GREGORIO da Rimini
Le informazioni relative alla provenienza familiare di G., nato probabilmente a Rimini agli inizi del Trecento, sono pressoché inesistenti: i tentativi di attribuirgli un cognome sono riconducibili a tardi tentativi eruditi, oggetto di fondato scetticismo già nel Settecento.
Una testimonianza postuma, ma risalente ancora alla fine del Trecento, gli attribuisce, nel contesto di una narrazione edificante, una sorella, di cui non è noto il nome. G. deve essere distinto dall'omonimo nipote, anch'egli agostiniano e maestro di teologia, attestato fino ai primi anni Novanta del Trecento.
Una volta messe da parte le tradizionali, ma erronee identificazioni con un magister Gregorio, anch'egli agostiniano, il quale compare nei registri papali dal 1321, da ritenersi senz'altro Gregorio da Lucca (Delucca), le informazioni a nostra disposizione a proposito della biografia intellettuale di G. dipendono in gran parte da una lettera papale del 12 genn. 1345. Con questo documento Clemente VI, in seguito a una supplica del cardinale Gozio da Rimini, ingiungeva al cancelliere dell'Università di Parigi di conferire a G. la cattedra magistrale e la licentia docendi entro un mese, nonostante la normativa universitaria vigente. Poiché lo scritto papale afferma che G. era impegnato nello studio già da 22 anni, e aveva trascorso - a quanto se ne desume - un primo soggiorno di sei anni a Parigi prima di rientrare in Italia, si è potuto calcolare che G. abbia compiuto un primo periodo di studio nello Studium parigino dell'Ordine all'incirca tra il 1323 e il 1329. Dal momento che la normativa interna all'Ordine prevedeva che il soggiorno presso lo Studium agostiniano parigino non potesse prolungarsi per più di tre anni, e richiedeva che per una permanenza più prolungata fosse lo studente stesso a far fronte ai costi derivanti all'Ordine, è lecito ipotizzare che, nel caso in cui questa norma sia stata applicata, G. potesse contare su di un valido sostegno in grado di mettergli a disposizione i fondi necessari. Non risulta tuttavia agevole spingersi al di là di questa considerazione, perché l'appoggio necessario poteva giungere da più fonti, per quanto fosse verosimilmente insostituibile il consenso del priore generale dell'Ordine. Resta quindi in buona sostanza non risolvibile la questione se G. sia stato a Parigi in qualità di studente de provincia (appartenente quindi al contingente disponibile per ogni provincia), oppure de gratia, per quanto V. Marcolino propenda per la prima possibilità.
La lettera di Clemente VI riporta che G., in seguito, avrebbe tenuto la cattedra principale, e quindi sarebbe stato attivo come lettore, negli Studia di Bologna, Padova e Perugia. È verosimile, per quanto non certo al di sopra di ogni ragionevole dubbio, che lo scritto papale elenchi gli Studia in ordine cronologico. Usualmente si pone il periodo di presenza a Bologna tra il 1329 e il 1338, poiché nel capitolo generale tenuto in quest'ultimo anno a Siena G. compare quale delegato della provincia di Romagna. Marcolino ipotizza che in questa occasione G. sia stato trasferito a Padova, e in seguito a Perugia.
La sua presenza a Bologna come lettore negli anni Trenta è comunque attestata in modo indipendente da alcuni documenti notarili che lo definiscono lector: il primo, del 28 sett. 1332, lo vede impegnato, a Bologna, nell'acquisto di una Summa confessorum da uno studente in diritto civile; il secondo, datato 25 febbr. 1333, lo annovera tra i frati del convento agostiniano bolognese; il terzo, del 13 genn. 1337, attesta una dichiarazione del "dominus frater Gregorius de Arimino lector conventus bononiensis ordinis fratrum Heremitarum S. Augustini", resa nel palazzo vescovile di Faenza, di fronte a Bertrando di Deux, legato papale in Italia, e del vescovo Giovanni di Faenza, relativa alla custodia, da parte dello stesso G., di una ingente somma di denaro, consegnatagli da un confratello agostiniano, già cappellano del precedente titolare della cattedra episcopale faentina, e di pertinenza dell'episcopio di Faenza (Delucca). È probabile che già negli anni bolognesi G. sia entrato a contatto con dottrine provenienti da ambienti inglesi, che proprio in quel periodo si stavano diffondendo tra i dotti della città felsinea; questa familiarità con i dibattiti d'Oltremanica ne avrebbe poi fatto uno dei protagonisti dell'incontro tra la tradizione teologica parigina e quella oxoniense nella Parigi degli anni '40 del Trecento. Una testimonianza dei suoi rapporti con l'ambiente dell'Università bolognese di arti e medicina si desume da un'indicazione marginale del ms. conservato nella Biblioteca apostolica Vaticana, (Ottob. lat., 318, c. 111r), secondo la quale il maestro bolognese Anselmo da Como avrebbe partecipato come respondens a una disputa presieduta da Gregorio da Rimini.
Negli anni seguenti dovette essere presa la decisione di inviare di nuovo G. a Parigi perché vi leggesse le Sentenze di Pietro Lombardo. Quanto alla data in cui si sarebbe tenuto il corso, gli studiosi convergono ormai sul 1343-44, a partire dall'accertamento del periodo in cui altri confratelli, tra i quali Giovanni da Piacenza e Alfonso Varga di Toledo, in un periodo rispettivamente antecedente e susseguente G., tennero la lectura. Con questa ipotesi concordano le normative interne all'Ordine agostiniano, che prevedevano un'alternanza tra baccellieri di diversa provenienza, e le informazioni relative a un baccelliere domenicano, Francesco di Treviso, che G. stesso indica come suo socius, ossia come baccelliere che ha letto le Sentenze contemporaneamente a lui.
Partendo da questa datazione è stato possibile ipotizzare che G. sia stato scelto per il baccellierato al capitolo generale di Montpellier nel 1341 e si sia recato a Parigi nel 1342, per l'anno di preparazione previsto dalla normativa agostiniana e, usufruendo del privilegio concesso ai baccellieri degli Ordini mendicanti di non dovere trascorrere un periodo preliminare come baccellieri biblici, avrebbe iniziato nell'ottobre 1343 a tenere il suo corso sulle Sentenze, concludendolo nel giugno 1344. Questa ricostruzione degli eventi concorda in modo sufficientemente preciso con le indicazioni contenute nella lettera papale, sempre che si interpretino in senso non rigido i quattro anni del secondo soggiorno parigino di G. lì ricordati. Nell'edizione veneziana del 1522 pubblicata da Lucantonio Giunta si legge in verità che il commento al secondo libro delle Sentenze sarebbe stato iniziato il 17 maggio 1342: questa data, difficilmente compatibile con gli altri elementi a nostra disposizione, se non semplicemente risalente a un errore di trasmissione, potrebbe riferirsi a un corso tenuto da G. in uno degli Studia dell'Ordine, o al testo del corso, preparato in anticipo. I manoscritti e l'edizione a stampa attestano in ogni caso l'esistenza di più fasi redazionali della Lectura di G. sulle Sentenze, tramandataci solo per i primi due libri.
G. stesso ci testimonia di dibattiti sostenuti con i suoi socii, col già nominato domenicano Francesco di Treviso e con il chierico secolare Giovanni Rathe Scotus, e con altri magistri, il poco noto francescano Guillelmus de Bellomonte e altri, i cui nomi non ci sono pervenuti. Spunti derivanti dalle discussioni con questi colleghi sono stati infatti poi incorporati nel testo - rivisto - del suo commento, il quale, secondo Marcolino, sarebbe stato pubblicato per il primo libro nel 1344, mentre la definitiva redazione del secondo non sarebbe possibile prima del 1346. Dalla Lectura si evince anche che G. ha sostenuto, in qualità di maestro, una disputa quodlibetale.
Se nel suo caso è stata applicata la normativa interna - che esigeva dal maestro in teologia appena nominato che svolgesse il compito di magister studentium presso il convento parigino fino alla disponibilità di un successore - G. si sarà trattenuto a Parigi fino alla metà del 1346.
Un documento notarile attesta comunque la presenza di G., ormai definito "sacre theologie magister", a Rimini il 24 ott. 1346, quando riceveva una ingente donazione da parte del Comune a favore del convento agostiniano; la circostanza che questa donazione sia compiuta a favore di G., che non risulta priore del convento di Rimini, suggerisce che questi fosse una figura rilevante anche nel contesto politico della città romagnola. Un documento papale (7 ott. 1347) ci informa della sua presenza a Padova per l'anno seguente, dove è incaricato di conferire il magistero al confratello Gerardo Scolari da Padova. L'attestazione della presenza di G. in Italia già a queste date rende ancora meno verosimile l'identificazione - molto discussa - di G. con uno dei maestri accusati da Pietro di Ceffons nel 1348 di avere voluto la condanna di Giovanni di Mirecourt, per i quali lo stesso Pietro auspicava l'espulsione dal Regno di Francia.
Al capitolo generale di Basilea, celebrato il 10 giugno 1351, il priore generale, Tommaso di Strasburgo, nominò G. lector principalis dello Studio agostiniano di Rimini e lo incaricò, a ulteriore prova della sua autorevolezza, di procedere alla nomina del nuovo priore del convento. A Rimini pare sia rimasto fino alla sua elezione al generalato. Documenti riminesi del 4 e del 17 febbr. 1356 menzionano G. come commissario del cardinale Egidio Albornoz, incaricato di assolvere alcuni sostenitori dei Malatesta.
La presenza di G. a Rimini in questi anni è attestata da ulteriori documenti: il 13 giugno 1356 è presente al capitolo, il 13 settembre è testimone a un atto relativo a un legato testamentario, vicenda che lo vede di nuovo coinvolto, sempre a Rimini, il 10 ottobre del medesimo anno. La rilevanza anche politica assunta dalla sua figura è confermata dalla sua presenza, ad Ancona, nel mese di gennaio del 1357, all'assoluzione di Giovanni e Guglielmo Manfredi da Faenza (Delucca).
La notizia secondo la quale nel 1356 Tommaso di Strasburgo lo avrebbe nominato vicario generale dell'Ordine, per quanto accolta nel passato da alcuni eruditi dell'Ordine, è stata seriamente messa in discussione già da molti anni (Esteban, 1911-12).
Intorno al 20 maggio 1357 il capitolo generale, riunito a Montpellier, elesse G. priore generale dell'Ordine.
Il Registrum del suo generalato, conservatoci anche se in modo non completo, consente di seguire le tappe principali dei suoi spostamenti, che ce lo mostrano profondamente impegnato a visitare molte province, deciso a ristabilire l'osservanza delle costituzioni, a rimuovere i contenziosi, a reprimere i ribelli, a regolamentare gli aspetti economici della vita dei singoli frati e dei conventi, ad assicurare le condizioni per la formazione culturale dei confratelli. Il registro è stato edito in: Gregorius de Arimino O.S.A., Registrum generalatus, 1357-58, a cura di A. De Meijer, Romae 1976. La storiografia gli ha riconosciuto una particolare attenzione per il rispetto dell'osservanza della regola e delle costituzioni, sia per quanto riguarda l'adempimento dei doveri liturgici, sia, in particolare, a proposito della povertà; infatti, G. non solo cercò di imporre uno stile di vita più austero, ma era particolarmente impegnato a evitare che i frati si sottraessero al dovere della comunità dei beni.
Nella piena e tarda estate del 1357 la presenza di G. è attestata ad Avignone; nel settembre del medesimo anno si trovava però già a Firenze, per poi portarsi a Siena in ottobre; tra ottobre e novembre era a Perugia, città dalla quale si spostò prima a Foligno, poi a Norcia, da dove l'8 nov. 1357 scrisse a Bernabò Visconti, in relazione a un frate accusato di gravi colpe che il Visconti stesso aveva consegnato all'Ordine: a questo proposito G. assicurava il Visconti che avrebbe provveduto all'incarcerazione perpetua del reo. L'11 novembre era a L'Aquila, per raggiungere poi Napoli agli inizi di dicembre. A Napoli, centro assai importante per l'Ordine agostiniano, trascorse i mesi invernali.
Agli inizi del periodo napoletano (8 dicembre) comunicò la sua decisione di distaccare la Boemia dalla provincia di Baviera, facendone una provincia autonoma, che comunque comprendesse anche la Moravia e parte della Polonia. All'origine di questa decisione stanno il mandato - affidatogli dal capitolo a Montpellier - di procedere alle divisioni che avesse ritenuto opportune, ma anche l'espresso desiderio dell'imperatore Carlo IV.
Alla fine del febbraio 1358 G. era a Roma, da dove il 18 marzo scriveva al marchese del Monferrato concedendo particolari licenze a un frate che doveva curarne i secreta, ma anche a proposito della costruzione del convento di Pavia, nei confronti del quale il marchese si era reso benemerito. Da Roma G. ripartì per un viaggio verso nord verso la fine di marzo, sostando a Viterbo, dove la sua presenza era attestata il 30 del mese, per poi portarsi a Perugia. Tra aprile e maggio si trattenne a Perugia, ma il 15 maggio era già a Sant'Elpidio, dopo essere transitato, con tutta verosimiglianza, per Tolentino. Da Sant'Elpidio si rivolse, il 27 maggio, al vescovo Isacco di Ascoli in relazione a contenziosi patrimoniali che opponevano il presule agli agostiniani. A Sant'Elpidio si trattenne probabilmente per un paio di settimane, dal momento che verso la fine del mese sostò a Recanati e poi a Pesaro, per raggiungere infine Rimini agli inizi di giugno.
Nella sua città d'origine si trattenne per i mesi estivi. In una lettera datata Rimini, 3 giugno, G. fa riferimento a una commissio affidatagli dal cardinale Egidio Albornoz; sempre da Rimini, il 18 giugno, G. ingiungeva al priore provinciale de Anglia di non frapporre ostacoli al fatto che Andrea de Mediolano (con tutta verosimiglianza Andrea Serazoni, futuro vescovo di Piacenza e poi di Brescia) potesse leggere le Sentenze a Oxford. Sempre da Rimini, il 14 agosto, scrivendo al neoeletto priore provinciale della provincia di Yspania, prometteva di fare tutto il possibile per inviare valenti lettori italiani in quelle zone, pur ammettendo di mancare di personale qualificato, anche per andare incontro al desiderio espresso dal confratello Alfonso Varga di Toledo, ormai vescovo di Osma. La promessa venne mantenuta il mese dopo, con l'invio del lettore Francesco da Amelia a Toledo. A questo soggiorno riminese si riferisce anche un documento notarile datato luglio 1358, che lo vede presente a un atto di rinnovo enfiteutico.
A Rimini rimase per lo meno fino al 31 agosto, ma già il 6 settembre era a Firenze e, di lì a poco, a Bologna. Il 1° ottobre, da Bologna, disponeva lo sdoppiamento della Provincia Vallis Spoleti in Provincia Perusina e Provincia Spoletana. Dalla città felsinea partì il 6 ottobre, per raggiungere Ferrara il 7, nel contesto di un viaggio, già programmato, che lo avrebbe portato prima a Venezia, poi nelle province d'Oltralpe. Da Venezia scriveva al provinciale di Lombardia della sua intenzione di partire, già prima del 1° novembre, alla volta dell'"Alamannia", attraversando il Friuli e la Carinzia, per giungere a Vienna, dove contava di trattenersi qualche mese. In effetti, il 21 e 22 ottobre è attestato a Treviso, il 4 novembre a Völkermarkt, il 14 a Baden, il 16 a Vienna. In questa data manifestò la sua intenzione di muoversi, attorno a Pasqua, verso la provincia Reni, per poi proseguire di lì o verso Colonia, o verso la Francia settentrionale. Nello stesso giorno inviò ai priori provinciali dell'Ordine la disposizione di raccogliere fondi per sostenere le spese che dovevano essere affrontate ad Avignone nel contesto del contrasto che opponeva gli agostiniani - insieme con gli altri Ordini mendicanti - all'arcivescovo di Armagh, Riccardo Fitzralph. Nello stesso giorno autorizzava il procuratore dell'Ordine presso la Curia a utilizzare a questo scopo i fondi disponibili in quello che egli chiamava depositum di s. Nicola, che vennero poi reintegrati con l'apporto della raccolta fatta nelle province. L'ultima lettera è datata 20 nov. 1358, ed è indirizzata ad Hagenau, al priore provinciale della provincia Reni. Vi si trattava la delicata questione di chi avrebbe dovuto assumersi le spese sostenute dal convento di Vienna per l'erezione della tomba del predecessore di G., Tommaso di Strasburgo, morto in quella città nel 1357. G. morì a Vienna verosimilmente pochi giorni dopo il 20 nov. 1358, e fu sepolto in quel medesimo sarcofago.
Celebrato nelle aggiunte al Liber vitasfratrum di Giordano di Sassonia come uomo di grande sapienza e di santità di vita, G. ha esercitato un durevole influsso nella storia del pensiero teologico ben al di là del suo Ordine e dei limiti cronologici del Medioevo, godendo di una ricezione positiva anche tra i protagonisti della Riforma. La tradizione gli ha attribuito gli appellativi di "doctor acutus" e "doctor authenticus".
Tra le opere autentiche di G. va annoverata la Quaestio imprestitorum Communis Veneciarum, stampata due volte in età moderna (con il titolo Tractatus de imprestanciis Venetorum, editio princeps: Reggio Emilia, Ludovicus de Mazalis, 1508) e tramandata da un unico manoscritto scoperto da Carlo Dolcini. Si tratta della rielaborazione scritta della determinatio di una disputa in cui G., facendo particolare riferimento alla situazione di Venezia, affronta lo spinoso problema della liceità non solo dell'interesse concesso sui titoli di credito emessi dai governi cittadini che consolidavano il debito pubblico, ma anche della compravendita di tali titoli. La presa di posizione di G. si inserisce in un vasto dibattito che coinvolse tra l'altro numerosi teologi appartenenti agli Ordini mendicanti e si segnala in quanto differisce dalle tesi, a loro volta assai divergenti, sostenute negli anni Cinquanta a Firenze dal minorita Francesco da Empoli e dai frati predicatori Pietro Strozzi e Domenico Pantaleoni. La posizione di G. assume un carattere originale in quanto egli non nega che, in via di principio, le operazioni economiche in questione possano essere lecite, qualora l'intenzione sia retta ed escluda il fine del lucro, ma mette in dubbio che la prassi adottata a Venezia consenta di pensare a una rettitudine di coscienza da parte dei contraenti (Lambertini). Poiché sia l'intitolazione sia il colophon dell'unica copia manoscritta conosciuta (Firenze, Biblioteca nazionale, Conv. soppr., J.X.51, cc. 201r-212r) concordano nel definirlo maestro, il termine post quem può essere fissato al 1345. Soltanto l'intitolazione, non il colophon, della Quaestio prestitorum designa G. come "prior generalis ordinis heremitarum sancti Augustini"; pur non potendosi escludere a priori la possibilità che questa espressione si riferisca genericamente all'ufficio più onorevole di cui poté fregiarsi l'autore, e non specificamente alla carica che esercitava al momento in cui ha sostenuto la disputatio, si può ritenere assai verosimile l'opinione di F. Cheneval, il quale su questa base propone una datazione ben più precisa, tra maggio 1357 e novembre 1358.
Da diversi punti di vista si è potuto sostenere che la figura di G. segna un momento decisivo nello sviluppo della riflessione teologica del XIV secolo. Secondo alcuni studiosi egli può addirittura essere considerato come l'ultimo grande teologo scolastico del Medioevo. Dal punto di vista dell'orientamento complessivo, il suo insegnamento parigino, insieme con quello oxoniense di Tommaso Bradwardine, marca una svolta in senso decisamente antipelagiano nella dottrina scolastica della grazia, che costituirà un antecedente importante per i dibattiti teologici dell'età moderna. Per quel che riguarda poi il suo metodo di lavoro, o se si vuole il suo stile di pensiero, sono state spesso sottolineate le sue doti di sistematicità, di precisione e di chiarezza, la sua attenzione quasi filologica ai testi degli autori analizzati, in particolare di Agostino, e soprattutto la sua conoscenza delle più recenti dottrine e degli strumenti analitici dei teologi inglesi della generazione precedente. In effetti, secondo Courtenay, con G. la teologia oxoniense di Adamo Wodeham, di Riccardo Fitzralph, di Roberto Holcot fa il suo ingresso ufficiale a Parigi, ove costituirà per diversi anni un modello influente. Anche all'interno dell'Ordine agostiniano l'insegnamento di G. innesca un rinnovamento importante rispetto alla precedente tradizione imperniata sulle dottrine di Egidio Romano. La sua influenza è stata piuttosto rilevante sia su autori agostiniani successivi (come Ugolino da Orvieto, Pietro di Ceffons, Giovanni Hiltalingen di Basilea), sia su teologi secolari come Marsilio di Inghen e Gabriel Biel. Gli studi più recenti su G. hanno condotto a una migliore definizione delle etichette di "nominalismo" e di "agostinismo" tradizionalmente usate per caratterizzare la sua teologia. Se infatti è certamente sbagliato considerare G. come un rappresentante di scuola del nominalismo trecentesco (che peraltro non ebbe affatto quelle caratteristiche di omogeneità dottrinale e di coesione istituzionale che definiscono una scuola teologica), dall'altro si può rinvenire in lui quella generale tendenza a concepire in termini diretti il rapporto tra l'uomo e Dio, specialmente sul piano gnoseologico e soteriologico, che lo accomuna ad autori come Guglielmo di Ockham o Pietro d'Ailly. Per quanto concerne l'agostinismo, invece, esso si giustifica innanzitutto per il richiamo continuo e preciso all'autorità del vescovo di Ippona, con l'intento programmatico di riportarlo al centro del dibattito teologico dell'epoca, e inoltre, dal punto di vista dottrinale, per l'insistenza sul tema della grazia.
La sua opera principale, la Lectura sul I e II libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, si apre, conformemente con la tradizione scolastica di questo genere letterario, con la definizione dello statuto scientifico della teologia. Ricorrendo alla sua teoria del complexe significabile come significatum totale delle proposizioni, G. stabilisce che l'oggetto adeguato della teologia sono i significabilia delle conclusioni teologiche e che pertanto il discorso teologico si compone di proposizioni che discendono da principî autonomi, cioè non derivati da altre scienze, e creduti solo in base all'autorità della Rivelazione. Da questi principî la teologia, che ha come scopo eminentemente pratico quello di sostenere la fede e condurre il cristiano all'amore di Dio, può derivare con metodo scientifico, cioè logico-deduttivo, tutte le sue conclusioni, esplicitamente contenute nella Scrittura o derivabili da essa. Non per questo tuttavia G. considera la teologia in senso stretto una scienza: lo impedisce secondo lui proprio il carattere non autoevidente dei suoi principî, che non possono nemmeno essere derivati da un'altra scienza, eventualmente di ordine superiore secondo lo schema tomista, cui la teologia sarebbe quindi subalterna.
G. accorda un ruolo primario, o meglio assoluto, alla grazia divina nel determinare il destino di salvezza dell'uomo, reagendo in questo alle tendenze semipelagiane che si erano fatte strada negli ambienti teologici francesi e inglesi nel ventennio precedente. La tradizionale dottrina della predestinazione prevedeva che le azioni degli uomini possono essere causa della loro dannazione, mentre solo il volere divino può essere causa della salvezza. Nella seconda decade del secolo XIV, a Parigi, Pietro d'Auriole aveva proposto un'alternativa a questa concezione con la sua dottrina dell'obex gratiae: la presenza o l'assenza nell'uomo, in seguito alla sua condotta morale, di un ostacolo (obex) alla grazia è ciò che decide della salvezza o della dannazione, quindi l'uomo può essere causa positiva riguardo alla dannazione, ma soltanto causa negativa riguardo alla salvezza. In seguito Guglielmo di Ockham, Gualtiero Chatton, Geraldo di Odone e Tommaso di Strasburgo accentuarono via via il ruolo dell'agire umano come causa anche della salvezza. La reazione di G. si sostanzia anzitutto attraverso continui richiami ad Agostino, e su ampie citazioni dalle sue opere egli basa la sua critica radicale di ogni possibile contributo da parte dell'uomo al proprio destino di salvezza o di dannazione eterna: Dio, nell'assoluta libertà del suo volere, ha già predestinato ab aeterno sia i giusti sia i dannati, e nessun mortale può sapere quale sia il destino individuale di ciascuno. La radicalità della sua posizione gli permette di perseguire al massimo l'obiettivo della coerenza dottrinale, al prezzo tuttavia di una certa rigidità che gli ha guadagnato, da parte degli avversari, l'appellativo di tortor infantium, per aver insegnato che i bambini morti prima del battesimo sono dannati.
Strettamente connessa al tema della predestinazione e della grazia divina appare la riflessione di G. sulla prescienza di Dio e sul problema che essa pone circa la salvaguardia della contingenza, specie per quanto riguarda le conseguenze dell'azione dell'uomo. In particolare, dal punto di vista filosofico, porre che Dio conosce da sempre, in anticipo, la verità di tutte le proposizioni vere solleva il problema del determinismo, giacché rende inevitabile la conclusione che, per qualunque coppia di proposizioni contraddittorie, anche quelle contingenti, la distribuzione dei valori di verità sia già determinata in anticipo, cioè prima che si verifichi la situazione che rende vera l'una e falsa l'altra. Per evitare questa conseguenza Pietro d'Auriole aveva sostenuto che le proposizioni contingenti future, ante factum, non erano né vere né false, ma semplicemente neutrali. Questa sospensione del principio di bivalenza si rendeva inevitabile per chi, come l'Auriole, identificava l'immutabilità del valore di verità di una proposizione con la necessità di ciò che essa significa. Se infatti, ragionava Auriole, una proposizione contingente futura è vera ora, vuol dire che non potrà mai essere falsa e quindi significa ciò che significa in modo necessario. La critica di G. a questa posizione muove proprio da questo punto. Per lui, come in effetti già prima di lui avevano sostenuto Duns Scoto, Guglielmo di Ockham e altri teologi medievali, tutto ciò che è stato creato da Dio è radicalmente contingente a motivo dell'assoluto libertà dell'azione divina: Dio ha creato il mondo secondo un certo ordine, ma avrebbe potuto crearlo in modo diverso, quindi la libertà del creatore implica la contingenza del creato. Di conseguenza, anche se una proposizione contingente futura vera non potrà mai essere falsa, ed è quindi immutabilmente vera e la sua verità è determinata ante factum, da ciò non segue che essa sia necessariamente vera: la sua non è una necessità assoluta, ma soltanto ex suppositione, in base cioè alla libera determinazione esercitata da Dio con la creazione. L'interesse e il merito della posizione di G., in questo ambito, non sta tanto nella sua originalità, quanto nella sistematicità e nella coerenza della sua trattazione che ne fecero anche in seguito un modello di riferimento nelle dispute contro i negatori del principio di bivalenza. È opportuno infine sottolineare che, in connessione con la sua posizione circa la necessità soltanto condizionata delle proposizioni future vere, G. sembra propendere, anche se non lo dichiara mai in modo esplicito, per l'idea che anche le proposizioni passate vere sono necessarie soltanto in maniera condizionata e sembra quindi lasciare aperta la possibilità che un intervento divino modifichi il passato.
Esplorando, come erano soliti fare i teologi della sua epoca, i limiti dell'onnipotenza divina, G. si occupa anche della tesi sostenuta da alcuni suoi contemporanei come Roberto Holcot, Riccardo Fitzralph e Adamo Wodeham, che Dio possa mentire. Tale problema è strettamente legato a quello precedente della prescienza e dei futuri contingenti. Si ponga infatti il caso di una proposizione futura contingente rivelata da Dio: o essa è necessariamente vera, e allora la libertà divina incontra un limite, oppure essa può essere falsa, e allora Dio può dire consapevolmente il falso, cioè mentire. Di fronte a questo dilemma l'opzione di G. è decisamente contraria all'ammissione della menzogna divina: tutto l'edificio della fede nell'autorità della Scrittura ne vacillerebbe. Nello stesso tempo egli non si risolve neppure ad ammettere un limite all'assoluta potenza di Dio, tanto gli preme di preservare questa caratteristica divina. Da qui deriva anche, in radice, il suo infinitismo, cioè la sua presa di posizione, piuttosto rara se non unica nel panorama della teologia medievale, a favore della possibilità di un infinito attuale. Così per esempio egli ammette contro Auriole che Dio è in grado di conoscere tutti gli infiniti punti di una superficie continua, ed è in grado di creare un corpo più grande di qualsiasi corpo dato, per quanto grande esso sia. Infine, per quel che riguarda gli oggetti della conoscenza divina, G. ne distingue due tipi: le cose (res) e i significati proposizionali (enuntiabilia). Le prime può conoscerle attraverso la semplice apprensione o attraverso la scientia visionis, a seconda che si tratti di meri enti possibili o di cose esistenti nel tempo, mentre dei secondi può avere soltanto una conoscenza giudicativa, vale a dire che li può conoscere soltanto come dotati di verità o falsità. In ogni caso per G. Dio conosce le creature direttamente, senza bisogno di alcun intermediario e da questo punto di vista viene respinta la tesi di Auriole secondo cui Dio conosce tutte le creature attraverso la Sua essenza. Anche a riguardo del problema della conoscenza divina, dunque, la posizione di G. si caratterizza per la preminenza accordata alle prerogative divine, ma senza per questo che egli intenda rinunciare ai requisiti della coerenza logica delle proposizioni teologiche.
Le dottrine filosofiche di G. sono ancora poco studiate e l'etichetta di "nominalistiche" che le ha accompagnate non ha favorito una loro corretta comprensione, risultando ingannevole per più di un aspetto, perché in definitiva decontestualizza alcune delle sue tesi più note (tradizionalmente: primato della conoscenza intuitiva su quella astrattiva, intuizione immediata dell'individuo, negazione dell'esistenza di specie intelligibili nel processo della conoscenza), e - quel che è metodologicamente ancora più grave - perché riconduce il nominalismo medievale esclusivamente a una certa famiglia di teorie gnoseologiche (e teologiche) - imparentate-con o desunte-da quelle di Ockham -, senza prendere affatto in considerazione l'ontologia e la semantica che a esse si accompagnano. Così dipinge G. come un pedissequo ripetitore della gnoseologia di Ockham; Würsdörfer, pur già in grado di dimostrare come G. si discosti da Ockham su alcuni punti significativi della sua teoria della conoscenza, lo qualifica ancora globalmente come un pensatore nominalista; Vignaux, nella voce sul nominalismo medievale per il Dictionnaire de théologie catholique, lo annovera tra i principali teologi nominalisti del secolo XIV; anche Leff ne parla come di un nominalista, ma non ockhamista, anche se nella sua monografia non c'è spazio per una analisi dettagliata delle dottrine logiche e metafisiche di Gregorio da Rimini. Né maggiore chiarezza hanno portato gli interventi di Trapp, uno degli editori della Lectura sul primo e secondo libro delle Sentenze (Gregorii Ariminensis Lectura super I et II Sententiarum, a cura di D. Trapp et alii, I-VI, Berlin-New York 1979-84), volti a rivendicare per G. un "sano" antinominalismo di fondo, dal momento che la sua linea esegetica si basa solo su argomenti esterni, privi di qualsiasi cogenza specifica, anche se storicamente fondati, e cioè che non c'è motivo di ritenere che tutti i teologi del secolo XIV siano nominalisti, e che G. su diverse questioni gnoseologiche e teologiche polemizzò con autori di sicura impostazione nominalista (come per esempio Ockham stesso, dal quale sembra però dipendere piuttosto pesantemente nella filosofia della natura) e fu da alcuni di essi duramente avversato.
In verità, senza un esame analitico dei suoi scritti principali non è possibile pronunciare alcun giudizio fondato sull'orientamento del pensiero di G., tanto più che l'uso tradizionale delle etichette di "nominalista" e "realista" (nonché di "concettualista") è, per le ragioni sopra ricordate e per altre ancora, legato alle circostanze della loro elaborazione, fortemente datato e sistematicamente fuorviante. Non è perciò opportuno servirsi di tali categorie interpretative. Ci si limiterà qui, per conseguenza, a esporre i contributi più importanti offerti da G. alla discussione filosofica del suo tempo, cercando di situarli nel loro contesto dottrinale e di sondarne l'interna coerenza, ma senza la pretesa di offrirne una valutazione generale che aspiri a collocare il suo sistema all'interno di un quadro teorico che oggi non può non essere colto che come aprioristico e privo di un effettivo valore storico.
Dal momento che l'apporto principale fornito da G. alla storia della filosofia medievale concerne il problema della conoscenza e in particolare dell'oggetto adeguato di essa, sarà opportuno cominciare la presentazione del suo sistema dalla concezione dell'anima, sede e strumento principe del conoscere umano.
In psicologia G. è stato certamente un antiaverroista convinto. Prendendo le mosse dalla definizione aristotelica dell'anima, e cioè che l'anima è forma sostanziale di un corpo che ha la vita in potenza, G. ha buon gioco nel confutare la tesi averroistica che l'intelletto possibile è unico per l'intera specie umana, separato e autosussistente, e si unisce ai singoli uomini solo nel momento del conoscere, come principio dell'attività conoscitiva stessa, e non come principio costitutivo del loro stesso essere (In II Sent., d. 16-17, q. 1: "utrum evidenter possit probari animam secundum quam homo est ad imaginem Dei, id est intellectivam, esse substantialem hominis formam", a. 1). G. può perciò difendere con successo la tesi della moltiplicazione dell'intelletto possibile, concepito come semplice funzione delle anime umane, nei singoli uomini. L'argomento principale che egli utilizza in proposito unisce lo psicologismo introspettivo di Agostino con la rigida concezione ockhamista dell'identità: G. osserva, infatti, che se l'intelletto possibile fosse unico e identico per tutti gli uomini, allora, per via della transitività dell'identità, tutto ciò che un uomo pensa dovrebbe pensarlo ogni altro - una conclusione smentita dalla nostra esperienza interna, che ci rende coscienti del fatto che nessuno può, tramite un processo mentale, venire a conoscere, condividendoli, i pensieri di un altro (In II Sent., d. 16-17, q. 1, a. 2).
Nell'alveo della tradizione tomista, e perciò aristotelica, è la posizione che G. assume sul problema dell'unicità o pluralità della forma sostanziale per l'uomo. G., in aperto contrasto con Ockham, afferma l'unicità della forma sostanziale umana, che identifica con l'anima razionale, e rifiuta con energia l'esistenza di una forma delle corporeità come un qualcosa di distinto dall'anima razionale stessa (In II Sent., d. 16-17, q. 2: "utrum praeter animam intellectivam sit aliqua alia forma substantialis in homine", a. 1).
Infine, egli nega una distinzione reale tra l'anima umana e le sue facoltà, così che, contro Tommaso d'Aquino, può sostenere che l'anima è il principio diretto anche delle sensazioni, e che non è necessario concepire la facoltà sensitiva come una sorta di qualità distinta che ha nell'anima stessa il suo sostrato d'inerenza (In II Sent., d. 16-17, q. 3: "utrum in homine potentia sensitiva vel intellectiva realiter distinguatur ab eius anima", aa. 1-2).
La medesima attitudine sincretistica G. manifesta anche a proposito della ricostruzione e dell'analisi del processo del conoscere umano, nelle quali si fondono in maniera originale elementi eterogenei desunti da Aristotele, Agostino e Ockham. La sua concezione si fonda su tre diverse coppie di distinzioni (si legga in proposito l'importantissima q. 1: "utrum res sensibiles intelligantur a nobis naturaliter", della distinctio 3 del commento al primo libro delle Sentenze): quella tra conoscenza semplice (simplex) e conoscenza complessa (complexa), quella tra conoscenza sensibile (sensualis) e conoscenza intellettiva (intellectualis), e quella tra conoscenza diretta (immediata) e conoscenza indiretta (mediata, o in aliquo medio cognito).
La conoscenza semplice, che trova la sua espressione linguistica nei termini, è l'apprensione di un qualche ente atomico, cioè non ulteriormente scomponibile in entità in grado di sussistere separatamente; quella complessa, che si articola necessariamente in un asserto proposizionale di forma affermativa o negativa, è invece la descrizione della struttura metafisica di un ente atomico o delle relazioni che intercorrono tra due enti atomici di diversa natura. Per questo motivo la conoscenza della verità si può avere in maniera adeguata e compiuta solo nella conoscenza complessa, con la quale il nostro intelletto riunisce quel che inizialmente, a livello di conoscenza semplice, gli era stato dato come separato (nel caso di un giudizio affermativo), oppure prende atto che la separazione è in qualche modo presente nelle cose stesse (nel caso di un giudizio negativo). Conoscenza sensibile e conoscenza intellettiva non si oppongono l'una all'altra, in quanto ogni conoscenza richiede comunque l'intervento dell'intelletto, così che ogni conoscenza deve essere qualificata come intellettiva, ma per la conoscenza sensibile è necessario in più che alla sua formazione concorra causalmente almeno uno dei nostri organi di senso, così che il suo oggetto sia un oggetto di sensazione (e in questo senso le sostanze, se considerate secondo il solo loro essere sostanze, non sono oggetto di conoscenza sensibile). Conoscenza diretta e conoscenza indiretta, infine, si distinguono l'una dall'altra per questo, che mentre la prima verte immediatamente su una entità dotata di esistenza reale, la seconda è conoscenza immediata di una species o imago mentale dell'oggetto sensibile, e solo tramite essa dell'entità reale che tale species o imago rappresenta.
A loro volta queste immagini mentali possono essere di due tipi, o concrete, legate all'apparato sensoriale, o astratte, appositamente prodotte dal nostro intelletto (ficta, conceptus ficti) per fungere da promemoria per un intero gruppo di oggetti sensibili tutti tra loro simili. Così, mentre le prime sono individuali, perché legate a un oggetto particolare e alle sue peculiarità, le seconde sono generali, prive perciò di una relazione diretta a qualcosa di preciso e determinato realmente esistente. Esse sono liberamente elaborate dalla nostra mente astraendo da un certo insieme di individui quei tratti che essi sembrano avere in comune. Per questo motivo danno luogo a conoscenze sia semplici sia complesse, in quanto siffatte immagini generali possono essere formate collegando e unendo in vario modo tra loro due o più nozioni semplici (In I Sent., d. 3, q. 2: "utrum res creatae insensibiles naturaliter a nobis intelligantur", aa. 1-2).
Secondo il paradigma gnoseologico sviluppato da G., inoltre, è l'apprensione stessa di una essenza sostanziale che dà luogo a un atto di giudizio, nel quale due concetti semplici sono uniti l'uno all'altro tramite la copula, e ciò a causa della conformazione del nostro intelletto, che è tale da farci cogliere in maniera discorsiva ciò che nella realtà empirica è dato come unitario, ricostruendo nelle sue varie parti costitutive la struttura metafisica dell'oggetto. Nel cuore stesso della conoscenza semplice si radica quindi, per G., la conoscenza complessa, che ne rappresenta l'ideale completamento e perfezionamento. Se la conoscenza sensibile ci testimonia l'esistenza attuale di un ente finito corporeo (per esempio Socrate) e l'astrazione intellettuale ci fa comprendere il tipo cui appartiene (nell'esempio scelto, la specie uomo), è soltanto con il giudizio, cioè con la conoscenza complessa, che ritroviamo i principî costitutivi dell'essenza della cosa e anche le sue proprietà accidentali. Il che ci introduce al problema centrale della gnoseologia di G., quello dell'oggetto della conoscenza: è evidente, infatti, che culminando la conoscenza per lui nell'atto di giudizio, ed esprimendosi quest'ultimo tramite una proposizione, sarà il significato totale di essa (e non la sostanza individuale come tale - come per esempio per Ockham -, né l'essenza - come per Tommaso d'Aquino) a rappresentare l'oggetto adeguato della umana conoscenza (In I Sent., prol., q. 1: "utrum de obiecto theologico per theologicum discursum notitia proprie scientifica acquiratur", a. 1). E alla determinazione della natura e dello statuto ontologico del significato totale della proposizione G. ha dedicato le pagine forse filosoficamente più dense delle sue opere.
La questione dell'oggetto della conoscenza è stata fra tutte le questioni gnoseologiche forse quella più importante all'epoca di G., e certamente quella cui egli ha dato il contributo di maggior peso, riformulando in maniera originale la dottrina del complexe significabile elaborata da Adamo Wodeham; non a caso la teoria del significato totale della proposizione, o complexe significabile, che è appunto, per G., come si è detto, l'oggetto della nostra conoscenza, è di gran lunga la parte più studiata del suo intero sistema filosofico.
Lungo il Medioevo si possono individuare tre impostazioni principali del problema della verità e del significato della proposizione: quella teologico-ontologica di derivazione agostiniana, che pone l'accento sull'eguaglianza di ens e verum, e considera quindi la verità come la realtà stessa in quanto si conforma alle idee divine e si svela all'intelletto dell'uomo; per essa, di conseguenza, il significato della proposizione coincide con la res (o le res) designata (designate) da soggetto e predicato. L'impostazione gnoseologica di matrice aristotelica, che non si pone propriamente il problema del significato, e secondo la quale la verità è il risultato della stretta corrispondenza (adaequatio nel linguaggio di Tommaso, assimilatio in quello di Egidio Romano) tra il giudizio dell'intelletto e le cose esistenti fuori della nostra mente. Infine quella logico-linguistica propria dei nominalisti e di alcuni terministi del '300, per i quali il problema della definizione della verità si risolve nella determinazione delle condizioni di verità degli enunciati, e il significato della proposizione è dato dal suo stesso contenuto di pensiero. La teoria del complexe significabile di G. risponde all'esigenza di garantire come oggetto adeguato dell'atto di giudizio una realtà extramentale, a un tempo unitaria e molteplice, in qualche modo identica-a e distinta-da la realtà complessiva dell'ente finito (ovvero, per esempio, Socrate considerato nella ricchezza di tutte le sue determinazioni sostanziali e accidentali) e da quella della sua essenza (nel nostro esempio l'essere-uomo), che sono, rispettivamente, l'occasione e l'oggetto del momento astrattivo (o indiretto) della nostra conoscenza. G. indica così come significato della proposizione una qualche realtà extramentale strutturalmente omologa all'atto di giudizio che si manifesta nella proposizione, e distinta sia dal mero contenuto di pensiero veicolato dall'enunciato linguistico, al quale era equiparata da Roberto Holcot, sia dalla cosa designata dal termine che funge da soggetto, come sostenuto da Gualtiero Chatton.
In un passaggio decisivo, e assai famoso, del suo commento alla Sentenze G. è molto chiaro (anche se la sua non è una chiarezza scevra da implicazioni problematiche) sulla natura e sullo statuto ontologico del complexe significabile: innanzi tutto egli osserva che deve essere un qualcosa di unitario che deve corrispondere all'intera proposizione, e non ai soli estremi (soggetto e predicato) di essa, pena l'azzeramento di ogni distinzione tra complesso e incomplesso. In secondo luogo, che deve essere un qualcosa di reale, ma non identificabile né con gli enti categoriali esistenti fuori della nostra mente, né con alcuno degli enti mentali (termini e proposizioni) che il nostro intelletto è in grado di produrre. Tutta la sua realtà si esaurirà nell'essere l'oggetto di un possibile atto di significazione ("omne significabile incomplexe vel complexe, et hoc vere vel false, dicitur res et aliquid"). Tali entità sono infine da considerarsi eterne e necessarie, non ovviamente nel senso in cui Dio è eterno e necessario, ma nel senso che i significati totali delle proposizioni sono immutabili essendo sempre, per il passato come per il futuro, in un unico e medesimo modo (eternità) e impossibilitati a essere diversamente da come sono (necessità; In I Sent., prol., q. 1, a. 1).
Da quanto detto traspare chiaramente il fermo tentativo da parte di G. di trovare un corrispettivo in re degli enunciati linguistici, totalmente autonomo dalle operazioni del nostro intelletto, ma anche il disagio che tale ricerca comportava, stante l'insufficiente riserva di entità garantita dalla ontologia tradizionale, e i dubbi e le ambiguità relativi allo statuto ontologico degli accidenti concreti, la cui realtà sembra sempre sul punto di confluire in quella della sostanza singolare che funge loro da sostrato di esistenza. L'oggetto significato da una proposizione viene così posto come un qualcosa di reale, giacché si tratterebbe di un tratto rilevante della struttura metafisica di uno o più enti finiti, ma non è propriamente una cosa, dal momento che non è un ente categoriale anche se a un ente categoriale deve comunque essere pur sempre riportato, poiché è in definitiva a una qualche forma di essere con esso connessa che la struttura stessa è riducibile.
Sul piano semantico resta però aperto in G. il problema della determinazione delle condizioni di verità e falsità degli enunciati, e quindi del rapporto tra i significati totali delle proposizioni e la coppia di determinazioni opposte vero-falso. Risultando in definitiva i significati totali delle proposizioni dei meri possibili la cui realtà è però indipendente da quella degli enunciati che li esprimono (In I Sent., prol., q. 1, a. 1), essi non possono essere la causa dell'essere gli enunciati veri o falsi; né essa può essere rintracciata nell'esistente, non contemplando l'ontologia di G. delle entità esistenti complesse come i fatti o gli eventi. G. fa a questo punto ricorso a Dio, rifacendosi apertamente alle affermazioni di Agostino e di Anselmo: i complexe significabilia sono in se stessi veri o falsi a seconda della diversa relazione che hanno con Dio, verità prima e increata; gli enunciati, per parte loro, saranno allora veri o falsi a seconda della verità o falsità del complexe significabile che designano (In I Sent., prol., q. 1, a. 1).
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