GREGORIO VII papa, santo
Si chiamava Ildebrando ed era nato a Rovaco di Soana, borgata senese, tra il 1013 e il 1024. Ebbe per padre tal Bonizone non nobile; col favore di suo zio, abate del monastero di Santa Maria sull'Aventino in Roma, fu qui avviato allo studio delle discipline sacre e profane, avendo a maestri Lorenzo, poi arcivescovo di Amalfi, e forse Giovanni Graziano, futuro papa Gregorio VI. Salito questo all'alto seggio, Ildebrando fu addetto alla sua curia nel palazzo lateranense come cappellano del pontefice, e quando Gregorio VI deposto dovette lasciare Roma, Ildebrando non poté esimersi dall'accompagnarlo in esilio in Germania. Poco appresso (principio del 1048) il papa esule venne a morte. Qualche biografo asserì che Ildebrando cercò allora ospitalità a Cluny, dove da tempo si perseguivano ideali di riforma della Chiesa, e là entusiasta avrebbe fatto la professione monastica; ma c'è chi mette in dubbio, e non senza fondamento, questa tradizione e affemma che Ildebrando venne senz'altro a Roma con Brunone, vescovo di Toul, fatto papa col nome di Leone IX. Comunque sia, è certo che lo spirito di G. e la sua opera saranno permeati dal potente influsso di Cluny, che del resto fin dai tempi di Alberico si era diffuso largamente anche nei monasteri romani. Da Leone IX, nel 1050, Ildebrando fu preposto al monastero di San Paolo, che era allora in profonda decadenza morale e materiale per lotte di fazioni e rilassamento della disciplina monastica; il giovane praepositus corrispose magnificamente all'aspettativa, perché avviò la comunità a un deciso rinnovamento con una rigorosa riforma. Pure da Leone IX Ildebrando fu creato arcidiacono, amministratore della Chiesa ed ebbe l'incarico di una delicata missione in Francia: di presiedere il concilio che doveva giudicare l'eretico Berengario di Tours; dopo benevoli colloquî con questo, era per condurlo con sé a Roma ai piedi del papa, quando sopravvenne la morte di Leone IX. Forse in attesa di ordini del nuovo eletto, si fermò in Francia a lavorare per la causa della riforma; questo apostolato interruppe solo per partecipare al concilio indetto da Vittore II a Firenze (giugno 1055) per la riforma della Chiesa.
Morirono intanto uno appresso all'altro l'imperatore Enrico III e Vittore II; sul trono di Germania, essendo Enrico IV ancora fanciullo, si assise quale reggente la vedova imperatrice Agnese di Merania; sul seggio di Pietro clero e popolo romano, senza chiedere, come nelle precedenti simili circostanze, alla corte tedesca di designare l'eligendo papa, innalzarono il cardinale Federico di Lorena, che prese il nome di Stefano X. Ildebrando fu incaricato di far accettare alla reggente il fatto compiuto; avuti colloquî con la medesima a Goslar, egli riuscì, a quanto pare, nell'intento. Muore anche Stefano X (29 marzo 1058); il grave problema della successione si ripresenta; prima di morire il papa aveva raccomandato ai maggiorenti del clero romano di attendere il risultato dei colloquî che Ildebrando avesse intavolati con la corte tedesca in merito all'elezione del successore; ma, quello defunto, per opera della fazione tuscolana s'impose un papa, che non fu accettato dal clero (Benedetto X). Solo al ritorno d'Ildebrando a Roma, clero e popolo acclamarono papa Nicolò II (giugno 1058). Ildebrando conciliò all'eletto, oltre al favore della corte tedesca, quello di Goffredo duca di Lorena, per mezzo del quale l'antipapa fu cacciato e Nicolò II insediato (24 gennaio 1059). Questo successo personale di Ildebrando senza dubbio l'impose alla benevolenza del nuovo eletto, e anche presso di questo egli appare come consigliere autorevole. Nel periodo tristo del contrasto tra Alessandro II, il nuovo papa eletto dalla parte riformista e anti-imperiale, e Cadalo, dal partito imperiale voluto sul seggio pontificio (luglio 1061-marzo 1064), l'azione di G. resta nell'ombra, per il prevalere della fazione cara all'antipapa. Ma dopo che Alessandro II poté in pace reggere le sorti del governo papale, la presenza di G. accanto a lui si fa vieppiù evidente: la rivendicazione tenace dei diritti della Chiesa, l'attuazione ferma dei decreti di riforma, lo sforzo di sottomettere le chiese locali all'autorità della S. Sede manifestano più l'indole di lui che quella mite e pacifica di Alessandro II. Il 21 aprile 1073 questi viene a morte. Lo stesso giorno il popolo romano, contrariamente alle consuetudini, invocò come nuovo papa Ildebrando. Egli, preso consiglio dai suoi confratelli, indisse tre giorni di digiuno e di preghiere, elargizioni di elemosine, affinché meglio fosse conosciuto il divino volere circa il nuovo papa; sennonché d'improvviso, mentre il defunto pontefice veniva condotto al sepolcro, il 22 aprile, il clero e il popolo romano adunati nelle chiese di San Pietro in Vincoli gridarono a una voce papa Ildebrando.
G. era bene al corrente delle condizioni della Chiesa; vissuto a contatto con lo spirito di Cluny, trovatosi sul duro terreno della realtà dal tempo di Gregorio VI ad Alessandro II, portava sul seggio di Pietro una meravigliosa esperienza, un patrimonio di idee e di energie, come forse nessun altro avrebbe potuto.
Il programma di governo è in certo modo enunciato nei suoi Dictatus Papae (l'attribuzione pare ormai indubbia). I Dictatus sono una raccolta di 27 massime tratte variamente da canoni della Chiesa, da sentenze di papi e di concilî e anche, sia pure in buona fede, dalla falsa donazione di Costantino e da false decretali.
Eccone dei saggi: "Solo il romano pontefice sia detto universale. - Solo lui possa deporre o riabilitare i vescovi. - Solo lui possa usare le insegne imperiali. - A lui sia lecito deporre gl'imperatori. - Nessun capitolo e nessun libro si abbia come canonico senza l'autorità di lui. - Egli non sia giudicato da alcuno. - Nessuno osi condannare un appellante alla S. Sede. - Le cause di maggiore momento di qualsiasi chiesa siano alla medesima avocate. - La Chiesa Romana mai errò né mai errerà e ciò per autorità dei sacri testi. - Essa può sciogliere i sudditi dalla fedeltà verso i dominanti perversi". Vediamo cioè in esse affermata nettamente la questione del primato romano su tutte le chiese, la supremazia del Papato sull'Impero, limitate le prerogative dei metropoliti, dei vescovi di fronte al papa, asserita l'infallibilità, l'insindacabilità del pontefice, il suo diritto di sciogliere e di legare esteso anche sul terreno dei rapporti tra sudditi e sovrani. Problemi gravissimi, che alla mente di Gregorio e dei suoi collaboratori parevano tutti di una logica ferrea, frutto di un principio superiore di universale giustizia, ma che in parte almeno cozzavano contro le formidabili forze dell'impero e dello spirito laico.
Eppure G. non fu un sognatore che non si rendesse conto dello spirito dei tempi; egli, come si è detto, era vissuto nel mondo, aveva un lungo tirocinio di attività politico-ecclesiastica, era uomo d'azione, che sapeva quel che voleva. Il grande problema che lo assilla, e che del resto gli fu implicitamente imposto quale programma precipuo del pontificato, quando per voto unanime di popolo e di clero fu assunto al seggio di Pietro, è la riforma della Chiesa. In verità questa era già da tempo avviata, ma tutt'altro che appieno riuscita; le resistenze maggiori non erano ancor rotte; il momento epico del contrasto non era ancora venuto. G. tuttavia non manifestò propositi bellicosi; si lusingò di procedere pacificamente.
Continuatore dell'opera dei suoi predecessori, G. ritenne mezzo più efficace all'azione riformatrice della Chiesa la convocazione di concilî in Roma sotto la sua presidenza, e nei paesi più lontani, di là dalle Alpi, altri sinodi, in cui la S. Sede fosse rappresentata dai suoi legati, i quali dovevano volta per volta ragguagliarla delle deliberazioni prese e dell'opera svolta: era questo anche un affermare il prestigio, il primato romano, era tenere un sicuro stretto contatto con le altre chiese della cattolicità. Sin dal 1073 legati papali sono in Francia, in Boemia, in Spagna e nella Lombardia; per avere collaboratori o per lo meno non oppositori i grandi laici, Gregorio per mezzo di quelli o di altri inviati pratica largamente presso i sovrani di Germania, di Francia e d'Inghilterra, onde sopire le inimicizie tra loro. Così si sforza di attrarre nell'orbita politica della S. Sede tutti i potentati italiani: Riccardo di Capua, Landolfo duca di Benevento gli giurano fedeltà (agosto 1073); anche più pronte e devote si mostrano la contessa Beatrice di Toscana e sua figlia Matilde, che sì grande influenza politica avevano nell'Italia del settentrione e del centro. Un'altra grande speranza seduce il papa: di togliere lo scisma della Chiesa greca solo da un ventennio maturato. G. si propose di muovere le forze della cristianità occidentale al soccorso dell'impero, gravemente minacciato dai Turchi, e di ricondurre la chiesa d'Oriente alla cattolicità. Oltre 50.000 fra Italiani e oltremontani gli promettono d'esser pronti a partire sotto il suo comando, a marciare contro i nemici del nome cristiano e procedere "sino al Sepolcro di Cristo". L'idea della crociata fu così per la prima volta posta innanzi. Già dal 9 luglio 1073 G. metteva a parte del suo progetto l'imperatore Michele VII. Sennonché questo non garbava a Roberto il Guiscardo, duca di Puglia, che temeva sia l'affluire di genti straniere nelle sue terre, sia l'esito dell'impresa, che avrebbe troncato le sue aspirazioni orientali: di qui le sue incursioni nel dominio pontificio di Benevento e la scomunica inflittagli dal papa.
Così avendo assicurato i rapporti della S. Sede con gli stati cristiani, G. nel marzo del 1074 convocò in Roma il suo primo concilio. Questo prese atto della sottomissione di Enrico IV al comando fattogli di allontanare da sé i consiglieri scomunicati; provvide, chiudendo un lungo contrasto, alla sede arcivescovile di Milano, di cui fu fatto titolare Attone; scomunicò il Guiscardo per le ragioni sopra notate, dichiarò deposti dalla loro dignità i vescovi e i preti che fossero riconosciuti simoniaci e rei di fornicazione, vietando loro la celebrazione della messa e la partecipazione ai divini uffizî e diffidando i fedeli dall'assistere eventualmente ai sacri riti, che da quelli fossero celebrati. Più legati pontifici furono incaricati di promulgare e di far eseguire nei diversi stati queste deliberazioni, in quanto li poteva riguardare. In Germania, dove pur Enrico IV si diceva disposto ad appoggiare la missione degl'inviati papali, questi incontrano molte ostilità da parte di vescovi e degli stessi metropoliti di Magonza e di Brema; questo atteggiamento riottoso ebbe effetti immediati presso il clero inferiore poco disposto a riformarsi. In Francia le cose passarono poco diversamente: il re Filippo I prometteva di aiutare la riforma, ma all'atto pratico creava difficoltà; l'episcopato non era migliore di quello tedesco, né più disposto a ottemperare alle sentenze di Roma. Nel regno anglo-normanno, invece, dove il re Guglielmo e la regina Maria assecondavano gli sforzi riformatori di G., solo da parte del basso clero si ebbe un'opposizione assai vivace alla riforma.
Un secondo concilio G. convocò nella quaresima del 1075 e gravi sanzioni furono prese: parecchi vescovi, preti e laici, rei di avere contrastato l'esecuzione dei decreti del 1074 erano nominativamente condannati; tra i colpiti vediamo i vescovi di Strasburgo, di Spira, di Bamberga, di Pavia, di Torino, che furono sospesi dalle loro funzioni, quello di Piacenza deposto, quello di Brema scomunicato; Roberto il Guiscardo di nuovo colpito di anatema, il re di Francia dilfidato a dare, sotto pena di scomunica, le soddisfazioni promesse l'anno prima; cinque cortigiani del re di Germania, accusati di vendere beni e dignità ecclesiastiche, similmente ammoniti a riparare entro il prossimo maggio. Il concilio emanò poi il famoso decreto, che interdiceva ai vescovi di ricevere dignità dalle mani di un laico e ai metropoliti di consacrare coloro che in tal modo avessero ricevuto, il "dono dell'episcopato", cioè la potestà spirituale, l'amministrazione e l'uso dei beni a essa inerenti, decreti o che andava contro l'antica e diffusa consuetudine dei principi e signori laici di conferire con la nomina o designazione l'investitura spirituale e temporale ai vescovi e quindi d'esercitare sull'episcopato poteri considerati usurpazioni dei diritti della Chiesa.
L'esecuzione del decreto sulle investiture laicali era bastante di per sé solo a portare al conflitto. Lo sentì G.? Certo una volta entrato su questa via egli andò sino in fondo. Poiché Enrico IV (v.) finse d'ignorare i decreti dei sinodi romani del 1074 e 1075 e continuò a disporre dei vescovadi rimasti vacanti o resi vacanti per forza il papa emanò il monitorio dell'8 dicembre 1075, in cui con tono ancora benevolo richiamò il re e lo esortò a non offendere la Chiesa di Cristo; solo per mezzo di suoi speciali inviati lo fece segretamente avvertire che, se non si fosse indotto a giustizia e a penitenza, non solo lo avrebbe scomunicato ma anche dichiarato per sempre deposto dalla regia potestà. Enrico respinse tali moniti e minacce pontificie e rese senz'altro pubbliche queste comunicazioni confidenziali, per indisporre gli animi contro il papa. Infatti in Germania tali notizie, come i decreti del sinodo romano, causarono una grande commozione: per la prima volta, si diceva, un re dei Romani, prossimo imperatore, era in tal modo colpito. Parecchi vescovi non si fecero scrupolo di deplorare la condotta del papa a questo riguardo, asserendo che "un re non può essere scomunicato". G., che già nei Dictatus aveva affermato che "al papa è lecito di deporre gl'imperatori", riprese in pieno l'argomento nella lettera indirizzata a Ermanno vescovo di Metz (Roma, 25 agosto 1076), che di ciò gli aveva fatto parola.
Rammentati i precedenti storici che erano d'appoggio alla sua tesi e richiamata la dottrina del potere universale di legare e di sciogliere commessa a Pietro, egli si chiede: "Se la S. Sede giudica e sentenzia, grazie alla somma potestà ad essa conferita sul terreno spirituale, perché non ancora sul terreno temporale? I re e i principi di questo mondo, che antepongono l'onore proprio e gl'interessi terreni alla giustizia di Dio... son membra dell'Anticristo. Se pertanto, quando occorra, i religiosi son fatti oggetto di condanna, perché non si dovrà procedere contro i secolari rei di malvage azioni? Ma forse i vescovi pensano che la regia dignità sia superiore a quella episcopale. Dai loro stessi principî possono arguire quanto tra loro quella e questa differiscano; una ha per sua fonte l'umana superbia, l'altra ha per fondatrice la divina pietà; una ambisce senza posa alla vanagloria, l'altra aspira sempre alla patria celeste...".
Assai più a fondo Gregorio svilupperà questo grave argomento in altra lettera allo stesso vescovo pochi anni dopo (Roma, 15 marzo 1081).
Il Vangelo, la tradizione ecclesiastica, le fonti, la natura stessa dei due sommi poteri concordano a fissare la preminenza del sacerdozio, in virtù della quale il papa ha il diritto di scomunicare e di deporre i re per i loro peccati. I re devono essere i protettori e i collaboratori della Chiesa, la loro missione essendo quella di condurre i sudditi attraverso l'onesto godimento dei beni temporali alla città celeste, missione parallela a quella dei sacerdoti, che devono guidare i fedeli per le vie della fede e della morale al regno dei beati. Ora, se i re vengono meno al loro dovere, anzi contrastano l'opera stessa della Chiesa, perché non devono essere colpiti di scomunica e deposti? Insomma la dottrina gregoriana, che si ricollega con le tradizioni di indipendenza e di predominio della Chiesa che si manifestavano decisamente sin dai tempi di Nicolò I, limitava fortemente il potere regio, avanzando nel modo più reciso le aspirazioni universalistiche del papato. La delicata controversia ebbe le più vaste ripercussioni negli scritti del tempo con quei libelli intorno al dissidio tra imperatori e pontefici, parecchi dei quali sono giunti sino a noi, costituendo una fonte di primissimo ordine per lo studio del pensiero medievale.
G. cercò tuttavia fino all'ultimo di ridurre Enrico IV all'obbedienza, senza ricorrere alle estreme sanzioni. Quando però Enrico nella dieta di Worms deponeva sotto le accuse più infamanti il pontefice, questi a sua volta scomunicò l'imperatore e sciolse i suoi sudditi dal vincolo di fedeltà (quaresima 1076).
I decreti del sinodo romano e la scomunica papale trovarono in Germania, data la situazione politica di allora, un terreno assai favorevole: principi, grandi laici ed ecclesiastici ne approfittarono per staccarsi da Enrico IV e in successive diete fecero intendere al re il loro proposito di darsi un nuovo re, se egli non si rimetteva al consiglio, al volere del papa, e alla fine essi deliberarono di risolvere la questione della regia corona nella dieta di Augusta, indetta per il 2 febbraio 1077; ma Enrico seppe abilmente eluderla, presentandosi a Canossa e ottenendo l'assoluzione, non senza forti riluttanze e incertezze del papa. G., appunto presentendo che i grandi del regno non sarebbero stati soddisfatti di questa conciliazione separata tra lui e il re, cercò di giustificare subito il suo atteggiamento, assicurandoli che non aveva in nulla pregiudicato la questione, giacché per risolverla erano necessarî il loro intervento personale e l'unanimità del loro consenso.
"Sappiate - egli aggiungeva - che noi non ci siamo altrimenti obbligati verso il re se non a parole, com'è nostro costume; gli dicemmo che egli aveva a bene sperare da noi, in quanto lo potevamo aiutare a salvezza e a suo onore, sia per le vie della giustizia, sia per quelle della misericordia senza pericolo della nostra e della sua anima...". Questa singolare precisazione della condotta di Gregorio sarà così alterata dall'anonimo autore del libello De unitate Ecclesiae conservanaa: il papa avrebbe detto ai rappresentanti dei grandi di Germania venuti a Canossa: "Non vogliate darvi pensiero, perché ve lo rendo (Enrico) più colpevole" (I, § 6, pp. 191-192). L'anonimo trae motivo di inveire a lungo contro Gregorio su questo tono: "Certo far alcuno più colpevole, specialmente il re, che San Pietro comanda di onorare, non è pascere le pecorelle di Cristo...".
Ma se il papa perdonò, non desistettero dalla loro opposizione i principi di Germania, che opposero a Enrico, come re, Rodolfo, duca di Svevia, disposti a sostenerlo con le armi. G. ne fu angosciato; il 31 maggio 1077 diede istruzioni ai suoi legati in Germania d'indurre Enrico e Rodolfo a dargli modo di venire tra loro, per dirimere la controversia tanto pregiudizievole non solo a loro, ma altresì alla Chiesa universale. I due contendenti promisero di stare al giudizio del papa, ma non seppero accordarsi sulla scorta da mandare a lui, perché venisse in Germania. Intanto G., ritornato a Roma, convocava tra il 27 febbraio e l'8 marzo del 1078 un nuovo concilio, dove stabilì severe sanzioni contro la parte contendente, che rifiutasse o ostacolasse il trionfo della giustizia; con una vigorosa lettera animò i grandi laici ed ecclesiastici del regno tedesco a collaborare a quest'opera di pace (9 marzo 1078). La contesa invece si decideva per la via delle armi: Enrico tra il 1078 e il 1080 batté ripetutamente l'avversario, rifiutando o trascurando la mediazione dei legati pontifici e quindi anche l'assemblea che quelli avevano il compito di riunire. Gli avversari di lui invocarono le sanzioni della S. Sede; G. le differì quanto poté, ma alla fine consentì che un concilio romano emanasse nel febbraio del 1080 contro Enrico nuova sentenza di scomunica e di deposizione dalla dignità regia e riconoscesse, invece di Enrico, quale re Rodolfo. Il re scomunicato trovò ancora in Germania e in Italia vescovi docili, che si prestarono a dichiarare G., "vero serpente, il cui soffio velenoso aveva contaminato la Chiesa e l'Impero", decaduto dalla sua dignità; ed ebbe la ventura, liberatosi dall'avversario tedesco, di potere scendere in Italia, venire sino a Roma, insediare l'antipapa Clemente III e costringere tra le mura di Castel S. Angelo G. Questi, non vinto dalla sorte avversa, respinse proposte di pace; e gli eventi seguirono il loro corso sino alla morte del pontefice.
Gli ultimi quattro anni tanto agitati per costui ebbero tuttavia un qualche conforto: oltre alla fedele difesa di Matilde di Canossa, venne fatto a G. di conciliarsi con Roberto il Guiscardo, che prima del 1080 aveva avuto sempre a sé contrario. L'alleanza normanna lo costrinse, è vero, a gravi concessioni, quale fu la lettera che dovette mandare ai vescovi di Puglia e di Calabria per esortarli a favorire la prossima impresa del duca normanno contro l'impero bizantino (25 luglio 1080); mentre nel 1073 G. aveva avversato conformi propositi del Guiscardo. È vero che ora a Costantinopoli non era più sul trono Michele VII, col quale il papa aveva avuto buoni rapporti; privato della corona da un usurpatore, quegli era venuto in Italia a implorare soccorso per riprendere il trono; perciò G. e il duca normanno si trovarono in certo modo d'accordo nell'aiutarlo. Ma la spedizione a tal uopo tentata impedì al Guiscardo d'essere al soccorso del papa, quando Enrico venne su Roma, o se venne (aprile del 1082), capitò quando il pericolo era dileguato. Più efficace fu l'intervento del Guiscardo allorché Enrico ebbe occupato la città nel 1084: G. fu liberato dall'assedio di Castel Sant'Angelo, ma a prezzo di gravissimi danni alla città e violenze, che attirarono anche sul pontefice le maledizioni della popolazione romana. Forse nella fiducia che il tempo lenisse questo ricordo, il papa seguì il Guiscardo sino a Salerno; ma intanto coi Tedeschi rientrava a Roma l'antipapa. Anche in esilio G. conservò il suo spirito combattivo, fece rinnovare da un concilio l'anatema contro Enrico; ma nessuno si mosse al suo soccorso, e così nell'abbandono morì il 25 maggio del 1085. Più espressione tardiva di questo stato di cose che parole reali di G. sono quelle che gli si attribuirono come promunciate da lui morente: "Ho amato la giustizia, ho odiato l'iniquità e perciò muoio in esilio!". La sua salma fu inumata a Salerno nella chiesa di S. Matteo, che egli stesso aveva consacrata.
Il programma gregoriano, il metodo per realizzarlo, l'animo del pontefice si ritrovano tali e quali, come nel conflitto con Enrico IV, nei rapporti con gli altri sovrani e coi vescovi degli stati non tedeschi. Mentre i rapporti di Gregorio con l'episcopato tedesco e italiano, specie a partire dal 1076, hanno un carattere politico, perché i prelati simoniaci e concubinarî e quindi ostili alla riforma sono in pari tempo caldi partigiani di Enrico IV, altrove si presentano sotto un aspetto più propriamente disciplinare; di fronte ai prelati indegni o ribelli G. si appella alle massime del Vangelo e al sentimento di dignità personale; poiché questi richiami non sono bastevoli con gl'impenitenti, ricerca l'aiuto del braccio secolare che in generale non gli è negato. Nei rapporti coi sovrani egli mise a profitto ancora una singolare condizione di cose, che da poco tempo si veniva maturando: la S. Sede affermava il suo dominio su parecchi stati cristiani, che erano infatti censuali della medesima; si trattava per lo più di stati di recente formazione, costituiti su terre strappate a popoli infedeli o pagani col favore o con aiuti della S. Sede stessa; alcuni sovrani avevano da sé medesimi ricercato la mite sovranità papale, paga di un annuo censo e di un devoto omaggio, che consentiva loro di sottrarsi a obblighi vassallatici, ben più onerosi, verso l'impero o verso qualche potente stato vicino: in tali condizioni furono il regno di Ungheria, i ducati di Polonia e di Boemia, il regno di Kiev e quello di Croazia e di Dalmazia; meno chiara appare l'origine dell'asserita sovranità papale sui regni d'Inghilterra, di Navarra, d'Aragona e di León.
Naturalmente, G. cercò di volgere gli stessi interessi politici in pro della cristianità: e così addita alla Polonia un vasto programma di attività evangelica e conformi eccitamenti rivolge a Demetrio re di Kiev. Anche i re di Danimarca e di Norvegia, che pure non avevano, a quanto pare, obblighi vassallatici verso la S. Sede, ma ai quali essa guardava con molta simpatia, perché situati agli estremi confini della cristianità, vengono benevolmente ammoniti a comporre le loro controversie e a voler attendere alle conquiste della fede.
Gregorio fu canonizzato santo nel 1606 da Paolo V e la sua festa nel culto della Chiesa universale fu da Benedetto XIII fissata al 25 maggio.
Fonti: Gregorii VII Registrum, a cura di E. Caspar, voll. 2, in Epistolae Selectae in usum scholarum ex Monumentis Germaniae historicis separatim editae (Berlino 1920-1923); P. Jaffé-C. Loewenfeld, Regesta Pontificum Romanorum (Lipsia 1885-1888); P. F. Kehr, Regesta Pontificum Romanorum. Italia Pontificia (Berlino 1906-1923); Libelli de lite imperatorum et pontificum saeculi XI et XII conscripti, in Mon. Germ. Hist. (voll. 3, Hannover 1891-1897); Annales Lamberti de Hersfeld, Annales Bernoldi de Constantia, ibid., serie Scriptores, V; Chronicon Sigiberti de Gembloux, ibid., VI; Vita Gregorii papae VlI di Paolo de Benried, edita da Watterich in Vitae Pontificum Romanorum, I, pp. 474-546; v. anche Acta Sanctorum, maggio, VI, pp. 113-143.
Bibl.: Rimandando per più ampie notizie al lavoro di A. Fliche, La Réforme Gregorienne, voll. 2, Lovanio 1924-1925, ricordiamo: F. Chalandon, Essai sur le règne de Alexis I Comnène 1081-1118, Parigi 1900; J. P. Whitney, Gregory VII, in English Historical Review, XXXIV (1919); F. Schneider, Gregor und das Kirchengut, Greifswald 1919; P. Fournier, Grégoire VII et la rénovation des recueils du droit canonique, Strasburgo 1924; Z. N. Brooke, Gregory VII and the contest between Empire and Papacy, in Cambridge Medieval History, V, pp. 51-81 (bibliogr. pp. 850-54), Londra 1926; J. Gay, Les papes du XIe siècle et la chrétienté, Parigi 1926; E. Woosen, Papauté et pouvoir civil à l'époque de Grégoire VII, Gembloux 1927; A. J. Carlyle, Medieval Political Theory in the West, Londra 1928; Ronyabbi, La polit. franç. de Grégoire VII, in Revue d. questions hist., serie 3ª (1928), XIII; W. Wuehr, Studien zu Gregor VII. Kirchenreform u. Weltpolitik, Monaco 1930; F. Lerner, Kardinal Hugo Candidus, Monaco e Berlino Oldenburgo 1931. V. altre opere e fonti alle voci: enrico iv; investiture.