GREGORIO
Quarto di questo nome, primogenito di Sergio (II), duca di Napoli morto nell'878, successe intorno al mese di aprile dell'898 allo zio paterno Atanasio (II), il quale aveva a lungo guidato le sorti di Napoli nella duplice veste di vescovo e duca.
In un clima quanto mai agitato, che vedeva Napoli priva di un indirizzo politico unitario, G. ricevette il potere, con l'unanime consenso della nobiltà e del clero, poco tempo dopo la consacrazione a vescovo di Napoli di un altro zio paterno, Stefano (III). Secondo il Chronicon ducum et principum Beneventi, Salerni et Capuae et ducum Neapolis, il suo regno durò sedici anni e dieci mesi.
I primi due anni di regno furono abbastanza tranquilli, ma nell'agosto del 900 la situazione mutò rapidamente: Abd Allah, figlio del sultano Ibrahim ibn Ahmed, sconfisse i Bizantini in Calabria e saccheggiò Reggio, mentre il sultano in persona, dopo la sottomissione dell'Africa settentrionale, sbarcò sulle coste della Sicilia e rase al suolo Taormina. Il sultano passò poi all'occupazione dell'Italia meridionale, deciso a risalire lungo la penisola.
Proprio per scongiurare un probabile assalto alle coste e per non fornire ai Saraceni una pericolosa postazione, G., in accordo col vescovo Stefano, stabilì la distruzione del castrum Lucullanum, prossimo alla città, con la rocca e i monasteri che in esso erano posti; per analoghi motivi di sicurezza i monaci del cenobio dei Ss. Sergio e Bacco furono aggregati al monastero cittadino di S. Sebastiano: in tale occasione G. fece rafforzare le mura della città e dispose che venissero ospitati al loro interno anche coloro che abitualmente vivevano al di fuori della cinta muraria; costituì inoltre riserve di acqua, farina, legumi e orzo.
Sulla distruzione del castrum esistono due testimonianze degne di citazione, perché forniscono dati più precisi sull'evento. La prima è costituita dagli Acta translationis s. Severini abbatis scritta dal napoletano Giovanni Diacono. Questi ricorda che, proprio in previsione dell'ormai inevitabile distruzione del castrum, avvenuta nel mese di ottobre del 902, l'intera cittadinanza si strinse, il 10 settembre, intorno al suo duca e al vescovo e partecipò alla traslazione delle reliquie di s. Severino che vi erano conservate in una chiesa del vico Missi, nella regione di Nido, mentre i monaci furono accolti nell'attiguo monastero che da allora prese il nome di S. Severino.
La seconda testimonianza è costituita da una carta del 17 dic. 907 (cfr. Capasso, 1892) in cui sono ricordati questi avvenimenti. Con questo documento G. - insieme con il fratello Atanasio (III), da poco asceso al soglio episcopale napoletano - confermava le concessioni fatte negli anni precedenti al monastero di S. Severino, e ne conferiva ulteriori, tra le quali maggiori poteri all'abate e la facoltà dei confratelli di eleggere l'abate stesso. Furono ancora ragioni difensive che spinsero il duca a far costruire il "Castellone Nuovo", che dette il nome alla vicina porta dei Vulpuli e provocò la costruzione di una "via media", destinata a diventare la strada dei mercanti, conferendo una rinnovata importanza alla parte meridionale della città.
Nel frattempo i Saraceni, non potendo sbarcare a Napoli, concentrarono i loro presidi in due punti strategici: ad Agropoli e alla foce del Garigliano. I musulmani furono in seguito fermati a Cosenza e, durante l'inutile e lungo assedio di questa città, nell'ottobre del 902, sia Ibrahim sia il figlio morirono, mentre il resto dell'esercito si ritirò in Africa. Il pericolo non era però del tutto scongiurato, perché i Saraceni avevano ancora una salda roccaforte nella pianura del Garigliano, non ostacolati dal vicino Ducato di Gaeta. Secondo quanto riferisce Leone Ostiense (Leone Marsicano), nel 903 il principe di Capua e Benevento Atenolfo (I) creò, con G. e con gli Amalfitani, una coalizione per allontanarli definitivamente dai loro stanziamenti. Dopo aver costruito un ponte di barche per oltrepassare il Garigliano, il contingente guidato da Atenolfo si avvicinò ai nemici i quali, dopo una prima fortunata sortita, furono però costretti, per la resistenza dei Beneventani e dei collegati, a una precipitosa ritirata.
G. ricompare di nuovo nelle fonti il 2 luglio 911, quando stipulò un trattato di alleanza difensiva con Landolfo (I) e Atenolfo (II), principi di Capua e Benevento. In tale occasione furono anche rinnovati i patti riguardanti il possesso comune della "Liburia", come veniva chiamata la fertile striscia di terra fra Napoli e Capua, stabilendo pure che, in caso di vertenze, i Napoletani fossero giudicati da magistrati longobardi ma secondo il diritto romano, e viceversa: il patto anticipa quindi, nella sostanza, le successive pactiones siglate tra Napoletani e Capuani intorno agli anni 933-939 che segnarono la fine della pressione esercitata dalle entità politiche e territoriali longobarde sul Ducato partenopeo (Capasso, 1892, p. 131).
I patti del 911 segnano una più incisiva partecipazione di G. nelle alleanze sollecitate soprattutto dal Principato di Benevento contro la colonia saracena del Garigliano. Già nel 910 Atenolfo (I) aveva inviato suo figlio Landolfo (I), associato al trono, presso l'imperatore di Costantinopoli Leone VI al fine di ottenere un concreto aiuto sul piano militare. Gli esiti di tale legazione si videro nella primavera del 915, quando una spedizione imperiale, guidata dallo stratega Nicola Picingli, giunse in Italia. Stando al racconto di Leone Ostiense G., che aveva in precedenza avuto un atteggiamento non ostile alla presenza dei musulmani, in tale occasione aderì alla coalizione antisaracena e, insieme con il duca di Gaeta, Giovanni (I), e con Landolfo di Benevento, fu insignito del titolo di patrizio imperiale.
Nel giugno di quello stesso anno l'esercito collegato si mosse dislocandosi sulla riva sinistra del Garigliano, dove fu raggiunto dall'esercito pontificio, voluto da papa Giovanni X e guidato dal duca di Spoleto, Alberico, che si accampò lungo la sponda destra. I Saraceni, assediati anche dal mare controllato dalla flotta bizantina e da rinforzi provenienti da Napoli e da Gaeta subirono un lungo assedio. Seguendo il consiglio fraudolento di G. e del duca Giovanni essi diedero fuoco, in un estremo tentativo di salvezza, a ogni loro bene e sfondarono le linee nemiche disperdendosi nelle selve circostanti, ma furono quasi tutti trucidati. La vittoria del Garigliano "segna un punto d'arrivo nel problema saracenico in Italia" (Russo Mailler, p. 374) - perché in seguito i Saraceni si attestarono a Reggio e le incursioni ebbero "carattere personale isolato" - ed è l'ultimo atto noto che riguardi G., il quale morì alla fine del 915, lasciando il trono al primogenito Giovanni (II).
Fonti e Bibl.: Leo Marsicanus, Chronica monasterii Casinensis, a cura di W. Wattenbach, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, VII, Hannoverae 1846, pp. 615-617; Iohannes Diaconus Neapolitanus, Acta translationis s. Severini abbatis, a cura di G. Waitz, ibid., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-X, ibid. 1878, pp. 455 s., 458; Chronicon ducum et principum Beneventi, Salerni et Capuae et ducum Neapolis, a cura di B. Capasso, in Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia, s. 1, I, Neapoli 1881, pp. 106 s., 227 s., 294 s.; Diplomata et chartae ducum Neapolis, a cura di B. Capasso, ibid., I, 2, ibid. 1892, pp. 1-4, 131 s.; M. Schipa, Il Ducato di Napoli, in Arch. stor. per le provincie napoletane, XVII (1892), pp. 624, 629, 780-784; XVIII (1893), pp. 247-259; Id., Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia. Ducato di Napoli e Principato di Salerno, Bari 1923, pp. 100, 102-106; G. Galasso, Le città campane nell'Alto Medioevo, in Arch. stor. per le provincie napoletane, LXXVIII (1959), p. 28; G. Cassandro, Il Ducato bizantino, in Storia di Napoli, I, 1, Napoli 1969, pp. 120-123; C. Russo Mailler, Il Ducato di Napoli, in Storia del Mezzogiorno, II, 1, Napoli 1988, pp. 372-374; G. La Posta, Neapolis. Storia di Napoli e del Meridione d'Italia. Periodo greco, romano e bizantino (dalle origini al 1140), Napoli 1994, pp. 153, 175-178; Diz. biogr. degli Italiani, LV, p. 570.