CALOPRESE (Caroprese, Caropreso, Calopreso), Gregorio
Nato a Scalea (Cosenza) nel 1654, mostrò ben presto eccezionali doti d'ingegno, che convinsero i suoi genitori ad inviarlo a Napoli per compiere un regolare corso di studi. Prima allievo dell'insigne letterato Giuseppe Porcella, il C. si volse poi alle scienze, particolarmente in auge in Napoli per merito del gruppo degli Investiganti, e si laureò in medicina. I suoi rapporti con la capitale del Regno rimasero particolarmente intensi, anche quando il C. decise di ritirarsi nella sua città natale: prese parte ai lavori dell'Accademia degli Infuriati, intorno al 1690, e quindi alle sedute di quella istituita verso il 1689 dal viceré duca di Medinaceli. Ma il C. fu in rapporto anche con Roma, ove risiedeva Gian Vincenzo Gravina, suo cugino, e ivi soggiornò anche per qualche tempo, tra il 1699 e il 1700, come risulta da alcune lettere del Gravina a monsignor F. Pignatelli, arcivescovo in quegli anni a Taranto. L'esiguità di precise notizie non consente di definire compiutamente l'arco delle esperienze del C., la cui vita risulta costantemente ispirata da una essenziale vocazione all'isolamento; in ogni caso due sono i suoi momenti fondamentali: la formazione a Napoli e la fondazione, a Scalea, di una "scuola" che divenne ben presto famosa.
La formazione culturale del C. si realizza a diretto contatto con alcuni dei maggiori protagonisti dell'attività scientifica e filosofica dell'Accademia degli Investiganti (fondata nel 1650, dispersa dalla grande peste del 1656 e poi ricostituita nel 1662), quali Lucantonio Porzio, Tomaso Comelio, Lionardo Di Capoa; il C. ne assimila largamente le proposte "moderne", antiautoritarie e antidommatiche, sul piano sia della metodologia scientifica sia dell'elaborazione teorico-filosofica generale. Egli, quindi, si schiera apertamente dalla parte dei "moderni" nel corso delle polemiche che percorrono la scena culturale napoletana del secondo Seicento, anche se privilegia la componente razionalistico-mentalistica su quella sperimentale-naturalistica, che organicamente avevano concorso a costituire il senso coerente dell'esperienza degli Investiganti.
Questo aspetto vistosamente razionalistico della posizione teorica del C. fu colto già dal suoi contemporanei, che furono concordi nel definirlo "gran filosofo renatista" (l'espressione ricorre prima nel Vico e nel Metastasio e poi nel Giannone, ma più largamente costituiva l'emblema culturale del C.). Questa definizione necessita d'una verifica che non solo estenda i confini dell'esperienza intellettuale del C. da un ambito strettamente cartesiano a una più vasta considerazione dei suoi rapporti con la problematica filosofica e morale della cultura europea del secondo Seicento, ma anche ne riconsideri le articolazioni interne sia di progettazione sia di esecuzione, recuperando proprio certe testimonianze dirette, ben più analitiche e documentate di quanto non sia quella definizione di "renatismo". Se infatti il giudizio del Vico può derivare da una non del tutto disinteressata distribuzione delle parti nella cultura napoletana postinvestigante, e se le memorie del Metastasio e del Giannone passano al filtro d'una distanza nel tempo di diversi decenni, la testimonianza di un discepolo diretto del C., Francesco Maria Spinelli, offre una ricognizione completa delle dimensioni ideologiche e teoriche reali della posizione calopresiana.
Tornato da Napoli a Scalea, quasi in volontario esilio (che è segno storicamente indicativo della crisi dell'esperienza investigante e della chiusura in atto nella situazione intellettuale napoletana alla fine del Seicento), il C. non si dedicò all'esercizio della sua professione di medico, ma volle promuovere la costituzione di una "scuola", utilizzando per vivere le rendite di alcuni possedimenti, che gli furono peraltro contesi dai parenti. Nel ritratto che lo Spinelli ha lasciato, è particolarmente insistita la trattazione di questo aspetto del carattere del C., schivo della mondanità e della stessa applicazione del suo mestiere, se non come esclusiva e del tutto disinteressata dedizione agli amici e ai poveri del paese.
La prima caratteristica della "scuola del C. è offerta dall'impostazione del tutto lontana dalla pratica del tempo sia per l'articolazione dei programmi sia per il metodo didattico. Ma non per questo costituiva un'esperienza spontanea oapprossimativa; anzi risultava rigorosamente organizzata e strutturata, come la dettagliata descrizione dello Spinelli, che ne fu uno degli ultimi allievi, consente di stabilire. E l'importanza di questa "scuola" del C., che senza dubbio finì per assorbirne quasi interamente le capacità intellettuali e creative, è documentata almeno dal fatto che fu frequentata da molti allievi, poi destinati a ricoprire ruoli non secondari nelle vicende della cultura napoletana tra Sei e Settecento: come il Gravina, Metastasio, Alessandro Riccardi, Saverio Pansuti, Nicolò Cirillo ed altri.
Alla normale scuola precettistica e autoritaria il C. voleva sostituire un metodo graduale e conversativo, che fosse in grado di unire allo studio l'esercizio fisico del corpo (non per reminiscenza classicistica, ma per coerenza con i dati elementari della tradizione sperimentale-naturalistica, sul problema del rapporto mente-corpo) e che quindi fosse in grado di disporre il giovane a impostare la sua futura attività culturale in modo organico, senza bisogno di ricorrere alla figura del "maestro" come depositario assoluto della verità. Il programma era scandito in impegni graduati con attenzione: dopo quattro mesi di esercizi fisici, il giovane iniziava lo studio delle scienze. La sua giornata era articolata in quattro parti: prima leggeva e commentava un passo della Scrittura, utilizzando anche testi moderni, come gli Essais de morale del giansenista Pierre Nicole; nella seconda studiava matematica; nella terza, filosofia; nella quarta, eloquenza. Il metodo, seguito con coerenza, è così descritto dallo Spinelli: "Le lezioni non si scrivevano, ma si spiegava un autore. Non s'impiegavano, massimamente nella filosofia e nell'eloquenza, autori che si servissero del metodo scolastico, ma quei che adoperavano l'analitico" (p. 476). Questa fondamentale discriminante (che è comune non solo a tutta l'esperienza intellettuale napoletana sperimentale-investigante, ma coerente anche con le scelte che emergono nettamente nelle opere del C.) risulta anche nella precisa elencazione dei testi impiegati nelle lezioni, che vede la preminenza di Cartesio, accanto ai testi aristotelici "puri", cioè liberati dalla deviante mediazione dei commenti scolastici. Su questa fondamentale esperienza di lettura pressoché integrale delle opere cartesiane, il C. innestava la lettura di Lucrezio e di Bacone: che vale come emblematico riconoscimento dolla complessità della posizione teorica calopresiana tra sperimentalismo e atomismo, da una parte, e razionalismo e mentalismo, dall'altra.
Ampio spazio nei programmi della "scuola" era dato anche all'educazione letteraria. sia attraverso una sì diretta esperienza di lettura di testi classici, greci e latini, sia italiani: Dante, Ariosto, Tasso e Petrarca. Anche da questo punto di vista si riconosce la collocazione profondamente originale del C. nei confronti della tradizione culturale "media" del Seicento, soprattutto nell'attenzione prestata a Dante e ad Ariosto. E se la lezione calopresiana su Dante certamente è alla base dell'importante rivalutazione che ne farà il Gravina nella sua Ragion poetica, la scelta dell'Ariosto (che è coerente con le posizioni della cultura napoletana e si riallaccia a certe pagine sull'Ariosto di Marco Aurelio Severino) sarà dal C. stesso motivata nella sua prima opera a stampa.
Nel 1690, nel corso di uno dei suoi soggiorni a Napoli, il C. partecipò a una seduta dell'Accademia degli Infuriati, di cui era membro, con una Lettura sopra la concione di Marfisa a Carlo Magno contenuta nel "Furioso" al canto trentesimottavo (che sarà poi pubblicata, parzialmente, nell'anno successivo, a Napoli, dal Bulifon). In essa, "oltre l'artificio adoperato dall'Ariosto in detta concione, si spone ancora quello che si è usato dal Tasso nell'orazione d'Armida a Goffredo", come avverte il frontespizio dell'edizione bulifoniana. Non si tratta però d'un attardato intervento sulla questione della supremazia tra il Tasso e l'Ariosto che aveva tanto affaticato la cultura italiana tra Cinque e Seicento: il C. in realtà intende affrontare il problema dell'"eloquenza" - in una prospettiva che è apertamente antibarocca - esemplandolo sul campione del Furioso, e chiamando a sostegno di questa impostazione metodologica antiautoritaria proprio il Bacone del De augmento scientiarum, come mostra l'epigrafe significativa del libro. L'eloquenza significa infatti per il C. non un astratto sistema di gestione di fatti soltanto letterari demandato alle indicazioni assolute delle auctoritates (in particolare ai trattati di retorica aristotelici), quanto un modo di comportamento intellettuale complessivo, perché attraverso la "concione" passa ogni possibilità di comunicazione umana e intellettuale. Da questa preliminare impostazione consegue per il C. la necessità di dare all'eloquenza proporzioni di praticabilità razionale e di comunicabilità di "discorsi" chiari e distinti: come sono - secondo l'analisi calopresiana - quelli della "concione" di Marfisa nel Furioso.
Quest'opera del C. (come poi le altre) non è compiuta: si arresta al primo dei quattro capitoli progettati e si limita soltanto alla trattazione dell'"invenzione", ma risulta in ogni caso indicativa in modo organico delle scelte teoriche antidommatiche del C., che, respingendo la tradizione normativa delle discipline retoriche aristoteliche (ma è da osservare comeil meccanismo di scarto di questa tradizione passi dall'interno della verifica dell'uso delle sue nozioni fondamentali, come appunto l'"invenzione", che costituisce la prima parte della retorica classica), propone un sistema d'analisi fondato su un nucleo essenzialmente filosofico. E infatti l'indicazione degli "artifici" utilizzati da Maffisa nella sua "concione" a Carlo Magno risulta tanto più agevole ed esemplare nel momento in cui il C. rifiuta gli strumenti retorici tradizionali e sottopone il testo a una minuziosa indagine per mezzo di strumenti metodologici che pongono il testo stesso in relazione con un coerente sistema filosofico, quello razionalistico-cartesiano.
L'edizione del 1694 (Napoli, Bulifon) delle Rime di Giovanni Della Casa, accompagnate dalle "sposizioni" di Sertorio Quattromani, Marco Aurello Severino e del C., costituisce il momento fondamentale di precisazione delle implicazioni teorico-ideologiche della proposta neopetrarchistica avanzata dalla cultura sperimentale napoletana di fine Seicento: e sono soprattutto le "posizioni" del C. a definire con maggior rigore e più intensa problematicità il senso reale della linea petrarchistica. Quest'opera, poi, costituisce una parziale documentazione di come il C. mantenesse i suoi contatti cm gli ambienti culturali napoletani, e nello stesso tempo testimonia la considerazione che in essi trovava, nonostante la lontananza della sua residenza calabrese.
Il progetto bulifoniano (inserito in un più ampio piano di edizione delle opere edite e inedite del Severino, uno dei protagonisti del rinnovamento scientifico degli Investiganti), che rimase fermo al primo volume ancora una volta per responsabilità del C., aveva una sua logica interna nell'accostamento di tre commenti così diversi sia per collocazione cronologica sia per impostazione di metodo e teoria: affermare e documentare il primato della cultura napoletana su una problematica di tipo filosofico-estetico, e nello stesso tempo dimostrare la continuità mai interrotta tra la tradizione cinquecentesca del naturalismo rinascimentale (il Quattromani fu discepolo ed espositore del Telesio) e la nuova cultura moderna investigante, quasi a voler espungere dalla storia culturale napoletana l'esperienza del barocco dommatico-aristotelico.
Il lavoro del C. iniziò come opera di completamento e aggiornamento delle esposizioni del Quattromani (di tipo essenzialmente retorico-tecnico) e quindi di estensione e riproposizione problematica di quelle del Severino, ma in realtà diventa ben presto un testo autonomo, che perde ogni collegamento con l'originale del Della Casa, assumendo alla fine le proporzioni di vero e proprio trattato teorico-filosofico. La direzione del commento del C. si svolge nella linea tracciata dal Severino, perseguendo anch'esso una verifica delle Rime dellacasiane sul metro d'un "natural ordine" razionalisticamente scandito. Ma cambia il metodo d'analisi: il C. infatti supera la contraddizione severiniana tra l'esecuzione di una prova retorica sullo schema di Ermogene e l'aderenza a una prospettiva scientifica sperimentale, e propone con risolutezza una "sposizione" complessivamente coerente non solo nel metodo ma pure nell'esercizio critico, puntando sul concetto di "lucidezza" che deriva da una espressione "dritta e piana", a sua volta conseguente da una "disposizione de' concetti secondo il natural ordine eseguito".
Alla base delle "sposizioni" calopresiane sta un'attenta lettura e meditazione del testo cartesiano delle Passions de l'âme, che non soltanto è di frequente citato direttamente, ma costituisce una reale indicazione teorica. Con coerenza rispetto al metodo già impiegato nella Lettura sopra la concione, il C. parte a definizione di una "natura delle passioni", mediata dall'elaborazione cartesiana, ma capace anche di originali spunti speculativi, per verificame i margini di presenza nei testi dellacasiani, che, di fronte all'interesse reale della scrittura del C. per una problematica soltanto teorica e non retorico-letteraria, acquistano una funzione esclusivamente strumentale. L'importanza dell'uso di questa tipologia, cartesiana in partenza, delle passioni e della verifica della loro realizzazione poetica, è notevole perché è la prima volta che l'esercizio critico non è fondato su una precettistica di tipo dommatico-retorico, ma si svolge in un più generale contesto di motivazioni filosofiche generali, al cui centro è posta l'ipotesi cartesiana dell'uomo-macchina e della natura delle passioni.
La poesia diventa pertanto strumento privilegiato di conoscenza: dell'uomo in primo luogo, perché lo spazio specifico della poesia (e di quella petrarchesca e petrarchistica in particolare) è quello definito nei termini rigorosi di una dettagliata scansione e descrizione dei tempi e dei modi della passione d'amore, che è motrice di tutta una serie di passioni conseguenti e direttamente ad essa collegate. Questa fondazione della poesia come antropologia ha una notevole importanza nel contesto storico della situazione napoletana del tardo Seicento, perché costituisce di fatto l'elaborazione di un'ideologia per quei gruppi di "popolo civile" la cui ascesa rappresenta uno dei fatti di maggior rilievo nel quadro politico-sociale dell'epoca: attribuire al petrarchismo queste proporzioni filosofiche e scientifiche significa proporre un'alternativa netta a modalità di gestione dei fatti letterari e culturali individuate nelle loro organiche componenti aristotelico-gesuitico-feudali, e quindi presupporre un rovesciamento dei valori sia intellettuali sia sociali, rispetto all'amplificazione barocca del gesto eroico e cavalleresco, a favore delle capacità di razionalità e di analisi, e quindi della "finezza di spirito". Grosso rilievo ha nella teorizzazione del C. lo spazio assegnato alla "fantasia", che nelle proporzioni mentalistiche complessive dell'elaborazione teorica delle "sposizioni" ("Tutte le passioni che in noi si generano, se non alcune che senza manifesta cagione da' soli interni movimenti del corpo hanno i loro principi, procedono secondo il mio avviso dall'idea che fa la mente delle cose come buone o come ree", G. Della Casa, Rime, p. 68) risulta nettamente definita come la parte dell'intelletto che "più si accosta al materiale del corpo" e che costituisce la fimzione razionale preposta alla formazione delle immagini, per opera delle quali poi si scatenano le passioni dell'anima. Questa condizione oggettiva dell'uso calopresiano della "fantasia" non consente arbitrarie appropriazioni in prospettiva idealistica, ma necessita di un corretto riferimento all'ambito complessivo dell'uso di tale nozione nell'elaborazione teorico-filosofica di fine Seicento e di primo Settecento: proprio per meglio caratterizzarne e analizzarne la fondamentale componente mentalistica.
Direttamente collegata sia alla Lettura sopra la concione sia alle "sposizioni" è la lettera a Niccolò Caracciolo, principe di Santobuono, in cui il C. "ragiona della invenzione della favola rappresentativa", pubblicata a Napoli, dal Bulifon, nella raccolta di Lettere memorabili, nel 1697. Per quanto sia orientata a una specifica trattazione di problemi teatrali, la lettera costituisce la prova più organica (anche perché è condotta a termine delle sue parti) dello sforzo speculativo del C. nel definire una teoria della poesia come espressione e veicolo di un procedimento razionale conoscitivo, collegato direttamente all'enucleazione del ruolo centrale della "favola" come strumento di mediazione di dati razionalisticamente reali. E la nozione di "favola" (peraltro da raccordare all'uso graviniano, dal C. espressamente citato) deve essere collegata a quella di "fantasia", di cui costituisce il momento privilegiato d'esecuzione. L'altra lettera del C. edita nel volume bulifoniano delle Lettere memorabili è diretta a Niccolò Gaetano d'Aragona e "ragiona sopra le cagioni de' fenomeni che nel monte della Solfonaria presso a Pozzoli si veggono": documento di particolare interesse per la ricostruzione critica dei rapporti con la tradizione investigante-sperimentale, anche perché costituisce il solo esempio dell'interesse calopresiano per le scienze naturali. Di particolare importanza sono le quattro "lezzioni" tenute dal C. presso l'Accademia di Medinacoeli sull'Origine degli imperi, che contengono una serrata discussione dei principi politici e ideologici connessi a quel problema del governo civile dei popoli che costituisce un tema continuo e fondamentale dell'elaborazione della cultura napoletana di fine Seicento, dal D'Andrea al Valletta, al Capasso. Nelle "lezzioni" calopresiane si coglie infatti una forte direzione polemica antiaristotelica nel loro risoluto puntare, come autorità per un discorso sulla "natura dell'uomo" politico, su Pitagora, Socrate e Platone, che hanno "edificata" la "scienza del viver civile" e quindi procedere a un'articolata "confutazione" del Machiavelli.
Il C. visse la gran parte della sua vita a Scalea, in un isolamento volontario solo a tratti interrotto dalla partecipazione a iniziative culturali promosse a Napoli; anche la sua scarsa propensione a portare a termine l'edizione delle proprie opere è indicativa di questa volontà di isolamento, o almeno vale come segno d'una minima convinzione delle possibilità di reale comunicazione intellettuale della parola scritta: e la sua istituzione della "scuola" e la cura esclusiva che ad essa dedicò per tanti anni confermerebbero questa posizione che storicamente vale come segnalazione della crisi in atto nella situazione culturale napoletana di primo Settecento. Ma, nonostante l'isolamento, il C. fu ben presto riconosciuto in tutta Italia come autorevole protagonista delle vicende intellettuali, tanto che il Muratori lo indicò come "arconte" ella progettata "repubblica letteraria". Fu anche arcade col nome di Alcimedonte Cresio, dal 1691: ma nello "scisma" del 1711, ispirato dal Gravina, rimase estraneo, se non fedele alla linea crescimbeniana: ulteriore segno della sua condizione isolata.
Morì a Scalea il 2 maggio 1715.
Opere: Rime, in Raccolta di rime di poeti napoletani, Napoli 1702; per le "lezzioni" di Medinaceli, vedi il ms. della Biblioteca nazionale di Napoli, XIII B 71, ff. 148-157 (ora pubblicate in appendice all'Accademiad i Medina coeli di S. Suppa).
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