GREGORIO IX
Ugolino dei conti di Segni nacque in Anagni in data che deve essere collocata verso il 1170, contrariamente a quanto si è pensato (1140); sempre ad Anagni dovette ricevere una prima formazione culturale alla scuola vescovile.
Poco utile la biografia che si legge in Le Liber censuum de l'Église romaine, a cura di P. Fabre - L. Duchesne, Paris 1952, pp. 18-36, che è sicuramente tarda e non fornisce un minimo di corredi di dati di fatto (v. Enciclopedia dei papi, II, p. 363); più proficuo può risultare il reperimento di elementi biografici nelle lettere di Onorio III e dello stesso G. IX, come si vedrà.
Divenuto papa nel 1198, con il nome di Innocenzo III, Lotario dei conti di Segni, Ugolino fu nominato cappellano papale e, nello stesso anno, cardinale diacono di S. Eustachio. Nel 1199 fu inviato in Italia meridionale presso Marquardo di Annweiler, nel tentativo di mediare tra le fazioni che si erano costituite per la reggenza del Regno di Sicilia e l'educazione del futuro Federico II: Gualtieri di Palearia, cancelliere del Regno, da un lato e Marquardo dall'altro. Non riuscì però a impedire che quest'ultimo si impadronisse (nel 1201) del fanciullo che aveva appena sette anni. Creato cardinale vescovo di Ostia nel 1206, Ugolino si recò, sempre come legato di Innocenzo III, in Germania nel 1207 e nel 1209, nel corso delle vicende relative alla successione imperiale e alla rinuncia di Ottone IV di Brunswick nei riguardi del Regno di Sicilia. Con l'elezione di Onorio III (1216) Ugolino mantenne la posizione di primo piano che aveva acquistato con Innocenzo III, soprattutto per le missioni in Italia settentrionale. La più importante fu quella del 1221, compiuta subito dopo l'elezione imperiale di Federico per cercare di comporre le lotte interne a tanti Comuni dell'Italia centrosettentrionale e per accertarsi di persona della diffusione dell'eresia. L'accoglienza di Ugolino da parte di Federico II fu non solo formalmente cordiale, ma anche ispirata dal convincimento che all'Impero avrebbe giovato mostrarsi a fianco della Chiesa nella lotta antiereticale. Sennonché Ugolino aveva avuto anche il compito di promuovere la nuova crociata, dopo la disastrosa conclusione della quinta, nel 1221, a Damietta in Egitto, dove le navi inviate da Federico II erano arrivate quando la città era già caduta.
Si possono distinguere tre fasi nell'azione di Ugolino a favore della crociata: una prima (fine marzo - fine luglio) con soste a Siena, Firenze, forse Pisa, Piacenza, Milano, Reggio Emilia, nelle quali ottenne l'impegno delle autorità comunali per armati e per collette. In una seconda fase (agosto 1221) Ugolino, insediatosi a Bologna, prima nella collegiata di S. Maria di Reno, poi nell'episcopio, riuscì ad avviare trattative per la composizione di dissidi sorti a Milano, Ferrara, Treviso e Belluno, in lotta con il patriarca di Aquileia e il vescovo di Feltre e Belluno. Ottenne impegni in denari e uomini per la crociata dal podestà di Modena e della stessa Bologna. E tuttavia i preparativi dell'impresa andarono a rilento. La terza fase della legazione (settembre-ottobre 1221) vide Ugolino ancora impegnato per la crociata: Milano e Vercelli si offrirono di finanziare l'invio di crociati a condizione che essi partissero insieme; nel Veneto, affidata la colletta al vescovo di Padova, si riuscì a compilare una lista di offerte ammontanti a 216 libbre, 7 solidi, 6 denari, che tuttavia non si riuscì a raccogliere subito. Alla fine di ottobre Ugolino rientrò a Bologna.
La crociata non si fece per il momento e sarebbe stato il punto iniziale del lungo conflitto tra Federico II e Ugolino: ma la legazione in Lombardia permise a questo di trarre una preziosa esperienza della complessità della politica comunale italiana e degli effettivi spazi di manovra che essa poteva riservare alla politica ecclesiastica futura.
Ugolino fu elevato al pontificato con il nome di G. IX il 19 marzo 1227. Complessi furono i rapporti del nuovo papa con monarchie e potentati europei. A tal proposito occorre però senz'altro rivedere il giudizio consolidato dalla storiografia, secondo il quale quei rapporti si sarebbero configurati come conflittuali sin dall'inizio del pontificato. Il papa, secondo questo giudizio, avrebbe ripreso la politica "protagonista" di Innocenzo III, morto in un momento non favorevole alla monarchia papale e favorevole, invece, allo Svevo. E, proprio a Federico II, G. IX annunziava "electionem de se ipso factam, post mortem Honorii", in una lettera che è conservata nella Historia diplomatica Friderici secundi, III, pp. 1-3.
È opportuno precisare, fin da questo momento, che in pochi casi, come in quello di G. IX, la storiografia, specialmente di parte cattolica, ha presentato la vicenda dei rapporti con Federico II di Svevia in termini non solo quasi esclusivamente ispirati da preconcetti ideologici, ma anche deliberatamente distorti o lacunosi, favorita, in ciò, dalla perdurante assenza di una biografia sufficientemente esauriente, serena e documentata di Ugolino dei conti di Segni. Il massimo di obiettività possibile nel valutare l'opera di G. IX, allora, consisterà nel considerarlo negli aspetti più significativi del suo operato in un contesto fortemente influenzato dagli indirizzi impressi dai suoi predecessori alla soluzione di problemi che permasero sostanzialmente identici (Regno di Sicilia e Impero, città dell'Italia centrosettentrionale, crociata) da Innocenzo III a Innocenzo IV, per oltre mezzo secolo. Una prospettiva obiettiva, quindi, si coglie facendo un confronto non con alcuni predecessori (Innocenzo III, Onorio III), o con il successore (Innocenzo IV), ma con il quadro politico generale. Per esempio, l'immagine cara a tanta storiografia di un Onorio III mite e debole contrapposta a quella di G. IX, deciso ed energico, è completamente da ricusare anche per quanto concerne il fenomeno francescano, come si vedrà.
Onorio III, del resto, aveva provveduto a incaricare il cardinale legato, vescovo di Frascati, Niccolò e il suddiacono e cappellano Alatrino di sondare le intenzioni del re circa i problemi dell'eventuale unione del Regno con l'Impero e la volontà di procedere alla crociata (cfr. Enciclopedia dei papi, II, p. 364).
Lo stesso Ugolino, vescovo di Ostia, incaricato da Onorio III del "negotium crucis Christi", riceveva da Federico II, il 10 febbr. 1221, una calorosissima lettera di congratulazioni per la nomina a legato per la crociata, con espressioni di altissima stima e devozione e la più ampia assicurazione di mantenere l'impegno "quod magis humeris nostre maiestatis incumbit", mettendosi a completa disposizione delle decisioni che in proposito avrebbe assunto il futuro Gregorio IX. Difficile, pur fatta ogni concessione alla retorica e alla diplomazia, pensare a deliberata ipocrisia da parte dell'imperatore nei riguardi di Ugolino; molto più opportuno valutare sino in fondo le preoccupazioni espresse da Onorio III a Niccolò e al suddiacono Alatrino circa l'ineluttabilità dell'impegno crociato come segno di credibilità del futuro imperatore e, dopo la nomina di Ugolino a cardinal legato per la crociata, della stessa Chiesa romana, visto che la rilevanza della nomina di Ugolino non era sfuggita nemmeno a Federico II, che non esitava ad attribuire alla personalità del legato un particolare carisma per l'impresa affidatagli, alla quale nessun altro sarebbe stato più degno. La responsabilità del successo dell'impresa era così divisa tra l'imperatore e Ugolino: il quale si trovava collocato a fianco di Federico nella duplice funzione di rappresentante della Curia e di "osservatore" impegnato della effettiva volontà di Federico di non dilazionare la crociata. Né si può dimenticare che una mossa a favore dei crociati impegnati a Damietta (1221) fu compiuta dall'imperatore, con l'invio della flotta in aiuto ai crociati: l'arrivo delle navi avvenne troppo tardi, ma l'imperatore s'era adoperato.
In un riesame della situazione determinatasi per l'improvvisa azione militare dello scalco imperiale Gunzelino di Wolfenbüttel, in territori più volte riconosciuti all'autorità della Sede apostolica da parte dello stesso Federico II, si è avuto modo di ritenere che quanto aveva turbato i pur discreti rapporti tra Onorio III e l'imperatore non era stata la questione della credibilità, bensì una serie di difficoltà interne al sistema di potere regio e imperiale svevo venutosi a creare nell'Italia centrale - e non solo in quella - dopo la morte di Enrico VI. Il non mai risolto problema degli equilibri tra funzione imperiale, sovranità papale e ambizioni egemoniche delle città in vario modo legate a un Patrimonium beati Petri decisamente avviato ad assumere le caratteristiche di una entità "statuale" e pertanto contrastante le ambizioni di "libertà comunale" che la politica delle recuperationes iniziatasi con Innocenzo III, in opposizione alle rivendicazioni di Enrico VI, aveva indubbiamente stimolato. Ugolino, nel momento in cui diventava papa (marzo 1227), non doveva innovare nulla, ma decidere se proseguire nella politica di Onorio III, ben esperto della situazione giuridico-politico-patrimoniale dell'Italia centrosettentrionale, chiave di volta nei rapporti tra Papato e Impero, o trovare nella crociata un'occasione per mettere in discussione la credibilità dell'imperatore. In ogni caso, il rinvio al 1227 della spedizione crociata - quindi l'oggettivo riconoscimento delle ragioni federiciane e anche di politica interna sia papale sia imperiale - era stato concordato con Onorio III: il rifiuto della "giusta causa" per quel rinvio poteva anche significare che G. IX aveva bisogno di riprendere la trama di un disegno politico papale nel quadro complessivo dei rapporti tra i due poteri universali che però sconfessava la sperimentazione di una nuova collaborazione tra Papato e Impero intrapresa da Onorio III. È difficile stabilire che proprio questo volesse G. IX, anche alla luce di quello che avvenne allorché, partito Federico per la crociata e costretto a rientrare per l'esplodere di un'epidemia nel suo esercito (agosto 1227), il pontefice scomunicò l'imperatore il 29 sett. 1227, nella cattedrale di Anagni. Si ha piuttosto l'impressione che G. IX volesse giocare d'anticipo rispetto all'imperatore, proprio nel convincimento che questi, ora, fosse realmente intenzionato a compiere comunque la crociata.
Questa caratteristica si può cogliere anche per le questioni relative alle città marchigiane, per le quali la nomina del già ricordato Alatrino come legato pontificio era avvenuta prima di quella di Rainaldo di Spoleto, come legato imperiale. Ma giocare d'anticipo presupponeva, a parte ogni questione relativa allo scontro fra due ideologie universali, una forza militare che il papa non aveva: e proprio la tensione riapertasi tra papa e imperatore condannò all'insuccesso la missione di Alatrino, perché spinse molte delle più importanti città delle Marche a riprendere l'abituale politica di equidistanza dai due contendenti e a svolgere la trama, anch'essa tradizionale, delle alleanze fra gruppi di Comuni contro altri gruppi, come avvenne il 2 ott. 1228, quando Osimo, Recanati, Numana, Castelfidardo, Cingoli, Fano e Senigallia, di orientamento piuttosto filoimperiale, si coalizzarono contro Pesaro, Ancona e Jesi e a poco valse il ricorso di G. IX ad Azzo (VII) d'Este che era stato investito sin da Onorio III del feudo della Marca. Va anche notato che, solo quando apparve chiaro che la situazione nella regione stava degenerando verso il collasso di ogni forma di controllo da parte della Chiesa, intervenne il legato imperiale Rainaldo di Spoleto: ma probabilmente non per rimettere in discussione la questione della sovranità sul territorio marchigiano. Sembra doversi accettare il giudizio di W. Hagemann quando sostiene l'improbabilità che Federico II, "animato com'era dall'unico desiderio di condurre felicemente in porto la sua crociata", ritenesse opportuno riproporre la questione dello "stato della Chiesa", per affrontare poi le complicazioni dall'esito imprevedibile che sarebbero scaturite da ciò. Ma ciò non significava che la politica di G. IX avesse dato un buon esito.
La partenza del sovrano era stata preceduta da una piccola spedizione di cinquecento cavalieri; l'esercito crociato - non numeroso - salpò con Federico da Brindisi, toccò Cipro e il 7 settembre dello stesso anno giunse a San Giovanni d'Acri. La collaborazione della maggior parte degli ordini cavallereschi e delle autorità ecclesiastiche venne a mancare per la scomunica - reiterata nel marzo 1228 da G. IX - dell'imperatore, cui comunque riuscì di stipulare con il sultano d'Egitto, Al-Kamil, nel febbraio 1229, un accordo decennale in virtù del quale Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, con una fascia costiera, venivano restituite ai cristiani. Federico II cingeva la corona di re di Gerusalemme e si presentava vittorioso di fronte a un papa che s'era spinto sino a sciogliere dal giuramento di fedeltà i sudditi e ad adoperarsi per l'elezione di un nuovo imperatore. Fu questo un altro errore della politica precipitosa di G. IX, che, volendo rispondere agli attacchi portati nelle Marche e nel Ducato di Spoleto da Rainaldo, reggente del Regno di Sicilia, invase quest'ultimo, con un esercito costituito da milizie pontificie e da fuorusciti siciliani, al comando di un legato papale e di Giovanni di Brienne. Dopo iniziali successi militari presso Montecassino e qualche moto di ribellione, dovuto alla falsa notizia della morte dell'imperatore in Oriente, bastò il sollecito ritorno a Brindisi di Federico (giugno 1229) per far fallire sia l'azione militare di G. IX, sia le sue speranze di costringere l'imperatore a una resa umiliante. Le terre invase dalle truppe pontificie furono riconquistate, città e feudatari che s'erano schierati con il papa furono puniti e, dopo una serie di trattative, mediate dal gran maestro dell'Ordine teutonico, Hermann von Salza, e dal cardinale Tommaso di Capua, G. IX e Federico II sottoscrissero la pace di San Germano (estate 1230).
Nei numerosi capitoli dell'accordo G. IX otteneva che l'imperatore facesse importanti concessioni a favore della Chiesa siciliana e che cancellasse le città dell'Italia settentrionale dal bando dell'Impero, ma dovette riconciliarsi con l'imperatore e accettare che i rapporti tra Chiesa romana e Impero riprendessero su di un piano apparentemente identico a quello che aveva indicato Onorio III.
La stessa questione delle città lombarde s'era riproposta sin dai tempi di Onorio III e della Dieta di Cremona del 1226 alla quale i Comuni italiani convocati "pro reformatione pacis, extirpanda heretica pravitate et Terrae Sanctae negotio" s'erano opposti recando perciò offesa non solo all'imperatore, ma alla stessa Chiesa. I Comuni, raccoltisi in una nuova Lega lombarda, vennero posti al bando dell'Impero. Ma di fatto anche per questa ragione la crociata non si fece, perché la Lega impedì ai principi tedeschi di recarsi nella città.
Dopo la pace di San Germano e Ceprano, in maniera più o meno palese, tale fu l'atteggiamento che G. IX dovette seguire, a riprova che, questioni temperamentali a parte, le sue alternative politiche non erano sostanzialmente diverse da quelle del predecessore. Ancora una volta G. IX si trovò prigioniero dei presupposti abilmente stabiliti al tempo dell'incoronazione di Federico II. L'insistenza, nel 1220, sulla lotta contro l'eresia, la reiterazione dei provvedimenti già presi negli anni successivi sino alla pace di San Germano, la ripresa violenta della persecuzione contro gli eretici dal 1231 al 1236, nonché l'ovvia e dichiarata volontà di coinvolgere le città comunali dell'Italia settentrionale, molte aderenti alla seconda Lega lombarda, collocavano Federico II in una linea che era stata di G. IX da sempre e che era stata del Papato sino dai tempi dell'incoronazione imperiale del 1220. Nel febbraio 1231, infatti, G. IX promulgava la sentenza di scomunica per tutte le sette ereticali riconosciute come tali sin dai tempi di Lucio III e di Federico I, nuovamente colpite da Innocenzo III nella Vergentis, e da Federico II e da Onorio III. In questa situazione egli si trovava oggettivamente a sfruttare la necessità che aveva l'imperatore di ricorrere a un mezzo potente per colpire le città ribelli; nello stesso tempo, tuttavia, si trovava obbligato a schierarsi dalla parte dell'imperatore contro quelle città che fossero incorse nell'accusa di favorire gli eretici. La mediazione tra l'imperatore e i suoi avversari, in Italia come in Germania, non era senza un qualche vantaggio per G. IX, dacché proprio il papa dovette mediare anche questioni molto complesse negli stessi rapporti tra Federico II e il figlio Enrico (VII), diventati molto tesi in seguito alle posizioni assunte dal primo nei riguardi del secondo per il suo atteggiamento ostile ai principi tedeschi e favorevole alle città tedesche: Enrico, convocato a Ravenna il 1° nov. 1231, dove si sarebbero dovuti incontrare i rappresentanti dei Comuni dell'Italia settentrionale (Friderici IIConstitutiones, n. 155, pp. 190 s.), poté incontrare il padre soltanto nella Pasqua del 1232 ad Aquileia, dichiarando la propria obbedienza a una politica favorevole ai principi tedeschi.
Le cose non andarono così, perché Enrico, ritornato in Germania, assunse nuovamente un atteggiamento ostile ai principi. G. IX non prese posizione aperta nei confronti del dissidio tra padre e figlio, pur richiesto dall'imperatore, se non quando, distanziandosi Enrico dalla posizione antiereticale, il papa dovette, su precisa istanza dello stesso Federico, ingiungergli la scomunica (luglio 1234; Regesta pontificum Romanorum, n. 9487); non risulta che G. IX ottenesse da Federico II di usare un atteggiamento di clemenza nei riguardi di Enrico, che fu catturato, previa rinunzia al titolo regale e ai possedimenti, in Germania, e deportato in Italia, nei castelli della Calabria, dove nel 1342 morì, forse suicida; così G. IX dovette - si sottolinea dovette - schierarsi con Federico II per la questione delle città lombarde.
Molto, certamente, influirono nell'alleanza "forzata" le preoccupazioni della lotta decisa da G. IX - e da Federico II, si badi bene - contro gli eretici, che proprio nelle città lombarde si potevano allogare. Nel conflitto tra le varie fazioni dei Comuni cittadini dell'Italia centrosettentrionale la lotta alle eresie era un indubbio elemento di disturbo e di complicazione, soprattutto per il papa, che doveva anche fronteggiare moti di ribellione in Roma: qui, nel 1232, si ebbe una vera e propria rivolta contro il pontefice, non si può dire con quale reale e consapevole coinvolgimento dell'imperatore. Ma appare più credibile immaginare un progressivo deterioramento dei rapporti tra papa e imperatore proprio a cagione della continua opera di mediazione tra la Lega e Federico II, che si svolse tra il 1231 e il 1235 e successivamente tra il 1236 e il 1237, con particolare intensità. Nel giro di poco più di un anno e mezzo contiamo ben dodici documenti indirizzati ai Comuni settentrionali e ai legati papali che tentavano di ristabilire un minimo di tregua tra Comuni e Impero; sei furono le lettere indirizzate a Federico II. Da una di esse del 29 febbr. 1236 apprendiamo che G. IX respingeva l'accusa di aver favorito la ricostituzione della Lega lombarda e di aver consentito che in Tuscia o nel Veronese si fosse tramato contro Federico II e ricordava che non poteva essere ascritta a colpa della stessa Chiesa la circostanza che i Veronesi, per timore della forza dell'imperatore, avessero falsamente sostenuto di aver l'appoggio di Roma, i cui legati, vescovi di Treviso e di Reggio Emilia, avevano indotto proprio i Veronesi a osservare la tregua. Ma nella stessa lettera G. IX insisteva sulle vessazioni imposte al clero del Regno di Sicilia e sulle accuse contro l'imperatore, che riferivano dell'estrema durezza delle condizioni ingiunte ai nobili del Regno che si erano ribellati all'imperatore per aver aderito alla Chiesa: "Si verius loquimur, iam pro maiori parte ista non credimus" soggiungeva, diplomaticamente il papa, che tuttavia, con riferimento ai condannati, aveva detto prima "id tanto magis Deo displicere putamus, quanto fortius ipsos credimus innocentes!" (cfr. Mon. Germ. Hist., Epistolae… selectae, p. 575).
Il 17 agosto dello stesso anno in una missiva al cardinale vescovo prenestino Giacomo, G. IX inviava una serie di doléances della Chiesa di Roma nei riguardi dell'imperatore con la raccomandazione di mostrargliele e chiederne ragione o, ove non gli fosse stato possibile, di affidarle al vescovo di Brescia, Guala, già legato in Lombardia per la repressione antiereticale, insieme con una replica alle varie accuse, che da parte di Federico si muovevano alla Chiesa romana (per i testi v. ibid., pp. 596-599). Le reciproche accuse, ancor ammantate da una naturale prudenza e dal formulario delle lettere ufficiali, si ripeterono: ma la valenza ideologica che esse nascondevano - da parte di G. IX, almeno - si dichiarò appieno allorché, il 23 ott. 1236, il papa affrontò in una lettera, che ci sembra debba essere intesa come ultimo avvertimento a Federico II, gli aspetti complessivamente ideologici che potevano (o non potevano) militare a favore dei rapporti tra Papato e Impero. Faceva ciò anche alla luce della storia più antica dei rapporti tra le due potestà, pur rievocata con qualche confusione: l'accenno a Costantino, Carlomagno, Arcadio e Valentiniano è assolutamente svincolato da ogni ragionevole e necessario ordine cronologico.
Proprio questa considerazione può aiutare a comprendere che alla fine del 1236 era in gioco il rapporto tra Papato e Impero, in quanto entità universali, non in quanto potenze politiche variamente impegnate in questioni di rilievo particolare. Non cessa infatti l'opera di intermediazione di G. IX per cercare di arrivare comunque a una definizione dei vari problemi sospesi circa la libertà ecclesiastica, lo stato dell'Impero, la lotta all'eresia, così come recita una lettera dello stesso G. IX inviata non solo ai prelati della Lombardia, della Marca trevigiana e della Romagna, ma anche ai marchesi, conti, podestà e organi collegiali dei Comuni delle stesse regioni. Ma questo non poteva significare il persistere di un buon accordo tra papa e imperatore: era solo il segno di un completo "scollamento" della politica di G. IX dalla realtà della vita comunale di quegli anni, in cui le tattiche di comportamento erano suggerite non dall'adesione a un progetto generale, quale quello del Papato o dell'Impero, ma dagli equilibri interni delle varie fazioni politiche (guelfi e ghibellini, popolo e nobili, ecc.).
Della strategia di G. IX ci si accorse allorché Federico II, rientrato dalla Germania in Italia dopo aver provveduto a far eleggere re dei Romani il figlio Corrado di nove anni e aver così risolto la questione della successione apertasi con la morte del ribelle Enrico, decise di giungere a una soluzione finale con le città lombarde. Penetrato da Verona in Lombardia, sconfisse l'esercito milanese a Cortenuova, a sud di Bergamo. Il carroccio fu mandato a Roma, in Campidoglio: è difficile dire se il gesto rappresentasse un segno di buona volontà verso G. IX o un avviso. Nel 1238, comunque, le città lombarde non erano ancora sottomesse: Brescia non fu espugnata. G. IX paventava un completo trionfo federiciano in Alta Italia e si adoperò per costituire un'alleanza tra Genova e Venezia con lo scopo di allestire una spedizione contro il Regno di Sicilia, alla quale avrebbero partecipato anche le truppe pontificie. Era la guerra dichiarata: il 20 marzo 1239 G. IX scomunicò Federico, formalmente per i non mai intermessi soprusi compiuti nei riguardi delle Chiese di Sicilia, in realtà perché le posizioni dei due protagonisti si erano rivelate assolutamente inconciliabili e superiori ai tentativi di compromesso che, dopo la pace di San Germano, s'erano ripetuti, soprattutto da parte papale. L'insostenibilità della situazione è anche rivelata dall'elencazione minuziosa e motivata delle accuse ripetutamente mosse dal papa all'imperatore, compresa quella di aver fomentato una sedizione contro Gregorio IX. La scomunica fu pronunciata a Rieti il 24 marzo 1239 e diffusa in tutta Europa e in tutta l'Europa giunse la replica dell'imperatore, in cui si ventilava il pericolo, per le monarchie europee, di dover assoggettarsi ai disegni di supremazia ecclesiastica di Gregorio IX. Il 20 apr. 1239 Federico chiedeva ai cardinali di convocare un concilio generale che avrebbe dovuto giudicare dell'operato del papa. Apocalittica e violentissima fu la risposta di G. IX al manifesto imperiale. Con l'utilizzazione quasi letterale delle parole dell'Apocalisse G. IX riconosce in Federico II l'Anticristo, aggiungendo l'accusa di negare credibilità a Cristo, Mosè e Maometto, di negare la verginità della Madonna, di negare ogni atto di fede e di fare professione di esclusivo razionalismo. Molti i sentimenti e le motivazioni, non certamente solo politiche, che si condensavano in questa che è probabilmente la più violenta lettera che sia mai stata scritta da un papa contro un imperatore. La replica di Federico fu altrettanto dura, pur se sussistono dubbi circa l'autenticità dello scritto. G. IX è il fariseo che si è assiso sul trono della pestilenza, è stato unto con l'olio dell'iniquità, è - ancora Apocalisse, VI, 4 - il cavallo rosso del secondo sigillo.
La crociata era inevitabile, dati i termini in cui ormai veniva posta la questione, oppure un'azione comune dei Regni europei contro Gregorio IX. Ma non avvenne praticamente nulla. C'è piuttosto da osservare che G. IX, nel periodo 1239-41, non ottenne che delusioni e smacchi. La Germania fu compatta, sia nei principi ecclesiastici, sia nei principi laici; l'Impero latino d'Oriente fu favorevole o per lo meno non contrario a Federico II di Svevia. In Italia, pur dopo il successo federiciano di Cortenuova, i Comuni riuscirono a mantenere una posizione di relativo equilibrio di forze con l'imperatore: se infatti nel 1239 le cose sembrarono volgersi in favore dei Comuni lombardi e della Marca trevigiana, nel 1240, invece, Federico II occupò tutto il Ducato di Spoleto, dopo aver riconquistato la Marca anconetana. La convocazione di un concilio con l'enciclica del 9 ag. 1240 era l'ultima carta rimasta a G. IX, che richiese l'appoggio delle navi di Genova per il trasporto dei vescovi in Italia, in vista della partecipazione al concilio medesimo. Anche questo fu un errore, poiché i Pisani - a parte il tradizionale filoghibellinismo - il 4 maggio 1241, presso l'isola del Giglio, attaccarono e sconfissero la flotta genovese che trasportava i prelati in Italia per il concilio. Furono catturati cento vescovi e tre legati pontifici; Federico II si mosse vittoriosamente verso Roma. Ai primi di agosto era a Tivoli. G. IX commise l'ultimo errore: cercò di intavolare trattative disperate con l'imperatore che, ovviamente, rifiutò. Il 21 ag. 1241 il pontefice morì a Roma. Federico II, errando, ma dimostrando di non essere quella "bestia ascendens de mare" che il suo avversario aveva condannato, non occupò Roma.
Solo la morte del papa pose fine allo scontro. Ma la vicenda di G. IX non si racchiude nei complessi eventi legati alla sua difficile convivenza con Federico II. Furono significativi anche i suoi rapporti con i francescani, i domenicani e l'Inquisizione.
L'ancora cardinale Ugolino di Ostia, legato in Toscana, si incontrò per la prima volta con Francesco d'Assisi a Firenze dopo che in un capitolo dei minori, celebrato alla Porziuncula il 14 maggio 1217, si era deciso di inviare i minori per il mondo cristiano e fuori d'Italia. Francesco si stava recando in Francia, ma Ugolino lo dissuase dal viaggio, al fine di trattenerlo per reggere le sorti dei frati, in un momento di tensione nelle relazioni tra questi e la Curia, per "il mancato adeguamento dei frati alle prescrizioni conciliari in materia di nuove forme di vita religiosa" (Diz. biogr. degli italiani, XLIX, p. 667). Ugolino riuscì a convincere Francesco a rimanere in Italia e non si sbagliava, alla luce delle reazioni del clero, soprattutto francese, che non solo non aveva familiarità con il linguaggio dei frati, ma neppure riusciva a inquadrarli in un assetto istituzionale determinato. Fu forse proprio Ugolino quel prelato che, ad accogliere la testimonianza delle agiografie francescane, avrebbe indotto Onorio III, l'11 giugno 1219, a promulgare la bolla Cum dilecti filii, in cui si dichiarava l'ortodossia dei minori che comprendevano "frater Franciscus et socii de vita et religione minorum fratrum". Ancora una volta, il futuro G. IX si trovava impegnato da una decisione di Onorio III e in un caso in cui sarebbe difficile individuare un diverso atteggiamento tra papa Onorio e il futuro Gregorio IX. A Ugolino si sarebbero significativamente rivolti coloro i quali chiedevano che Francesco mostrasse la propria disponibilità all'istituzionalizzazione della comunità minoritica, che doveva uniformarsi alle disposizioni lateranensi del 1215, emanate da Innocenzo III: la reazione di Francesco, com'è noto, fu il netto rifiuto di ogni "normalizzazione" di tipo monastico dei frati minori. Ciononostante, Ugolino si adoperò affinché si costituisse un "Ordo pauperum dominarum de Valle Spoleti sive Tuscia". Ugolino trascorse la settimana santa del 1220 a S. Damiano, presso la comunità femminile riunitasi intorno a Chiara.
Tralasciando la complessa discussione storiografica relativa a questa fase dell'incontro di Ugolino con Chiara e dei progetti di Onorio III per gli insediamenti monastici femminili (v. un'ottima messa a punto di M.P. Alberzoni, Chiara e il Papato, Milano 1995, pp. 32-68) appare indubbio che l'intento di normalizzazione perseguito da Ugolino - e mantenuto anche da pontefice - per le comunità femminili si scontrò contro la ferma volontà di Chiara di conservare al livello più alto il carattere francescano della povertà: un Privilegium paupertatis che per molto tempo si è ritenuto addirittura concesso da Innocenzo III, ma sicuramente promulgato da G. IX nel 1228, come sembra ormai indubitabile (v. le fondate osservazioni di W. Maleczek, Chiara d'Assisi. La questione dell'autenticità del Privilegium paupertatis e del testamento, Milano 1996; v. inoltre O. Capitani, autonomamente pervenuto alle stesse conclusioni in Chiara d'Assisi: un messaggio antico [1194] per un'eredità moderna, Bologna 1994, pp. 47-52). Si presenta come una omologazione a posteriori di rapporti non facili tra Chiara e il Papato. Con la concessione del Privilegium paupertatis del 1228, G. IX accettava la posizione della futura santa in un momento molto particolare. Francesco era morto fra il 3 e il 4 ott. 1226; il 19 luglio 1228, con la bolla Mira circa nos, G. IX ascriveva al novero dei santi universali il "Poverello"; il 17 sett. 1228 concedeva il Privilegium a Chiara: sono convinto che si debba concludere che "Chiara per Francesco aveva vinto una battaglia in extremis", dacché due anni dopo, nel settembre-ottobre 1230, con la bolla Quo elongati, G. IX affermava il carattere non precettivo del Testamentum di Francesco, le cui uniche norme imperative erano da ritenersi quelle della Regula bullata (1223), alla cui redazione aveva preso parte determinante proprio Ugolino di Ostia. Il testo, notevolmente più ristretto (dodici capitoli), "risentiva di una notevole formalizzazione giuridica […] il cui dettato è profondamente diverso dal precedente" e sicuramente concepito non per una comunità ristretta, ma per un vero e proprio Ordine religioso, quale era ormai quello francescano, istituzionalmente collegato con la Chiesa di Roma dalla figura del cardinale protettore, quale di fatto era stato lo stesso Ugolino. Questi, senza deflettere dall'esigenza di regolamentare in concreto la "richiesta sociale" di una vita religiosa diversa da quella proposta dalle forme canoniche offerte dall'istituzione ecclesiastica, comprese l'essenzialità dell'intento di Francesco, che non doveva essere lasciato come "esemplarità individuale", suscettibile, proprio per essere individuale o comunque limitata ad alcuni pochi, di trasformarsi in "eccezionalità deviante". La Regula e la canalizzazione di un'adesione di massa, inopinata per lo stesso Francesco, il convincimento che la proposta francescana, in quanto tale, non voleva e non doveva contenere consapevoli e radicali alternative ai modelli religiosi omologati nell'istituzione ecclesiastica, probabilmente la coscienza, derivata dalla personale conoscenza del Poverello, della esclusiva e assoluta spiritualità della testimonianza offerta, ma non drasticamente richiesta, da Francesco - più perentoria e collettiva, oltre che personale, la richiesta di Chiara - furono i parametri conduttori dell'atteggiamento di Ugolino verso un evento che assunse una risonanza in tempi così brevi da indurre un'attestazione ufficiale immediata di "straordinarietà" della persona (Francesco fu canonizzato nel corso di un processo svoltosi tra Assisi e Perugia tra il 10 giugno e il 16 luglio del 1228, a soli diciotto mesi dalla morte) e un atteggiamento di sostanziale rifiuto di "sperimentazioni imitative" collettive che, partendo dal Testamentum come precetto e non come consiglio, potessero radicalizzare l'esperienza in un modello sostanzialmente alternativo: per gli altri Ordini, per la Chiesa, per la società cristiana. Questo ci pare il senso della bolla Mira circa nos del 19 luglio 1228, datata da Perugia, con la quale Francesco veniva proclamato santo.
Si può dire che la necessità di una "retta" interpretazione dell'evento francescano apparve subito essenziale a G. IX, che affidò al minorita Tommaso da Celano la compilazione della leggenda del santo (la Vita prima), da cui presero le mosse numerose agiografie dedicate a quello, in rapporti di intertestualità e dipendenze che costituiscono una delle "cruces" più rilevanti della filologia agiografica medievale (per un orientamento oltre la citata voce di R. Rusconi, p. 675; v. R. Manselli, "Nos qui cum eo fuimus". Contributo alla questione francescana, Roma 1984; Gli studi francescani dal dopoguerra ad oggi, a cura di F. Santi, Spoleto 1993, pp. 249-267, con rinvio alla più aggiornata bibliografia).
A meno di un anno dalla Quo elongati, G. IX emanò un'altra bolla, la Nimis iniqua (21 ag. 1231), in cui si biasimava l'atteggiamento di ostilità manifestato dall'episcopato verso i francescani, ai quali si proibiva la celebrazione degli uffici divini nei loro conventi, se non in giorni prestabiliti, la costruzione di nuove sedi, la scelta dei superiori, la libera disponibilità delle reliquie. Se non l'atto specifico di svincolamento dei francescani dalla giurisdizione dell'ordinario diocesano, era per lo meno l'inizio di un processo che avrebbe avuto conseguenze di rilievo, specialmente nell'attività e nelle applicazioni penali dell'Inquisizione. Ed è comunque sintomatico da un lato che i minori si diffondessero liberamente, con la protezione del papa, nella vita ecclesiastica, dall'altro che i domenicani si mostrassero sempre più disponibili alla collaborazione con l'episcopato e con il clero secolare, eccezion fatta per la questione dell'insegnamento all'Università.
Meno dialettici erano stati la nascita e lo sviluppo dell'Ordine domenicano, a partire da Onorio III, che aveva stabilito la fondazione dei predicatori con due bolle del dicembre 1216 e del dicembre 1217, consacrando la fraternità religiosa di canonici regolari, secondo la regola di s. Agostino, a St-Romain di Tolosa. Nel momento in cui G. IX diventava papa, i domenicani avevano, come segno particolarmente distintivo nei riguardi dei minori, un'organizzazione ben articolata nelle loro costituzioni, che prevedevano una proposta di vita religiosa derivante da diverse esperienze: quella dei canonici regolari di S. Agostino (modello premostratense) e quella monastica, con chiara opzione per la povertà personale e collettiva e un impegno per lo studio, che doveva alimentare la capacità della predicazione sul presupposto di una formazione ottenuta presso ciascun convento in termini rigorosi. Ugolino era legato da particolare amicizia con Domenico e fu presente alle sue esequie in Bologna, il 6 ag. 1221. Il 13 luglio 1234, dopo aver definito i domenicani "la luce delle nazioni donata dalla sapienza di Dio", G. IX canonizzava - dieci anni dopo Francesco - Domenico con la bolla Fons sapientiae patris. Se l'Ordine francescano rappresentò per G. IX un'occasione per il recupero di un'identità cristiana compatibile con la società del sec. XIII e nella prospettiva di un "regimen christianum" fondato sulle direttive della Chiesa di Roma, quello domenicano costituì lo strumento largamente utilizzato dal papa in tutta l'Europa occidentale per combattere l'eresia, attraverso l'attivazione di tribunali inquisitoriali.
Certamente i presupposti teorici dell'Inquisizione non possono essere fatti risalire a G. IX, poiché, come si è detto sopra, risalivano alle deliberazioni congiunte di Lucio III e Federico I (Ad abolendam, del 1184), di Innocenzo III (Vergentis in senium, del 1199), di Federico II e di Onorio III e di G. IX, sulla base degli impegni del 1220, assunti dallo stesso Federico all'atto dell'incoronazione: ma con G. IX il problema della regolamentazione dell'attività inquisitoriale si configurò come la prima effettiva applicazione su larga scala di provvedimenti fino ad allora - eccezion fatta per gli albigesi, sotto Innocenzo III - adottati in misura limitata. Si ritiene generalmente che con la costituzione Excommunicamus et anathematisamus, del febbraio-marzo 1231, in cui la normativa imperiale veniva assunta nel testo pontificio, si possa indicare l'inizio di un'azione papale antiereticale non più occasionale e limitata. L'intervento del braccio secolare si caratterizzò in maniera singolarmente spietata, come nel caso dello statuto del senatore romano Annibaldo, provvedimento che, se non dettato da G. IX, ne fu certamente ispirato e che stabiliva un rigido protocollo contro i condannati e i loro fautori e sostenitori. Tutto ciò in un decreto che verosimilmente era stato emesso subito dopo la decretale del febbraio 1231. Analoghe misure erano richieste nello stesso anno dalle autorità ecclesiastiche della Lombardia e della Toscana, determinando il coagularsi di quanti - indipendentemente dalla verifica della eventualità di una loro "eresia" - potevano temere rivalse e denunzie che non avevano alcuna motivazione religiosa, ma nascevano esclusivamente da vendette private, odi personali, ostilità politiche. Ghibellino ed eretico divennero più che mai sinonimi, con scarso o punto riferimento al parteggiare per l'imperatore - peraltro coinvolto nella lotta contro città del Settentrione d'Italia, ove con particolare accanimento si abbatté la persecuzione antiereticale. Ezzelino da Romano, sostenitore della causa di Federico, anche se con largo margine di azione autonoma, fu il bersaglio di una crociata promossa da G. IX, per il tramite dei vescovi di Reggio, Modena, Brescia e Mantova. E crociata voleva anche dire raccolta di decime, come nel caso di quella bandita contro gli Stadingi, contadini da tempo insediatisi alle foci del Weser, in Germania, accusati nel 1231 dall'arcivescovo di Brema - perché rifiutatisi di pagare le decime - di essere eretici. Furono letteralmente massacrati e solo tre anni dopo si ebbe da parte di G. IX un atteggiamento di mitigazione. In Germania, d'altronde, l'attività dell'Inquisizione si svolse a livelli diversificati, con intervento diretto di delegati del papa, non necessariamente frati predicatori, dotati di assoluta discrezionalità nei riguardi dei sospetti, degli ipotetici fautori come dei delatori, al di sopra di qualsiasi rispetto procedurale. Dopo la predicazione, che costituiva un tempo di grazia, la persecuzione si esercitava senza alcuna remora: o ci si riconosceva colpevoli, accettando la penitenza, o si era bruciati sul rogo. In questo contesto non fa meraviglia che si compisse ogni sorta di abuso, come quelli commessi da Corrado di Marburgo, il cui zelo frenetico nell'abbruciamento di decine di eretici rappresentò una responsabilità oggettiva del papa. Nel 1232 G. IX impose ai vescovi di Parma e Mantova di scomunicare il podestà di Bologna, che non aveva accolto le disposizioni antiereticali della Chiesa; già nel maggio del 1231 nuove inchieste erano state ordinate dal papa all'arcivescovo di Bourges e ai vescovi di Troyes e Auxerre; Tolosa vide l'intervento del vescovo insieme con quello dei predicatori, Pietro d'Alais e Rolando di Cremona; lo stesso avvenne a Narbona, a Carcassonne e a Bordeaux. Se ancora nel 1233 in Francia non si può parlare di un vero e proprio tribunale dell'Inquisizione, è solo perché la collaborazione dei vescovi fu pressoché totale. Ma il 13, 19, 20, 22 apr. 1233 venne formalmente commissionata ai frati predicatori l'azione inquisitoriale, nell'intento di sollevare gli ordinari diocesani da una parte del peso delle inchieste. È dubbio che questa giustificazione sia da accogliere e che non si trattò piuttosto dell'assicurarsi da parte del papa un intervento antiereticale, per mezzo dei domenicani o di collaboratori direttamente dipendenti dalla S. Sede, come era già avvenuto con Corrado di Marburgo in Germania: ma anche se si dovesse accettare la spiegazione, per l'atteggiamento di larga disponibilità mostrato dagli ordinari diocesani francesi a eseguire le prescrizioni papali, se ne dovrebbe concludere che la lotta all'eresia avesse raggiunto proporzioni tali da non poter essere in nessun caso promossa con i consueti mezzi procedurali. Ciò spiega sia i disordini contro l'Inquisizione in molte località della Francia meridionale, dove maggiormente si esercitò la repressione, sia il susseguirsi di incarichi inquisitoriali a vescovi, frati e altri agenti della S. Sede, spesso lasciati in una situazione incerta da parte del papa, allorché la popolazione delle città insorse contro le procedure sbrigative, le confische, le ingiustizie perpetrate dagli inquisitori. Così accadde nella Francia meridionale, in Italia a Bologna, Firenze, Siena e Verona, dove operò Giovanni da Vicenza e dove, essendo podestà Ezzelino, vennero bruciati vivi sessanta eretici in tre giorni; poi Giovanni, divenuto podestà nella sua città, venne imprigionato dai suoi stessi concittadini. Così fallì l'azione di Rolando di Cremona a Piacenza e di Moneta di Cremona a Bologna. Solo a Milano l'inquisitore Pietro di Verona ottenne un successo notevole, riuscendo a inserire negli statuti cittadini dei provvedimenti speciali contro gli eretici con l'accordo del podestà. In Umbria e nella Tuscia, dove G. IX fu costretto a recarsi, la contemporanea presenza del papa e dell'imperatore, intorno agli anni 1236-37, quando i rapporti tra G. IX e Federico II si erano definitivamente guastati, coinvolse la lotta antiereticale promossa da entrambe le autorità, ma non in azione coordinata, nelle rivalità e nelle guerre dei Comuni più importanti della regione, come nel caso di Viterbo (filofedericiana) e Orvieto (filopapale). Negli anni successivi alla vittoria di Federico II a Cortenuova (1237), G. IX mostrò di voler rivedere il suo atteggiamento sull'intera questione, concedendo specialmente nella Francia meridionale una pausa dell'attività inquisitoriale, anche per l'abile politica di Raimondo VII di Tolosa (maggio 1238).
Francesco, Chiara, i francescani e le clarisse, Domenico e i domenicani, l'Inquisizione furono aspetti di grande rilievo che coinvolsero il pontificato di G. IX: non furono però gli unici. Di indubbia importanza furono le decisioni prese da G. IX in merito alla vita ecclesiastica e al funzionamento della Curia, pur se l'attuazione del programma del concilio Lateranense IV di Innocenzo III fu condotta solo in parte, forse per il largo spazio lasciato agli Ordini mendicanti nel gestire i rapporti tra la società e la Chiesa, forse per l'impegno preminente della lotta contro Federico II e contro l'eresia. Devono comunque essere segnalati alcuni elementi di una riforma per il clero secolare, che con G. IX vennero particolarmente sottolineati.
A scorrere le centinaia di lettere dei Registri di G. IX, colpisce l'insistenza del papa sull'imprescindibile necessità che il clero si mantenesse casto. Nel dicembre del 1231 venne promossa un'inchiesta sul comportamento sessuale dell'arcivescovo di Colonia, del quale G. IX non volle specificare certi aspetti della condotta "ut taceamus turpitudines criminosas, que pudori relatui et auditui sunt horrori, licet eas fama, immo infamia publica non desinat divulgare" (Epistolae selectae, I, n. 459). Immoralità, illeciti commerci, dilapidazione dei beni ecclesiastici, omicidio, spergiuro sono peccati contestati, nel 1235, a un suffraganeo del patriarca di Grado; matrimonio di sacerdoti anche con vedove e successione dei figli di sacerdoti nelle cariche dei padri appaiono oggetto di richiamo e di condanna da parte di G. IX, così come venne condannata la pratica della simonia, largamente diffusa in Francia. Provvedimenti certo non nuovi nei vari programmi di riforma ecclesiastica che si erano succeduti dal sec. XI e da Gregorio VII in poi e la cui reiterazione è anche sintomo della sostanziale inefficacia delle infinite sanzioni ecclesiastiche emesse, nel corso di due secoli, sugli stessi argomenti, certo anche per una prevalente preoccupazione, che prendeva le mosse proprio dal concilio Lateranense del 1215, di condannare i mali, non di comprendere le loro motivazioni originarie, soprattutto all'interno di un organismo che coincideva ormai con una parte ragguardevole della società. Di questa sfasatura di attenzione è indubbiamente sintomo la serie di provvedimenti intesi a rafforzare il carattere centralizzante della monarchia papale, specialmente in materia fiscale e nell'ingerenza all'interno delle elezioni episcopali. Proprio con G. IX si iniziò quel processo di frequente ricorso a finanziamenti da parte di mercanti, per la politica di ampio raggio promossa dal pontefice. Si è detto delle decime per le crociate, per le spedizioni in Terrasanta, contro gli eretici e contro Federico II, ma c'è anche da notare che, specialmente con G. IX e con il successore Innocenzo IV, come si è osservato di recente, la rapida e non duratura crescita sociale di famiglie di mercatores romani è strettamente collegata con l'attività feneratizia da essi esercitata a favore di enti ecclesiastici, oltre che laici, e la conseguente preoccupazione dei papi - a cominciare da G. IX - di tutelare gli interessi di questi mercanti-banchieri che erano, date le necessità del Papato, una garanzia di standby finanziario che non poteva essere perduta (v. M. Vendittelli, Mercanti romani del primo Duecento "in Urbe potentes", in Roma nei secoli XIII e XIV: cinque saggi, a cura di é. Hubert et al., Roma 1993, pp. 89-135).
La costante attenzione per le entrate della Chiesa era del resto motivata dal fatto che non si trattava di necessità contingenti, perché la stessa lotta contro Federico II aveva assunto caratteri di uno scontro ideologico anche più netto di quanti se ne erano determinati con Gregorio VII ed Enrico IV o con Alessandro III e Federico I, per il fatto stesso che Federico II, con molta più nettezza e durezza di argomentazione dei predecessori, aveva mostrato una coscienza molto risentita della sua posizione regale e imperiale. L'imitatio Imperii da parte del Papato, che non era una novità assoluta, raggiunse, a partire da G. IX, forme di singolare significato. È sintomatica la circostanza, ricordata da A. Paravicini Bagliani, che G. IX progettasse di far coniare una moneta argentea dalla Zecca di Gaeta, sottomessa alla Chiesa nel corso della invasione del Regno di Sicilia susseguita alla prima scomunica di Federico II e alla sua partenza per la crociata: tale moneta avrebbe per la prima volta recato l'effigie di s. Pietro su di una faccia e quella del papa con l'indicazione del nome sull'altra, forse come contrapposizione a un'altra moneta coniata a uso interno del Regno, immediatamente posteriore all'incoronazione imperiale (1220), in cui Federico II appariva in trono. E forse il conio dell'"augustale", nel 1231, recante effigiato il busto dell'imperatore, potrebbe essere riconosciuto come risposta al progetto di G. IX (cfr. A. Paravicini Bagliani, Le chiavi e la tiara. Immagini e simboli del Papato medievale, Roma 1998, pp. 26 s., dove si troveranno altre indicazioni "iconiche" - restauro della facciata della basilica di S. Pietro, affreschi di Subiaco - collegate con il tema della monarchia papale). Il successore di Pietro era un re anche nella condotta di una guerra: le truppe pontificie che avevano invaso la Puglia nel 1229 recavano sui loro vessilli il simbolo delle due chiavi.
Di questa centralità della figura del papa nel progetto e nella realizzazione della monarchia pontificia furono anche elementi di rilievo i mutamenti che intervennero all'interno delle strutture stesse del governo della Chiesa di Roma, con particolare riguardo ai cardinali, che esaltavano a un tempo, con la loro partecipazione al governo della Chiesa per volontà del papa, gli aspetti gerarchici insiti nella Curia (la sublimazione del corpo cardinalizio non può che innalzare vie più la figura di colui che è a loro superiore, pur da loro esigendo collaborazione). Nella tendenza affermatasi proprio dagli inizi di quel secolo, i cardinali furono in larghissima parte italiani e francesi, con netta prevalenza dei primi e assenza di cardinali tedeschi a partire da G. IX; questi, inoltre, confermò la prassi di affidare il titolo cardinalizio a chi avesse una formazione universitaria, a Parigi o a Bologna. Sui dieci cardinali da lui creati, solo di due - Giacomo Pecorara e Riccardo Annibaldi - non si sa se fossero insigniti del grado di magister. Alla morte di Onorio III si contavano diciotto cardinali (cinque vescovi, sette preti, sei diaconi): il 18 sett. 1227, nel corso della prima promozione, avvenuta ad Anagni sei mesi dopo la sua elezione, G. IX creava nuovi cardinali (un vescovo, tre preti e un diacono) per supplire la scomparsa di cinque del precedente Collegio, avvenuta nei mesi da marzo a settembre; una seconda promozione avvenne nel luglio 1229, a Perugia, e riguardò Giacomo da Vitry, vescovo di Tuscolo; una terza a Rieti, nel 1231, per Giacomo Pecorara, vescovo di Preneste; una quarta, a Roma (29 maggio - 25 giugno 1238) per Roberto di Somercote (diacono di S. Eustachio) e Riccardo Annibaldi (diacono di S. Angelo). Dell'attività e del rilievo che per l'azione di G. IX ebbero questi cardinali non è in questa sede il caso di trattenersi: ma converrà soffermarsi su alcuni di essi e sui "famigli" dei più importanti, giovandosi dell'ottima ricerca di A. Paravicini Bagliani (Cardinali di Curia e "familiae" cardinalizie dal 1227 al 1254, I-II, Padova 1972). È così importante segnalare che proprio alla familia di Giovanni d'Abbeville, primo cardinale vescovo creato da G. IX, apparteneva quel Raimondo di Peñafort, terzo generale dell'Ordine domenicano, cui G. IX commise il compito di raccogliere il Liber extra, di cui si dirà innanzi.
Altra personalità di spicco è quella di Sinibaldo Fieschi, promosso nella prima creazione di G. IX del 18 sett. 1227 prete di S. Lorenzo in Lucina. Era stato, forse, suo segretario nel 1217, sotto il pontificato di Onorio III; nel 1226 è testimoniato come "uditore" e pochi mesi prima della promozione svolgeva le funzioni di vicecancelliere di Santa Romana Chiesa: carica di altissimo prestigio affidatagli per la nota competenza giuridica, testimoniata dagli Apparatus in V libris Decretalium. Una serie di premesse che certamente favorì la sua ascesa al pontificato il 25 giugno 1243. La Curia si stava trasformando in una sorta di "gabinetto privato" del papa; anche se è innegabile che G. IX sapeva scegliersi - come avrebbero saputo fare i suoi successori - i collaboratori: e basterà ricordare il caso di Alatrino.
Nell'ampio orizzonte che la società del tempo offriva all'azione del papa, una menzione a parte deve essere riservata all'Università, intesa come strumento di preparazione e controllo della formazione dei ceti dirigenti e amministrativi della monarchia papale, non diversamente da quanto sarebbe avvenuto con le grandi monarchie nazionali europee. I precedenti della situazione dell'Università che in Italia doveva sollecitare più di altre l'attenzione di G. IX, quella bolognese, sono esaminati in dettaglio in Enciclopedia dei papi, II, p. 376. Anche tenendo conto dell'interesse per Bologna e per la sua Università, nel momento in cui il controllo della stessa s'era decisamente spostato verso il papa, sembra che si debba però riconsiderare la valenza antibolognese che avrebbe assunto la fondazione dell'Università di Napoli, voluta nel 1224 da Federico II, che peraltro non ebbe quei caratteri di decisione improvvisa che soli spiegherebbero un atto di ritorsione. Il provvedimento di Federico II contro lo Studium bolognese ha tuttora una datazione difficile, anche se il 1225 può rappresentare un riferimento cronologico sufficientemente attendibile per la cassazione specifica dello Studium (cfr. per tutta la questione O. Capitani, La fondazione dell'Università di Napoli e lo Studio di Bologna: alcune riflessioni, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling - M. Reale, Napoli 1999, pp. 155-174). G. IX era stato coinvolto nelle vicende universitarie di Bologna nel più vasto contesto della sua attività di legato, ma anche dopo l'irrimediabile inasprirsi delle relazioni con Federico II, si mantenne nelle grandi linee che in proposito erano state tracciate dal predecessore. Bologna, semmai, poteva rappresentare un riferimento obbligato per entrambi i contendenti: nel 1231 l'imperatore spediva allo Studium bolognese l'Aristotele latino di Michele Scoto, incurante dei possibili rilievi che una commissione apposita voluta da G. IX avrebbe potuto pronunciare sulla traduzione e sui contenuti di quelle opere; nel 1234 G. IX, proprio a Bologna, come si dirà, avrebbe inviato il Liber extra.
Diversamente accadde a Parigi e a Oxford.
Il pontificato di G. IX coincise, per l'Università di Parigi, con la crisi di quell'ordinamento che si era stabilito nei primi anni Venti del sec. XIII e che aveva visto il ridimensionamento del potere del cancelliere del capitolo cattedrale, strumento dell'ordinario diocesano, osteggiato dagli studenti e guardato con sospetto anche dal papa (Onorio III), che, come a Bologna, tese a sostituirsi all'ordinario nel controllo della corporazione, che - in questo caso - vedeva raggruppati studenti e docenti ("universitas magistrorum et scholarium"). Contestualmente, tra il 1215 e il 1217, erano approdati predicatori e minori che si erano uniti agli studenti, sulla riva sinistra della Senna, dove gli studenti delle arti si erano trasferiti da prima del 1212, nell'ambito della giurisdizione dell'abate di S. Genoveffa e dove, in seguito ai contrasti con il cancelliere, migrarono studenti e docenti di teologia e giuristi.
In un primo tentativo di normalizzare la vita degli studenti e dei docenti e di ristabilire un accordo con il cancelliere Filippo, il papa inviava, nel 1228, il canonico Guglielmo d'Alvernia, che però si schierò dalla parte del cancelliere, provocando nuovi disordini e un esodo massiccio della intera Università a Tolosa, Angers, Reims e Orléans, nonché in Italia, Inghilterra e Spagna. A questo punto, ottenuto anche l'appoggio di Luigi IX, G. IX convocò a Roma i rappresentanti del sovrano e dei maestri - Guglielmo di Auxerre, Goffredo di Poitiers, Stefano Baatel - e con la bolla Parens scientiarum (13 apr. 1231) fornì un nuovo statuto all'Università di Parigi (sulle novità introdotte dalla Parensscientiarum e sulle ripercussioni che essa ebbe per l'Università di Parigi si rimanda a Enciclopedia dei papi, pp. 377 s.). Nel periodo della secessione, compreso tra il 1228 e il 1231, s'era comunque determinato un evento di notevole importanza: i teologi avevano continuato la loro attività a S. Giacomo, la casa-cappella ove si erano riuniti i predicatori nonostante le sostituzioni operate dal vescovo di Parigi; un domenicano, Rolando da Cremona, ottenne la licentia docendi da Guglielmo d'Alvernia nel 1229; nel convento di S. Germano iniziò il suo insegnamento Alessandro di Hales nel 1231, sì che a Parigi le cattedre di teologia si divisero tra secolari e regolari, in una situazione di equilibrio, che si manterrà sino a quando i primi non si sentiranno minacciati dai mendicanti, favoriti da G. IX, che ribadì, nel periodo 1237-38, la normativa della Parens scientiarum contro tentativi del vescovo parigino di ignorare le procedure dell'esame preliminare, cui dovevano sottoporsi i candidati. A conferma di una linea consapevole di controllo da parte del Papato dell'attività delle università, nel 1229 venne stabilito, nel centro della regione albigese, lo Studium di Tolosa, con l'evidente finalità di contrastare l'eresia.
Meno appariscente l'intervento papale nelle vicende di Oxford, anche se a un legato pontificio, il cardinale Niccolò di Tuscolo, si dovette il riconoscimento ufficiale della comunità di studenti e docenti che avevano abbandonato la città in seguito all'uccisione di tre studenti: nel 1214 il legato pontificio impose agli abitanti di Oxford una serie di condizioni a favore soprattutto degli studenti. A differenza di quanto avveniva a Parigi, a Oxford la figura del cancelliere, scelto dal vescovo di Lincoln, acquistò una posizione sempre più importante come elemento di riferimento non solo dell'ordinario, ma anche delle altre forze cointeressate al buon andamento dell'Università, cioè gli studenti e l'autorità regia. La figura preminente di cancelliere a Oxford, durante il pontificato di G. IX, fu quella del filosofo e naturalista Roberto Grossatesta, che mantenne la carica anche dopo essere divenuto vescovo di Lincoln, sino alla morte nel 1253. Oxford accolse gli studenti allontanatisi da Parigi nel periodo turbolento del 1229-31; e dal 1229, data in cui si costituì la prima scuola francescana proprio in Roberto Grossatesta quella scuola trovò il suo primo lettore in teologia. Anche questo fu un risultato del favore accordato da G. IX ai mendicanti in genere e ai minori in specie, tenuto conto dell'importanza che a Oxford raggiunse la scuola francescana.
Il 5 sett. 1234, con la bolla Rex pacificus, inviata ai dottori e agli scolari di Parigi, Bologna e Padova, G. IX comunicava che "ad communem et maxime studentium utilitatem per dilectum filium Raymundum […] in unum volumen, resecatis superfluis, providimus redigendas [diversas constitutiones et decretales epistolas praedecessorum nostrorum in diversas dispersa volumina]" (v. Regesta pontificum Romanorum, nn. 9693, 9694; Registres de Grégoire IX, n. 2083).
Si è solitamente interpretata la decisione di G. IX come risposta "politica" alla promulgazione delle costituzioni di Melfi del 1231 di Federico II, miranti a redigere uno statuto normativo coerente dello Stato federiciano: ciò è possibile, anche se si deve constatare che la risposta di G. IX sarebbe giunta tardiva, se tale fosse stato lo scopo preminente. È più probabile ritenere che la decisione di G. IX si inserisse in quello che poco prima della metà del sec. XIII fu un diffuso processo di codificazione coerente di una normativa caotica, ripetitiva, contraddittoria che, nonostante lo sforzo unitario, ma non ufficiale, compiuto da Graziano, a metà del sec. XII, costituiva, a sec. XIII inoltrato, il campo del diritto canonico. Non si dimentichi infatti che dopo Graziano s'erano aggiunte al Decretum altre raccolte di decretali, le più celebri delle quali - le Quinque Compilationes antiquae - avevano accumulato materiale canonistico dal periodo che andava dal 1140 (Graziano) al 1216 (Onorio III): la Compilatio I (opera di Bernardo di Pavia), del 1190, raccoglieva decretali di Alessandro III, Lucio III, Urbano III; la Compilatio II si riferisce soprattutto ai pontificati di Clemente III e Celestino III e in qualche modo colmava le lacune tra la Compilatio I e la Compilatio III; la Compilatio III di Pietro di Benevento, che comprendeva, sino al 1212, le decretali dei primi anni del pontificato di Innocenzo III, che inviò, per la prima volta, la compilazione ai professori e studenti dello Studium di Bologna, sanzionando l'autenticità delle normative contenute nella Compilatio, con la dichiarazione personale della provenienza dai registri della Cancelleria pontificia del materiale documentario: affermazione sulla quale, per quanto concerne una parte non modesta del materiale, sussistono molti dubbi e perplessità. Alla fine del pontificato di Innocenzo III uno dei più celebri magistri dello Studium bolognese, Giovanni Teutonico, raccolse in una collezione le decretali dello stesso papa (1216) e chiese al medesimo di autenticarla, senza ottenere una decisione positiva. Ciò nonostante la raccolta (Compilatio IV) ebbe successo in quanto raccoglieva i canoni del IV concilio Lateranense (1215), particolarmente importante per l'organizzazione della vita ecclesiastica; nella Compilatio V (1225-26) avviata da Tancredi di Bologna (1180/1190-1236), tutte le decretali erano riprese dai Registri della Cancelleria pontificia. Proprio nel senso di comprovare una tendenza della cultura giuridico-politica, comune alla monarchia di ispirazione laica come a quella di ispirazione ecclesiastica, si deve avvertire che l'indicazione generica di "decretali pontificie" può trarre in inganno. Sono, le decretali, propriamente le risposte a quesiti posti alla massima autorità del pontefice che, quindi, assumevano carattere normativo; sono costituzioni (o decreta), decisioni autonome del pontefice, nella sua assoluta discrezionalità giurisdizionale.
Per concludere, va sottolineato come un aspetto particolare dell'attività di G. IX fu costituito dall'impulso dato alle canonizzazioni. Oltre a quella di Francesco e di Domenico, più su ricordate (ma per Domenico l'analisi della canonizzazione è stata compiuta in maniera del tutto esauriente da L. Canetti, L'invenzione della memoria. Il culto e l'immagine di Domenico nella storia dei primi frati predicatori, Spoleto 1996), si vogliono qui ricordare la canonizzazione di Antonio di Padova (30 maggio 1232), Vigilio di Salisburgo (1233) ed Elisabetta di Turingia (1235): per il significato delle canonizzazioni di appartenenti agli Ordini mendicanti, v. Enciclopedia dei papi, II, p. 379. La maggiore rilevanza data ai "santi nuovi" - con riferimento al periodo della loro esistenza - era anch'essa espressione della riaffermazione del prestigio del Papato, che esaltava proprio in questi "santi nuovi" il prestigio che per volere divino si conferiva alla Chiesa di Roma: elemento da tener presente nell'atto stesso di analizzare la portata ecclesiologica delle bolle di canonizzazione Mira circa nos e Fons sapientiae patris, rispettivamente dedicate a Francesco e Domenico.
Fonti e Bibl.: Per le fonti sul pontificato e sulla vita di G. IX è indispensabile ricorrere al materiale documentario compreso in Regesta pontificum Romanorum, a cura di A. Potthast, I, Berolini 1874, pp. 680-939; Registres de Grégoire IX (1227-1241), I-II, a cura di L. Auvray, Paris 1896-1907; Mon. Germ. Hist., Epistolae saec. XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, a cura di C. Rodenberg, I, Berolini 1883, pp. 261-728. Ovvio il ricorso alla documentazione imperiale relativa a Federico II, in modo particolare a Mon. Germ. Hist., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, a cura di L. Weiland, Hannoverae 1896; J.F. Huillard Bréholles, Historia diplomatica Friderici secundi, I-VII, Parisiis 1852-61; J.F. Böhmer, Regesta Imperii, V, (1198-1272), Frankfurt 1831 e tutte le altre fonti che si possono trovare con dati aggiornati nella voce di N. Kamp, Federico II di Svevia, in Diz. biogr. degli Italiani, XLV, Roma 1995, pp. 743-758. Per le altre fonti e la bibliografia si rinvia a O. Capitani, G. IX, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 379 s. Per un costante aggiornamento è indispensabile rifarsi a Medioevo latino, I (1980) e successivi volumi, nonché alla bibliografia per pontificato presente in Archivum historiae pontificiae, I (1963) e successivi volumi.