CASALI, Gregorio
Nacque negli ultimi anni del secolo XV, probabilmente nel 1496, a Bologna, da Michele e Antonia Caffarelli. Si sposò con Livia Pallavicino.
Fin dall'inizio della sua attività pubblica, lo troviamo impiegato da Enrico VIII e dal cardinal Wolsey come loro agente in Italia. La natura e l'importanza dei compiti che gli furono affidati variarono con gli anni, in rapporto anche con la crescente importanza degli affari inglesi trattati in Italia. Negli anni tra il 1519 e il 1523 lo incontriamo nell'area delle corti padane, occupato nella ricerca di falconi, cavalli e cani per le cacce di Enrico VIII. Il duca Alfonso d'Este, che lo ricevette a Ferrara nell'aprile del 1519, ne lodò le doti di cavaliere e gentiluomo e parole di lode ebbero per lui anche il cardinal Gonzaga e il marchese di Mantova, che lo incontrarono all'inizio del 1523. In ricompensa dei suoi servigi, gli venne concesso da Enrico VIII il titolo di cavaliere e una rendita vitalizia di 200 corone d'oro: la patente relativa è del 16 ag. 1519.
Le fasi più importanti dello scontro tra Francia e Impero in Italia lo ebbero come testimone, col compito di guidare la diplomazia inglese, in stretto contatto, dal 1526, col fratello Giambattista ambasciatore a Venezia. Fu soprattutto durante il pontificato di Clemente VII, quando entrò in crisi l'alleanza tra Papato e Impero, che il C. si trovò impegnato nei negozi diplomatici. Il 1° febbr. 1525 era a Trento, dove si incontrò con l'inviato inglese Richard Pace e concordò con lui la linea da seguire nelle trattative in corso con Venezia. Poi, mentre Pace tornava a Venezia, si recò nella zona delle operazioni militari ed ebbe probabilmente la possibilità di assistere alla battaglia di Pavia. Iniziarono a questo punto intense trattative per risolvere le questioni apertesi con l'imprigionamento di Francesco I e con lo schiacciante successo militare di Carlo V. Il C. ebbe degli incontri col conestabile di Borbone e col marchese di Pescara, i quali gli affidarono delle lettere che egli portò personalmente al Wolsey nell'estate del 1525. Prima di tornare in Italia, si trattenne a Lione, dove seguì la conclusione della pace separata con la Francia, ottenuta da Enrico VIII a condizioni vantaggiose. Il 7 nov. 1525 era di nuovo a Roma, accolto calorosamente da Clemente VII. Il C. fu da allora un importante punto di riferimento delle trattative che portarono alla nascita della lega di Cognac.
Il suo fitto epistolario dei mesi che precedettero e seguirono la nascita della lega permette di seguire la cronaca dei tentativi messi in atto da parte del papa, di Venezia e della Francia per mettere in piedi un'alleanza antimperiale e indebolire le posizioni di Carlo V in Italia.
Fallita la congiura del Morone, il C. si impegnò a fondo per convincere l'oscillante Clemente VII a schierarsi decisamente con la Francia. Il papa richiese a più riprese garanzie di reale assistenza finanziaria e militare non solo da parte francese, ma anche da parte di Enrico VIII. Il C., al quale era stato associato Girolamo Ghinucci vescovo di Worcester, condusse l'affare con decisione, prospettando al pontefice i rischi a cui si esponeva col rinviare la conclusione dell'accordo e garantendogli la partecipazione del re d'Inghilterra. Clemente VII si schermì più volte, insistendo nella richiesta di garanzie e giungendo fino a dichiararsi disposto a rilasciare un impegno scritto con firma autografa della propria intenzione di entrare nella lega a patto che vi entrassero Drima Francesco I e Enrico VIII. La missione dell'inviato spagnolo a Roma Ugo Moncada fu seguita con apprensione dal C., come pure la possibilità di accordo tra Francesco I e Carlo V. La prevalenza in Curia del partito antiimperiale creò condizioni favorevoli all'attività del C. fino alla conclusione della lega di Cognac e oltre. Per le sue mani passarono in questo periodo molte questioni relative a benefici ecclesiastici, usati come moneta di scambio per consolidare i vincoli politici tra Roma e l'Inghilterra. Nel maggio 1526 dovette occuparsi anche, per incarico del Wolsey, di contatti con uomini di lettere italiani disposti a trasferirsi in Inghilterra, e dell'invio di libri.
Una volta conclusa la lega, le lettere del C. trasmisero al Wolsey con sempre maggiore frequenza le lamentele del pontefice per la scarsa assistenza finanziaria e militare che gli veniva data dagli alleati. Il C. si trovò presente nel settembre 1526 all'irruzione in Roma degli uomini dei Colonna; l'impotenza e la disperazione di Clemente VII lo commossero tanto da fargli chiedere aiuti per "questo povero papa, quale in efetto - si legge in una sua lettera a Peter Vannes del 23 settembre - è tutta bontà" (Brewer, Letters, n. 2509). Profilandosi la minaccia di una avanzata dei lanzi del Frundsberg su Firenze, il C. si recò nei primi giorni di gennaio 1527 a Bologna ed ebbe un incontro col Lautrec, al quale chiese di muovere i suoi uomini per chiuderela strada ai neniici. Tornato a Roma, si adoperò per far fallire i progetti papali di tregua e di accordo con l'imperatore e per incoraggiarne le sempre più rare riprese di ottimismo e di volontà di portare avanti la guerra. Nel febbraio giunse a Roma l'inviato inglese John Russell che fu ospitato dal C. e con lui fu ricevuto da Clemente VII quale latore di aiuti in danaro. La missione di Russell proseguì con un incontro col viceré di Napoli e un viaggio a Firenze per chiedere aiuti per il papa. Il C. lo assistette in queste iniziative tenendosi in contatto col fratello Giambattista. Nel dispaccio che, insieme con il Russell, spedì al Wolsey da Civitavecchia il 2 maggio 1527, riferì che il papa si era finalmente deciso a nominare alcuni cardinali, in modo da rimpinguare le sue casse. Pochi giorni dopo, il sacco di Roma sanciva il fallimento della politica antimperiale.
Solo all'inizio di ottobre il C. poté riprendere l'iniziativa: il 10 ottobre Clemente VII gli fece avere un salvacondotto concessogli dagli Imperiali per entrare in Roma insieme con il Quiñones e con Pedro Veyre, coi quali doveva trattare le condizioni di pace. Questo era lo scopo apparente della sua missione. In realtà, avrebbe dovuto adoperarsi anche per la concessione al Wolsey del titolo di vicario generale finché il papa era prigioniero. Dovette inoltre occuparsi dell'andamento delle operazioni militari: recatosi in Lombardia, spinse il Lautrec a dirigere i suoi uomini su Roma. Da lì passò a Ferrara per trattare col duca il suo ingresso nella lega. La missione ebbe successo: il 14 nov. 1527 il C. poté firmare per il re d'Inghilterra il trattato col duca di Ferrara, Venezia e gli altri membri della lega. Maturava intanto il progetto del Wolsey di ottenere da Clemente VII carta bianca per sciogliere il matrimonio di Enrico VIII e Caterina d'Aragona. A tale progetto il C. fu chiamato a collaborare il 5 dicembre, quando il Wolsey gli indirizzò una lunga istruzione.
In essa gli venivano spiegati i termini della questione e gli si chiedeva di ottenere un incontro col papa nelle condizioni della massima segretezza. procurandosene l'opportunità senza badare a spese. Nel corso di questo abboccamento il C. avrebbe dovuto esporre al papa la difficile situazione in cui si trovava il re, prospettargli il rischio di guerre civili che l'assenza di un erede faceva gravare sul regno d'Inghilterra, documentare il carattere non legittimo del matrimonio, ricordare che l'appoggio inglese era l'unico rimasto al papa e alla S. Sede in quel gravissimo momento e infine chiedergli di firmare un breve, già predisposto, in base al quale Wolsey avrebbe potuto prendere in esame, personalmente o attraverso un giudice da lui scelto, la questione della validità del matrimonio di Enrico. Le istruzioni prevedevano anche il caso che il papa non fosse più prigioniero degli Imperiali. In questo caso, le richieste da fargli dovevano essere più caute e limitate.
Tale ipotesi, certo non gradita al Wolsey, fu proprio quella che si realizzò quando il C. seppe che il papa non era più prigioniero in Roma ma libero a Orvieto, e - per quanto in condizioni di grande miseria e abbandono - non disposto a gettarsi nelle braccia dell'alleato inglese. Si aprì così una lunga serie di trattative, durante le quali il C. dovette occuparsi anche della lega antimperiale, dai cui successi dipendeva in buona parte la soluzione del problema matrimoniale di Enrico VIII. Clemente VII era preoccupato soprattutto dagli sviluppi della situazione a Firenze: il "commodo privato" e la "exaltation de casa sua", come spiegò in seguito Gasparo Contarini al C., erano più forti di ogni altra considerazione. Nel corso di una missione a Firenze, tra il 17 e il 18 dicembre, il C. cercò di convincere i Fiorentini delle buone intenzioni del papa e propose di inviargli un ambasciatore. Si recò poi a Orvieto, dove trovò Clemente VII abbandonato da tutti coloro che erano stati, fino al rovescio finale, i suoi più fidati consiglieri. Nel corso dei colloqui il papa si mostrò fermamente intenzionato a concludere la pace con l'imperatore; le residue speranze di farlo restare nella lega erano condizionate alla ripresa dell'iniziativa militare da parte del Lautrec. Proprio per questo il C., dopo aver ottenuto segni incoraggianti della volontà di Clemente VII di accontentare il Wolsey, ripartì all'inizio di gennaio per Firenze e poi per Bologna. Da qui il 7 gennaio scrisse al Wolsey che Lautrec aveva ancora una volta rinviato la partenza delle truppe. Ritornato a Orvieto, cercò in base alle nuove istruzioni del Wolsey di ottenere l'invio di un legato in Inghilterra a cui fosseaffidato l'esame della questione matrimoniale di Enrico; solo che, mentre da parte inglese si chiedeva che il legato fosse investito dal papa di ogni autorità per emettere una sentenza, Clemente VII non voleva assumere nessuna responsabilità formale a tal riguardo.
Scrivendo da Orvieto al Wolsey il 1° marzo 1528, il C. si mostrò consapevole dello scarso successo ottenuto e timoroso di aver suscitato l'irritazione del potente cardinale, i cui appelli si facevano sempre più stringenti. Il papa continuava a temporeggiare ("cunetator maximus" lo definì il C. insieme a Foxe e Gardiner in un dispaccio del 31 marzo), premuto com'era da forze opposte, mentre l'intera questione diventava sempre più grave e complicata. Ma, a differenza degli altri inviati inglesi, il C. appare consapevole dell'impossibilità per il papa di risolvere il problema in maniera rapida e netta.
Nell'udienza del 13 aprile, trattandosi della redazione della bolla per il legato, fu lui ad accettare la proposta di Clemente VII che nel documento si concedessero poteri generici di esame della questione, senza che vi si garantisse l'assenso del papa ad un'eventuale sentenza di annullamento del matrimonio. Intanto, continuava a tenere d'occhio la situazione politico-militare. Il 23 maggio scrisse al Montmorency per sollecitare una più decisa iniziativa dell'esercito francese. Un mese dopo, avuto sentore delle trattative in corso tra Andrea Doria e gli Imperiali, si recò dal papa insieme con il segretario francese Nicolas per parlargliene; Clemente VII si limitò a lamentare la propria povertà e a chiedere aiuti francesi per poter pagare Andrea Doria ancora per un anno. Alla fine di giugno, avuta notizia dell'arrivo di Sigismondo d'Este con proposte di parte imperiale per un accordo col papa, lo fece rapire durante il viaggio e sequestrare nella rocca di Bracciano. Ammalatosi gravemente durante l'estate del 1528, trascorse parte dell'autunno in Romagna per rimettersi. Durante questo periodo, il controllo degli affari correnti e i rapporti con l'Inghilterra vennero affidati a suo fratello Giambattista. Il 21 novembre, fiúalmente, poté annunziare a Peter Vannes il prossimo rientro a Roma.
Nello Stato della Chiesa l'occupazione militare aveva portato una tale miseria che il C. chiese una scorta per non venir depredato. Una volta a Roma, inoltre, si trovò costretto a chiedere danaro dall'Inghilterra con molta maggior insistenza che per il passato, minacciando altrimenti di non poter più ospitare gli inviati speciali che il re mandava. Di danaro e di benefici ecclesiastici c'era inoltre ancor più bisogno per guadagnare a Enrico VIII l'appoggio di potenti cardinali, come il Pucci e il Salviati. Era intanto arrivato in Inghilterra il cardinal legato Campeggi, del cui comportamento però il Wolsey, scrivendo al C., si dichiarò subito deluso. Ma all'improvviso, tra la fine del 1528 e l'inizio del 1529, le cattive condizioni di salute di Clemente VII fecero balenare la possibilità di un conclave a breve scadenza, sul quale Wolsey puntò tutte le sue carte. Il cugino del C., Vincenzo, mandato in Inghilterra nel dicembre, fu rimandato a Roma in gran fretta con istruzioni per procurare l'elezione di Wolsey al papato. Ma Clemente VII si riprese e il C. tornò a cercar di influire sulle sue decisioni relativamente alla questione del matrimonio di Enrico. Si trattava di contrastare le pressioni esercitate da Carlo V e, per suo tramite, da Caterina d'Aragona. A questo scopo il C. seguì, da un lato, la questione giuridica, cercando per esempio di entrare in possesso del breve originale di dispensa di Giulio II, dall'altro tentò di modificare i rapporti di forza nella zona italiana puntando sull'esercito francese. All'inizio del mese di giugno, mentre si annunciava prossimo l'arrivo dell'imperatore in Italia, il C., temendo che il papa avocasse a Roma la causa matrimoniale, come gli veniva richiesto dal partito imperiale, e si preparasse quindi a pronunziare una sentenza contraria ai desideri di Enrico VIII, si dichiarò pronto a interporre appello contro Clemente VII al "vero vicario di Cristo". Ma intanto le prospettive politiche non gli apparivano incoraggianti. Il 13 giugno scrisse al Wolsey che in caso di guerra l'imperatore sarebbe riuscito vittorioso in Italia e, in caso di pace, sarebbe rimasto l'unico arbitro della situazione. Alla fine del mese consigliò al Montmorency di inviare nuove forze in Italia per ritardare la venuta di Carlo V e di servirsi di capitani italiani, più adatti dei nobili cavalieri francesi a misurarsi in "astutia et fraude" con quelli spagnoli. Il 9 luglio ebbe un incontro col papa, che gli espose le lamentele e le insistenze del partito imperiale in merito alla ávocazione a Roma del processo. Anche in quella occasione si credette di avere trovato una soluzione in una manovra dilatoria, consistente nel mandare un corriere in Inghilterra e nel rinviare al suo ritorno la risposta agli uomini di Carlo V. Ma l'avocazione non poté essere rinviata di molto. Essa segnò la disgrazia del Wolsey e l'apertura di una nuova fase nell'attività del Casali. Recatosi a Bologna per assistere all'incontro tra Carlo V e Clemente VII, ne approfittò per cercare nuovi appoggi alla causa di Enrico VIII. Questa volta si trattava di ottenere da teologi e giuristi pareri tali da incoraggiare il papa ad annullare il matrimonio. In conformità con quanto gli chiedeva l'inviato inglese Richard Croke, venuto in Italia sotto falso nome per dirigere l'intera operazione, il C. raccolse diversi pareri favorevoli in breve tempo.
Il 29 maggio 1530 lacopo Salviati gli fece giungere a Bologna un ordine tassativo di sospendere l'operazione, ma questa continuò ugualmente, con discreto successo in ambiente universitario.
Sembra che il C. non badasse a spese per ottenere buoni risultati per questa via, anche se in realtà manifestò maggiore fiducia in un'opera di corruzione diretta verso grossi personaggi della Curia. Tra questi, dedicò particolare attenzione a Pietro e Benedetto Accolti, per i quali ottenne la concessione di ricchi benefici, sostenendo che solo così si poteva sperare nell'accoglimento delle richieste del re; altrimenti, attraverso i giuristi non si sarebbe ottenuto niente, neanche - come scrisse a Enrico VIII nel luglio 1532 - se lo stesso Bartolo fosse risorto per difenderle. La tattica del C. consisteva ormai nel cercare di rinviare ogni decisione, perché vedeva chiaramente che Clemente VII avrebbe potuto risolvere la causa solo a favore del partito imperiale mentre, d'altra parte, se Enrico VIII fosse riuscito a far pronunziare la sentenza in Inghilterra, il papa sarebbe stato costretto a negarne la validità e a procedere contro il re. Ma una tattica del ge: nere, che richiedeva una capacità di mediazione sconfinante nel doppio gioco, non poteva che scontentare Enrico VIII e i suoi uomini di fiducia. Nelle istruzioni del 7 ott. 1530 questo scontento si avverte nettamente: il re si appella in esse al privilegio inglese per cui nessuno può essere giudicato fuori del regno e in nome di esso rifiuta di sottostare a una eventuale sentenza papale, minacciando anzi di mettere in discussione il primato papale. Intanto, il C. badava a smorzare i toni della discussione, mostrando, ad esempio, che non era possibile interporre appello al futuro concilio.
Nel settembre 1532 toccò a lui partire per l'Inghilterra, latore di un monitorio papale in cui si ordinava al re di lasciare Anna e di riprendere con sé Caterina. In realtà, c'era anche il problema, per la diplomazia inglese in Italia, di riprendere i contatti con Enrico VIII, che da tempo manteneva un irritato silenzio. Il C. fu presente anche all'incontro tra Enrico VIII e Francesco I, e in quell'occasione si diffuse la voce che i due re lo avessero incaricato di ottenere una sentenza papale di annullamento del matrimonio, minacciando altrimenti di abrogare l'autorità papale nei loro domini. Alla fine di dicembre era di nuovo a Bologna, con l'istruzione di rinnovare la richiesta che la causa venisse trattata in Inghilterra. Ma sulla sua attività diplomatica prevalsero a questo punto i fatti compiuti. Il 25 genn. 1533 si ebbe il matrimonio segreto tra Enrico VIII e Anna. Il giorno dopo, in una istruzione ai suoi ambasciatori a Roma, il re si richiamava ancora a quanto gli aveva scritto il C. sulle buone disposizioni del papa nei suoi confronti e sulla possibilità che la sua causa venisse trattata da un concilio. Ormai però Enrico VIII rivelava apertamente la sua scontentezza nei confronti del C., come fece il 2 febbraio in un colloquio con l'inviato francese Montpesat. Il C. cercò inutilmente di riguadagnare il favore perduto, ricorrendo anche agli attestati degli altri inviati inglesi in Italia. Nel mese di giugno del 1533 inviò una supplica ad Anna Bolena nella quale le ricordava l'attività svolta per lei in tanti anni e addebitava gli insuccessi al fatto che il sovrano non aveva seguito i suoi consigli. Intanto continuava a trattare stancamente col papa e a raccogliere pareri di giuristi e teologi, attestanti la validità del secondo matrimonio di Enrico e (dopo il concistoro dell'11 luglio 1533) la non validità della scomunica comminatagli. All'inizio del 1534 il C., irritato per le accuse che gli venivano mosse dagli altri inviati inglesi e in particolare dal Croke, inviò una serie di appelli a Cromwell, a Norfolk e al Consiglio reale, chiedendo che si facesse luce su quelle accuse ed elencando le prove della sua fedeltà; tra queste mise in particolare risalto la povertà in cui era caduto per le spese sostenute al servizio di Enrico VIII. Per difendersi meglio, si recò a corte.
Nuove prospettive sembrarono aprirsi con la morte di Clemente VII. Nel darne in Inghilterra la notizia, che fu graditissima per il re, il C. fece presente che nel futuro conclave si sarebbero potuti ottenere buoni risultati con l'aiuto dei cardinali francesi. A tal fine, scrisse subito a Jean du Bellay, proponendogli di sostenere la candidatura di Alessandro Farnese. Dopo l'elezione di Paolo III, cominciaronole trattative per dare una soluzione ai molti problemi accumulatisi nei rapporti tra Roma e l'Inghilterra. Una istruzione di Crornwell al C. del 10 apr. 1535 poneva però come pregiudiziale l'annullamento del matrimonio con Caterina e il riconoscimento della validità di quello con Anna. Ma la nomina cardinalizia di John Fisher, in carcere sotto l'accusa di tradimento, e la successiva esecuzione capitale dello stesso Fisher e di Tommaso Moro resero più insanabile la frattura. Alle notizie date dal C. sulla indignazione provocata a Roma dalle due condanne a morte, Cromweli rispose incaricandolo di riferire che il re non era tenuto a giustificarsi davanti a nessuno in terra e che il reato di tradimento per il quale erano state formulate le condanne era stato debitamente dimostrato. Si trattava ora di evitare misure ostili da parte del papa. Nel dicembre il C. fece scrivere dal fratello Francesco al Gardiner che Paolo III stava per far pubblicare un monitorio contro Enrico VIII; il 27 dicembre ne informò anche il Cromwell. In attesa del ritorno di un suo uomo di fiducia, inviato in Inghilterra per avere istruzioni, si adoperò per evitare o rinviare la pubblicazione del documento. La diplomazia imperiale intanto raccoglieva voci che lo accusavano di avere inviato in Inghilterra il veleno per far morire Caterina d'Aragona. La morte di Caterina e la disgrazia in cui cadde Anna Bolena aprirono improvvisamente la prospettiva della riconciliazione. Il C., insieme con l'inviato di Enrico VIII Richard Pace, ebbe nell'aprile 1536 un incontro col Granvelle a Roma in vista di un accordo con Carlo V e subito dopo si informò dal Cromwell se sarebbe stata gradita al re la prospettiva di un matrimonio con la figlia del re d'Ungheria. Anche col papa ci furono contatti incoraggianti. Il 17 maggio 1536 Paolo III fece chiamare il C. e gli chiese di scrivere a Enrico VIII informandolo delle sue buone disposizioni, ora che Anna era stata imprigionata. Nel corso di una lunga conversazione il papa riesaminò le cause di maggior attrito che si erano avute nel passato, spiegando i motivi per cui aveva nominato cardinale Fisher e dichiarando di essere stato sempre buon servitore del re. Il C. si adoperò per questo riavvicinamento, che riteneva possibile, chiedendo anche l'appoggio della diplomazia imperiale per convincere Paolo III a compiere il primo passo con l'invio di un nunzio in Inghilterra.
Gli ultimi dispacci spediti dal C. registrano l'incupirsi della situazione politica e le nuove minacce di guerra franco-imperiale. Ma improvvisamente, nel novembre 1536, il C. cadde gravemente ammalato. La sua morte tenne dietro di poco a quella del fratello Giambattista. Il nipote gli dedicò una lapide nella cappella di famiglia in S. Domenico a Bologna, dove ne lamentò la fine immatura, all'età di quaranta anni non ancora compiuti.
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