Garbo, Greta
Nome d'arte di Greta Lovisa Gustafsson, attrice cinematografica svedese, nata a Stoccolma il 18 settembre 1905 e morta a New York il 15 aprile 1990. Fra il crepuscolo del cinema muto e l'apogeo dello star system, è stata una delle dive più idolatrate della storia del cinema. Bellezza pallida ed evanescente, inconsueta per i parametri hollywoodiani, occhi grigi intensi e lineamenti aristocratici, un'espressione distante perennemente disegnata sulle labbra, ha offerto alla cinepresa un volto di eccezionale perfezione. È rimasta, anche al di là del valore artistico dei film interpretati, un'icona di sensualità e raffinato erotismo, fascino enigmatico e solitudine. Nata in una famiglia di modeste condizioni sociali, crebbe fra molte privazioni in un casamento popolare di Stoccolma, sviluppando un carattere introverso e solitario, un temperamento risoluto e un interesse singolare per il teatro e per il cinematografo. Quando, a quattordici anni, rimase orfana di padre, aveva già cominciato a lavorare presso la bottega di un barbiere. Passata al reparto modisteria di un grande magazzino, posò per il catalogo primaverile della collezione di cappelli e venne scelta per un episodio di una serie comica e, in seguito, per la pubblicità di una pasticceria. Erik Petschler, produttore e interprete di farse senza pretese, la fece esordire nel suo film Luffar-Petter (1922; Peter il vagabondo), che fu stroncato dalla critica. Determinata a studiare, ottenne un'audizione per concorrere a uno dei posti gratuiti dei corsi del Royal Dramatic Theatre e fu accettata. Seguì i corsi per poco più di quindici mesi, poi si presentò a un provino del rinomato regista Mauritz Stiller. Fu l'incontro decisivo per la carriera e per la vita. Il 4 dicembre 1923 Greta Gustafsson assunse legalmente il suo nome d'arte, Greta Garbo, con il quale interpretò il ruolo della contessa Elizabeth Dohna nel film di Stiller, Gösta Berlings saga (1924; La leggenda di Gösta Berling, noto anche con il titolo I cavalieri di Ekebù), tratto dal romanzo di S. Lagerlöf. Il film, la cui lavorazione si protrasse per mesi, piacque al pubblico ma non alla critica: la giovane G., però, nel ruolo dell'eroina, che con il suo amore salva e redime il protagonista, interpretato dal celebre Lars Hanson, si mise in luce come una promessa del cinema europeo. La G. seguì Stiller a Berlino per promuovere il film e ottenere finanziamenti per un nuovo progetto del regista. Raggiunti dalla notizia del fallimento della società di produzione, i due accolsero la proposta di Louis B. Mayer, che si trovava nella città tedesca, di seguirlo a Hollywood e firmarono il contratto, impegnandosi a partire entro il 15 aprile 1925. Ma la G. fu chiamata da Georg W. Pabst per interpretare in Die freudlose Gasse (1925; La via senza gioia) la parte di un'angelica vergine avviata alla prostituzione nella Berlino sconvolta dall'inflazione e dalla miseria del dopoguerra. L'attrice accettò, a patto che la produzione assicurasse il mantenimento di Stiller: i ruoli fra i due cominciavano a capovolgersi. Il film, buon prodotto del cinema espressionista tedesco degli anni Venti, contribuì all'affermazione della giovane attrice, per la quale sembravano aprirsi le porte del cinema d'arte europeo. Ma Mayer impose il rispetto del contratto con la MGM. La G. e Stiller, malvolentieri, si imbarcarono per gli Stati Uniti, e dopo alcuni mesi di disorientamento, l'attrice, benché volesse lavorare solo diretta da Stiller, girò il suo primo film statunitense, The torrent (1926; Il torrente), per la regia di Monta Bell. I produttori della MGM avevano di fatto precisi progetti: imposero alla giovane svedese un radicale cambiamento di immagine nonché di vita privata. Nel film di Bell la G. interpreta una contadina innamorata che diventa una sprezzante vamp, quindi una cinica donna di mondo e infine una solitaria bellezza sposata al suo destino di primadonna. Sembrava un profetico riassunto dei ruoli che la nascente diva avrebbe sostenuto in tutti i film successivi e nella sua stessa vita. Anche in The temptress (1926; La tentatrice) di Fred Niblo interpretò il ruolo dell'ammaliante divoratrice di uomini, cui sembrava condannata dal suo fascino esotico. Il film, che avrebbe dovuto essere diretto da Stiller, protestato dopo dieci giorni dai produttori, sembrò alla G. un imperdonabile campionario di cliché. Eppure l'attrice, baciando il focoso amante latino Robledo (Antonio Moreno), rivelava una carica erotica che nei film statunitensi dell'epoca non si era mai vista. La MGM si affrettò a estenderle il visto di lavoro negli Stati Uniti, mentre abbandonò Stiller al suo destino. Flesh and the devil (1926; La carne e il diavolo) di Clarence Brown fu un clamoroso successo commerciale. Ancora una volta la G. interpreta il ruolo della vamp, divisa fra due uomini: il secondo marito (Lars Hanson, già suo amante in Gösta Berlings saga) e il giovane Leo, interpretato da John Gilbert, che sarebbe stato il suo partner preferito nei film successivi. In questo melodramma a tinte forti la G. compare in alcune scene che sarebbero diventate leggendarie per la loro sensualità. L'intesa con il latin lover John Gilbert, erede di Rodolfo Valentino, si ripeté anche nei film Love (1927; Anna Karenina) di Edmund Goulding e A woman of affairs (1928; Destino) di Brown. Nel 1928 interpretò inoltre The divine woman (1928; La donna divina) di Victor Sjöström, film andato in gran parte perduto, e The mysterious lady (1928; La donna misteriosa) di Niblo, nel quale è un agente segreto che uccide il proprio capo pur di salvare l'amante. Durante la lavorazione di Wild orchids (1929; Orchidea selvaggia) di Sidney Franklin, in cui appare come donna sessualmente fedele al marito, la G. apprese la notizia della morte, in Svezia, di Stiller. Scarso interesse presentano i suoi ultimi film muti, il moralistico The single standard (1929; La donna che ama) di John S. Robertson e il melodramma The kiss (1929; Il bacio) di Jacques Feyder. Per il suo debutto nel cinema sonoro, la G. affrontò il ruolo di Anna Christie (1930) di Brown: una prostituta nevrotica, redenta dall'amore. La sua voce roca, gutturale, con un lieve accento straniero, sembrò confermare il fascino favoloso e distante dell'attrice. I numerosi film che avrebbe interpretato negli anni Trenta, al culmine della fama, per volontà della MGM furono, salvo rare eccezioni, confezioni industriali funzionali al suo rango di diva: melodrammi stereotipati, film d'ambiente mondano, drammi storici a forti tinte, nei quali tuttavia la G. seppe ritagliarsi momenti di intensa espressività. Fu improbabile cantante d'opera italiana in Romance (1930; Romanzo) di Brown, artista di facili costumi in Inspiration (1930; La modella) dello stesso regista, prostituta in un bordello sudamericano in Susan Lenox ‒ Her fall and rise (1931; Cortigiana) di Robert Z. Leonard, nel quale duetta con Clark Gable, ballerina e spia in Mata Hari (1931) di George Fitzmaurice, adultera in The painted veil (1934; Il velo dipinto) di Richard Boleslawski, amante di Napoleone in Conquest (1937; Maria Walewska) di Brown. Fra questi film di routine spicca Grand hotel (1932) di Goulding, nel quale è una ballerina depressa e annoiata, sull'orlo del suicidio, che s'innamora perdutamente di un gentiluomo decaduto (John Barrymore), costretto a diventare ladro di gioielli. In As you desire me (1932; Come tu mi vuoi) di Fitzmaurice, trasposizione della commedia di L. Pirandello, la G., affiancata da Erich von Stroheim, interpreta il ruolo ‒ che il pubblico percepiva come autobiografico ‒ di una donna che tenta di reinventarsi un'identità lontana dal pigmalione che l'ha creata. L'attrice offrì una delle sue prove più alte in Queen Christina (1933; La regina Cristina) di Rouben Mamoulian: la parte dell'androgina regina di Svezia, che rinuncia al trono per amore e per desiderio di libertà, era stata scritta per lei dalla sua amica Salka Viertel. Le scene d'amore con John Gilbert, ormai sul viale del tramonto e da lei imposto alla produzione, che invece avrebbe preferito Laurence Olivier, sono rimaste memorabili come l'indimenticabile inquadratura finale del film, nella quale la G. offre alla cinepresa il suo volto lunare, inespressivo, ormai ridotto a maschera di estenuata indifferenza. Notevole anche il finale di Anna Karenina (1935) di Brown: costretta dalle nuove prescrizioni moralistiche di Hollywood, il codice Hays, a censurare la propria carica erotica, l'attrice recita ormai solo con il viso, e basta un gioco di luci e di ombre sulla sua maschera pallida a esprimere la disperazione che la conduce al suicidio sotto il treno. Di grande effetto anche la scena della morte in Camille (1937; Margherita Gauthier) di George Cukor, che avviene fra bisbigli, sorrisi e un lieve socchiudersi di ciglia fra le braccia di Armand (Robert Taylor). Nel momento in cui la sua carriera si avviava al tramonto, la G. accettò coraggiosamente di smitizzare sé stessa interpretando la parte di un'ispettrice comunista corrotta dalle lusinghe del capitalismo in Ninotchka (1939) di Ernst Lubitsch, rivelando un inaspettato talento per la commedia. Nonostante il film sia uno dei migliori della sua carriera il pubblico non lo gradì, rifiutando la demistificazione della diva. Delusa, esitò a lungo prima di accettare un nuovo ruolo, e tentò ancora con un film leggero, Two-faced woman (1941; Non tradirmi con me) di Cukor, nel doppio ruolo di una moglie intraprendente e della sua immaginaria gemella, che però si rivelò ancora un insuccesso. L'attrice aveva solo trentasei anni, ma non avrebbe mai più girato un film. Vari artisti tentarono di coinvolgerla con allettanti progetti, e alcuni (come Duchesse de Langeais con Max Ophuls, Saint Joan dal dramma di George Bernard Shaw, Madame Curie per lei acquistato dalla MGM, The loves of D'Annunzio and Duse ideato da Orson Welles per lei e Charlie Chaplin) incontrarono anche il suo interesse. Ma nessuno si concretizzò, e la diva scomparve così dagli schermi, per riapparire soltanto nel servizio fotografico dell'amico Sir Cecil Beaton, oppure nelle cronache mondane, per una fuga a Ravello con il direttore di orchestra Leopold Stokowski. Per cinquant'anni difese la propria privacy con ostinata determinazione, trincerandosi nella solitudine che, forse, aveva sempre cercato. In tal modo, sottraendosi alla curiosità dei suoi ammiratori e, in seguito, dei suoi biografi, mantenne definitivamente intatto il proprio mistero.
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