological footprint e tutti quelli che possono ottenersi dalla ‘contabilità verde’, intendendo con ciò le proposte di revisione dei metodi di contabilità nazionale per tenere conto dello stato dell’ambiente e delle risorse naturali. Lo scopo ultimo è quello di pervenire a un PIL corretto, in senso ambientale (Environmental adjusted domestic product). Le Nazioni Unite hanno proposto nuove metodologie per la costruzione di un Sistema satellite di contabilità ambientale ed economica integrata (SEEA 2003), l’UE ha sviluppato una metodologia di supporto nota come SERIEE e l’ISTAT sta producendo la matrice di contabilità integrata all’ambiente che è conosciuta come NAMEA.
Principi della politica ambientale europea
L’Unione Europea, che fino al 1987 non annoverava l’ambiente tra i suoi campi di competenza e che fino al Trattato di Maastricht (1992) non si era ufficialmente posta l’obiettivo della sostenibilità dello sviluppo, ha oggi una propria politica ambientale. Il principio su cui si fonda è quello della sussidiarietà, che implica l’intervento a livello comunitario (il livello di governo più alto) soltanto nei casi per i quali i singoli Stati non siano in grado di assumere e porre in atto le decisioni di protezione ambientale (tipicamente quando queste coinvolgano più di uno Stato). Il principio di sussidiarietà da un lato protegge, per così dire, l’autonomia dei singoli Stati dalle ingerenze non necessarie della Comunità e dall’altro non impedisce che ciascuno Stato attui una politica ambientale più stringente di quella comunitaria (come è avvenuto in Svezia, dove sono state introdotte tasse su carbonio e zolfo). Una volta createsi le condizioni per l’intervento ambientale comunitario, questo segue alcuni criteri specifici espressamente dichiarati e il cui contenuto è intuitivo. Tali sono il polluter pays principle (chi inquina paga), forse il più noto; il precautionary principle e il preventive principle e, per alcuni aspetti, il più importante, l’integration principle. Secondo questo principio la politica ambientale, e dunque gli obiettivi di qualità dell’ambiente e di sostenibilità, devono essere integrati nelle singole politiche comunitarie. In altri termini, quando si prendono decisioni di politica dei trasporti, di politica agricola, di politica energetica ecc., gli aspetti ambientali devono essere considerati all’interno dell’analisi costi/benefici del progetto.
Infine, rispetto alle scelte tecnologiche, la Comunità Europea ha deciso di attenersi al principio della «migliore tecnologia disponibile che non comporti costi eccessivi» (BATNEEC, Best Available Technology not Entailing Excessive Costs). Tale posizione è stata a lungo discussa perché il criterio dell’obbligo di usare la «migliore tecnologia disponibile» (BAT), indipendentemente dal costo, sarebbe stato molto più coerente con gli obiettivi di protezione e sostenibilità. L’indebolimento del principio con la considerazione dei costi, da un lato rinvia al problema della scarsa coerenza tra le dichiarazioni e le azioni quando si tratta di sostenere il costo della protezione ambientale e dall’altro allunga i tempi del conseguimento dei benefici.
Infine, sono state varate numerose importanti direttive, tra cui la direttiva quadro sull’acqua e le tre sull’energia. La direttiva sull’acqua (nr. 60/2000, Water framework directive) pone le basi per migliorare l’efficienza nel suo uso tra i settori (agricoltura, industria, civile) e al loro interno, introducendo anche nel settore idrico la logica della copertura di tutti i costi, privati e sociali mediante il prezzo. Le direttive sull’energia riguardano: la nr. 77/2001 le fonti di energia rinnovabili; la nr. 87/2003 il sistema di Emission trading; la nr. 101/2004 i loro collegamenti Linking directive. La prima persegue lo scopo di incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili, la seconda ha l’obiettivo di mettere in funzione il mercato del carbonio attraverso lo scambio dei diritti di emissione negoziabili e la terza quello di collegare le altre due.