GREGORIO VII, papa, santo
Scarse le notizie biografiche su Ildebrando, nato forse a Soana (oggi Sovana, in provincia di Grosseto) tra il 1025 e il 1030, divenuto più tardi, forse, monaco a S. Maria dell'Aventino (secondo uno dei suoi migliori conoscitori, G.B. Borino, la monacazione sarebbe invece avvenuta a Cluny nel 1048); nel monastero romano avrebbe conosciuto Lorenzo d'Amalfi e Giovanni Graziano, divenuto poi papa con il nome di Gregorio VI (ulteriori particolari in Enciclopedia dei papi, II, pp. 188 s., oltre che nella voce curata da G. Miccoli per la Bibliotheca sanctorum).
Indubbiamente, la sua "relativa fortuna" romana iniziò con Leone IX, con cui egli divenne suddiacono, probabilmente nei primi mesi di pontificato, e con il quale, tuttavia, avrebbe avuto motivi di dissenso perché il papa avrebbe accettato la carica per ordine di Enrico III: ma il racconto di Bruno di Segni (cfr. Mon. Germ. Hist., Libelli de lite…, a cura di E. Sackur, II, Hannoverae 1892) ha il chiaro sapore di una ricostruzione aposteriori, a tutto beneficio di una "omologazione" di una coerente azione antisimoniaca, intesa nell'accezione più larga, sin dagli inizi della sua attività ecclesiastica. Fu legato pontificio al concilio di Tours del 1054 per giudicare il caso dell'eresia eucaristica di Berengario di Tours, che si sarebbe protratta sino al 1079, avendo sempre più o meno coinvolto G. VII non certo favorevole a Berengario, pur se non così accanito nei suoi confronti come lo sarebbero stati, invece, Lanfranco di Pavia e Umberto, cardinale vescovo di Silvacandida (v. anche Enciclopedia dei papi, II, pp. 189 s.).
Al di là di questi eventi, si era comunque ormai affermata una fattiva presenza di Ildebrando nella Curia, come si può desumere dalla parte che egli ebbe nelle trattative che intercorsero, alla morte di Leone IX, nello stesso 1054, tra la corte tedesca e i personaggi più influenti della Chiesa romana, Umberto di Silvacandida e Bonifacio, cardinale vescovo di Albano. Con questi due cardinali Ildebrando si sarebbe recato, dalla Francia dove era appunto per la questione berengheriana, in Germania: una missione sulla quale esistono dubbi di attendibilità circa le fonti che l'attestano, ma che comprova - come le notizie di mera fantasia date da Bonizone da Sutri (cfr. Liber ad amicum, a cura di E. Dummler, in Mon. Germ. Hist., Libelli de lite…, I, Hannoverae 1891) circa una richiesta del clero e del popolo romano di avere Ildebrando come papa e una richiesta rivolta da quest'ultimo a Enrico III di rinunciare alle prerogative su Roma derivantigli dal titolo di patrizio, cui l'interessato avrebbe acceduto - il progressivo emergere della sua personalità. Ancora in Francia nel 1056, Ildebrando assunse un ruolo di primissimo piano in un anno decisivo per la storia della Chiesa, dell'Impero e dell'Europa, il 1059 (v. ora U.R. Blumenthal, Zu den Datierungen Hildebrands, in Forschungen zur Reichs-, Papst- und Landesgeschichte. P. Herde zum 65. Geburtstag… dargebracht, a cura di K. Burchardt - E. Bunz, I, Stuttgart 1998, pp. 145-154).
Morto nel 1057 papa Vittore II, voluto da Enrico III, si aprì una questione successoria alquanto difficile poiché nell'ottobre 1056 era deceduto lo stesso imperatore e il figlio Enrico (futuro Enrico IV) era in minore età. L'elezione di Federico di Lorena col nome di Stefano IX non fu comunicata alla corte tedesca: il che rappresentava indubbiamente un allontanamento dalla tradizione, né valsero le giustificazioni avanzate da Roma, che sarebbero state addotte anche dopo, al momento dell'elezione di Alessandro II, per rendere plausibile siffatto comportamento, dettato, si disse, dalla minore età del re. Proprio Ildebrando fu inviato presso la corte germanica da Stefano IX per spiegare quell'elezione e altre questioni insorte nel frattempo a rendere difficili i rapporti tra Roma e la Germania (v. altri dettagli in Enciclopedia dei papi, II, pp. 190 s.).
Ma alla delicata trama dei rapporti con la corte tedesca si intrecciavano, ormai non più ignorabili, le istanze popolari per una radicale riforma morale del clero. A Milano, sotto la guida di Arialdo e Landolfo, gruppi di fedeli di ogni ceto sociale denunciavano sempre più apertamente il concubinato del clero, che implicava un uso illecito dei beni della Chiesa a vantaggio delle famiglie di ecclesiastici, la cui funzione veniva decisamente contestata. E poiché presso Stefano IX si erano recate successivamente due delegazioni, una dell'alto clero milanese, oggetto delle accuse, un'altra dei contestatori, detti patarini, forse da un nomignolo dispregiativo (straccioni) attribuito loro dagli avversari, il papa, probabilmente poco convinto dell'utilità di un sinodo provinciale, che si sarebbe dovuto convocare da parte dell'arcivescovo, e sensibilizzato dalle rimostranze dei patarini, incaricò Ildebrando e Anselmo da Baggio, il futuro papa Alessandro II, di compiere una missione ricognitiva a Milano. Ildebrando svolse l'indagine nel corso di andata in Germania, senza particolari risultati, se non quello di avviare un dialogo che sarebbe stato sempre più rilevante anche in seguito con i capi della pataria, non solo relativamente alla lotta contro il concubinato, ma anche, e soprattutto, per la lotta al clero simoniaco. Non è un caso che Erlembaldo, succeduto nella guida della pataria ad Arialdo e a Landolfo, fosse spesso ricordato nelle lettere di G. VII, nei suoi primi anni da papa.
Mentre Ildebrando ritornava dalla Germania e forse era già a Firenze, il 29 marzo 1058 moriva proprio nella città toscana Stefano IX e a Roma i fautori dei Tuscolani ed esponenti di altre famiglie patrizie intronizzavano papa, col nome di Benedetto X, Giovanni vescovo di Velletri. Insieme con i cardinali che non avevano accettato il colpo di mano dei nobili romani e che avevano abbandonato Roma, Ildebrando si adoperò per l'elezione di un papa legittimo, che fu scelto nella persona di Gerardo, vescovo di Firenze, che prese il nome di Niccolò II. La corte tedesca, questa volta informata, diede il suo assenso e intimò a Goffredo di Lorena, detto il Barbuto, di accompagnare Niccolò II a Roma, cacciandone l'usurpatore. Il 24 genn. 1059, dopo una certa resistenza armata da parte dei fedeli di Benedetto X, Niccolò II fu consacrato in S. Giovanni in Laterano: e proprio qui si tenne il sinodo (aprile 1059) che doveva promulgare il decreto sull'elezione dei pontefici romani, nel tentativo di razionalizzare una procedura o incerta e oscillante o soggetta a interventi esterni, indubbiamente illegittimi. Si trattava del famoso decreto In coena Domini.
Del decreto di elezione pontificia del 1059 si è discusso a lungo e ancora si discuterà: rimandando per i dettagli alla Enciclopedia dei papi, II, p. 191, si può affermare che ne sono state tramandate due redazioni, una considerata sostanzialmente autentica, detta "romana", per la quale non sono risultate convincenti le argomentazioni che hanno voluto identificarne gli autori in Pier Damiani o in Umberto di Silvacandida, e una, detta "imperiale", inficiata da interpolazioni e accolta dalla storiografia con sospetto. Il decreto si limitava a riconoscere al sovrano che nei suoi riguardi, al momento dell'elezione del nuovo pontefice, si sarebbero dovuti osservare l'"honor" e la "reverentia" che gli spettavano: anche se rimane ambiguo il significato preciso della clausola in cui si dichiarano "salvi il debito onore e la riverenza dovuti all'imperatore" (posto in una posizione meno rilevante del passato nella procedura di elezione del nuovo pontefice, che vede in primo piano i cardinali vescovi), non è possibile, come si è creduto e si crede tuttora, giudicare questo testo come volutamente antimperiale, anche perché proprio a questo decreto si sarebbero appellati i sostenitori della parte imperiale, per le successive elezioni. Nello stesso sinodo netta fu la presa di posizione di Ildebrando a proposito della vita regolare del clero: egli sostenne la cassazione di tutte quelle parti della cosiddetta regola di Aquisgrana, che consentiva ai canonici regolari di mantenere il possesso dei propri beni personali.
Ai problemi della riforma ecclesiastica si aggiungevano quelli della politica generale della Chiesa, specialmente per quel che riguardava l'Italia meridionale: i Normanni, dopo le alterne vicende dei loro rapporti con Leone IX e successori, si presentavano come la forza militare più potente, se non la più affidabile, dopo la rottura di ogni intesa con Bisanzio in seguito allo scisma di Michele Cerulario, sancito, nel 1054, da Umberto di Silvacandida. Ildebrando si recò a Capua, dove Riccardo, conte di Aversa, aveva assunto il titolo di principe e pareva arbitro dell'inquieta vicenda della dominazione dei vari signori normanni nell'Italia meridionale, per chiedere aiuto militare contro il conte di Galeria, Gerardo, che sosteneva Benedetto X: è forse eccessivo vedere nella missione un deciso cambiamento di alleanze, anche perché di dar man forte a Niccolò II era stato, come si è detto, incaricato Goffredo di Lorena. È legittimo chiedersi se nei contatti con i signori normanni non sia piuttosto da vedere una convergenza di interessi dei Normanni per assicurarsi un collegamento tutto sommato favorevole con il papa - e di ciò, come si dirà a proposito della utilitas nelle direttive della politica di G. VII, questi si sarebbe ricordato - e della Curia romana ad avere una possibilità di opzioni politico-militari più ampia di quella tradizionale dell'imperatore, stante anche la situazione della corte tedesca e del Consiglio di reggenza per il giovane re Enrico. Comunque, Ildebrando riuscì a ottenere un appoggio di 300 cavalieri normanni; Niccolò II vedeva così in qualche modo garantita l'osservanza del decreto del 1059 da Roberto il Guiscardo e poteva, nel 1060, celebrare due sinodi a Benevento e a Bari e investire, con ogni probabilità, Roberto il Guiscardo come duca di Puglia, di Calabria e Sicilia e Riccardo come principe di Capua. È da credere che, più che prova di un diverso e deciso orientamento della Chiesa di Roma, questi fatti debbano intendersi come successi dei Normanni nel loro sforzo di integrazione nel quadro politico europeo. Ildebrando era divenuto anche ufficialmente arcidiacono della Chiesa di Roma: era diventato, come ebbe a dire Pier Damiani, "dominus pape".
Nel luglio del 1061 moriva Niccolò II e si ripeteva, nonostante il decreto di elezione e la presenza di Riccardo di Capua e di Ildebrando a Roma, il contrasto tra nobiltà romana e ambienti riformatori. Una missione di nobili in Germania, per ispirazione di Gerardo di Galeria, caldeggiò l'elezione di Cadalo, vescovo di Parma, a pontefice romano, mentre Ildebrando e i cardinali vescovi eleggevano papa, il 30 sett. 1061, Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, che prese il nome di Alessandro II. Il 28 ottobre si riuniva a Basilea un concilio, per volontà della corte germanica, che invece dichiarava eletto Cadalo con il nome di Onorio II. L'appoggio a tale decisione da parte dell'episcopato lombardo era stato determinante, e ciò sottolineava la necessità di risolvere definitivamente la questione di una Chiesa da secoli legata alle decisioni imperiali. Per diverso tempo la situazione a Roma apparve incerta, anche perché la funzione mediatrice, ma sospetta, di Goffredo di Lorena si limitò a ordinare che Cadalo e Anselmo si ritirassero a Parma e a Lucca, in attesa di un arbitrato decisivo del re. Anche in Germania, tuttavia, la situazione si era fatta fluida, per l'ascesa a un posto di controllo nel Consiglio di reggenza di Annone di Colonia, sostanzialmente favorevole al gruppo riformatore. Annone convocò (ottobre 1062) un concilio ad Augusta perché si decidesse della questione; si richiese un supplemento di istruttoria, inviando in Italia il vescovo Burcardo di Halbertstadt, tendenzialmente favorevole ad Alessandro II, che rientrò a Roma nel marzo del 1063, scomunicando Cadalo. Ci fu un ritorno offensivo di questo e ancora una volta i Normanni e Ildebrando riuscirono a opporre una resistenza efficace.
Di una necessaria piattaforma canonistica per riaffermare i particolari privilegi della Chiesa romana si parla come di richiesta di Ildebrando in una relazione di Pier Damiani dopo una missione compiuta dallo stesso eremita a Milano: esclusa quasi definitivamente la possibilità che questo appoggio canonistico sia da identificarsi con la cosiddetta Collectio 74 titulorum, la ricerca di una riaffermazione anche giuridica di una tradizione che consentisse alla Chiesa romana e al papa la disponibilità di una ferma e incontrovertibile autorità decisionale può essere intesa come la maturazione consapevole di un atteggiamento protagonistico e interventista di Ildebrando in tutte le questioni di pertinenza anche indiretta della Chiesa: il che, per altro, non trovava tutti consenzienti nemmeno all'interno dello stesso gruppo riformatore. Comunque Pier Damiani riuscì a convincere Annone di Colonia, reggente per il minore Enrico, a convocare a Mantova il 31 maggio 1064 un concilio, in cui Alessandro II espose le ragioni della sua ascesa al pontificato e del ricorso all'aiuto dei Normanni: esse furono accolte, Cadalo fu scomunicato e, pur irriducibile negli anni successivi fino al 1071-72, rimase sempre più isolato. Alessandro II aveva vinto: e certo aveva vinto per l'appoggio dato anche da Ildebrando, la cui azione comunque, durante il pontificato di Alessandro II, rimase in una posizione di preminenza, anche se non esclusiva. Il superamento dello scisma e il raggiungimento di un rapporto accettabile con la corte tedesca ebbero l'effetto di stimolare la verifica delle possibilità di riforma della Chiesa occidentale: soprattutto allargarono gli orizzonti dell'azione di Alessandro II e del gruppo riformatore romano, dove intorno al 1061 era venuto a mancare Umberto di Silvacandida.
La verifica delle possibilità di riforma, che poteva anche non essere aliena dal coinvolgersi in azioni armate (affidamento ai Normanni, contro i musulmani, e ai patarini, contro il clero simoniaco, del vessillo di S. Pietro) assumeva sempre più i caratteri di uno stravolgimento e rifiuto della tradizione e delle consuetudini ecclesiastiche del mondo carolingio e postcarolingio. Clamoroso fu il caso di Pietro Mezzabarba, presule di Firenze, di cui si richiedeva la rimozione da parte dei vallombrosani: si arrivò a sostenere la richiesta con la prova del fuoco cui si sottopose Pietro "Igneo" e che determinò la deposizione del vescovo accusato di simonia da parte di un Alessandro II ancora esitante. A Milano, dopo la rinuncia fatta da Guido all'arcivescovato nelle mani di re Enrico e la designazione e l'elezione da parte dello stesso Guido e della corte tedesca di Goffredo (rifiutato e imprigionato da parte dei patarini, che elessero vescovo, con il consenso del papa e del legato pontificio Bernardo, Attone), si assistette a un'ulteriore rinunzia da parte di quest'ultimo. Ma Roma non accettò la rinunzia e Goffredo fu scomunicato, per richiesta di Ildebrando, al sinodo quaresimale del 1072: ciononostante Goffredo fu consacrato dai suoi suffraganei.
In Lombardia era ormai guerra: anche se Alessandro II, al contrario di Ildebrando, volle evitare ogni atto che potesse compromettere definitivamente i rapporti con la corte tedesca a proposito di interventi nella concessione dell'investitura da parte del sovrano. Fra i tanti vescovi tedeschi accusati chi di concubinato, chi di simonia, solo quello di Strasburgo si presentò al papa, forse nel sinodo quaresimale del 1073. Furono scomunicati alcuni dei più stretti collaboratori di Enrico, che probabilmente era stato proprio da loro consigliato a prendere posizione a favore di Goffredo, come avrebbe scritto di lì a poco allo stesso Ildebrando, che era nel frattempo divenuto papa Gregorio VII. Alessandro II non aveva messo in discussione il re, ma aveva posto le basi per una sua più che eventuale accusa, in quanto collegato con scomunicati. Non si può dire se lo avrebbe comunque fatto, poiché il 21 apr. 1073 morì. Ildebrando, arcidiacono della Chiesa romana in sede vacante, assunse la direzione della cosa ecclesiastica.
Il 22 aprile, nonostante le disposizioni date dallo stesso Ildebrando circa le procedure liturgiche che si sarebbero dovute osservare per la morte di Alessandro II, proprio mentre si svolgevano i funerali nella basilica lateranense il popolo dei fedeli insorse, acclamando papa Ildebrando, forse anche per un incitamento in questo senso da parte del cardinale Ugo Candido. Sull'avvenimento non possediamo che un protocollo ufficiale - e non scevro da ambiguità - e la testimonianza dello stesso G. VII nelle lettere subito inviate a varie personalità della Cristianità occidentale. Non a re Enrico comunque, circostanza che è stata interpretata in vario modo (cfr. Enciclopedia dei papi, II, pp. 194 s.).
A considerare l'attività svolta nel primo anno di pontificato, testimoniata soprattutto dalle lettere del Registrum e da altre non contenute in esso e conosciute come Epistolae collectae o vagantes (oltre che da fonti narrative di dubbia attendibilità), e a confrontarla con quella che si attuò negli anni successivi, si è notato come G. VII abbia accentuato la rigidità della sua posizione, soprattutto attribuendo, dopo il 1074, un carattere da "tribunali di inquisizione" agli stessi concili che con regolarità volle tenere a Roma durante il suo pontificato; ne tenne ben undici: quaresima 1074, autunno del 1074; quaresima 1075; quaresima 1076; quaresima 1078, autunno 1078; quaresima 1079; quaresima 1080; quaresima 1081; autunno 1083, tutti a Roma; seconda metà del 1084, a Salerno. È un'impressione complessivamente esatta: ma va contemperata con due considerazioni. La prima è che esistono oggi alcuni dubbi circa la datazione delle lettere che avrebbero comunicato a Sigfrido di Magonza, Werner di Magdeburgo e Ottone di Costanza i contenuti decisionali del concilio di quaresima del 1074, di cui non abbiamo il protocollo: nonostante le ampie argomentazioni di Borino, infatti, che fissavano al 1074 la datazione delle lettere e quindi delle decisioni prese, più recentemente H.E.J. Cowdrey (The Epistolae vagantes, Oxford 1972, pp. 160 s.) sembra ancora propendere per il 1075. La seconda è che appare sempre difficile attribuire una qualche importanza ai contesti cronologici in cui si svolge l'azione di G. VII, per le motivazioni che verranno illustrate più avanti. Se si ammette che, nella larga elasticità che si riservava nelle proprie decisioni, G. VII manteneva comunque sempre fermo lo scopo primario della sua azione, e cioè la verifica da lui operata dell'appartenenza alla fede di Cristo dei fedeli - tutti i fedeli - commessi alla sua guida pastorale, riesce difficile collegare strettamente eventi storici e caratteri essenziali delle decisioni. Sta di fatto che nelle su accennate lettere si ribadivano provvedimenti antisimoniaci e anticoncubinari non diversi da quelli che erano stati già adottati da Niccolò II e che non avevano nulla di drastico o di teoricamente assoluto (invalidità dei sacramenti amministrati dai simoniaci). Tutto ciò non disdiceva quanto era stato già annunziato nelle lettere di convocazione al concilio, due delle quali sono giunte fino a noi, in quanto contenute nel Registrum, I, nn. 42 e 43: a Sigeardo di Aquileia e ai suffraganei di Milano. In esse G. VII ribadiva la necessità di operare congiuntamente con il papa nell'interesse della utilitas della Chiesa (e si noti che il concetto comincia ad assumere una valenza per così dire "ideologica"). Significative e programmatiche, quindi, già nel 1074 sono le parole rivolte ai suffraganei di Milano: "Non incognitum vobis esse credimus in Ecclesia Romana iamdudum constitutum esse ut per singulos annos ad decorem et utilitatem sancte ecclesie generale concilium apud sedem apostolicam sit tenendum". Affermazione che poteva, forse, valere per i tempi di Leone IX, non per i suoi successori. È segno che fin dall'inizio i concili - anche quello del 1074, indipendentemente dalla possibile diversa datazione - ebbero per G. VII il carattere di riscontro dell'azione finalizzata al prestigio della Chiesa romana. Il confronto era ormai a tutto campo, al di là delle valutazioni circostanziali.
Gli ambiti di confronto rimanevano sostanzialmente tre: la questione milanese; il rapporto con la corte tedesca, che con la questione milanese era strettamente collegato; le relazioni con i Normanni. È fuor di dubbio che l'articolarsi delle relazioni con la Spagna, l'Europa orientale, le stesse Inghilterra e Francia rientrasse, con attenzione, nel ventaglio delle opportunità di verifica della propria azione da parte del papa: ma è altrettanto certo che i nodi della sua azione politico-ecclesiastica riguardassero le tre problematiche anzidette.
Dei rapporti con Enrico, quanto all'atteggiamento di fondo nei confronti del sovrano, si è già detto e si dirà: la volontà di giungere a un chiarimento - non riappacificazione perché ostilità aperta non c'era mai stata - è dimostrata ampiamente sia dalla cautela degli approcci indiretti compiuti dal papa anche per ciò che concerneva la sua elezione (e di cui si è detto), sia dalla questione rimasta in sospeso dei consiglieri del sovrano tedesco, scomunicati da Alessandro II. Una volontà di accordo non si sarebbe potuta manifestare più apertamente di quanto fece G. VII con Erlembaldo. Ma era una volontà di accordo che si muoveva su piani diversi per i due protagonisti e la disponibilità che indubbiamente essi dimostrarono non era della stessa sostanza. Era valutazione essenzialmente politica quella di Enrico, non necessariamente simulazione, si badi; era tattica pastorale e perciò non banalmente strumentale e immediata quella del pontefice. Lo si vide in occasione del sinodo quaresimale del 1075, che comunemente si ritiene una svolta per quello che concerne i rapporti con Enrico e la corte tedesca. Sarà data poi una valutazione alle decisioni che lì vennero assunte, e del carattere stesso di "inversione consapevole di rotta" che quel concilio poté rappresentare: qui preme sottolineare che il concilio fu preceduto da una serie di interventi per situazioni locali di segno diverso: Registrum, II, n. 43 a Ugo di Die, in cui si arriva ad affermare, stante la severità del legato apostolico nei confronti della propria Chiesa in Borgogna, che "melius placet ut pro pietate interdum reprehendaris quam pro nimia severitate in odium ecclesie tue venias", tanto più che delle questioni pendenti si sarebbe dovuto discutere al prossimo concilio; Registrum, II, n. 45 ai duchi Rodolfo di Svevia, Bertoldo di Carinzia e Guelfo di Baviera, dell'11 genn. 1075, per esortarli a combattere duramente contro la simonia in termini del tutto diversi e impegnativi personalmente.
Si era a metà gennaio 1075 e quest'ultima rigorosa esortazione di G. VII era indirizzata a chi poteva far sentire la propria voce "tam in curia regis quam per alia loca et conventus regni" soprattutto se si pensa che alla fine di febbraio (24-28 febbraio) il consueto sinodo quaresimale sarebbe stato incentrato, per una buona parte, su coloro che avevano trascurato di prendere nella dovuta considerazione le sanzioni loro comminate per colpe di simonia e di concubinato, da applicarsi anche con la forza.
Per quanto ci è dato di sapere dal testo succinto che riassume le decisioni del sinodo quaresimale del 1075, apprendiamo di deliberazioni assai severe nei confronti: di cinque consiglieri del re, "quorum consilio ecclesie venduntur" (separazione dalla Chiesa e minaccia di scomunica in caso di mancata presentazione entro il 10 giugno successivo); dello stesso Filippo di Francia (scomunica in caso di mancate soddisfazione e garanzia del suo pentimento); di Liemaro di Brema (sospensione e impedimento dal ricevere la comunione); di Guarnerio di Strasburgo, Enrico di Spira, Ermanno di Bamberga (egualmente sospesi). Sospesi furono anche Guglielmo di Pavia e Cuniberto di Torino, mentre Dionisio di Piacenza venne deposto; Roberto il Guiscardo e Roberto di Loritello, in quanto invasori delle terre di S. Pietro, furono scomunicati.
A ben guardare - e per quanto concerne questa parte - il sinodo quaresimale del 1075 conteneva qualche inasprimento, soprattutto nei confronti del clero concubinario, per i casi che erano da qualche tempo in discussione, soprattutto quello di Dionisio di Piacenza e Liemaro di Brema. Se in ciò si fosse dovuto risolvere il concilio quaresimale del 1075 - a parte la soluzione salomonica di un vecchio contenzioso tra la diocesi di Praga e quella di Olmütz - non avrebbe avuto maggior rilievo di altri. Ma così non fu, per alcuni elementi di grandissimo significato.
Da una notizia del cronista milanese Arnolfo (Liber gestorum recentium, IV, 7), contemporaneamente a un incontro tra messi di Enrico e di Roberto il Guiscardo si sarebbe svolto un sinodo a Roma in cui il papa "interdicit regi ius deinde habere aliquod in dandis episcopatibus omnesque laicas ab investituris summovet personas. Insuper facto anathemate cunctos clamat regis consciliarios, id ipsum regi comminatus, nisi in proximo huic obediat constituto". Quindi, volendosi riconoscere nelle parole di Arnolfo un riferimento alla notizia contenuta in Registrum, II, n. 52a, circa la condanna dei cinque consiglieri regi, nel sinodo del 1075, si sarebbe avuta la prima condanna ufficiale della investitura laica. D'altro canto, non trovandosi, nei mesi successivi al marzo del 1075, alcuna risonanza per un provvedimento così grave e nessuna reazione della corte tedesca, si è avuta da parte degli studiosi una fondata difficoltà ad accogliere la notizia del cronista milanese. Si è pensato, da parte della quasi generalità degli studiosi, che il decreto di divieto dell'investitura laica fosse stato deciso nel 1075, ma non promulgato; successivamente G.B. Borino (Il decreto di G. VII, in Studi gregoriani, VI [1959-61], pp. 329-348) affermò che nel 1075 il decreto fosse stato effettivamente promulgato, ma non pubblicato. Ma per uno spostamento in avanti, per considerazioni di carattere generale, oltre che per motivi ermeneutici delle fonti, R. Schieffer (Die Entstehung des päpstlichen Investiturverbots, Stuttgart 1981) ritenne che il decreto dovesse essere ascritto al 1078; la tesi di Schieffer venne respinta da F. Kempf (recensione in Archivum historiae pontificiae, XX [1982], pp. 409-415) e un ultimo tentativo di soluzione "compromissoria" venne compiuto da H.E. Hilpert (cfr. Zum ersten Investiturverbot…, in Deutsches Archiv, XLIII [1987], pp. 185-193).
In questa situazione di carenza di documentazione precisa si può solo prendere atto della circostanza che nella lettera a Enrico del periodo dicembre 1075 - gennaio 1076 (Registrum, III, n. 10) si pronunciava da parte di G. VII una sorta di ultimatum a Enrico, che aveva mantenuto rapporti con i propri consiglieri scomunicati, nonostante una "promulgata sententia" concernente la proibizione dell'investitura laica (1075?): così nel sinodo quaresimale di cui abbiamo il protocollo (Registrum, III, n. 10a), in risposta alla decisione del concilio di Worms, convocato da Enrico (24 genn. 1076), in cui si denunciava G. VII per l'irregolarità della sua stessa elezione e il misconoscimento dei diritti spettanti al re per la sua carica di patricius di Roma, già attribuita al padre Enrico III, in quel sinodo quaresimale del 1076, si diceva, Enrico veniva scomunicato, al pari dei vescovi lombardi e tedeschi che lo avevano sostenuto; gli stessi sudditi del re venivano prosciolti dal giuramento di fedeltà prestato al loro sovrano (per altri dettagli, v. Enciclopedia dei papi, II, p. 198).
La scomunica al re e il proscioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà ridiede animo ai Sassoni e ai numerosi signori tedeschi antienriciani. A Ulma si decise di convocare, a Tribur per il 16 ott. 1076, le assise del Regno, con la prospettiva di procedere a una nuova elezione; nonostante questa assemblea si concludesse, anche per un intervento moderatore di G. VII, in modo interlocutorio, per un impegno di Enrico a valutare la possibilità di una riappacificazione con il papa, previa soddisfazione resa a quest'ultimo dal re e da coloro che con lui erano stati scomunicati, nonostante ciò, si diceva, venne fissata per il 6 genn. 1077 una grande assemblea del Regno ad Augusta, che sarebbe stata presieduta da Gregorio VII. Per Enrico era l'ultima cosa desiderabile, in quanto nella più favorevole delle ipotesi avrebbe visto, salvando la corona, affidata all'obbedienza più assoluta a G. VII la propria posizione; in caso contrario, avrebbe perso il Regno, a favore dei suoi nemici. Occorreva per lo meno ritardare la partenza del papa per la Germania o farla rinviare sine die. In realtà fu deciso che l'assemblea si sarebbe tenuta il 2 febbraio, per dar modo al papa di raggiungere la Germania. G. VII si mosse per compiere quella che sarebbe potuta essere la sua missione più trionfale: senza però tener conto di una contromossa di Enrico, che in qualche modo gli venne incontro, giungendo in Italia con un piccolo seguito di fedeli; il pontefice non fece l'unica cosa che avrebbe dovuto fare: proseguire per la Germania. Si fermò nel castello di Matilde, a Canossa, nel Reggiano, quasi ad attendere il "nemico", che vi giunse a sua volta il 25 genn. 1077 e attese tre giorni, penitente, che il papa lo ricevesse. Fu alla fine ricevuto e con G. VII c'erano Matilde, Ugo di Cluny, Azzo d'Este e Adelaide di Savoia, i quali tutti vollero intercedere a favore del re tedesco. Il papa liberò dalla scomunica Enrico che, impetrato il perdono, promise che si sarebbe comunque adoperato per assicurare una soluzione pacifica per il Regno di Germania. La sua assoluzione non implicò, automaticamente, la sua restaurazione sul trono di Germania: ma non la escluse. I Sassoni intesero diversamente l'accaduto e a Forchheim il 13 marzo 1077 elessero re di Germania Rodolfo di Svevia, ritenendo che G. VII non avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo. Ma il papa era arrivato al punto in cui non poteva lasciare che le questioni del più potente Regno d'Europa e della Christianitas fossero risolte senza un suo intervento. Non accolse la richiesta di condannare Enrico come il cardinal legato Bernardo avrebbe voluto, avendo scomunicato il re a Goslar il 12 nov. 1077; né accolse la richiesta di Enrico di scomunicare Rodolfo; ribadì il convincimento che solo una grande assemblea del Regno avrebbe potuto risolvere - ma sotto il suo personale controllo - la questione tedesca. Ma in Germania non era il caso di andare senza scorta: e questa non venne, così che, rimasto in Lombardia fino a estate inoltrata, G. VII riprese la via di Roma, dove il fratello di quel Cencio che aveva già attentato alla sua vita aveva trucidato un altro Cencio, prefetto di Roma e figlio di Giovanni Tignoso, già alleato dello stesso Gregorio VII. Non solo, Roberto il Guiscardo, che aveva cacciato definitivamente da Salerno Gisulfo, faceva di nuovo balenare una minaccia molto più prossima a Roma di quella di Enrico o, in qualche misura, dello scontento Rodolfo.
Per la questione tedesca G. VII non poteva far altro che insistere per una grande assemblea e richiedere, in posizione di oggettiva imparzialità, a Udone di Treviri (Registrum, V, n. 7 del 30 sett. 1077) e a tutti gli arcivescovi, vescovi, duchi, principi, marchesi di Germania (ibid., n. 15 del 9 marzo 1078, per dar contezza delle decisioni del concilio quaresimale del 1078) di adoperarsi per non ostacolare in alcun modo le missioni dei legati papali, di non fomentare disordini nella necessità di riportare la pace in Germania. Nel sinodo quaresimale del 1078 le novità non furono molte, se si eccettua che nel capitolo 14 del protocollo delle decisioni sinodali si poteva per la prima volta in maniera inequivoca leggere: "ordinationes vero illorum, qui ab excommunicatis sunt ordinati, sanctorum patrum sequentes vestigia, irritas fieri censemus" (ibid., n. 14a, protocollo del 27 febbraio - 9 marzo 1078). Sul valore di questa presa di posizione, insolitamente impegnata, se lo fu veramente, sul piano teorico, si dirà poi. Ma decisamente molto rilevante, per quanto si è detto a proposito di investiture, fu il sinodo del novembre 1079 in cui i legati dei due re giurarono che nessuno dei due avrebbe ostacolato la missione di pace degli inviati del papa e in cui per la prima volta in maniera chiara veniva proibita l'investitura laica (capitolo 8 del protocollo conciliare). Fallì un incontro dei due legati pontifici Pietro Igneo e Udalrico con il re Enrico, che riuscì a guadagnar tempo in modo da poter rafforzare la propria posizione militare contro i Sassoni.
G. VII si risolvette a prendere finalmente una decisione drastica: il 7 marzo 1080, in occasione del consueto concilio quaresimale, oltre a rinnovare le scomuniche a Tedaldo di Milano e Wiberto di Ravenna, nonché ad altri presuli simoniaci, e a ripetere le decisioni contro l'investitura laica assunte l'anno precedente, pronunziava una seconda condanna di scomunica contro Enrico, reo di aver mentito al pontefice, di aver cercato di tirarlo dalla sua parte nella lotta che lo opponeva a Rodolfo, di aver soprattutto mancato di obbedire, commettendo così un reato di idolatria. Apparentemente si assistette al ripetersi di un copione già svolto nel 1076. Ci furono condanne reciproche: da parte regia il 31 maggio a Magonza un'assemblea di vescovi enriciani dichiarò deposto G. VII e proclamò la necessità di avere un nuovo papa; il 25 giugno 1080, a Bressanone, un'assemblea di vescovi italiani, tedeschi e della Borgogna, con il solo cardinale Ugo Candido, ripeté solennemente la deposizione di G. VII ed elesse Wiberto di Ravenna nuovo papa con il nome di Clemente III. Da parte papale il 27 febbr. 1081 nel concilio quaresimale si ripeterono le condanne contro Enrico e i suoi fautori (Registrum, VIII, n. 20a). G. VII cercò ancora una composizione con i Normanni, congelando le questioni scottanti che lo avevano posto soprattutto contro Roberto il Guiscardo; fece molto affidamento sull'aiuto militare che Matilde di Canossa poteva garantirgli in Italia centrale, ma non poté impedire che Enrico, alla testa di un forte esercito, entrasse in Italia e giungesse ad assediare Roma dal 21 maggio 1081 al maggio del 1084, quando il 27 di quel mese, dopo che Wiberto era stato consacrato papa e intronizzato in S. Pietro (27 marzo 1084), solo l'intervento dei Normanni di Roberto il Guiscardo salvò G. VII dall'assedio tedesco posto a Castel Sant'Angelo. G. VII fu portato a Salerno, mentre a Roma si perpetrava uno dei più selvaggi saccheggi che la città in tanti secoli avesse subito, a opera dei "liberatori" Normanni. Era veramente la fine: non erano mancati tentativi di pacificazione, da una parte e dall'altra, nel corso di quell'anno, ma la diversa posizione politica e militare e la morale impossibilità del pontefice di cedere a qualsiasi compromesso che potesse ledere le sue posizioni di principio resero vani questi tentativi. Anzi, ne venne precisata tutta una tesi di G. VII sul potere terreno, in una seconda, famosa lettera a Ermanno di Metz, che sarà oggetto più avanti di particolare attenzione.
Continuò anche dopo questi eventi la guerra tra i fautori di Enrico, ormai imperatore (incoronato da Wiberto il 31 marzo 1084), e di G. VII: e continuò con veemenza estrema la lotta dei libellisti. Ma a Salerno, dove aveva riunito un ultimo concilio che aveva ribadito la condanna e la scomunica dei suoi avversari e da dove aveva continuato a mantenere qualche rapporto con il resto della Cristianità, pur nel progressivo abbandono di tanti vescovi ed ecclesiastici, il 25 maggio 1085 G. VII moriva. Vere o non vere, le parole che la tradizione narrativa e biografica gli attribuì in punto di morte ("dilexi iustitiam et odio habui iniquitatem, idcirco morior in exilio") sintetizzano la solitaria e disperata grandezza di questo papa.
Per quel che riguarda il rapporto di G. VII con la Chiesa, c'è da considerare come almeno dal tempo di Leone IX si era proposto all'interno della stessa il problema di una funzionalità razionale delle sue strutture portanti (arcivescovati, monasteri, vita religiosa), non perché fosse divenuta oggetto di cattura, fruizione, snaturamento da parte di un potere laico, ma per l'immedesimarsi di essa con il contraddittorio e convulso mondo dei vari poteri, esercitati di fatto, se non di diritto, nell'Europa occidentale e in Italia - un immedesimarsi che aveva necessariamente quasi cancellato l'identità di immagini e di funzioni del clero. In quel momento s'era imposta la necessità di una "restaurazione" dello statuto della società cristiana. Questa restaurazione non poteva non procedere dalla verifica delle strutture gerarchiche e dei modi di accesso a esse, visto che al loro interno s'era verificato quel fenomeno, che nel linguaggio specifico si chiama simonia, e in quello storiografico si traduce con clericalizzazione della ricchezza: per dire che, in questo caso, come in altri di cui si dirà, G. VII non aprì una problematica "nuova" (non lo era per lo meno dai tempi di Gregorio Magno), ma volle affrontarla con meccanismi alternativi a quelli che le infrastrutture normativo-canonistiche del tempo gli offrivano.
Queste infrastrutture erano largamente ispirate dallo spirito informatore delle pseudoisidoriane (metà circa del IX secolo) che era particolarmente garantista della posizione dell'episcopato proprio nei riguardi della possibilità di intrusione e anche aggressione del potere laico verso quello ecclesiastico. Ma questo garantismo, al di là delle intenzioni, aveva dato luogo a una sostanziale impraticabilità di ogni procedura accusatoria nei confronti dell'episcopato medesimo, i cui membri, una volta conseguita la carica - e spesso con mezzi illeciti, quali la pressione di un parente particolarmente potente verso l'elettorato, la pattuizione pecuniaria, la promessa di cessione di parte dei beni della Chiesa episcopale, ecc. - ricorrevano contro eventuali contestazioni proprio a quell'ordinamento canonistico di cui si è detto e che, in tal modo, funzionava solo all'esterno del sistema, ma non aveva corrispettivi all'interno del medesimo. Ciò spiega perché il problema si proponesse con sempre attuale urgenza a G. VII, pur essendosi avviata, soprattutto da parte di Leone IX, un'iniziativa di recupero di buon funzionamento: i pontificati successivi di Vittore II, di Stefano IX, di Niccolò II e di Alessandro II furono o troppo brevi o troppo impegnati in vicende di stretta attinenza alla politica della Chiesa di Roma o addirittura a quelle di uno scisma, quello di Cadalo, per potersi dedicare a riforme interne delle infrastrutture ecclesiastiche della Chiesa occidentale.
Con G. VII l'intervento in questioni interne delle singole diocesi non solo si manifestò sin dai primi anni del pontificato, ma assunse un impegno non risolvibile esclusivamente in una più attenta e severa applicazione delle procedure, bensì in una continua verifica della funzionalità delle strutture e delle gerarchie a una certa idea della società.
Così è da intendere uno dei primi atteggiamenti assunti verso il problema dell'investitura regia dei vescovi, che riguardava il vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio, che era stato indubbiamente favorito dallo zio, Alessandro II, nella promozione a vescovo e che dallo stesso Alessandro II era stato inviato al re - il futuro Enrico IV - per riceverne l'investitura. Si era nel 1073, nel primo anno di pontificato di G. VII, ma l'interpretazione che si è solitamente data al passo della lettera del papa (Registrum, I, n. 21 del 1° sett. 1073) e a un altro del Chronicon di Ugo di Flavigny (ed. a cura di G.H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, VIII, Hannoverae 1848) in cui si ricorda l'episodio sottolineando la circostanza che, pur essendosi Anselmo recato presso il re affinché, nelle intenzioni dello zio (Alessandro II), vi ricevesse l'investitura, ne ritornò senza, in quanto avrebbe avuto i caratteri di un accordo simoniaco, quell'interpretazione, si diceva, non regge.
L'investitura regia non era - non era ancora, forse - sinonimo di simonia: ma poteva Enrico (IV) compiere un atto di rilevanza anche ecclesiastica verso un ecclesiastico trovandosi in stato di scomunica? Non si discuteva il diritto del re in quanto tale, ma si discuteva la persistenza di tale diritto in un re che, al momento, non era membro della comunità: e la valutazione di tale permanenza o non permanenza non era un diritto del papa, ma un suo dovere.
L'intervento diretto o per il tramite dei legati da parte di G. VII nelle questioni interne delle Chiese della Christianitas è testimoniato da una serie rilevante di sue lettere. La validità di un'ordinazione comunque giudicata simoniaca implicava d'altronde una delicatissima questione teologica, circa la validità stessa di ogni sacramento che, mediante la cassazione - come nel caso delle ordinazioni simoniache - veniva a dipendere dal giudizio di un solo uomo, fosse esso il papa. Tale questione si era posta sin dai tempi di Leone IX e non aveva trovato una soluzione uniformemente accettata: a proposito degli interventi di G.VII e della questione sacramentaria v. Enciclopedia dei papi, II, p. 201.
Nella prima lettera a Ermanno di Metz G. VII non affronta un tema teologico sulla natura del sacramento, ma pone una questione di interpretazione ierocratica della società. Il suo è un discorso polemico, non giuridico e nemmeno concettuale, ed è un discorso essenziale e tutto calato nel mondo della storia della società cristiana, che per essere tale implica delle gerarchie assolute di valori in vista dei quali vale un solo ordine, quello testimoniato da Cristo alla Chiesa e al suo vicario: "Nam sicut illi qui omni sue voluntati deum preponunt eiusque precepto plus quam hominibus obediunt, membra sunt Christi, ita et illi, de quibus supra diximus, membra sunt Antichristi" (Registrum, IV, n. 2).
In questa dimensione si è, soprattutto di recente (G. Fornasari, C. Leonardi, G. Cracco), voluto vedere una caratteristica del tutto originale dell'ecclesiologia di G. VII, di tipo spiritualistico nel senso che, al di là del formalismo giuridico o della norma disciplinare o della stessa teoria sacramentale, si proponeva nella gestione della Chiesa universale un'apertura alla considerazione dei valori più propriamente "pneumatici" ispirati dallo Spirito Santo, da una forte coscienza dello spirito di verità e di libertà, intesa questa, appunto, come impegno permanente a difendere certi valori. Si tratta di una posizione che può presentare il vantaggio di aprire un orizzonte più vasto di quello delimitato dalla discussione delle ascendenze verso le tesi di Umberto di Silvacandida o di Pier Damiani, anche se va ribadito che il carattere indelebile del sacramento dell'ordine era pacificamente accettato, nel sec. XI, negli ambienti teologici: il che rendeva problematica ogni dichiarazione di nullità da parte di chiunque. E in ogni caso, se il criterio discriminante era la coscienza di certi valori da parte di una personalità di eccezione, quale poteva anche essere quella di G. VII - non si dimentichi quanto si è già detto circa le sue esperienze monastiche - restava termine oggettivo, ancorato cioè a un parametro immutabile, dell'automatismo garantito tra influenza "pneumatica" (assistenza dello Spirito Santo) e azione pratica del destinatario di questa influenza, cioè la Chiesa romana e il suo capo, vale a dire il papa. Ma l'assunzione della funzione dello Spirito Santo da parte del pontefice romano determina che il suo primato è una conseguenza di questo modo di concepire la presenza operante dello Spirito Santo - cioè della fede - nella società cristiana: non è un modo politico per eludere la posizione di stallo della disputa sacramentaria, né è articolatamente una soluzione di tipo giuridico.
Si deve riconoscere che la terminologia stessa di questa idea di una salvezza collettiva nella persona del papa assume il linguaggio di una tradizione che è inevitabilmente giuridica, risalendo al mondo dei principî fondanti della respublica romana: si tratta dell'utilitas. Il concetto rimanda, nel suo corrispettivo antitetico, inutilitas, a una tradizione che non ha la stessa attestazione quantitativa o la stessa valenza semantica del più noto irritus, irritum, irrita/ae (cfr. Y. Congar, L'épiscopat et l'Église universelle, Paris 1962, pp. 106-123; O. Capitani, Tradizione e interpretazione, Roma 1990, pp. 189 s.): ma concetto anche di significanza polivalente. Un sondaggio limitato alle lettere di G. VII contenute nel Registrum, certo non esaustivo, ha potuto rinvenire una trentina di lettere, comprese nell'arco degli anni 1073-81, in cui nelle circostanze più diverse il ricorso al concetto di utilitas si attua sempre con l'intento di segnalare il coinvolgere il profectum generale dei cristiani, partecipi della stessa sacralità annessa all'istituzione. E così "senza utilitas, non ci può essere libertas, iustitia, sollicitudo" (O. Capitani, Tradizione e interpretazione, cit., p. 193).
L'estrema duttilità che G. VII sapeva adottare, nell'ambito della utilitas della Chiesa, si mostra nella lettera a Erlembaldo (Registrum, I, n. 25) nella quale non solo il papa affermava che la lettera del re conteneva espressioni "qualia neque ipsum neque antecessores suos recordamur Romanis pontificibus misisse", ma sosteneva che un eventuale accordo tra i principi normanni, lacerati da rivalità reciproche, poteva risultare nocivo alla Chiesa e che, se egli (cioè G. VII) lo avesse stimato "utile" alla stessa essi si sarebbero mostrati ubbidienti e deferenti al papa: affermazione che non lascia adito a dubbi circa la subordinazione di ogni mossa di politica ecclesiastica all'utilitas che il papa voleva cercare comunque per la Chiesa romana. Il che può spiegare abbastanza facilmente perché la questione della Chiesa di Milano, dove era fortissima la resistenza dell'arcivescovo Goffredo condannato come simoniaco, venisse affrontata con una diversità di atteggiamenti che mirava essenzialmente a isolare l'arcivescovo dai suoi suffraganei. Beatrice, marchesa di Toscana, e sua figlia Matilde sono richieste di astenersi da ogni rapporto con loro (Registrum, I, n. 12), ma ai fedeli di Lombardia (ibid., n. 15) si additava soprattutto in Goffredo il simoniaco scomunicato senza possibilità di appello: ai vescovi di Pavia e di Acqui viene, nonostante il loro precedente appoggio a Goffredo, concesso di riscattarsi, sostenendo Erlembaldo nella sua lotta, più che antisimoniaca, antivescovile. Tra G. VII e un episcopato, come quello lombardo, da secoli consapevole delle proprie competenze e delle proprie garanzie canoniche, veniva a determinarsi uno stato di mancanza di riferimento canonico, cui non si era posto rimedio.
Solo avendo in mente questo presupposto ci si può avvicinare al problema dei Dictatus papae, un elenco di ventisette proposizioni posto nel Registrum di G. VII, tra una lettera al vescovo di Lodi, Opizone, del 3 marzo 1075 e una a Manasse, arcivescovo di Reims, del 4 marzo 1075, di rilievo nemmeno particolarmente singolare o eccezionale. Poiché si tratta di semplici enunciati, non seguiti da un testo o patristico, o storico, o canonistico che delle singole tesi potesse fornire un supporto, si è ovviamente pensato che quest'elenco potesse costituire l'ipotesi di quella stringata raccolta di canoni che G. VII desiderava che Pier Damiani gli approntasse e che quindi le proposizioni ne fossero come l'indice dei titoli, secondo la consuetudine delle raccolte canonistiche.
Così suppose G.B. Borino (Un'ipotesi sul Dictatus papae, in Arch. della R. Deputazione romana di storia patria, LXVII [1944], pp. 237-252) e così dopo di lui è stato supposto, indipendentemente da ogni tentativo di datazione dell'elenco, che dovrebbe comportare alcune certezze sulla natura stessa del Registrum e sui tempi di composizione, visto che esso non è un vero e proprio registro di Cancelleria, come si dirà in seguito. A rendere alquanto problematica l'accettazione di questa tesi, almeno nella sua formulazione essenziale (indice di una raccolta di canoni), sono sorte alcune osservazioni (specie di H. Fuhrmann, Papst Gregor VII. und das Kirchenrecht…, in Studi gregoriani, XIII [1989], pp. 123-149, da ultimo, con rinvio ai precedenti dubbi), fondate su alcune circostanze di grande rilievo. È difficile trovare dei precedenti canonistici, anzi talora ci si trova di fronte a contrasti clamorosi; non c'è alcun esplicito riferimento da parte di G. VII ai Dictatus papae né alcun esplicito riferimento in altri scritti pubblicistici. Ci si è così chiesti (Fuhrmann) quale potesse essere la funzione di un'opera non destinata a essere resa pubblica o che, perlomeno, non fu mai pubblicizzata. E una possibile conclusione è stata che lo scritto era sorto in uno stato d'animo stizzito di chi immaginava una costruzione teorica, rimasta tra desiderio e realtà. Da un punto di vista formale la conclusione appare appropriata, ma proprio perché G. VII non è mai stato un giurista - e su questo c'è sostanzialmente un comune accordo - e proprio perché non si tratta di un falso, ma veramente di Dictatus papae, cioè di uno scritto del papa (non era l'unico caso, nel Registrum: cfr. O. Blaul, Studien zum Register Gregors VII., in Archiv für Urkundenforschung, IV [1912], pp. 113-228), non sembra impossibile vedere in esso un testo programmatico per l'azione del papa. Va comunque precisato che le proposizioni riguardano essenzialmente le prerogative del papa, molto più che della Chiesa romana. Si è potuto notare come, su un totale di ventisette proposizioni dei Dictatus papae, sono ventiquattro quelle che riguardano il papa: sette di esse contengono precetti negativi ("nullus", "numquam") concernenti la persona del pontefice; dieci precetti propositivo-affermativi in contrasto con la consuetudine normativa esistente (condanna degli assenti, accuse degli inferiori ai superiori, deposizione senza necessario intervento di concilio, ecc.); sette riportano affermazioni di esclusività di diritti del papa ("illi soli", "nomen unicum", "solus ille" ecc.). Ciò fa sì che nei Dictatus il papa appaia "veramente legato ad una solitudine di responsabilità, di decisionalità, di committenza che non ha riscontro" (O. Capitani, Tradizione e interpretazione, cit., p. 224). E solo per ribadire una singolare coincidenza, senza pensare che l'ignoto copista del Registrum avesse veramente avvertito come programmatico questo testo, tanto da indurlo a copiarlo (ma perché a quel punto, allora, se aveva tanta finezza interpretativa?), si deve rilevare che una tale assoluta solitudine e grandezza di responsabilità si ritrova con affermazione veramente drammatica nel cosiddetto frammento "A" De sancta Ecclesia, inserito nella collezione di canoni del cardinale Deusdedit (v. ibid., pp. 225-227; per ulteriori precisazioni sui Dictatus papae v. Enciclopedia dei papi, II, p. 204).
Diverso l'atteggiarsi di G. VII verso i monasteri, in una complessiva tendenza a prediligere le forme congregazionali, quali ovviamente Cluny, ma anche Vallombrosa, S. Vittore di Marsiglia, S. Benedetto di Polirone, divenuto centro dell'azione canossiana nel mondo monastico della Bassa padana e in particolare dal momento in cui Beatrice e Matilde di Canossa promossero la riforma di G. VII in una zona in cui la tradizione monastica imperiale continuava ad avere un peso notevolissimo presso un'istituzione che non poteva essere additata come tralignante dalla regola benedettina, né nel costume, né in altro (v. per tutto ciò, da ultimo, Storia di S. Benedetto Polirone, a cura di P. Golinelli, I, Bologna 1998).
Fu favorito l'istituto della esenzione dall'ordinario diocesano, nel sospetto che del controllo dei vescovi non ci si potesse fidare in ogni caso; si insisté in maniera pressante sul tema della libera elezione dell'abate, al di fuori di ogni invadenza di estranei alla comunità monastica, con una formula che ritorna puntualmente "Ut obeunte abbate, nullus quacunque obreptionis astutia ordinetur, nisi quem fratres eiusdem coenobii communi consensu secundum timorem Dei et regulam S. Benedicti elegerint"; ma analoghe disposizioni si ebbero sin dal principio del pontificato, come attestano lettere sia del Registrum, sia dei privilegi in senso stretto raccolti da L. Santifaller (Quellen und Forschungen…, 1957; un elenco in G. Miccoli, G. VII, in Bibliotheca sanctorum, col. 358; G. Picasso, G. VII e la disciplina canonica: clero e vita monastica, in Studi gregoriani, XIII, cit., pp. 151-166); anche se i numerosi documenti a favore dei monasteri da parte di G. VII riflettono preoccupazioni locali riproponendo per la conferma di privilegi ottenuti dai suoi predecessori (solo un'indicazione limitata in O. Capitani, Imperatori e monasteri nell'Italia centro-settentrionale (1049-1085), in Il monachesimo e la Riforma ecclesiastica, Milano 1971, pp. 423-489) testi precedenti, si può osservare in molti casi un ampliamento delle concessioni, tutelate dalla tuitio apostolica: un caso è quello del documento per S. Cipriano di Poitiers del 27 marzo 1080. L'impressione che si coglie da questi interventi è comunque di un'azione di diversa e inferiore responsabilità generale rispetto a quella dispiegata per l'episcopato.
Così, se certamente il problema della vita comune del clero fu tra i più sentiti nell'ambito di una riforma generale della vita ecclesiastica (basti pensare ai numerosi testi normativi indicati da C.D. Fonseca, Medioevo canonicale, Milano 1970 e a La vita comune del clero nei secoli XI e XII, Milano 1962), e vide Ildebrando - non G. VII - sostenere un adeguamento della regola canonicale di Aquisgrana a prassi più severe, come si è sopra rilevato, la certezza oggi raggiunta che non si possa in alcun modo parlare di una regola di G. VII dà sostanzialmente ragione ai giudizi ridimensionati, per questo aspetto del rapporto di G. VII con la Chiesa, espressi da E. Delaruelle (La vie commune des clercs et la spiritualité populaire au XIe siècle, in La vita comune del clero, cit., I, pp. 142-185), da G. Miccoli e assunti da G. Picasso (G. VII e la disciplina canonica, cit., p. 163).
Se del rapporto tra G. VII e l'Impero si è già largamente detto sopra, rimane al proposito ancora da considerare se tale rapporto nelle sue linee di eventi successivi possa essere ricondotto a una concezione in qualche modo univoca di G. VII o se, come potrebbe forse sembrare dall'andamento per qualche tempo altalenante delle relazioni tra le due istituzioni e tra i due protagonisti, debba essere interpretato come empirico.
Si è universalmente riconosciuto il carattere inusualmente "teorico" che, in particolare per il problema dei rapporti con l'Impero, hanno assunto due famose lettere a Ermanno di Metz, scritte nei due momenti di tensione acuta di quei rapporti (Registrum, IV, n. 2 del 25 ag. 1076; VIII, n. 21 del 15 marzo 1081), quando cioè Enrico IV era stato scomunicato, dopo le vicende del concilio di Worms e quindi prima di Canossa; e quando c'era stata la seconda definitiva (?) scomunica, dopo le vicende di Bressanone.
La prima lettera svolge la propria argomentazione intorno al tema dell'opportunità della scomunica di Enrico. In nessun luogo dello scritto si trova menzione di investitura laica, ma di rapporto illecito con il gruppo dei suoi consiglieri, scomunicati "pro symoniaca heresi" e pertanto tali da far incorrere nella scomunica anche colui che con essi avesse rapporto. Da un punto di vista tradizionale non ci sono novità, se non il richiamo al Salmo 13, 3: "Omnes simul inutiles facti sunt in voluntatibus suis" perché hanno negato Dio in quanto simoniaci ("Dixit insipiens in corde suo: "Non est Deus""): con ciò si conferma che la disobbedienza ai precetti del papa equivale a negare Dio e, pertanto, perdere ogni "utilitas" nel proprio agire, visto che, come si è rilevato, "utilitas" è intesa come il bene della Chiesa universale, nei parametri interpretativi indicati dal papa. Dopo di che si svolge l'argomentazione di carattere storico, quindi di carattere teologico e infine di carattere giuridico. Da un punto di vista storico, si ricorda un passo delle pseudoisidoriane in cui a proposito dell'ordinazione di papa Clemente I, allorché si affermò che chi non godeva della "gratia pontificis" perché amico di coloro ai quali il pontefice non si rivolgeva, era eguale ai suoi amici, dal punto di vista del godimento della grazia. Un passo che doveva essere ben presente a G. VII, in quanto lo ritroviamo nella successiva lettera a Ermanno (Registrum, VIII, n. 21) e che in questo scritto si combina, per giustificare la scomunica, ad altro passo biblico (II, Corinzi, 10, 6; I, Corinzi, 5, 11): "Habentes in promptu ulcisci omnem inoboedientiam". Seguono dei richiami a fatti storici di discutibile interpretazione, quali la deposizione da parte di papa Zaccaria del re dei Franchi e dello scioglimento dal vincolo di fedeltà dei sudditi e la scomunica di Teodosio da parte di s. Ambrogio, una scomunica tanto più grave in quanto non operata nei confronti di un re, ma di un imperatore e accompagnata dall'allontanamento dalla Chiesa. Teologicamente, i re non possono ritenersi esclusi dall'imperativo di Cristo a Pietro "Pasce oves meas", connesso con la "potestas ligandi et solvendi". Se i re, in quanto tali, dovessero essere ritenuti immuni dal potere di legare, commesso a Pietro - e quindi ai suoi successori - da loro non potrebbero nemmeno essere assolti. Ancora una volta il criterio è rappresentato dall'obbedienza ("nam sicut illi qui omni sue voluntati Deum preponunt eiusque precepto plus quan hominibus obediunt, membra sunt Christi"); non si tratta di un fatto di natura disciplinare, ma ontologica, direi: l'obbedienza alla Chiesa romana, e cioè al papa, in questo caso, coincide con l'appartenenza alla comunità dei fedeli. Da questa comunità i re non possono essere eccettuati, per quanto concerne i principî ai quali si ispira la stessa. E finalmente il terzo argomento giuridico, della precellenza dei vescovi, rispetto ai re, poiché la "regia dignitas […] superbia humana repperit […] vanam gloriam incessanter captat", laddove i vescovi sono di istituzione divina e aspirano alla vita celeste. Ancora una volta si potrebbero indicare le palesi incongruenze di questa terza argomentazione alla luce di quelli che erano stati i rapporti con l'episcopato, come si è visto prima e ove si ricordi quale era la natura dei rapporti tra l'Impero e l'episcopato, tedesco in modo particolare: che non erano necessariamente rapporti di natura simoniaca, ma prescindevano - potevano prescindere - da una gerarchia di priorità. L'unità e la concordia che presiedevano, almeno teoricamente, alla società dei fedeli, nella prospettiva degli Ottoni e ancora in quella di Enrico III, e che rendevano possibile un intervento nelle elezioni vescovili, ragione per la quale si potrebbe presumere una superiorità della dignità regia rispetto a quella episcopale, sono totalmente sostituite da una interpretazione consequenziaria delle funzioni dei poteri, sacerdotale e temporale (v. quanto appropriatamente scrive in proposito G. Tabacco, Autorità pontificia e Impero, in Le istituzioni ecclesiastiche della "societas christiana" dei secoli XI-XII: papato, cardinalato ed episcopato, Milano 1974, pp. 123-152, in partic. p. 136).
Di fronte a questa estrema e rigorosissima linea, poco ha da opporre, su di un piano teorico, non solo Enrico IV, ma la stessa libellistica imperiale, se non la denunzia del radicale rovesciamento di tutta la stessa visione consolidata della storia che aveva avuto la Christianitas, sino a quel momento: ed è esemplare il trattato De unitate Ecclesiae conservanda alla cui intelligenza rimangono insuperate le pagine di Z. Zafarana (Ricerche sul "Liber de unitate Ecclesiae conservanda", ora in Id., Da G. VII a Bernardino da Siena, Firenze 1987, pp. 9-92). È lo stesso concetto di "unitas Ecclesiae" che nello scontro tra G. VII ed Enrico IV viene messo impietosamente in discussione.
G. VII, partito da posizioni di una fortissima esigenza di "spiritualità vissuta al massimo da tutti e per tutti", esigendo comunque una difesa estrema di questa spiritualità nella Chiesa (è questo il senso profondo della "libertas Ecclesiae"), deve inglobare, nel suo pur sempre e sempre incoativo progetto, la forza coattiva dell'Impero, in una distinzione di compiti che non può, dal suo punto di vista, che riaffermarsi come ierocrazia. E in ciò stesso, però, non spiritualizzando l'Impero, ma portando al limite della desacralizzazione la stessa Chiesa. Se (come scrive G. Tabacco, Autorità pontificia e Impero, cit., p. 138) "l'Impero non aveva tentato mai di tradurre la sua preminenza e preponderanza in una supremazia giurisdizionale estesa a tutta la Cristianità, ciò avviene appunto ora, nell'orientamento gregoriano di pensiero e di azione, a profitto della Chiesa di Roma: che realizza dunque in se stessa l'idea dell'Impero come vertice universale di potenza e come tribunale supremo di tutti i potenti, con formulazioni di una chiarezza giuridica - si pensi alla rivendicazione, in forma esclusiva, della "depositio" di vescovi e re - che l'Impero non aveva mai conosciuta" (cfr. anche O. Capitani, G. VII e la giustizia, in La giustizia nell'Alto Medioevo, Spoleto 1997, pp. 420 s.).
Queste considerazioni paiono estremamente importanti per capire, in un contesto di maggiore organicità dell'argomentazione, la seconda lettera a Ermanno di Metz (Registrum, VIII, n. 21), che, come giustamente è stato osservato (G. Miccoli, G. VII, col. 352) presenta concetti sostanzialmente identici. La sottolineatura che la storiografia ha fatto dell'affermazione dell'origine diabolica del potere regio va corretta: non nel senso che l'affermazione non suoni pesantissima nei confronti di ogni potestà laica, ma nel senso che, nella necessità dell'esistenza di un potere regio, laico, se si vuole, questo si riscatta nella sua funzionalità subordinata all'autorità sacerdotale: qualsiasi autorità sacerdotale, si badi, anche nei confronti di un potere laico "integrato" nell'ecclesiologia di G. VII; il dualismo gelasiano si mantiene tale in quanto in una sola funzione - quella del progetto ecclesiologico di G. VII - rimangono distinti due compiti. E devono rimanere distinti, pena il ripetersi dell'assimilazione, ambigua quanto si voglia, delle due autorità e delle due potestà, che era stata quella - sia pur teorica - dell'alto Medioevo. La disassimilazione è la vera garanzia dell'unità dell'Ecclesia.
È evidente che tutto ciò rappresenta l'individuazione profonda di un pensiero proiettato in una direzione, certo, ma estremamente magmatico e, senza dubbio, ben consapevole della particolare importanza dell'Impero come potenza egemone superiore nell'Europa cristiana, un potere regio eminente sugli altri. E questa non è un'illazione indebita, poiché è lo stesso G. VII a ricordarlo a Enrico (non ad ammetterlo, si badi!), come si evince da Registrum, III, n. 10.
Non si può in questa sede esaminare partitamente numero, qualità e significato della documentazione che attesta i rapporti con i singoli Regni d'Europa (per il quale esame si rimanda a Enciclopedia dei papi, II, p. 207). Basterà aver presente le osservazioni di J. Gaudemet e soprattutto di R. Schieffer (in Studi Gregoriani, XIII), per il quale la portata del significato che orbisRomanus assume come punto di vista di un ambito che non si identifica con il Sacro Romano Impero, ma con un'ecumene più vasta, la Christianitas che proprio perché tale non si esaurisce in una sommatoria di Regni o si identifica in modo particolare con un Regno.
L'orizzonte di intervento del papa si era del resto notevolmente ampliato grazie all'avveduta concessione ai legati di ampi poteri decisionali nelle cose interne delle diocesi, nei singoli Regni, in particolare quello di Francia, il cui re Filippo venne perfino scomunicato per un periodo compreso fra il 1075 e il 1077, rimanendo anche dopo la riconciliazione in un rapporto di tensione con G. VII, senza comunque giungere alla rottura completa come sarebbe avvenuto con Enrico IV di Germania: cfr. Enciclopedia dei papi, II, p. 208.
Per i Regni iberici il discorso è più semplice e comunque non contraddittorio con quanto si è venuto sin qui rilevando delle caratteristiche della "politica" di G. VII: senza riprendere in questa sede la celebre tesi di C. Erdmann (Alle origini dell'idea di crociata, Spoleto 1996; O. Capitani, Sondaggio sulla terminologia militare in Urbano II, in Studi medievali, s. 3, XXXI [1990], pp. 1-25; A. García y García, Reforma gregoriana e idea de la "militia sancti Petri" en los Reinos ibericos, in Studi Gregoriani, XIII, cit., pp. 260-262). La dichiarazione di fedeltà alla Sede apostolica da parte dei Regni iberici (Aragona e Navarra, che era stata annessa da Sancho Ramirez; ma non Alfonso VI di Castiglia) e la lettera di G. VII (trattasi un caso di "dictatus papae": Registrum, IV, n. 28) "Regibus, comitibus ceterisque principibus Hyspanie" del 28 giugno 1077 non devono certamente essere sopravvalutate. Il proclamarsi o il chiamare "fideles" non può assumere uno specifico significato feudale, in senso proprio, con il riconoscimento di particolari obblighi: al solito sarebbe erroneo caricare di significati tecnico-giuridici un linguaggio che vuole essenzialmente esprimere l'imprescindibile obbligo di un cristiano verso la Chiesa di Roma e verso il papa, che ne è il capo. E sostanzialmente questo vuol ribadire la lettera del 28 giugno 1077, in una terra in cui la lotta vittoriosa contro i Saraceni non può essere disgiunta dalla consapevolezza che devono avere i grandi della penisola iberica che anteriormente all'invasione musulmana "regnum Hyspanie ex antiquis constitutionibus beato Petro et sancte Romane ecclesie in ius et proprietatem traditum". Il ricorso a vocaboli quali "constitutiones" e "ius" ha fatto pensare sin dal secolo scorso che qui G. VII volesse riferirsi al Constitutum Constantini, che peraltro si limita a parlare di "parti occidentali", e l'ipotesi è stata discussa anche da A. García y García (Reforma gregoriana, cit., p. 255), senza una conclusione, se non quella di un tentativo da parte di G. VII di rafforzare l'azione contro i musulmani attraverso una coonestazione che ad Alfonso VI di Castiglia maggiormente impegnato nella "reconquista" sarebbe venuta per la sua azione dall'obbligo di osservare e difendere i "diritti" di S. Pietro. Non è escluso che anche ciò entrasse nella progettualità di G. VII: ma pare difficile cogliere nelle parole del papa un riferimento a un atto giuridico specifico, fosse pure un documento quale il Constitutum, che per noi è un falso, ma certamente non era ritenuto tale ai tempi di Gregorio VII. Sembra molto più convincente collegare quelle espressioni all'opera di appropriazione da parte di Roma della liturgia delle Chiese iberiche. Esse osservavano la liturgia visigotico-mozaraba e un cambiamento liturgico, se fu facilmente indotto da Sancho Ramirez nel 1071 ai monasteri benedettini che avevano accettato la riforma cluniacense e poi imposto anche alle diocesi, incontrò una fierissima opposizione in Castiglia (v. soprattutto Registrum, VIII, n. 3; IX, n. 2) e solo nel 1081 gli ordini liturgici romani furono accettati al concilio di Burgos.
Discorso, se non diverso nella sostanza, più articolato va fatto per i rapporti con il Regno d'Inghilterra e con Guglielmo I. Anche qui si osserva l'adozione della tattica in parte sperimentata nei riguardi di re Filippo di Francia, mirante a evitare accuse frontali, affidate ai tramiti diplomatici dei legati, e anche qui, come in Francia, il vero problema era rappresentato da un intervento, ancor più perentorio, del sovrano nella elezione dei vescovi e nelle difficoltà frapposte ai contatti tra i presuli del Regno e la Sede apostolica. Alcuni episodi sono indicativi di questa politica, che è stata analizzata con equilibrio e informazione da H.E.J. Cowdrey (The Gregorian Reform in the Anglo-Norman lands and in Scandinavia, in Studi Gregoriani, XIII, cit., pp. 319-352).
Il tono delle lettere direttamente inviate al sovrano è sempre molto cordiale e affettuoso, ritornando sempre in esse il ricordo della lettera inviata a G. VII all'atto della sua elezione a pontefice (Registrum, I, n. 70 del 4 apr. 1074); ricordandosi l'eccellenza tra i re di Guglielmo "more, honestate […] liberali prudentia" (ibid., V, n. 19 del 4 apr. 1078); esaltandosi l'antica "amicitia" che si mantiene nonostante le maldicenze e le calunnie contro il re, che comunque G. VII non si pente né mai si pentirà di diligere (ibid., IX, n. 37 della fine del 1083).
Tutto ciò rappresentava, probabilmente, un sentimento sincero e una valutazione prudente del papa, specie a partire dal momento in cui i rapporti con Enrico si guastarono definitivamente ed era d'altro canto assai opportuno mantenere una relazione di buona intesa con il sovrano di un Regno che poteva, più di altri, controllare anche una parte della Francia. Il prezzo da pagare era una certa elasticità per quanto concerneva il pesante controllo di Guglielmo sull'episcopato anglonormanno: ma G. VII lo sapeva ed era disposto a una certa flessibilità. In una lettera a Ugo di Die e ad Amato d'Oleron, del 1081 (ibid., IX, n. 5), si invitano i legati a moderare la loro severità nei riguardi dell'episcopato anglonormanno, che era stato sospeso dai legati - con l'eccezione del vescovo di Rouen - per non essersi recato a Roma, per timore di rappresaglie del re di Francia, più che per disobbedienza. D'altra parte, il re d'Inghilterra, "licet in quibusdam non ita religiose sicut optamus se habeat", non distrugge né vende le chiese, si adopera a mantenere la pace e la giustizia tra i sudditi, si è rifiutato di collegarsi con i nemici della Croce di Cristo, ha costretto i sacerdoti concubinari ad abbandonare le loro "mogli" e i laici, che trattenevano ingiustamente le decime, a pagarle. E tuttavia Lanfranco di Canterbury non s'era recato a Roma, come G. VII aveva chiesto, o per la proibizione del re "quem inter ceteros illius dignitatis specialius semper dileximus" o per paura, che nessuno deve avere al punto da negarsi alla vista del papa. E tuttavia ancora G. VII chiede a Lanfranco, affinché il re non incorra nell'ira del pontefice, di esortare Guglielmo a non impedire in alcun modo la venuta dei presuli del suo Regno a Roma (ibid., VI, n. 20 del 25 marzo 1079). Con scarsi risultati, comunque, se tra il 1082 e il 1083 G. VII doveva scrivere a Ugo arcivescovo di Lione per deprecare violentemente l'imprigionamento del vescovo di Bayeux, Odone, a opera di re Guglielmo: della lettera possediamo solo un frammento (Epistolae vagantes, n. 53), ed è impossibile stabilire quali provvedimenti avesse in mente il papa di prendere. Ma proprio dalla lettera, in cui si ricordava l'antica amicizia tra il pontefice e il re (v. Registrum, IX, n. 37) e che trattava lo stesso argomento, possiamo arguire che non si andò al di là di un'ammonizione paterna, tanto più che Odone di Bayeux era il fratello di Guglielmo.
Dei rapporti con i Normanni si è già detto più volte: rapporti che furono di reciproca fruizione e che non decantarono, pur nell'opera di difesa compiuta da Roberto il Guiscardo a favore di G. VII nel corso dell'assedio di Enrico a Roma, una relazione di condizionamento imposto dalle circostanze tra Papato e dominazione normanna. La penetrazione della riforma sarebbe avvenuta nell'Italia meridionale per tempi lunghi, per strutture soprattutto monastiche, per difficili compromessi con i vari Regni che si succedettero dai Normanni agli Svevi (v. N. Cilento, La riforma gregoriana, Bisanzio e l'Italia meridionale, in Studi Gregoriani, XIII, cit., pp. 353-372; H. Houben, Medioevo monastico meridionale, Napoli 1987).
Fonti e Bibl.: Le possibilità di una biografia sono strettamente collegate con la disponibilità oggettiva di fonti. G. VII ha anzitutto una fonte per così dire "autoptica", rappresentata dal Reg.Vat. 2 dell'Archivio segreto Vaticano (il famoso Registrum delle lettere - non tutte - inviate da G. VII a potenti, comunità religiose e monastiche, comunità civili ecc.). La fonte per eccellenza della vita, dell'azione e del pensiero di G. VII è da consultarsi unicamente nell'insuperata edizione: Gregorii VII Registrum, a cura di E. Caspar, in Mon. Germ. Hist., Epistolae selectae, II, 1, 2, Berolini 1920-23; alle lettere qui pubblicate e distinte in nove libri si devono aggiungere le cosiddette Epistolae vagantes, pubblicate (con traduzione inglese), da H.E.J. Cowdrey, The Epistolae vagantes of pope Gregory VII, Oxford 1972. Una edizione dei privilegi di G. VII è: Quellen und Forschungen zum Urkunden- und Kanzleiwesen Papst Gregors VII., I, a cura di L. Santifaller, Città del Vaticano 1957.
La letteratura storica su G. VII è praticamente sterminata e ogni idea di completezza non solo è inattuabile, ma è oggi scarsamente utile. Perciò sarà costituito dalla voce di G. Miccoli, G. VII, in Bibliotheca sanctorum, VII, Roma 1966, coll. 294-379, vera e propria monografia, che si segnala per la compiutezza dell'informazione - anche bibliografica - e la valutazione critica della vicenda di Gregorio VII. Indipendentemente da quest'opera va comunque ricordata la raccolta Studi Gregoriani, I-VII, a cura di G.B. Borino, 1947-60, vol. VIII, a cura di Z. Zafarana, 1970 (si tratta degli indici, preziosissimi, dei primi sette volumi), IX-XIII, a cura di A.M. Stickler, 1972-89. Gli Studi Gregoriani sono un insieme di saggi, note erudite, discussioni metodologiche, a volte - come nel caso del VII e del XII volume - di vere e proprie monografie, che hanno contribuito in maniera decisiva a una revisione critica della biografia di G. VII, anche, o forse soprattutto, al di fuori di ogni tesi precostituita. Per l'ulteriore bibliografia si rinvia a: O. Capitani, G. VII, in Enciclopedia deipapi, II, Roma 2000, pp. 209-212; mentre per un costante aggiornamento è indispensabile rifarsi a Medioevo latino, I (1980) e successivi volumi, nonché alla bibliografia, distinta per pontificato, presente in Archivum historiae pontificiae, I (1963) e successivi volumi.