Gregorio IX
Ugolino dei conti di Segni nacque in Anagni, in data che deve essere collocata verso il 1170, contrariamente a quanto si è pensato (1140!); sempre ad Anagni dovette ricevere una prima formazione culturale alla scuola vescovile.
Di scarso aiuto, per una ricostruzione della biografia di G. che pretenda di delineare un profilo attendibile, non di maniera e dotato di un minimo di corredo di dati di fatto, è quanto si legge in R.I.S., III, 1, 1723, coll. 575-87 e che è riprodotto in Le Liber censuum de l'Église romaine, II, a cura di Paul Fabre-L. Duchesne-Pierre Fabre-G. Mollat, Paris 1952, pp. 18-36. Si tratta di una Vita che fa parte di un gruppo di biografie pontificie che il Muratori, sulla fede del Baronio, attribuì al domenicano Niccolò Roselli cardinale di Aragona, vissuto al tempo di Innocenzo VI, cardinale del titolo di S. Sisto dal 1356, già inquisitore "haereticae pravitatis" in Spagna. Ma quale possa essere la soluzione data al problema posto da questa "biografia", c'è da rilevare che essa è incompleta, limitando la narrazione al periodo del ritorno di Federico II dalla crociata. Né migliore o più cospicuo bottino si trae dai profili di Bernard Guy o dalla biografia del Platina (cfr. Liber de vita Christi [...], in R.I.S.², III, 1, a cura di G. Gaida, 1913-32, pp. 231-34). I veri elementi per una biografia accettabile - nel senso che oggi si intende e come dimostra la stessa letteratura biografica su G. - sono costituiti dalla documentazione fornita sia dalle lettere di Onorio III sia da quelle dello stesso Gregorio IX. Dalla documentazione quindi in qualche modo "oggettiva" di un'attività orientata alla costruzione di un organismo potente, non ancora egemonico, nel quadro politico-ideologico dell'Europa occidentale: l'attuazione del disegno di Innocenzo III. Assai di recente, A. Vauchez ha sottolineato che, pur accettando le riserve di W. Maleczek (Papst und Kardinalskolleg von 1191 bis 1216 [...], Wien 1984, pp. 126-33), Ugolino poteva ben essere passato attraverso il Capitolo della cattedrale di Anagni, dove era nato "natione Campanus, de Anagnia, nobiliori eiusdem provincie civitate, patre de comitibus Signie, felicis memorie dominum Innocentium papam tertium tertio gradu consanguinitatis attingens, matre vero de potentioribus Anagninis exortus, [...] liberalium utriusque iuris peritia eminenter instructus [...]". Che Ugolino dei conti di Segni si fosse addottorato a Bologna "in utroque", dove forse studiò diritto, è cosa meno certa della sua presenza alla Facoltà di teologia a Parigi, dove conseguì il titolo dottorale ("sacrae paginae diligens et doctor" lo dice la biografia, più in alto citata), anche se, comunemente, è considerato tra i papi "giuristi" che - a partire da Innocenzo III e sino ad Innocenzo IV e Bonifacio VIII - avrebbero contrassegnato una fase storica decisiva del papato medievale.
La carriera di Ugolino nell'ambito della Curia iniziò non appena Lotario dei conti di Segni ascese al soglio pontificio. Allora fu nominato cappellano papale e, nello stesso 1198, cardinale diacono di S. Eustachio. Nel 1199 fu inviato in Italia meridionale presso Marcovaldo di Anweiler, che era stato un deciso sostenitore di Enrico VI (morto nel 1197), nel tentativo di mediare tra le fazioni che si erano costituite per la reggenza del Regno di Sicilia e l'educazione del futuro Federico II: Gualtieri di Palearia, cancelliere del Regno, da un lato e Marcovaldo dall'altro. Non riuscì però a impedire che quest'ultimo si impadronisse (nel 1201) del fanciullo che aveva appena sette anni. Creato cardinale vescovo di Ostia nel 1206, Ugolino si recò, sempre come legato di Innocenzo III, in Germania nel 1207 e nel 1209, nel corso delle vicende relative alla successione imperiale ed alla rinuncia di Ottone IV di Brunswick nei riguardi del Regno di Sicilia. Con l'elezione di Onorio III, Ugolino mantenne la posizione di primo piano che aveva acquistato con Innocenzo III, soprattutto per le missioni in Italia settentrionale. La più importante fu quella del 1221, compiuta subito dopo l'elezione imperiale di Federico per cercare di comporre le lotte interne a tanti Comuni dell'Italia centro-settentrionale e per accertarsi di persona della diffusione dell'eresia. L'accoglienza di Ugolino da parte di Federico II fu non solo formalmente cordiale, ma anche ispirata dal convincimento che all'Impero avrebbe giovato mostrarsi a fianco della Chiesa nella lotta antiereticale. Senonché Ugolino aveva avuto anche il compito di promuovere la nuova crociata, dopo la disastrosa conclusione della quinta, nel 1221, a Damietta in Egitto, dove le navi inviate da Federico II erano arrivate quando la città era già caduta.
Si possono distinguere tre fasi nell'azione di Ugolino a favore della crociata: una prima (fine marzo-fine luglio), con soste a Siena, Firenze, forse Pisa, Piacenza, Milano, Reggio Emilia, nelle quali ottenne l'impegno delle autorità comunali per armati e per collette: 6 soldi per focolare a Siena, 20 soldi pisani per ogni focolare di cavaliere e 10 per ogni focolare di armato a piedi; Lodi si obbligò a mantenere quattro crociati all'anno; Verona si dichiarò disposta a pagare 160 libbre veronesi per ogni cavaliere che si fosse recato in Terrasanta e 20 per ogni armato a piedi. Nel corso della seconda fase (agosto 1221) Ugolino, insediatosi a Bologna, prima nella collegiata di S. Maria di Reno, poi nell'episcopio, riuscì ad avviare trattative per la composizione di dissidi sorti a Milano, Ferrara, Treviso e Belluno, in lotta con il patriarca di Aquileia ed il vescovo di Feltre e Belluno. Ottenne impegni in denari e uomini per la crociata dal podestà di Modena e della stessa Bologna. E tuttavia i preparativi dell'impresa andarono a rilento: il comandante designato dell'esercito crociato, Guglielmo di Monferrato, chiese un impegno finanziario notevolissimo (Onorio III aveva promesso 15.000 marche d'argento) e si poté esaudire la richiesta solo attraverso abili giochi finanziari e contabili (dilazioni di pagamenti, anticipi sulle collette di Germania, ricorso a prestatori italiani, ecc.), con coinvolgimenti sempre più complessi della Curia in transazioni finanziarie di cui si dirà anche in seguito. La terza fase della legazione (settembre-ottobre 1221) vide Ugolino ancora impegnato per la crociata: Milano e Vercelli si offrirono di finanziare l'invio di crociati a condizione che essi partissero insieme; nel Veneto, affidata la colletta al vescovo di Padova, si riuscì a compilare una lista di offerte ammontanti a 216 libbre 7 solidi 6 denari, che tuttavia non si riuscì a raccogliere subito. Alla fine di ottobre, Ugolino rientrò a Bologna, dove si tirarono le somme della legazione e dove venne depositato il ricavato della colletta (per una disamina dettagliata della missione è indispensabile il lavoro di Ch. Thouzellier, La légation en Lombardie du cardinal Hugolin [1221]. Un épisode de la cinquième croisade, "Revue d'Histoire Ecclésiastique", 65, 1950, nrr. 3-4, pp. 508-42). La crociata non si fece per il momento e sarebbe stato il punto iniziale del lungo conflitto tra Federico II e Ugolino (poi G.): ma la legazione in Lombardia permise a questi di trarre una preziosa esperienza della complessità della politica comunale italiana e degli effettivi spazi di manovra che essa poteva riservare alla politica ecclesiastica futura.
Complessi furono i rapporti tra G. e monarchie e potentati europei. Soprattutto quelli con Federico II. A tal proposito occorre però senz'altro rivedere il giudizio consolidato dalla storiografia, secondo il quale quei rapporti si sarebbero configurati come conflittuali sin dall'inizio del pontificato di G. (19 marzo 1227). Il papa, secondo questo giudizio, avrebbe ripreso la politica "protagonista" di Innocenzo III, morto in un momento non favorevole alla monarchia papale e favorevole, invece, allo svevo: impostazione che già così sommariamente esposta tradisce una forte caratterizzazione ideologica. E proprio a Federico II G. annunziava "electionem de se ipso factam, post mortem Honorii", in una lettera che è conservata nella Historia diplomatica Friderici secundi, III, pp. 1-3.
È indubbio che il problema della crociata, dopo le deludenti conclusioni della "crociata dei Veneziani" si presentava di urgente attuazione: ma sarebbe erroneo o frutto di preconcetto immaginare che di questo non volesse e dovesse tener conto lo stesso Federico II. È opportuno, precisare, fin da questo momento, che in pochi casi, come in quello di G., la storiografia, specialmente di parte cattolica, ha presentato la vicenda dei rapporti con Federico II di Svevia in termini non solo quasi esclusivamente ispirati da preconcetti ideologici, ma anche deliberatamente distorti o lacunosi, favorita, in ciò, dalla perdurante assenza di una biografia sufficientemente esauriente, serena e documentata di Ugolino dei conti di Segni. Giudizi forzati o addirittura erronei si colgono nella trattazione rivista della Storia della Chiesa (X), così come nella voce dell'E.C. (VI, coll. 1134-39) o in quella, firmata da A. Paravicini Bagliani, nel più recente Dizionario storico del Papato (a cura di Ph. Levillain, I, Milano 1996, s.v., pp. 709-12). Il massimo di obiettività possibile nel valutare l'opera di G., allora, consisterà nel considerarlo negli aspetti più significativi del suo operato in un contesto fortemente influenzato dagli indirizzi impressi dai suoi predecessori alla soluzione di problemi che permasero sostanzialmente identici (Regno di Sicilia e Impero, città dell'Italia centro-settentrionale, crociata) da Innocenzo III a Innocenzo IV, per oltre mezzo secolo. Una prospettiva obiettiva, quindi, si coglie non facendo un confronto con alcuni predecessori - Innocenzo III, Onorio III - , o con uno dei successori - Innocenzo IV -, ma con il quadro politico generale. Per esempio, l'immagine cara a tanta storiografia di un Onorio III mite e debole contrapposta a quella di G., deciso ed energico, è completamente da ricusare. Anche per quanto concerne il fenomeno francescano, come si vedrà.
È stato di rado notato che, anche al di là degli impegni assunti da Federico all'atto dell'incoronazione imperiale del 1220, Onorio III aveva indicato a Niccolò, cardinale legato vescovo di Frascati ed al suddiacono e cappellano Alatrino, l'opportunità di sondare le intenzioni del re a proposito dell'unione del Regno con l'Impero e in modo particolare della spedizione in Terrasanta, per la quale era opportuno che i due destinatari della comunicazione di Onorio III "necessitatem vero Terre Sancte exaggeretis, sicut res ipsa deposcit, insinuantes, regie, celsitudini, quomodo fiducia et spes illius negotii in eo post Deum quasi tota dependet [...] et addatis, quod nisi in instanti passagio exercitui christiano magnifice succurratur, est procul dubio formidandum, ne predictum negotium Terre Sancte penitus dissolvatur" (Friderici II Constitutiones, in M.G.H., Leges, nr. 83, p. 105). Lo stesso Ugolino, vescovo di Ostia, d'altra parte, incaricato da Onorio III del "negotium crucis Christi", riceveva da Federico II, il 10 febbraio 1221, una calorosissima lettera di congratulazioni per la nomina a legato per la crociata, con espressioni di altissima stima e devozione e la più ampia assicurazione di mantenere l'impegno "quod magis humeris nostre maiestatis incumbit", mettendosi a completa disposizione delle decisioni che in proposito avrebbe assunte il futuro Gregorio IX. Difficile, pur fatta ogni concessione alla retorica ed alla diplomazia, pensare a deliberata ipocrisia da parte dell'imperatore nei riguardi di Ugolino; molto più opportuno valutare sino in fondo le preoccupazioni espresse da Onorio III a Niccolò e ad Alatrino, più in alto riportate, circa l'ineluttabilità dell'impegno crociato come segno di credibilità del futuro imperatore e, dopo la nomina di Ugolino a cardinale legato per la crociata, della stessa Chiesa romana, visto che la rilevanza della nomina di Ugolino non era sfuggita nemmeno a Federico II, che non esitava ad attribuire alla personalità del futuro pontefice un particolare carisma per l'impresa affidatagli, della quale nessun altro sarebbe stato più degno. La responsabilità del successo dell'impresa era così divisa tra l'imperatore ed Ugolino: il quale si trovava collocato a fianco di Federico nella duplice funzione di rappresentante della Curia e di "osservatore" impegnato della effettiva volontà di Federico di non dilazionare la crociata. Né si può dimenticare che una mossa a favore dei crociati impegnati a Damietta (1221) fu compiuta dall'imperatore, con l'invio della flotta in aiuto ai crociati: l'arrivo delle navi avvenne troppo tardi, ma l'imperatore s'era adoperato. Le ragioni delle continue dilazioni potevano, e forse dovevano, dipendere dalla mutevolezza dello stato dei rapporti tra la Sede apostolica e Federico II (questione della nomina di prelati siciliani, invasione del Ducato di Spoleto).
In un riesame della situazione determinatasi per l'improvvisa azione militare dello scalco imperiale Gunzelino di Wolfenbüttel, in territori più volte riconosciuti all'autorità della Sede apostolica da parte dello stesso Federico II, ho avuto modo di sostenere che quanto aveva turbato i pur discreti rapporti tra Onorio III e l'imperatore non era stata la questione della credibilità, bensì una serie di difficoltà interne al sistema di potere regio ed imperiale svevo venutosi a creare nell'Italia centrale - e non solo in quella - dopo la morte di Enrico VI. Il non mai risolto problema degli equilibri tra funzione imperiale, sovranità papale ed ambizioni egemoniche delle città in vario modo legate ad un "Patrimonium beati Petri" decisamente avviato ad assumere le caratteristiche di una entità "statuale" e pertanto contrastante le ambizioni di "libertà comunale" che la politica delle "recuperationes" iniziatasi con Innocenzo III, in opposizione alle rivendicazioni di Enrico VI, aveva indubbiamente stimolato. Ugolino, nel momento in cui diventava papa, non doveva innovare nulla, ma decidere se proseguire nella politica di Onorio III, ben esperto della situazione giuridico-politico-patrimoniale dell'Italia centro-settentrionale, chiave di volta nei rapporti tra papato ed Impero, o trovare nella crociata un'occasione per mettere in discussione la credibilità dell'imperatore. L'invocare il mancato adempimento della promessa di intraprendere la crociata poteva ben rappresentare un diversivo di rivalsa di fronte al sostanziale successo della politica imperiale che privilegiava il mantenimento del collegamento territoriale tra l'Italia settentrionale e il Regno di Sicilia: il significato della sconfessione dell'operato di Gunzelino di Wolfenbüttel - e l'accoglimento di fatto della sconfessione federiciana da parte di Onorio III - era proprio la migliore prova che insistere sulla questione "formale" dell'obbligo della crociata rappresentava solo una contropartita al disegno imperiale "vincente" di ristabilimento di un antico equilibrio di sovranità e pariteticità tra papato ed Impero nelle Marche e nel Ducato di Spoleto. In ogni caso, il rinvio al 1227 della spedizione crociata - quindi l'oggettivo riconoscimento delle ragioni federiciane ed anche di politica interna sia papale sia imperiale - era stato concordato con Onorio III: il rifiuto della "giusta causa" per quel rinvio, poteva anche significare che G. aveva bisogno di riprendere la trama di un disegno politico papale nel quadro complessivo dei rapporti tra i due poteri universali che però sconfessava la sperimentazione di una nuova collaborazione tra papato e Impero intrapresa da Onorio III. È difficile stabilire che proprio questo volesse G., anche alla luce di quello che avvenne allorché, partito Federico per la crociata e costretto a rientrare per l'esplodere di un'epidemia nel suo esercito crociato (agosto del 1227), il pontefice scomunicò l'imperatore il 29 settembre 1227, nella cattedrale di Anagni. Si ha piuttosto l'impressione che G. volesse giocare d'anticipo rispetto all'imperatore, proprio nel convincimento che questi, ora, fosse realmente intenzionato a compiere comunque la crociata.
Questa caratteristica si può cogliere anche per le questioni relative alle città marchigiane, per le quali la nomina del già ricordato Alatrino come legato pontificio era avvenuta prima di quella di Rainaldo di Spoleto, come legato imperiale. Ma giocare d'anticipo presupponeva, a parte ogni questione relativa allo scontro fra due ideologie universali, una forza militare che il papa non aveva: e proprio la tensione riapertasi tra papa e imperatore condannò all'insuccesso la missione di Alatrino, perché spinse molte delle più importanti città delle Marche a riprendere l'abituale politica di equidistanza dai due contendenti e a svolgere la trama, anch'essa tradizionale, delle alleanze fra gruppi di Comuni contro altri gruppi, come avvenne il 2 ottobre 1228, quando Osimo, Recanati, Numana, Castelfidardo, Cingoli, Fano e Senigallia, di orientamento piuttosto filoimperiale, si coalizzarono contro Pesaro, Ancona e Jesi e a poco valse il ricorso di G. ad Azzo VII d'Este che era stato investito sin da Onorio III del feudo della Marca. Va anche notato che solo quando apparve chiaro che la situazione nella regione stava degenerando verso il collasso di ogni forma di controllo da parte della Chiesa, intervenne il legato imperiale Rainaldo di Spoleto: ma probabilmente non per rimettere in discussione la questione della sovranità sul territorio marchigiano. Sembra doversi accettare il giudizio di W. Hagemann quando sostiene l'improbabilità che Federico II, "animato com'era dall'unico desiderio di condurre felicemente in porto la sua crociata", ritenesse opportuno riproporre la questione dello "stato della Chiesa", per affrontare poi le complicazioni dall'esito imprevedibile che sarebbero scaturite da ciò. Ma questo non significava che la politica di G. avesse dato un buon esito: essa consentì a Federico II di potersi presentare agli occhi dei Comuni delle Marche come il solo garante della pace nella regione per il manifesto fallimento dell'azione svolta dal papa, la cui responsabilità nel precipitare della situazione veniva ricordata in una sorta di manifesto politico dell'imperatore, inviato al Comune di Civitanova il 21 giugno 1228, alla vigilia della partenza personale di Federico per la crociata.
La partenza del sovrano era stata preceduta da una piccola spedizione di cinquecento cavalieri; l'esercito crociato - non numeroso - con Federico salpò da Brindisi, toccò Cipro e il 7 settembre dello stesso anno giunse a S. Giovanni d'Acri. La collaborazione della maggior parte degli Ordini cavallereschi e delle autorità ecclesiastiche venne a mancare per la scomunica - reiterata nel marzo 1228 da G. - dell'imperatore, cui comunque riuscì di stipulare con il sultano d'Egitto, al-Kamil, nel febbraio 1229, un accordo decennale in virtù del quale Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, con una fascia costiera, venivano restituite ai cristiani. Federico II cingeva la corona di re di Gerusalemme e si presentava vittorioso di fronte a un papa, che s'era spinto sino a sciogliere dal giuramento di fedeltà i sudditi e ad adoperarsi per l'elezione di un nuovo imperatore. Fu questo un altro errore della politica precipitosa di G., che, volendo rispondere agli attacchi portati nelle Marche e nel Ducato di Spoleto da Rainaldo, reggente del Regno di Sicilia, invase quest'ultimo, con un esercito costituito da milizie pontificie e da fuorusciti siciliani, al comando di un legato papale e di Giovanni di Brienne. Dopo iniziali successi militari presso Montecassino e qualche moto di ribellione, dovuto alla falsa notizia della morte dell'imperatore in Oriente, bastò il sollecito ritorno a Brindisi di Federico (giugno 1229) per far fallire sia l'azione militare di G., sia le sue speranze di costringere l'imperatore ad una resa umiliante. Le terre invase dalle truppe pontificie furono riconquistate, città e feudatari che s'erano schierati con il papa furono puniti e, dopo una serie di trattative, mediate dal gran maestro dell'Ordine Teutonico, Hermann von Salza, e dal cardinale Tommaso di Capua, G. e Federico II sottoscrissero la pace di San Germano (estate 1230).
Nei numerosi capitoli dell'accordo, G. otteneva che l'imperatore facesse importanti concessioni a favore della Chiesa siciliana e che cancellasse le città dell'Italia settentrionale dal bando dall'Impero, ma dovette riconciliarsi con l'imperatore ed accettare che i rapporti tra Chiesa romana e Impero riprendessero su di un piano apparentemente identico a quello che aveva indicato Onorio III. In realtà, le cose erano mutate: e se Federico poteva trarre profitto dalla "tregua" stabilita con il papa per dedicarsi completamente al riordino dell'assetto giudiziario, fiscale e amministrativo del suo Regno, G. dovette meditare, con maggiore oculatezza, sui mezzi con i quali avrebbe dovuto riprendere il conflitto con l'imperatore: dacché esso non poteva essere evitato.
Oltre alla questione delle Marche, oltre l'incombere del temutissimo accerchiamento del "Patrimonium", restava in sospeso la situazione delle città dell'Italia settentrionale e della cosiddetta seconda Lega lombarda.
La questione delle città lombarde s'era riproposta sin dai tempi di Onorio III e della Dieta di Cremona del 1226 alla quale i Comuni italiani convocati "pro reformatione pacis, extirpanda heretica pravitate et Terrae Sanctae negotio" s'erano opposti recando perciò offesa non solo all'imperatore, ma alla stessa Chiesa. I Comuni, raccoltisi in una rinnovata Lega lombarda, vennero posti al bando dell'Impero. Ma di fatto anche per questa ragione la crociata non si fece, perché la Lega impedì ai principi tedeschi di recarsi nella città. Onorio III aveva compreso allora (N. Kamp, p. 749) "che la libertà della Chiesa romana era garantita dalla libertà dei Comuni piuttosto che dal rispetto dell'integrità territoriale dello Stato della Chiesa". Di conseguenza aveva frapposto la sua mediazione nella disputa tra Lega e Federico II, con qualche successo.
Dopo la pace di San Germano e Ceprano, in maniera più o meno palese, tale fu l'atteggiamento che G. dovette seguire, a riprova che, questioni temperamentali a parte, le alternative politiche di Ugolino non erano sostanzialmente diverse da quelle del predecessore. Ancora una volta G. si trovò prigioniero dei presupposti abilmente stabiliti al tempo dell'incoronazione di Federico II. L'insistenza, nel 1220, sulla lotta contro l'eresia, la reiterazione dei provvedimenti già presi negli anni successivi sino alla pace di San Germano, la ripresa violenta della persecuzione contro gli eretici dal 1231 al 1236, nonché l'ovvia e dichiarata volontà di coinvolgere le città comunali dell'Italia settentrionale, molte aderenti alla Lega lombarda, collocavano Federico II in una linea che era stata di G. da sempre e che era stata del papato sino dai tempi dell'incoronazione imperiale del 1220. Nel febbraio 1231, infatti, G. promulgava la sentenza di scomunica per tutte le sette ereticali riconosciute come tali sin dai tempi di Lucio III e di Federico I e nuovamente colpite da Innocenzo III nella Vergentis e da Federico II e da Onorio III. In questa situazione egli si trovava oggettivamente a sfruttare la necessità che aveva l'imperatore di ricorrere a un mezzo potente per colpire le città ribelli; nello stesso tempo, tuttavia, si trovava obbligato a schierarsi dalla parte dell'imperatore contro quelle città che fossero incorse nell'accusa di favorire gli eretici. Non esistevano più i motivi che avevano favorito l'alleanza di Alessandro III e di Federico Barbarossa e G. si trovò, anche in questo caso, a giocare d'anticipo rispetto ai provvedimenti assunti dall'imperatore, pur dovendosi ciò attribuire alla diffusione dell'eresia, in un contesto che non si limitava certamente all'Italia, come si vedrà nella parte dedicata all'azione religiosa del papa. La mediazione tra l'imperatore ed i suoi avversari, in Italia, come in Germania del resto, non era senza un qualche vantaggio per G., dacché proprio il papa dovette mediare anche questioni molto complesse negli stessi rapporti tra Federico II ed il figlio Enrico (VII), diventati molto tesi in seguito alle posizioni assunte dal primo nei riguardi del secondo per il suo atteggiamento ostile ai principi tedeschi e favorevole alle città tedesche: Enrico, convocato a Ravenna il 1° novembre 1231, dove si sarebbero dovuti incontrare i rappresentanti dei Comuni dell'Italia settentrionale (Friderici II Constitutiones, nr. 155, pp. 190-91), poté incontrare il padre soltanto nella Pasqua del 1232 ad Aquileia, dichiarando la propria obbedienza a una politica favorevole ai principi tedeschi. Le cose non andarono così, perché Enrico, ritornato in Germania, assunse nuovamente un atteggiamento ostile ai principi. G. non prese posizione aperta nei confronti del dissidio tra padre e figlio, pur richiesto dall'imperatore, se non quando, distanziandosi Enrico dalla posizione antiereticale, il papa dovette, su precisa istanza dello stesso Federico, ingiungere la scomunica al figlio (luglio 1234; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 9487); non risulta che G. ottenesse da Federico II di usare un atteggiamento di clemenza nei riguardi di Enrico, che fu catturato, previa rinunzia al titolo regale ed ai possedimenti, in Germania, e deportato in Italia, nei castelli della Calabria, dove nel 1342 morì, forse suicida; così G. dovette - si sottolinea dovette - schierarsi con Federico II per la questione delle città lombarde.
Molto, certamente, influirono nell'alleanza "forzata" le preoccupazioni della lotta decisa da G. - e da Federico II, si badi bene - contro gli eretici, che proprio nelle città lombarde si potevano allogare. Nel conflitto tra le varie fazioni dei Comuni cittadini dell'Italia centro-settentrionale, la lotta alle eresie era un indubbio elemento di disturbo e di complicazione, soprattutto per il papa, che doveva anche fronteggiare moti di ribellione in Roma: qui, nel 1232, si ebbe una vera e propria rivolta contro il pontefice, non si può dire con quale reale e consapevole coinvolgimento dell'imperatore. Ma appare più credibile immaginare un progressivo deterioramento dei rapporti tra papa e imperatore proprio a cagione della continua opera di mediazione tra la lega e Federico II, che si svolse tra il 1231 ed il 1235 e successivamente tra il 1236 ed il 1237, con particolare intensità. Nel giro di poco più di un anno e mezzo, contiamo ben dodici documenti indirizzati ai Comuni settentrionali ed ai legati papali che tentavano di ristabilire un minimo di tregua tra Comuni ed Impero; sei furono le lettere indirizzate a Federico II. Da una di esse, del 29 febbraio 1236, apprendiamo che G. respingeva l'accusa di aver favorito la ricostituzione della Lega lombarda e di aver consentito che in Tuscia o nel Veronese si fosse tramato contro Federico II e ricordava che non poteva essere ascritta a colpa della stessa Chiesa la circostanza che i Veronesi, per timore della forza dell'imperatore, avessero falsamente sostenuto di aver l'appoggio di Roma, i cui legati, vescovi di Treviso e di Reggio Emilia, avevano indotto proprio i Veronesi ad osservare la tregua. Ma nella stessa lettera G. insisteva sulle vessazioni imposte al clero del Regno di Sicilia e sulle accuse contro l'imperatore, che riferivano dell'estrema durezza delle condizioni ingiunte ai nobili del Regno che si erano ribellati all'imperatore per aver aderito alla Chiesa: "Si verius loquimur, iam pro maiori parte ista non credimus" soggiungeva diplomaticamente il papa, che tuttavia, con riferimento ai condannati, aveva detto prima "id tanto magis Deo displicere putamus, quanto fortius ipsos credimus innocentes"! (cfr. M.G.H., Epistolae saec. XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, p. 575).
La lettera di G. era del 29 febbraio 1236: il 17 agosto dello stesso anno, in una missiva al cardinale vescovo prenestino Giacomo, G. inviava una serie di doléances della Chiesa di Roma nei riguardi dell'imperatore con la raccomandazione di mostrargliele e chiederne ragione o, ove non gli fosse stato possibile, di affidarle al vescovo di Brescia, Guala, già legato in Lombardia per la repressione antiereticale, insieme con una replica alle varie accuse, che da parte di Federico si muovevano alla Chiesa romana (per i testi delle reciproche accuse v. ibid., pp. 596-98 e pp. 598-99). Le reciproche accuse, ancor ammantate da una naturale prudenza e dal formulario delle lettere ufficiali, si ripeterono: ma la valenza ideologica che esse nascondevano - da parte di G., almeno - si dichiarò appieno allorché, il 23 ottobre 1236, il papa s'impegnò, in una lettera che ci sembra debba essere intesa come ultimo avvertimento a Federico II, circa gli aspetti complessivamente ideologici che potevano (o non potevano) militare a favore dei rapporti tra papato ed Impero. Faceva ciò anche alla luce della storia più antica dei rapporti tra le due potestà, pur rievocata con qualche confusione: l'accenno a Costantino, Carlomagno, Arcadio e Valentiniano è assolutamente svincolato da ogni ragionevole e necessario ordine cronologico. Nella lettera era comunque significativo l'appellarsi alla Donazione di Costantino ed alla facoltà che sarebbe stata accordata al papa (e quindi a G.) di usare "signa et sceptra imperialia", nonché l'allusione a Roma, nella quale Federico cercava di scalzare il potere papale, con la distribuzione di denaro: "regimen commisisse, Romano pontifici turbare moliris" con allusione ai moti suscitati da Pietro Frangipane (anche Riccardo di San Germano, sub anno 1236, scriveva: "pro parte imperatoris guerram movet contra papam et senatorem et seditio facta est multa in populo"). Il ricordo della Donazione di Costantino, tuttavia, sembra più in funzione della ben nota tesi della "translatio", che non di quella di una pretesa di dominio territoriale, poiché, come forse non si è osservato, più che a Costantino, G. pare voglia riferirsi a Carlomagno, nella cui persona l'Impero sarebbe stato trasferito da Bisanzio, dove l'aveva portato Costantino, in Germania, "sedes apostolica transferens in Germanos, predecessoribus tuis, sicut et in tua persona recolis esse factum, in consecrationis et inunctionis munere, nihil de substantia sue iurisdictionis imminuens" (ibid., p. 604).
Proprio questa considerazione può aiutare a comprendere che alla fine del 1236 era in gioco il rapporto tra papato e Impero, in quanto entità universali, non in quanto potenze politiche variamente impegnate in questioni di rilievo particolare. Non cessa infatti l'opera di intermediazione di G. per cercare di arrivare comunque ad una definizione dei vari problemi sospesi circa la libertà ecclesiastica, lo stato dell'Impero, la lotta all'eresia, così come recita una lettera dello stesso G. inviata non solo ai prelati della Lombardia, della Marca Trevigiana e della Romagna, ma anche ai marchesi, conti, podestà ed organi collegiali dei Comuni delle stesse regioni. Ma questo non poteva significare il persistere di un "buon accordo" tra papa e imperatore: era solo il segno di un completo "scollamento" della politica di G. dalla realtà della vita comunale di quegli anni, in cui le "tattiche" di comportamento erano suggerite non dall'adesione ad un "progetto" generale, quale quello del papato o dell'Impero, ma dagli equilibri interni delle varie fazioni politiche (guelfi e ghibellini; popolo e nobili ecc.). Quelle di G. erano sì tattiche nei riguardi dei Comuni e di Federico II, ma il suo disegno era "strategico" e doveva quindi risolversi, necessariamente, in una serie di escamotages. Della strategia di G. ci si accorse allorché Federico II, rientrato dalla Germania in Italia dopo aver provveduto a far eleggere re dei Romani il figlio Corrado di nove anni ed aver così risolto la questione della successione apertasi con la morte del ribelle Enrico, decise di giungere ad una soluzione finale con le città lombarde. Penetrato da Verona in Lombardia, sconfisse l'esercito milanese a Cortenuova, a sud di Bergamo. Il carroccio fu mandato a Roma, in Campidoglio: è difficile dire se il gesto rappresentasse un segno di buona volontà verso G. o un avviso.
Nel 1238, comunque, le città lombarde non erano ancora sottomesse: Brescia non fu espugnata. G. paventava un completo trionfo federiciano in Alta Italia e si adoperò per costituire un'alleanza tra Genova e Venezia con lo scopo di allestire una spedizione contro il Regno di Sicilia, alla quale avrebbero partecipato anche le truppe pontificie. Era la guerra dichiarata: il 20 marzo 1239, G. scomunicò Federico, formalmente per i non mai intermessi soprusi compiuti nei riguardi delle Chiese di Sicilia, in realtà perché le posizioni dei due protagonisti si erano rivelate assolutamente inconciliabili e superiori ai tentativi di compromesso che, dopo la pace di San Germano, s'erano ripetuti, soprattutto da parte papale. L'insostenibilità della situazione è anche rivelata dall'elencazione minuziosa e motivata delle accuse ripetutamente mosse dal papa all'imperatore, compresa quella di aver fomentato una sedizione contro di lui. La scomunica fu pronunciata a Rieti il 24 marzo 1239 e diffusa in tutta Europa e in tutta l'Europa giunse la replica dell'imperatore, in cui si ventilava il pericolo, per le monarchie europee, di dover assoggettarsi ai disegni di supremazia ecclesiastica di Gregorio IX. Il 20 aprile del 1239, Federico chiedeva ai cardinali di convocare un concilio generale che avrebbe dovuto giudicare dell'operato del papa. Si ripeteva, in uno scenario più ampio e drammatico, quanto era avvenuto nel 1159-1160 tra Alessandro III e Federico I! Apocalittica e violentissima fu la risposta di G. al manifesto imperiale. Federico era indicato come la "Bestia": "Et vidi de mare bestiam ascendentem [...] et bestiam quam vidi similis erat pardo et pedes eius sicut ursi et os eius sicut os leonis" (Apocalisse XIII, 1-2); e ancora: "et datum est ei os loquens magna et blasphemiae [...] et aperuit os suum in blasphemias ad Deum blasphemare nomen eius" (ibid., 5-6). Con l'utilizzazione quasi letterale delle parole dell'Apocalisse - che perciò sono state citate -, G. riconosce in Federico II l'Anticristo, aggiungendo l'accusa di negare credibilità a Cristo, Mosè e Maometto, di negare la verginità della Madonna, di negare ogni atto di fede e di fare professione di esclusivo razionalismo. Molti i sentimenti e le motivazioni, non certamente solo politiche, che si condensavano in questa che è probabilmente la più violenta lettera che sia mai stata redatta da un papa contro un imperatore. Storici cattolici, come A. Fliche e Ch. Thouzellier hanno potuto scrivere, ingenuamente, forse, ma con indubbia sincerità nello stupore, "Gregorio IX usa un linguaggio violento, almeno quanto quello del suo avversario, che stona sotto la penna del vicario di Cristo, del pastore universale che deve predicare la carità al mondo" (Storia della Chiesa, X, p. 304). La replica di Federico fu altrettanto dura, pur se sussistono dubbi circa l'autenticità dello scritto. G. è il fariseo che si è assiso sul trono della pestilenza, è stato unto con l'olio dell'iniquità e - ancora Apocalisse VI, 4 - il cavallo rosso del secondo sigillo.
La crociata era inevitabile, dati i termini in cui ormai veniva posta la questione, oppure un'azione comune dei Regni europei contro Gregorio IX. Ma non avvenne praticamente nulla. C'è piuttosto da osservare che G., nel periodo 1239-1241, non ottenne che delusioni e scacchi. La Germania fu compatta, sia nei principi ecclesiastici che nei principi laici; l'Impero latino d'Oriente fu favorevole o per lo meno non contrario a Federico II di Svevia. In Italia, pur dopo il successo federiciano di Cortenuova, i Comuni riuscirono a mantenere una posizione di relativo equilibrio di forze con l'imperatore: se infatti nel 1239 le cose sembrarono volgersi in favore dei Comuni lombardi e della Marca Trevigiana, nel 1240, invece, Federico II occupò tutto il Ducato di Spoleto, dopo aver riconquistato la Marca Anconetana. La convocazione di un concilio da parte di G. con l'enciclica del 9 agosto 1240 era l'ultima carta rimasta al papa, che richiese l'appoggio delle navi di Genova per il trasporto dei vescovi in Italia, in vista della partecipazione al concilio medesimo. Anche questo fu un errore, poiché i Pisani - a parte il tradizionale filoghibellinismo - il 4 maggio 1241, alla Meloria (isola del Giglio), attaccarono e sconfissero la flotta genovese che trasportava i prelati in Italia per il concilio. Furono catturati cento vescovi e tre legati pontifici; Federico II si mosse vittoriosamente verso Roma. Ai primi di agosto era a Tivoli. G. commise l'ultimo errore: cercò di intavolare trattative disperate con l'imperatore, che, ovviamente, rifiutò. Il 22 agosto 1241 il pontefice moriva. Federico II, errando, ma dimostrando di non essere quella "bestia ascendens de mare" che il suo avversario aveva condannato, non occupò Roma.
Solo la morte del papa pose fine allo scontro. Ma la vicenda di G. non si racchiude nei complessi eventi legati alla sua difficile convivenza con Federico II. Furono significativi anche i suoi rapporti con i Francescani, i Domenicani e l'Inquisizione. L'ancora cardinale Ugolino di Ostia, legato in Toscana, si incontrò per la prima volta con Francesco d'Assisi a Firenze dopo che in un Capitolo dei Minori, celebrato alla Porziuncula (v. R. Rusconi, Francesco d'Assisi, in D.B.I., XLIX, p. 667) il 14 maggio 1217, si era deciso di inviare i Minori per il mondo cristiano e fuori d'Italia. Francesco si stava recando in Francia, ma Ugolino lo dissuase dal viaggio, al fine di trattenerlo per reggere le sorti dei frati, in un momento di tensione nelle relazioni tra questi e la Curia, per "il mancato adeguamento dei Frati alle prescrizioni conciliari in materia di nuove forme di vita religiosa" (ibid.). Il cardinale riuscì a convincere Francesco a rimanere in Italia e non si sbagliava, alla luce delle reazioni del clero, soprattutto francese, che non solo non aveva familiarità con il linguaggio dei frati, ma neppure riusciva ad inquadrarli in un assetto istituzionale determinato. Fu forse proprio Ugolino quel prelato che, ad accogliere la testimonianza delle agiografie francescane, avrebbe indotto Onorio III, l'11 giugno 1219, a promulgare la bolla Cum dilecti filii, in cui si dichiarava l'ortodossia dei Minori, che comprendevano "frater Franciscus et socii de vita et religione minorum fratrum". Ancora una volta, il futuro G. si trovava impegnato da una decisione di Onorio III ed in un caso in cui sarebbe difficile individuare un diverso atteggiamento tra papa Onorio ed il futuro Gregorio IX. Ad Ugolino si sarebbero significativamente rivolti coloro i quali chiedevano che Francesco mostrasse la propria disponibilità all'istituzionalizzazione della comunità minoritica, che doveva uniformarsi alle disposizioni lateranensi del 1215, emanate da Innocenzo III: la reazione di Francesco, com'è noto, fu il netto rifiuto di ogni "normalizzazione" di tipo monastico dei Frati Minori. Ciononostante, Ugolino si adoperò affinché si costituisse un "Ordo pauperum dominarum de Valle Spoleti sive Tuscia". Il cardinale di Ostia trascorse la settimana santa del 1220 a S. Damiano, presso la comunità femminile riunitasi intorno a Chiara. Su delega di Onorio III, Ugolino volle introdurre, oltre che nei monasteri di Porta Camollia di Siena, di Monticelli presso Firenze, della Gattaiola a Lucca e di Monteluce a Perugia, anche a S. Damiano, una Formula vitae, che seguiva la Regola benedettina nell'interpretazione cisterciense.
Tralasciando la complessa discussione storiografica relativa a questa fase dell'incontro di Ugolino con Chiara e dei progetti di Onorio III per gli insediamenti monastici femminili (v. un'ottima messa a punto di M.P. Alberzoni, Chiara e il Papato, Milano 1995, pp. 32-68, oltre che la voce di U. Nicolini, Chiara d'Assisi, in D.B.I., XXIV, pp. 503-08), appare indubbio che l'intento di normalizzazione perseguito da Ugolino - e mantenuto da G. - per le comunità femminili si scontrò contro la ferma volontà di Chiara di conservare al livello più alto il carattere francescano della povertà: un Privilegium paupertatis che per molto tempo si è ritenuto addirittura concesso da Innocenzo III, ma sicuramente promulgato da G. nel 1228, come sembra ormai indubitabile (v. le fondate osservazioni di W. Maleczek, Chiara d'Assisi. La questione dell'autenticità del Privilegium paupertatis e del Testamento, Milano 1996; v. inoltre O. Capitani, autonomamente pervenuto alle stesse conclusioni, in Chiara d'Assisi: un messaggio antico [1194] per un'eredità moderna, Bologna 1994, pp. 47-52). Si presenta come una omologazione a posteriori dei rapporti non facili tra la santa ed il papato. Con la concessione del Privilegium paupertatis del 1228, G. accettava la posizione di Chiara in un momento molto particolare. Francesco era morto fra il 3 ed il 4 ottobre 1226; il 19 luglio 1228 con la bolla Mira circa nos, G. ascriveva al novero dei santi universali il "Poverello"; il 17 settembre 1228 concedeva il Privilegium a Chiara: sono convinto che si debba concludere che "Chiara per Francesco aveva vinto una battaglia in extremis", dacché due anni dopo, nel settembre-ottobre 1230, con la bolla Quo elongati, G. affermava il carattere non precettivo del Testamentum di Francesco, le cui uniche norme imperative erano da ritenersi quelle della Regula bullata (1223), alla cui redazione - dopo la compilazione della Regula non bullata (1221) che non era stata approvata dalla Curia, sia per la sua prolissità (ventitré capitoli), sia per la struttura scarsamente giuridica del testo - prese parte determinante proprio Ugolino di Ostia. Il testo, notevolmente più ristretto (dodici capitoli), "risentiva di una notevole formalizzazione giuridica [...] il cui dettato è profondamente diverso dal precedente" e sicuramente concepito non per una comunità ristretta, ma per un vero e proprio Ordine religioso, quale era ormai quello francescano, istituzionalmente collegato con la Chiesa di Roma dalla figura del cardinale protettore, quale di fatto era stato lo stesso Ugolino. Per comprendere la posizione di Ugolino, poi G., occorre, come richiamato sin dall'inizio, spogliarsi di qualsiasi atteggiamento personale nei confronti del movimento francescano, specialmente di Francesco e di Chiara.
Ugolino ebbe il merito - che certamente non ebbe Innocenzo III, se così ci si può esprimere - di comprendere che la società del secolo XIII, specialmente in Italia, ma non solo in Italia, era, per quanto concerneva il rapporto con la Chiesa istituzionalizzata, molto più avanzata rispetto a quella che poteva essere colta, nei suoi aspetti "devianti" in materia di esigenza di spirito di povertà, dalle decretali Ad abolendam di Lucio III o Vergentis in senium di Innocenzo III: dopo le concessioni agli Umiliati, dopo la grande titubanza manifestata verso le prime richieste di Francesco circa una "Formula vitae" presentata allo stesso Innocenzo III, dopo le decisioni "difensive" del concilio Lateranense del 1215, Ugolino, senza deflettere dall'esigenza di regolamentare in concreto la "richiesta sociale" di una vita religiosa diversa da quella proposta dalle forme canoniche offerte dall'istituzione ecclesiastica, comprese l'essenzialità dell'intento di Francesco, che non doveva essere lasciato come "esemplarità individuale", suscettibile, proprio per essere individuale o comunque limitata ad alcuni pochi, di trasformarsi in "eccezionalità deviante". La Regula e la canalizzazione di un'adesione di massa, inopinata per lo stesso Francesco, il convincimento che la proposta francescana, in quanto tale, non voleva e non doveva contenere consapevoli e radicali alternative ai modelli religiosi omologati nell'istituzione ecclesiastica, probabilmente la coscienza, derivata dalla personale conoscenza del Poverello, della esclusiva ed assoluta spiritualità della testimonianza offerta, ma non drasticamente richiesta, dall'Assisiate - più perentoria e collettiva, oltre che personale, la richiesta di Chiara - furono i parametri conduttori dell'atteggiamento di Ugolino e poi di G. verso un evento che assunse una risonanza in tempi così brevi da indurre un'attestazione ufficiale immediata di "straordinarietà" della persona (Francesco fu canonizzato nel corso di un processo svoltosi tra Assisi e Perugia tra il 10 giugno ed il 16 luglio del 1228, a soli diciotto mesi dalla morte, avvenuta fra il 3 e il 4 ottobre 1226!) ed un atteggiamento di sostanziale rifiuto di "sperimentazioni imitative" collettive che, partendo dal Testamentum come precetto e non come consiglio, potessero radicalizzare l'esperienza in un modello sostanzialmente alternativo: per gli altri Ordini, per la Chiesa, per la società cristiana. Questo ci pare il senso della bolla Mira circa nos del 19 luglio 1228, datata da Perugia, con la quale Francesco veniva proclamato santo.
Si può dire che la necessità di una "retta" interpretazione dell'evento francescano apparve subito essenziale a G., che affidò al minorita Tommaso da Celano la compilazione della leggenda del santo (la Vita prima), da cui presero le mosse numerose agiografie dedicate a quello, in rapporti di intertestualità e dipendenze che costituiscono una delle "cruces" più rilevanti della filologia agiografica medievale (per un orientamento v. la citata voce di R. Rusconi, p. 675; Gli Studi francescani dal dopoguerra ad oggi, Spoleto 1993, pp. 249-67, con rinvio alla più aggiornata bibliografia; R. Manselli, "Nos qui cum eo fuimus". Contributo alla questione francescana, Roma 1984). E d'altra parte, per nessun Ordine come per quello francescano, il problema di un'interpretazione "autentica" del messaggio trasmesso dal fondatore si mostrò così arduo per G. prima e per i suoi successori dopo: la Quo elongati, infatti, si presenta, a distanza di soli sette anni dall'approvazione della Regula bullata, come una vera e propria riscrittura interpretativa della stessa.
In ben nove punti concernenti la distinzione tra comando e consiglio, la facoltà di trattare del denaro, per usi di sostentamento o di elemosina, di considerare proprietà dell'Ordine, non di proprietà comune o privata, di beni mobili (libri, utensili...), la discrezionalità dei ministri generali, provinciali e vicari in materia di peccati e di ammissione od espulsione dall'Ordine, conferma che si trattò di una "riscrittura". D'altra parte, nello stesso Testamentum, si lasciava esplicitamente arbitro di decisioni concernenti i frati che non avessero osservato la Regola o la volessero cambiare, proprio "dominus Ostiensis, qui est dominus, protector et corrector totius fraternitatis": G. aveva quindi una sorta di mandato spirituale nella retta interpretazione della Regola sin da quando era soltanto cardinale, una circostanza che non viene tralasciata nella Quo elongati, là dove si sottolinea che il papa aveva una notevole familiarità con Francesco sin da quando occupava un grado gerarchico inferiore a quello ricoperto successivamente. Ciò spiega perché essa divenisse l'argomento principale del contendere nel momento in cui l'Ordine dei Frati Minori, scomparso Francesco, conobbe una crisi di identità di fronte alla progressiva "normalizzazione" e "clericalizzazione" dei Minori iniziatasi con G., ma proseguita con vigore dai successori, soprattutto per quanto concerneva la questione della povertà e dell'accesso agli studi teologici. Per il primo punto, durante tutto il XIII secolo ed oltre, si discusse sul vero significato dell'"usus pauper"; per il secondo, la resistenza della corrente più rigorosa in fatto di possesso ed uso di ricchezze - quella dei cosiddetti "Spirituali" - venne rapidamente meno, ove si consideri che il francescano ritenuto il capo della corrente "spirituale", Pietro di Giovanni Olivi, fu anche uno dei più grandi teologi del XIII secolo. Quella di Francesco, in ogni caso, non fu solo un'eredità difficile per l'Ordine, ma per la Chiesa stessa (v. per una sintesi accurata e obiettiva R. Lambertini-A. Tabarroni, Dopo Francesco: l'eredità difficile, Torino 1989), proprio perché G. stimolò, per così dire, la "crescita" dell'importanza dell'Ordine francescano in seno alla Chiesa, in vista di una larga utilizzazione dei Minori nell'attuazione dei programmi di Roma, anche in opposizione all'episcopato, preoccupato di perdere il controllo delle strutture stesse dell'organizzazione ecclesiastica a favore, o per lo meno in concorrenza, con i nuovi Ordini religiosi - non solo i Francescani, ma anche i Domenicani, come ora si vedrà. A meno di un anno dalla Quo elongati, G. emanò un'altra bolla, la Nimis iniqua (21 agosto 1231), in cui si biasimava l'atteggiamento di ostilità manifestato dall'episcopato verso i Francescani, ai quali si proibiva la celebrazione degli uffici divini nei loro conventi, se non in giorni prestabiliti, la costruzione di nuove sedi, la libertà di scelta dei superiori, la libera disponibilità delle reliquie. Se non l'atto specifico di svincolamento dei Francescani dalla giurisdizione dell'ordinario diocesano, era per lo meno l'inizio di un processo che avrebbe avuto conseguenze di rilievo, specialmente nell'attività e nelle applicazioni penali dell'Inquisizione. Ed è comunque sintomatico da un lato che i Minori si diffondessero liberamente, con la protezione del papa, nella vita ecclesiastica, dall'altro che i Domenicani si mostrassero sempre più disponibili alla collaborazione con l'episcopato e con il clero secolare, eccezion fatta per la questione dell'insegnamento all'Università.
Meno dialettici erano stati la nascita e lo sviluppo dell'Ordine domenicano, a partire da Onorio III, che aveva stabilito la fondazione dei Predicatori con due bolle del dicembre 1216 e del dicembre 1217, consacrando la fraternità religiosa di canonici regolari, secondo la Regola di s. Agostino, a St-Romain di Tolosa. Nel momento in cui G. diventava papa, i Domenicani avevano, come segno particolarmente distintivo nei riguardi dei Minori, un'organizzazione ben articolata nelle loro costituzioni, che prevedevano una proposta di vita religiosa derivante da diverse esperienze: quella dei Canonici Regolari di s. Agostino (modello premostratense) e quella monastica, con chiara opzione per la povertà personale e collettiva e un impegno per lo studio che doveva alimentare la capacità della predicazione sul presupposto di una formazione ottenuta presso ciascun convento in termini rigorosi. Ugolino era legato da particolare amicizia con Domenico e fu presente alle sue esequie in Bologna, il 6 agosto 1221. Il 13 luglio 1234, dopo aver definito i Domenicani "la luce delle nazioni donata dalla sapienza di Dio", G. canonizzava - dieci anni dopo Francesco - Domenico con la bolla Fons Sapientiae patris. Se l'Ordine francescano rappresentò per G. un'occasione per il recupero di un'identità cristiana compatibile con la società del XIII secolo e nella prospettiva di un "regimen christianum" fondato sulle direttive della Chiesa di Roma, quello domenicano costituì lo strumento largamente utilizzato dal papa in tutta l'Europa occidentale per combattere l'eresia, attraverso l'attivazione di tribunali inquisitoriali. Certamente i presupposti teorici dell'Inquisizione non possono essere fatti risalire a G., poiché, come si è anche detto sopra, risalivano alle deliberazioni congiunte di Lucio III e Federico I (Ad abolendam, del 1184), di Innocenzo III (Vergentis in senium, del 1199), di Federico II e di Onorio III e di G., sulla base degli impegni del 1220, assunti dallo stesso Federico all'atto dell'incoronazione: ma con G. il problema della regolamentazione dell'attività inquisitoriale si configurò come la prima effettiva applicazione su larga scala di provvedimenti fino ad allora - eccezion fatta per gli Albigesi, sotto Innocenzo III - adottati in misura limitata.
Si ritiene generalmente che con la costituzione Excommunicamus et anathematisamus, del febbraio-marzo 1231, in cui la normativa imperiale era assunta nel testo pontificio, si possa indicare l'inizio di un'azione papale antiereticale non più occasionale e limitata. L'intervento del braccio secolare si caratterizzò in maniera singolarmente spietata, come nel caso dello statuto del senatore romano Annibaldo, provvedimento che, se non dettato da G., ne fu certamente ispirato. In piena evidenza sono poste le pene di natura economica, oltre che di carattere procedurale: non solo l'abbattimento delle case dei condannati, ma la confisca dei beni da dividere in tre parti, da destinare ai delatori, al senatore e al restauro delle mura di Roma; altre notevolissime pene pecuniarie colpivano fautori e reticenti, arrivandosi a comminare una pena di 20 libbre a chi non denunziava gli eretici e di 200 marche d'argento a chi, obbligatosi all'osservanza della normativa, non l'avesse applicata. Tutto ciò in un decreto che verosimilmente era stato emesso subito dopo la decretale del febbraio 1231. Analoghe misure erano richieste nello stesso anno dalle autorità ecclesiastiche della Lombardia e della Toscana, determinando il coagularsi di quanti - indipendentemente dalla verifica della eventualità di una loro "eresia" - potevano temere rivalse e denunzie che non avevano nessuna motivazione religiosa, ma nascevano esclusivamente da vendette private, odi personali, ostilità politiche. Ghibellino ed eretico divennero più che mai sinonimi, con scarso o punto riferimento al parteggiare per l'imperatore - peraltro coinvolto nella lotta contro città del settentrione d'Italia, ove con particolare accanimento si abbatté la persecuzione antiereticale. Ezzelino da Romano, sostenitore della causa di Federico, anche se con largo margine di azione autonoma, fu il bersaglio di una crociata promossa da G., per il tramite dei vescovi di Reggio, Modena, Brescia e Mantova. E crociata voleva anche dire raccolta di decime, come nel caso di quella bandita contro gli Stadingi, contadini da tempo insediatisi alle foci del Weser, in Germania, accusati nel 1231 dall'arcivescovo di Brema - perché rifiutatisi di pagare le decime - di essere eretici. Furono letteralmente massacrati e solo tre anni dopo il fatale 1231 si ebbe da parte di G. un atteggiamento di mitigazione. In Germania, d'altronde, l'attività dell'Inquisizione si svolse a livelli diversificati, con intervento diretto di delegati del papa, non necessariamente Frati Predicatori, dotati di assoluta discrezionalità nei riguardi dei sospetti, degli ipotetici fautori come dei delatori, al di sopra di qualsiasi rispetto procedurale. Dopo la predicazione, che costituiva un tempo di grazia, la persecuzione si esercitava senza nessuna remora: o ci si riconosceva colpevoli, accettando la penitenza, o si era bruciati sul rogo. In questo contesto non fa meraviglia che si compisse ogni sorta di abuso, come quelli commessi da Corrado di Marburgo, il cui zelo frenetico nell'abbruciamento di decine di "eretici" rappresentò una responsabilità oggettiva del papa. E frenesia è l'unico concetto che si possa adattare - a parte la sollecitazione derivante dalle confische e dagli arricchimenti facili ed immediati - alla persecuzione "antiereticale", che cosparse di roghi l'Europa occidentale: nel 1232 G. impose ai vescovi di Parma e Mantova di scomunicare il podestà di Bologna, che non aveva accolto le disposizioni antiereticali della Chiesa; nel maggio del 1231 nuove inchieste furono ordinate dal papa all'arcivescovo di Bourges ed ai vescovi di Troyes ed Auxerre; Tolosa vide l'intervento del vescovo insieme con quello dei predicatori, Pietro d'Alais e Rolando di Cremona; lo stesso avvenne a Narbona, a Carcassona e a Bordeaux.
Se ancora nel 1233 in Francia non si può parlare di un vero e proprio tribunale dell'Inquisizione, è solo perché la collaborazione dei vescovi fu pressoché totale. Ma il 13, 19, 20, 22 aprile 1233 venne formalmente commissionata ai Frati Predicatori l'azione inquisitoriale, nell'intento di sollevare gli ordinari diocesani da una parte del peso delle inchieste. È dubbio che questa giustificazione sia da accogliere e che non si trattò piuttosto dell'assicurarsi da parte del papa un intervento antiereticale, per mezzo dei Domenicani o di collaboratori direttamente dipendenti dalla Santa Sede, come era già avvenuto con Corrado di Marburgo in Germania: ma anche se si dovesse accettare la spiegazione, per l'atteggiamento di larga disponibilità mostrato dagli ordinari diocesani francesi ad eseguire le prescrizioni papali, se ne dovrebbe concludere che la lotta all'"eresia" avesse raggiunto proporzioni tali da non poter essere in nessun caso promossa con i consueti mezzi procedurali! Ciò spiega sia i disordini contro l'Inquisizione in molte località della Francia meridionale, dove maggiormente si esercitò la repressione, sia il susseguirsi di incarichi inquisitoriali a vescovi, frati ed altri agenti della Santa Sede, spesso lasciati in una situazione incerta da parte del papa, allorché la popolazione delle città insorse contro le procedure sbrigative, le confische, le ingiustizie perpetrate dagli inquisitori. Così accadde nella Francia meridionale, in Italia a Bologna, Firenze, Siena e Verona, dove operò Giovanni da Vicenza e dove, essendo podestà Ezzelino, vennero bruciati vivi sessanta eretici in tre giorni; poi Giovanni, divenuto podestà nella sua città, venne imprigionato dai suoi stessi concittadini. Così fallì l'azione di Rolando di Cremona a Piacenza e di Moneta di Cremona a Bologna. Solo a Milano l'inquisitore Pietro di Verona ottenne un successo notevole, riuscendo ad inserire negli statuti cittadini dei provvedimenti speciali contro gli eretici con l'accordo del podestà. In Umbria e nella Tuscia, dove G. fu costretto a recarsi, oltre che per cercare arie più salubri di quelle romane nei mesi caldi, a causa di ribellioni che lo obbligavano ad abbandonare la sua sede, la contemporanea presenza del papa e dell'imperatore, intorno agli anni 1236-1237, quando i rapporti tra G. e Federico II si erano definitivamente guastati, coinvolse la lotta antiereticale promossa da entrambe le autorità, ma non in azione coordinata, nelle rivalità e nelle guerre dei Comuni più importanti della regione, come nel caso di Viterbo (filofedericiana) ed Orvieto (filopapale). Anche se negli anni successivi alla vittoria di Federico II a Cortenuova (1237), di cui si è detto, ed all'inasprimento della persecuzione antiereticale ad opera dell'imperatore con finalità scopertamente politiche (estensione al Regno di Arles di tre costituzioni antiereticali promulgate a Verona il 26 giugno 1238), G. mostrò di voler rivedere il suo atteggiamento sull'intera questione, concedendo specialmente nella Francia meridionale una pausa dell'attività inquisitoriale, anche per l'abile politica di Raimondo VII di Tolosa (maggio 1238).
Le finalità, le procedure, l'organizzazione dei processi, l'incertezza sostanziale dei criteri di accusa e il conseguente ampio spazio all'arbitrio concesso di fatto agli inquisitori, in un altalenare di affidamenti e revoche di incarichi, costituirono uno degli aspetti più tragici della costruzione della monarchia papale nel sec. XIII, con larghissima responsabilità da parte di Gregorio IX. Francesco, Chiara, i Francescani e le Clarisse, Domenico e i Domenicani, l'Inquisizione furono aspetti di grande rilievo che coinvolsero il pontificato di G.: non furono però gli unici. Di indubbia importanza furono le decisioni prese da G. in merito alla vita ecclesiastica ed al funzionamento della Curia, pur se l'attuazione del programma del IV concilio Lateranense di Innocenzo III fu condotta solo in parte, forse per il largo spazio lasciato agli Ordini mendicanti nel gestire i rapporti tra la società e la Chiesa, forse per l'impegno preminente della lotta contro Federico II e contro l'eresia. Devono comunque essere segnalati alcuni elementi di una riforma per il clero secolare, che con G. vennero particolarmente sottolineati. A scorrere le centinaia di lettere dei Registri di G., colpisce l'insistenza del papa sull'imprescindibile necessità che il clero si mantenesse casto. Nel dicembre del 1231 venne promossa un'inchiesta sul comportamento sessuale dell'arcivescovo di Colonia, del quale G. non volle specificare certi aspetti della condotta "ut taceamus turpitudines criminosas, que pudori relatui et auditui sunt horrori, licet eas fama, immo infamia publica non desinat divulgare" (Epistolae selectae, I, nr. 459). Immoralità, illeciti commerci, dilapidazione dei beni ecclesiastici, omicidio, spergiuro sono peccati contestati, nel 1235, ad un suffraganeo dell'arcivescovo di Grado; matrimonio di sacerdoti anche con vedove e successione dei figli di sacerdoti nelle cariche dei padri appaiono oggetto di richiamo e di condanna da parte di G., così come venne condannata la pratica della simonia, largamente diffusa in Francia. Provvedimenti certo non nuovi nei vari programmi di riforma ecclesiastica che si erano succeduti dall'XI secolo e da Gregorio VII in poi e la cui reiterazione è anche sintomo della sostanziale inefficacia delle infinite sanzioni ecclesiastiche emesse, nel corso di due secoli, sugli stessi argomenti, certo anche per una prevalente preoccupazione, che prendeva le mosse proprio dal concilio Lateranense del 1215, di condannare i mali, non di comprendere le loro motivazioni originarie, soprattutto all'interno di un organismo che coincideva ormai con una parte ragguardevole della società. Di questa sfasatura di attenzione è indubbiamente sintomo la serie di provvedimenti intesi a rafforzare il carattere centralizzante della monarchia papale, specialmente in materia fiscale e nell'ingerenza all'interno delle elezioni episcopali. Proprio con G. si iniziò quel processo di frequente ricorso a finanziamenti da parte di mercanti, per la politica di ampio raggio promossa dal pontefice. Si è detto delle decime per le crociate, per le spedizioni in Terrasanta, contro gli eretici e contro Federico II: ma c'è anche da notare che, specialmente con G. e con il successore Innocenzo IV, come si è osservato di recente, la rapida e non duratura crescita sociale di famiglie di "mercatores" romani è strettamente collegata con l'attività funeratizia da essi esercitata a favore di enti ecclesiastici, oltre che laici, e la conseguente preoccupazione dei papi - a cominciare da G. - di tutelare gli interessi di questi mercanti-banchieri che erano, date le necessità del papato, una garanzia di stand-by finanziario che non poteva essere perduta (v. M. Vendittelli, Mercanti romani del primo Duecento "in Urbe potentes", in Roma nei secoli XIII e XIV: cinque saggi, Roma 1993, pp. 89-135).
Ai finanziamenti di questo gruppo di mercanti-banchieri romani - il ricorso papale ai Fiorentini e Senesi era e sarebbe stato abituale - si appellavano, forse per far fronte anche alle richieste pontificie, alti prelati italiani e stranieri, che, insolventi, adivano le vie giudiziarie contro i creditori, non allo scopo di ottenere soddisfazione in giudizio, ma di indurre a soluzioni di compromesso (e pertanto a riduzioni consistenti del debito) le controparti. L'interesse mostrato da G. per prevenire tali pratiche è accertato anche al di là del ricorso dei creditori allo stesso pontefice romano, come avvenne nel dicembre del 1237, allorché il papa disponeva a favore dei "mercatores Stephanus Alexii, Stephanus Albericii" ed altri che essi non potessero essere chiamati in giudizio dai legati pontifici nelle diocesi di Parigi, Chartres e Beauvais, da debitori insolventi, senza esplicita autorizzazione a procedere da parte del papa. La presenza di questi e di tanti altri mercanti in varie piazze d'Italia e d'Europa, il collegamento con la Curia, il coinvolgimento di presuli importanti, le preoccupazioni del papa danno un'idea abbastanza significativa della crescente necessità di liquido, almeno in determinati casi riguardanti la vita ecclesiastica, che doveva assillare il pontefice, in gran parte per la sua politica verso gli eretici, Federico II e le urgenze della crociata - meglio si direbbe ormai delle crociate -: d'altra parte, quella politica non solo fu continuata dal successore, ma divenne una costante del comportamento dei papi, sempre più preoccupati delle entrate della monarchia pontificia (rimane ancora valido lo studio di W.E. Lunt, Papal Revenues in the Middle Ages, I-II, New York 1934). Né, soprattutto, si trattava di necessità contingenti, perché la stessa lotta contro Federico II aveva assunto caratteri di uno scontro ideologico anche più netto di quanti se ne erano determinati con Gregorio VII ed Enrico IV o con Alessandro III e Federico I, per il fatto stesso che Federico II, con molta più nettezza e durezza di argomentazione dei predecessori, aveva mostrato una coscienza molto risentita della sua posizione regale ed imperiale.
L'"imitatio imperii" da parte del papato, che non era una novità assoluta, raggiunse, a partire da G., forme di singolare significato. È sintomatica la circostanza, ricordata da A. Paravicini Bagliani, che G. progettasse di far coniare una moneta argentea dalla zecca di Gaeta, sottomessa alla Chiesa nel corso dell'invasione del Regno di Sicilia susseguita alla prima scomunica di Federico II ed alla sua partenza per la crociata: tale moneta avrebbe per la prima volta recato l'effige di s. Pietro su di una faccia e quella del papa con l'indicazione del nome sull'altra, forse come contrapposizione ad un'altra moneta coniata ad uso interno del Regno, immediatamente posteriore all'incoronazione imperiale (1220), in cui Federico II appariva in trono. E forse il conio dell'"augustale", nel 1231, recante effigiato il busto dell'imperatore potrebbe essere riconosciuto come risposta al progetto di G. (cfr. A. Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara. Immagini e simboli del papato medievale, Roma 1998, pp. 26-7, dove si troveranno altre indicazioni "iconiche" - restauro della facciata della basilica di S. Pietro, affreschi di Subiaco - collegate con il tema della monarchia papale). Il successore di Pietro era un re anche nella condotta di una guerra: le truppe pontificie che avevano invaso la Puglia nel 1229 recavano sui loro vessilli il simbolo delle due chiavi. Così la Vita di G. - sopra citata - sottolineava che la corona del papa aveva uno specifico richiamo alla funzione del pontefice romano "signore dell'Urbe e dell'Orbe" per i due diademi che recava la tiara, in una prospettiva che avrebbe visto, di lì a pochi decenni, l'incoronazione assumere una valenza superiore e alla fine sostitutiva della tradizionale consacrazione.
Di questa centralità della figura del papa nel progetto e nella realizzazione della monarchia pontificia, furono anche elementi di rilievo i mutamenti che intervennero all'interno delle strutture stesse del governo della Chiesa di Roma, con particolare riguardo ai cardinali, che esaltavano ad un tempo, con la loro partecipazione al governo della Chiesa per volontà del papa, gli aspetti gerarchici insiti nella Curia (la sublimazione del corpo cardinalizio non può che innalzare vieppiù la figura di colui che è a loro superiore, pur da loro esigendo collaborazione!). Questo il significato della concessione della porpora ai cardinali, di cui è traccia ancora nella Vita di G.: nella processione del "Cherubino trasfigurato" (lo stesso G., appunto), il papa era accompagnato dai cardinali vestiti di porpora, a richiamare l'intima unione con il papa. Ambiguo, nel suo stesso proporsi, il ruolo "promosso" e, comunque, subalterno o non giurisdizionalmente mai ben definito, quello dei cardinali, poiché non rimaneva ben definito il limite - nella partecipazione al governo della Chiesa - del potere decisionale nei confronti della "plenitudo potestatis" riaffermata da G. medesimo. Non ancora conflittuale ai suoi tempi, il rapporto tra papa e cardinali - rappresentanti della Chiesa al momento della scomparsa del pontefice romano - acquistava una sua dimensione nel conclave, in cui ai cardinali, spettando il compito di eleggere il nuovo pontefice, era affidato anche formalmente un compito di giudici: proprio durante il pontificato di G., il suo più deciso avversario, Federico II, si rivolgeva ai cardinali invitandoli a valersi delle loro prerogative che non erano inferiori, se non onorificamente, a quelle del papa, come quelle di Pietro nei confronti degli altri Apostoli. Pietro, cioè il papa, era il "primus inter pares" e null'altro: sì da non poter esigere se non un rispetto formale. Così veniva interpretata la figura "apostolica" degli stessi cardinali, con finalità evidentemente polemiche, ma gravide di conseguenze. Certamente l'epitomizzazione della Chiesa e del "regimen christianum" nell'unità organica rappresentata dal papa e dai cardinali, se da un lato, come si è detto, accentuava il carattere sacrale unico di quel nuovo principe degli apostoli, da un altro implicava, per il mantenimento della sua compattezza, una relazione del tutto particolare con i nuovi apostoli: il che può spiegare l'orientamento delle scelte papali dei nuovi cardinali nel corso del XIII secolo e durante il pontificato di Gregorio IX. Nella tendenza affermatasi proprio dagli inizi di quel secolo, i cardinali furono in larghissima parte italiani e francesi, con netta prevalenza dei primi ed assenza di cardinali tedeschi a partire da G.; questi, inoltre, confermò la prassi di affidare il titolo cardinalizio a chi avesse una formazione universitaria, a Parigi o a Bologna. Su dieci cardinali da lui creati, solo di due - Giacomo Pecorara e Riccardo Annibaldi - non si sa se fossero insigniti del grado di "magister". Alla morte di Onorio III, si contavano diciotto cardinali (cinque vescovi, sette preti, sei diaconi): il 18 settembre 1227, nel corso della prima promozione, avvenuta ad Anagni sei mesi dopo la sua elezione, G. creava nuovi cardinali (un vescovo, tre preti e un diacono) per supplire la scomparsa di cinque del precedente Collegio, avvenuta nei mesi da marzo a settembre; una seconda promozione avvenne nel luglio 1229, a Perugia, e riguardò Giacomo di Vitry, vescovo di Tuscolo; una terza a Rieti, nel 1231, per Giacomo Pecorara, vescovo di Preneste; una quarta, a Roma (29 maggio-25 giugno 1238) per Roberto di Somercote (diacono di S. Eustachio) e Riccardo Annibaldi (diacono di S. Angelo). Dell'attività e del rilievo che per l'azione di G. ebbero questi cardinali non è in questa sede il caso di trattenersi: ma converrà soffermarsi su alcuni di essi e sui "famigli" dei più importanti, giovandosi dell'ottima ricerca di A. Paravicini Bagliani (Cardinali di curia e "familiae" cardinalizie dal 1227 al 1254, I-II, Padova 1972). È così importante segnalare che proprio alla "familia" di Giovanni d'Abbeville, primo cardinale vescovo creato da G., apparteneva quel Raimondo di Peñafort, terzo generale dell'Ordine domenicano, cui G. commise il compito di raccogliere il Liber Extra, di cui si dirà innanzi. Altra personalità di spicco è quella di Sinibaldo Fieschi, promosso nella prima creazione di G. del 18 settembre 1227 prete di S. Lorenzo in Lucina. Era stato, forse, segretario di Ugolino nel 1217, sotto il pontificato di Onorio III; nel 1226 è testimoniato come "uditore" e pochi mesi prima della promozione svolgeva le funzioni di vicecancelliere di Santa Romana Chiesa: carica di altissimo prestigio affidatagli per la nota competenza giuridica, testimoniata dagli Apparatus in V libris Decretalium. Una serie di premesse che certamente favorì la sua ascesa al pontificato il 25 giugno 1243. Della sua "familia" si può ripetere con A. Paravicini Bagliani che molti dei suoi "familiari" furono indubbiamente agevolati nel raggiungimento di posti di fiducia e di potere sia durante il cardinalato, sia - e ancor più - durante il pontificato del Fieschi.
Segno notevole del trasformarsi della Curia, a partire da G., in una sorta di gabinetto privato del papa. Ed un'ultima esemplificazione dovrà essere fatta per il caso di Giacomo di Vitry, promosso nella seconda creazione dei cardinali del 1229. Anche se non vi è certezza intorno ai suoi dati biografici e la sua attività come cardinale non pare rivesta particolare interesse (cfr. A. Paravicini Bagliani, Cardinali di curia, I, p. 101), la grande notorietà che il personaggio raggiunse per i suoi Sermones (de temporibus, de sanctis, feriales), per la Historia Hierosolimytana adbreviata, per le Epistolae, in cui è attestata l'intensa attività del personaggio, nei contatti avuti con i Beghini, con gli Umiliati, con i Francescani, con la Terrasanta, dimostra che G. sapeva - come avrebbero saputo i suoi successori - scegliersi i collaboratori: e basterà rammentare il caso già ricordato del legato Alatrino.
Già da prima del pontificato di G., il problema del controllo dell'attività degli studenti e dei docenti delle maggiori Università del tempo (Bologna, Parigi e, in qualche modo, Oxford) era apparso in tutte le sue implicazioni. La Curia romana, già con Onorio III, aveva mostrato di voler assumere un controllo più diretto della vita e degli ordinamenti delle Università, in particolare a Bologna, dove Onorio III era stato arcidiacono della Chiesa felsinea. Nel 1219 proprio Onorio III affidava a "magister" Grazia, arcidiacono di Bologna, un compito fondamentale all'interno della vita degli studenti che si trovavano nella città: all'arcidiacono infatti era commesso l'incarico di concedere la "licentia docendi", relegando la posizione dell'ordinario in secondo piano. In sé l'episodio può essere anche inserito nel complicato gioco di contrasti, che in quegli anni si verificarono a Bologna, tra il papa, il vescovo ed il Comune, che per ragioni di prestigio e di convenienza economica, stante il notevole numero di studenti "forestieri" presenti in città, era preoccupato di esodi verso altre città (era accaduto per Vicenza nel 1204 e nel 1215 per Arezzo; con conseguenze ben più gravi sarebbe accaduto nel 1222, con un esodo massiccio verso Padova). La posizione del papa era stata, in linea di principio, favorevole agli studenti, che erano obbligati a giurare di non provocare secessioni. Nel maggio del 1217, Onorio III aveva consigliato agli studenti di Roma, della Campania e della Tuscia che risiedevano in Bologna di allontanarsi dalla città, piuttosto che essere spergiuri. Al di là dello scarso successo ottenuto, il papa comunque svelava la chiara intenzione di assumere il controllo diretto di un organismo che s'era da tempo strutturato, nei modi tipici di quel periodo, come una corporazione (e tale è il significato proprio di "universitas") e che, non solo a Bologna, ma certamente qui in modo molto netto, finiva col costituire una comunità all'interno dello stesso Comune, provocandone le reazioni indubbiamente vessatorie. E si aggiunga che i dottori, che costituivano una controparte sostanzialmente priva della capacità di controllo sugli studenti e che tentarono un'associazione tra di loro sin dalla fine del sec. XII, erano naturalmente portati a legarsi alla politica comunale, tanto più che la decisione di Onorio III di affidare il compito di concedere la "licentia docendi" all'arcidiacono, privò i docenti di quella che era la loro prerogativa principale. Il collegamento dei docenti con il Comune sarebbe giunto, a metà del secolo, ad esprimersi con la dichiarazione dell'ereditarietà delle cattedre.
A queste ragioni di politica di controllo, ispirate anche, nel caso di Bologna, poco prima del 1220, dal buon rapporto esistente tra Federico II e l'arcivescovo di Bologna, Enrico della Fratta, si aggiunse la necessità che Onorio III avvertì - come più volte qui sottolineato - di non arrivare ad una rottura con Federico II, tenuto conto che proprio il nuovo imperatore aveva mostrato di tenere in considerazione speciale Bologna, ai cui maestri e studenti e con il pieno consenso del papa, aveva inviato il testo delle Costituzioni promulgate a Roma in occasione dell'incoronazione imperiale. Inoltre, solo nel 1219 la città era stata liberata dall'interdetto comminato da Onorio III per violazione di una disposizione papale che nel 1217 aveva assegnato a Salinguerra Torelli di Ferrara i possessi matildici di Medicina e di Argelato, rioccupati dai Bolognesi: l'interdetto era stato tolto grazie alla mediazione del legato Ugolino di Ostia, futuro papa. Proprio tenendo conto dell'interesse per Bologna e per la sua Università, nel momento in cui il controllo della stessa s'era decisamente spostato verso il papa e riconoscendo che il Comune bolognese, peccando di miopia politica nell'opporsi alle esortazioni anche pressanti che venivano dalla Curia, sembra che si debba riconsiderare la valenza antibolognese che avrebbe assunto la fondazione dell'Università di Napoli, voluta nel 1224 da Federico II, che peraltro non ebbe quei caratteri di decisione improvvisa che soli spiegherebbero un atto di ritorsione. Il provvedimento di Federico II contro lo "Studium" bolognese ha tuttora una datazione difficile, anche se il 1225 può rappresentare un riferimento cronologico sufficientemente attendibile per la cassazione specifica dello "Studium" (cfr. per tutta la questione O. Capitani, La fondazione dell'Università di Napoli e lo studio di Bologna: alcune riflessioni, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, Napoli 1998, pp. 155-74). G. era stato coinvolto nelle vicende universitarie di Bologna nel più vasto contesto della sua attività di legato, ma anche dopo l'irrimediabile inasprirsi delle relazioni con Federico II, si mantenne nelle grandi linee che in proposito erano state tracciate dal predecessore. Bologna, semmai, poteva rappresentare un riferimento obbligato per entrambi i contendenti: nel 1231 l'imperatore spediva allo "Studium" bolognese l'Aristotele latino di Michele Scoto, incurante dei possibili rilievi che una commissione apposita voluta da G. avrebbe potuto pronunciare sulla traduzione e sui contenuti di quelle opere; nel 1234, G. proprio a Bologna, come si dirà, avrebbe inviato il Liber Extra. Diversamente accadde a Parigi e ad Oxford. Il pontificato di G. coincise, per l'Università di Parigi, con la crisi di quell'ordinamento che si era stabilito nei primi anni Venti del XIII secolo e che aveva visto il ridimensionamento del potere del cancelliere del Capitolo della cattedrale, strumento dell'ordinario diocesano, osteggiato dagli studenti e guardato con sospetto anche dal papa (Onorio III), il quale, come a Bologna, tese a sostituirsi all'ordinario nel controllo della corporazione, che - in questo caso - vedeva raggruppati studenti e docenti ("universitas magistrorum et scholarium"). Contestualmente, tra il 1215 ed il 1217, erano approdati Predicatori e Minori che si erano uniti agli studenti, sulla riva sinistra della Senna, dove gli studenti delle "arti" si erano trasferiti da prima del 1212, nell'ambito della giurisdizione dell'abate di S. Genoveffa e dove, in seguito ai contrasti con il cancelliere, migrarono studenti e docenti di teologia e giuristi.
In un primo tentativo di normalizzare la vita degli studenti e dei docenti e di ristabilire un accordo con il cancelliere Filippo, il papa inviava, nel 1228, il canonico Guglielmo d'Alvernia, che però si schierò dalla parte del cancelliere, provocando nuovi disordini e un esodo massiccio della intera Università a Tolosa, Angers, Reims e Orléans, nonché in Italia, Inghilterra e Spagna. A questo punto, ottenuto anche l'appoggio di Luigi IX, G. convocò a Roma i rappresentanti del sovrano e dei maestri - Guglielmo di Auxerre, Goffredo di Poitiers, Stefano Baatel - e con la bolla Parens scientiarum (13 aprile 1231) fornì un nuovo statuto all'Università di Parigi. Vennero stabiliti diritti e doveri del cancelliere (obbligo di giuramento, di concessione della "licentia docendi" in teologia e in diritto canonico ai soli meritevoli, gratuità dell'esame per i maestri in arte e in medicina), la riduzione dei poteri del vescovo alla sola amministrazione della giustizia; il diritto, concesso alla corporazione universitaria, di stabilire normative circa le lezioni e gli orari delle stesse e i compiti dei baccellieri; di scioperare in caso di necessità; di avere un mese di vacanza in estate. L'esame preliminare per i candidati in teologia e in diritto canonico, prima della concessione della "licentia", doveva essere rigoroso. Il programma dell'insegnamento era fissato dal papa; del diploma regio di Filippo II Augusto, del 1200, con il quale gli studenti dovevano essere demandati alla giurisdizione ecclesiastica, veniva sollecitata la conferma, che peraltro era stata già concessa. Nel periodo della secessione, compreso tra il 1228 ed il 1231, s'era comunque determinato un evento di notevole importanza: i teologi avevano continuato la loro attività a S. Giacomo, la casa-cappella ove si erano riuniti i predicatori nonostante le sostituzioni operate dal vescovo di Parigi; un domenicano, Rolando da Cremona, ottenne la "licentia docendi" da Guglielmo d'Alvernia nel 1229; nel convento di S. Germano iniziò il suo insegnamento Alessandro di Hales nel 1231, sì che a Parigi le cattedre di teologia si divisero tra secolari e regolari, in una situazione di equilibrio che si manterrà sino a quando i primi non si sentiranno minacciati dai Mendicanti, favoriti da G., che ribadì, nel periodo 1237-1238, la normativa della Parens scientiarum, contro tentativi del vescovo parigino di ignorare le procedure dell'esame preliminare, cui dovevano sottoporsi i candidati. A conferma di una linea consapevole di controllo da parte del papato sull'attività delle Università, nel 1229 venne stabilito, nel centro della regione albigese, lo "Studium" di Tolosa, con l'evidente finalità di contrastare l'eresia.
Meno appariscente l'intervento papale nelle vicende di Oxford, anche se ad un legato pontificio, il cardinale Niccolò di Tuscolo, si dovette il riconoscimento ufficiale della comunità di studenti e docenti, che avevano abbandonato la città in seguito all'uccisione di tre studenti: nel 1214 il legato pontificio impose agli abitanti di Oxford una serie di condizioni a favore soprattutto degli studenti. A differenza di quanto avveniva a Parigi, a Oxford la figura del cancelliere, scelto dal vescovo di Lincoln, acquistò una posizione sempre più importante come elemento di riferimento non solo dell'ordinario, ma anche delle altre forze cointeressate al buon andamento dell'Università, cioè gli studenti e l'autorità regia. La figura preminente di cancelliere ad Oxford, durante il pontificato di G., fu quella del filosofo e naturalista Roberto Grossatesta, che mantenne la carica anche dopo essere divenuto vescovo di Lincoln, sino alla morte nel 1253. Oxford accolse gli studenti allontanatisi da Parigi nel periodo turbolento del 1229-1231; e dal 1229, data in cui si costituì la prima scuola francescana proprio in Roberto Grossatesta quella scuola trovò il suo primo "lettore" in teologia. Anche questo fu un risultato del favore accordato da G. ai Mendicanti in genere ed ai Minori in specie, tenuto conto dell'importanza che ad Oxford raggiunse la scuola francescana.
Il 5 settembre 1234, con la bolla Rex pacificus, inviata ai dottori e agli scolari di Parigi, Bologna e Padova, G. comunicava che "ad communem et maxime studentium utilitatem per dilectum filium Raymundum [...] in unum volumen, resecatis superfluis, providimus redigendas [diversas constitutiones et decretales epistolas praedecessorum nostrorum in diversas dispersa volumina]" (v. Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 9693, 9694; Registres de Grégoire IX, nr. 2083). Si è solitamente interpretata la decisione di G. come risposta "politica" alla promulgazione delle Costituzioni di Melfi del 1231 di Federico II, miranti a redigere uno "statuto" normativo coerente dello stato federiciano: ciò è possibile, anche se si deve constatare che la risposta di G. sarebbe giunta tardiva, se tale fosse stato lo scopo preminente. È più probabile ritenere che la decisione di G. si inserisse in quello che poco prima della metà del XIII secolo fu un diffuso processo di codificazione coerente di una normativa caotica, ripetitiva, contraddittoria che, nonostante lo sforzo unitario, ma non ufficiale, compiuto da Graziano, a metà del XII secolo, costituiva, a XIII secolo inoltrato, il campo del diritto canonico. Non si dimentichi infatti che dopo Graziano s'erano aggiunte al Decretum altre raccolte di decretali, le più celebri delle quali - le Quinque Compilationes Antiquae - avevano accumulato materiale canonistico dal periodo che andava dal 1140 (Graziano) al 1216 (Onorio III): la Compilatio I (opera di Bernardo di Pavia), del 1190, raccoglieva decretali di Alessandro III, Lucio III, Urbano III; la Compilatio II si riferisce soprattutto ai pontificati di Clemente III e Celestino III e in qualche modo colmava le lacune tra la Compilatio I e la Compilatio III; la Compilatio III di Pietro di Benevento, comprendeva, sino al 1212, le decretali dei primi anni del pontificato di Innocenzo III, che inviò, per la prima volta, la compilazione ai professori e studenti dello "Studium" di Bologna, sanzionando l'autenticità delle normative contenute nella Compilatio, con la dichiarazione personale della provenienza dai Registri della Cancelleria pontificia del materiale documentario: affermazione sulla quale, per quanto concerne una parte non modesta del materiale, sussistono molti dubbi e perplessità. Alla fine del pontificato di Innocenzo III uno dei più celebri "magistri" dello "Studium" bolognese, Giovanni Teutonico, raccolse in una collezione le decretali dello stesso papa (1216) e chiese al medesimo di autenticarla, senza ottenere una decisione positiva. Ciò nonostante la raccolta (= Compilatio IV) ebbe successo in quanto riuniva i canoni del IV concilio Lateranense (1215), particolarmente importante per l'organizzazione della vita ecclesiastica; nella Compilatio V (1225-1226) avviata da Tancredi di Bologna (1180/1190-1236), tutte le decretali erano riprese dai Registri della Cancelleria pontificia. Proprio nel senso di comprovare una tendenza della cultura giuridico-politica, comune alla monarchia di ispirazione laica, come a quella di ispirazione ecclesiastica, si deve avvertire che l'indicazione generica di "decretali pontificie" può trarre in inganno. Sono, le decretali, propriamente le risposte a quesiti posti alla massima autorità del pontefice, che, quindi, assumevano carattere normativo; sono costituzioni (o "decreta"), decisioni autonome del pontefice, nella sua assoluta discrezionalità giurisdizionale.
Il rapporto tra costituzioni e decretali, aumentando a favore delle prime, è anch'esso indizio di un consapevole accentramento della gestione giurisdizionale del papa. Il Liber Extra contiene 1.771 capitoli tratti dalla Compilatio I di Bernardo di Pavia, "191 dai registri dei primi sei anni del pontificato di Gregorio IX, [...] 9 da altra provenienza" (A. Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro, Roma 1996, p. 100. Il Liber Extra, con riferimento al materiale canonistico extra il Decretum Gratiani, è solitamente citato con "X", seguito dall'indicazione del libro, del titolo e del capitolo, nell'edizione correntemente usata curata da E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, II, Leipzig 1879; rist. anast. Graz 1959). La raccolta del materiale canonistico segue un ordinamento sistematico (per argomento), confermando in ciò lo scopo dichiarato della bolla Rex pacificus di dover essere di utilità per gli studenti e i docenti di diritto canonico. La sua ufficialità dichiarata per la prima volta da un pontefice romano, ne costituì un attributo di esclusiva autorevolezza, facendo di esso la prima "codificazione ufficiale" della Chiesa romana.
Per concludere, va sottolineato come un aspetto particolare dell'attività di G. fu costituito dall'impulso dato alle canonizzazioni. Oltre a quella di Francesco e di Domenico, più su ricordate (ma per Domenico l'analisi della canonizzazione è stata compiuta in maniera del tutto esauriente da L. Canetti, L'invenzione della memoria. Il culto e l'immagine di Domenico nella storia dei primi frati Predicatori, Spoleto 1996), si vogliono qui ricordare la canonizzazione di Antonio di Padova (30 maggio 1232), Vigilio di Salisburgo (1233) ed Elisabetta di Turingia (1235).
Le canonizzazioni dei fondatori dei due principali Ordini mendicanti e le particolari procedure che accompagnarono gli eventi hanno indiscutibilmente un significato del tutto particolare, come è stato messo in rilievo di recente da R. Paciocco (Papato e santi canonizzati degli Ordini mendicanti, in Il papato duecentesco e gli Ordini mendicanti, Spoleto 1998, pp. 265-341, in partic. pp. 276-96). Pur in un complesso di circostanze forse non ancora del tutto chiarite (la bolla di canonizzazione di Francesco, Mira circa nos, non fu quella spedita alla cristianità, ma la Sicut fiale auree, benché sembri sicura l'utilizzazione della prima nella Vita prima di Tommaso di Celano; per la Fons sapientiae patris è ancora da analizzare la diffusione della bolla, anche dopo l'imponente studio del Canetti, più in alto ricordato), appare difficilmente contestabile l'intenzionalità di una particolare "politica" religiosa di G., pur senza cadere in "semplificazioni" interpretative (R. Paciocco, pp. 291 ss.). Le bolle di canonizzazione hanno pure una precisa valenza ecclesiologica (sia la Mira circa nos sia la Fons sapientiae patris); la dichiarazione di indulgenze in occasione della traslazione dei santi fondatori (Francesco e Domenico) promosse dal papa è di un'ampiezza inconsueta (un anno per Domenico, un anno per Antonio, un anno e quaranta giorni per Elisabetta di Turingia; per Francesco, con una cerimonia di traslazione avvenuta nella nuova basilica solo nel 1230, tre anni per chi assistesse provenendo d'Oltremare, due per i presenti giunti d'Oltralpe, uno per gli Italiani della penisola) era un'ulteriore affermazione della "plenitudo potestatis", che consentiva una più ampia libertà al pontefice, rispetto alla prassi dei predecessori. E senza voler forzare determinati significati, non è possibile non rilevare che per s. Vigilio di Salisburgo, morto nell'VIII secolo, l'indulgenza fu stabilita nei termini consueti dei quaranta giorni. La maggiore rilevanza data ai "santi nuovi" - con riferimento al periodo della loro esistenza - era anch'essa espressione della riaffermazione del prestigio del papato, che esaltava proprio in questi "santi nuovi" il prestigio che per volere divino si conferiva alla Chiesa di Roma: elemento da tener presente nell'atto stesso di analizzare la portata ecclesiologica delle bolle Mira circa nos e Fons sapientiae patris.
fonti e bibliografia
Come si è già detto, assolutamente prevalente è la fruibilità delle fonti documentarie e, per la biografia di G., la disponibilità del materiale documentario compreso in Regesta Pontificum Romanorum, a cura di A. Potthast, I, Berolini 1874, pp. 680-939; Registres de Grégoire IX (1227-1241), I-II, a cura di L. Auvray, Paris 1896-1907; M.G.H., Epistolae saec. XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, a cura di C. Rodenberg, I, 1883, pp. 261 ss.
Ovvio il ricorso alla documentazione imperiale relativa a Federico II, in modo particolare a M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, a cura di L. Weiland, 1896; J.F. Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Friderici secundi, I-VII, Parisiis 1852-61; J.F. Böhmer, Regesta Imperii, V, (1198-1272), Frankfurt 1831 ss. e tutte le altre fonti che si possono trovare con dati aggiornati nella voce di N. Kamp, Federico II di Svevia, in D.B.I., XLV, pp.743-58.
Per le fonti narrative, oltre quanto già notato nel testo a proposito della biografia di G., saranno da tener presenti le stesse fonti utilizzabili per il periodo del Regno e dell'Impero di Federico II di cui si dà una notizia sintetica aggiornata al 1966, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, X, Torino 1967, pp. 281-92; a parte vanno comunque menzionati: Rolandino da Padova, Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane, in R.I.S.², VIII, 1, a cura di A. Bonardi, 1905-08; Riccardo di S. Germano, Chronica regni Siciliae, ibid., VII, 2, a cura di C.A. Garufi, 1936-38; Fr. Salimbene de Adam, Chronica, a cura di G. Scalia, I-II, Bari 1966; Matteo Parisiense, Chronica majora, a cura di H.R. Luard, I-VII, London 1964 (rist. anast.); Martino Oppaviense (di Troppau, Polono), Chronica summorum pontificum imperatorumque de VII aetatibus mundi, in M.G.H., Scriptores, XXII, a cura di G.H.Pertz, 1872, pp. 377-475.
Sempre da tener presente la consultazione dei vari volumi dell'"Archivum Historiae Pontificiae", con bibliografia specifica per pontificato; e lo spoglio di Medioevo Latino, s.v.
Come riferimento generale saranno da tenersi presenti le recenti opere collettive concernenti la storia d'Italia, in modo del tutto particolare la Storia d'Italia, diretta da G. Galasso: Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, Torino 1983; Comuni e Signorie: Istituzioni, società, e lotte per l'egemonia, ivi 1981, in partic. i contributi di R. Manselli e di A.I. Pini; Comuni e Signorie nell'Italia settentrionale: il Piemonte e la Liguria, ivi 1986; Comuni e Signorie nell'Italia nordorientale e centrale: Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, ivi 1987; Comuni e Signorie nell'Italia nordorientale e centrale: Lazio, Umbria, Marche e Lucca, ivi 1987, nonché le numerosissime pubblicazioni apparse in occasione dell'VIII Centenario della nascita di Federico II; alcune su argomento specifico sono ricordate anche nel testo. Su aspetti abbastanza importanti per la politica generale dell'Italia centrale si v., comunque, tra le cose più recenti, O. Capitani, Disegni imperiali e politiche locali. Federico II e l'Italia centro-settentrionale, "Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna", 46, 1995, pp. 61-79; Id., Problemi di giurisdizione nella ecclesiologia di Innocenzo IV, in Friedrich II., Rom 1996, pp. 150-62; Id., Federico II e le Marche: illusioni e delusioni, in Esculum e Federico II, Spoleto 1998, pp. 3-30; J.C. Maire-Vigueur, Impero e papato nelle Marche: due sistemi di dominazione a confronto, ibid., pp. 381-403.
Ovviamente sterminata la bibliografia francescana, che in larghissima parte tocca la figura e l'azione di Gregorio IX. A prescindere dalla voce Francesco d'Assisi, curata per il D.B.I. da R. Rusconi, saranno da tener presenti, per le fonti francescane specifiche, Fontes franciscani, a cura di E. Menestò-S. Brufani et al., Assisi 1996; Fonti francescane (testi in ital.), Padova s.d. [1977]; la serie delle pubblicazioni della Società internazionale di studi francescani, edite dal CISAM di Spoleto e giunte, nella nuova serie diretta da E. Menestò, al vol. IX (1999): questa serie è adesso sorretta da un Bollettino della Società internazionale di studi francescani, "Franciscana", 1, 1999, diretto da G.G. Merlo; in questa serie riveste particolare importanza per G. il vol. VIII, 1998: Il papato duecentesco e gli Ordini mendicanti, specie per i contributi di G. Barone, Il papato e i Domenicani nel Duecento; C. Frova, Papato, Università, frati; L. Paolini, Papato, inquisizione, frati; M.P. Alberzoni, Papato e nuovi Ordini religiosi femminili; R. Paciocco, Il papato e i santi canonizzati. La bibliografia più completa per i rapporti tra G., Domenico e i Domenicani si trova oggi nel libro di L. Canetti, citato nel testo, L'invenzione della memoria, che dispensa dal rinvio agli studi precedenti. Per l'Inquisizione, rammentando esclusivamente le cose più recenti, nel profluvio di scritti ad essa relativi, oltre al citato saggio di L. Paolini, nel volume Il papato duecentesco e gli Ordini mendicanti, sono da ricordare, comunque, separatamente, Die Anfänge der Inquisition im Mittelalter, a cura di P. Segl, Köln-Weimar-Wien 1993; G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d'Italia, II, 1, Torino 1974, pp. 711-23.
È sempre da tener presente la più volte citata Storia della Chiesa, X, pp. 340-59, anche per gli aggiornamenti apportati da M. d'Alatri; per le questioni ecclesiologiche e la "plenitudo potestatis", si rimanda a J.A. Watt, The Theory of Papal Monarchy in the Thirteenth Century, London 1965 e, soprattutto, a C. Dolcini, Crisi di poteri e politologia in crisi. Da Sinibaldo Fieschi a Guglielmo d'Ockham, Bologna 1988, dove, nonostante l'apparente esclusione cronologica di G., i Prolegomeni costituiscono ancora a dodici anni di distanza una compiuta e insuperata rassegna critica della storiografia sul pensiero politico medievale, cui poco aggiunge il recente e indubbiamente brillante volumetto di G. Tabacco, Le ideologie politiche del Medioevo, Torino 2000.
Per gli inevitabili collegamenti con le ideologie di G., sarà da tener presente anche A. Melloni, Innocenzo IV. La concezione e l'esperienza della cristianità come regimen unius personae, Genova 1990; per altre indicazioni e prospettive v. O. Capitani, L'Impero e la Chiesa, in Lo spazio letterario del Medioevo, I, 2, Roma-Salerno 1994, pp. 221-71.
Per l'Università di Bologna, nel periodo immediatamente anteriore e durante il pontificato di G. - accanto ai classici lavori di G. Cencetti, "Studium fuit Bononiae" (ma essenzialmente per le origini), in Le origini dell'Università, a cura di G. Arnaldi, Bologna 1974, pp. 101-51; G. De Vergottini, Lo Studio di Bologna, l'Impero e il papato, in Id., Scritti di storia del diritto italiano, II-III; G. Rossi, Studi e testi di storia giuridica medievale, a cura di G. Gualandi-N. Sarti, Milano 1997, in partic. pp. 141-264: Universitas scholarium e Comune (secoli XII e XIV), nonché gli aggiornamenti apportati da C. Dolcini a G. De Vergottini; dello stesso C. Dolcini si terranno presenti i recenti lavori "Velut aurora surgente". Pepo, il vescovo Pietro e l'origine dello Studium bolognese, Roma 1987; Lucerna iuris. Irnerio, Odofredo, Hermann Kantorowicz, in A Ovidio Capitani. Scritti degli allievi bolognesi, a cura di M.C. De Matteis, Bologna 1990, pp. 39-48 - sono oggi da considerare soprattutto i lavori di L. Paolini, L'evoluzione di una funzione ecclesiastica: l'Arcidiacono e lo Studio di Bologna nel XIII secolo, "Studi Medievali", ser. III, 29, 1988, pp. 129-72; Id., La figura dell'arcidiacono nei rapporti tra lo Studio e la Città, in Cultura universitaria e pubblici poteri a Bologna dal XII al XV secolo, a cura di O. Capitani, Bologna 1990, pp. 31-71.
Per un'ampia bibliografia aggiornata al 1945, si v. G. Zanella, Bibliografia per la storia dell'Università di Bologna, ivi 1979.
Una visione d'insieme sulla problematica posta dal sorgere dell'Università e in modo particolare da quella di Bologna, si v. M. Bellomo, Saggio sull'Università, Roma 1992.
Sempre su di un piano generale, per Parigi e Oxford, ricordate nella voce, H. Rashdall, The Universities in Europe in the Middle Ages, a cura di F.M. Powicke-A.B. Emden, I-III, London 1969; J. Verger, Le Università nel Medio Evo, Bologna 1991.
Per i rapporti tra Università e Ordini mendicanti e tra Università e "Studia", si v. Le Scuole degli Ordini mendicanti (secoli XIII-XIV), Todi 1978, in partic. gli interventi di G. Arnaldi, P. Amargier, M. d'Alatri, C. Ribaucourt, J. Cannon, G. Barone, J. Verger, oltre alla recente messa a punto di C. Frova, Papato, Università, frati, nel citato volume Il papato duecentesco e gli Ordini mendicanti. Per il Liber Extra sarà sufficiente il rinvio all'opera di A. Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro, citata nel testo, ed alla bibliografia ivi ricordata.