GRIFO di Tancredi
Non si conoscono le date di nascita e morte di questo pittore documentato in Toscana dal 1271 al 1303.
In un documento portato di recente all'attenzione degli studi (Bagemihl, pp. 415, 423 n. 12) il pittore è menzionato a Volterra nel 1271 insieme con un altro artista fiorentino, tal Filippo di Iacopo, con il quale affittava per un anno una bottega posta di fronte alla residenza dei canonici della cattedrale di Volterra. G. è citato anche in un documento notarile del 1295 per aver preso un apprendista in bottega, e compare inoltre nelle matricole dei pittori fiorentini registrate fra il 1297 e il 1312 (Hueck). Il suo nome figura anche in un documento del 30 sett. 1303 relativo a un pagamento "pro parte laborerii pitturarum quas fecit et facit in palatio Comunis Florentini de facto Pulliciani" (Davidsohn, 1896-1927), mentre il pittore era impegnato cioè ad affrescare in palazzo Vecchio un evento recente, vale a dire la mancata conquista da parte dei guelfi bianchi del castello di Pulicciano nella primavera dello stesso anno. Risulta poi interessante la possibile presenza dell'artista in Umbria, poiché appare assai probabile che egli sia davvero identificabile - nonostante i dubbi in proposito espressi da Bagemihl (p. 415) - con il pittore "Grifa Tancredi" che nel 1281 ricevette un pagamento per alcuni lavori di pittura alla fontana Maggiore a Perugia (ibid., p. 423 n. 15). Assai improbabile appare invece l'identificazione con G. di un Grifo del fu Tancredi di Montegonzi, una località del Chianti, citato in un documento del 1328 (ibid., p. 425 n. 15).
Si deve a Longhi (1948) aver ricondotto a un unico maestro un gruppo di dipinti - attribuiti da Garrison (1946) a quattro pittori fiorentini diversi, operanti nell'ambito di una presunta influenza romaneggiante che avrebbe caratterizzato in quell'epoca la pittura fiorentina - riunito sotto il nome provvisorio del Maestro di San Gaggio, autore della tavola raffigurante la Madonna col Bambino in trono e quattro santi (Firenze, Galleria dell'Accademia) proveniente in origine dall'omonimo convento alle porte di Firenze. A tale corposo insieme di opere, si è potuto associare il nome di G. per merito di Boskovits (1988, p. 122) che ha fornito una plausibile interpretazione della scritta frammentaria posta in calce alla parte centrale del tabernacolo (Marques, figg. 253 s.) un tempo nella collezione del conte di Crawford e Balcarres a Londra: "H(oc) op(us) q(uod) fec(it) m(agister) Gri(fus) Fl(orentinus)".
Formatosi in ambito prossimo al Maestro della Maddalena, G. - ancora oggi più conosciuto con la denominazione convenzionale di "Maestro di San Gaggio" - nella fase centrale della sua attività registra e interpreta con grande originalità spunti di matrice cimabuesca, mentre nella fase tarda s'impone come uno dei più precoci e acuti seguaci della prima attività di Giotto in territorio fiorentino.
L'attività più antica sin qui nota di G. dovrebbe essere rappresentata (Tartuferi, 1986) - verso il 1275-80 - dalle due tavolette conservate nel Rijksmuseum di Amsterdam raffiguranti la Deposizione dalla Croce e il Seppellimento di Cristo, con ogni probabilità frammenti degli sportelli di un altarolo o di un piccolo dossale con Storie della Passione, cui appartenne, forse, anche l'altra tavoletta un tempo in collezione Harris a Londra, comprendente le scene della Derisione e dell'Andata al Calvario (Id., La pittura…, 1990, fig. 216).
Nei dipinti di Amsterdam - in migliori condizioni di conservazione - il fondo culturale ereditato direttamente dal Maestro della Maddalena appare come turbato da un disegno più inquieto e incisivo, da caratteri fisionomico-emotivi più accentuati, nella direzione di una maggiore apertura verso i toni drammatici del linguaggio cimabuesco (ibid., p. 62). L'ipotesi, accolta in maniera sostanzialmente favorevole (Marques; Parenti), consente di individuare con ogni verosimiglianza gli esordi di G. nell'ambito della bottega dell'anonimo maestro coetaneo di Cimabue, con cui egli dovette peraltro collaborare anche in una fase più inoltrata del suo percorso. Tuttavia, nei dipinti che ormai da tempo vengono ricollegati stabilmente alla fase più antica dell'attività di G., nel corso degli anni Ottanta, si coglie in maniera assai palese il tentativo d'interpretare il linguaggio cimabuesco, con esiti che talvolta appaiono fin troppo riusciti, si direbbe quasi "accademici", sul piano morfologico. È il caso, per esempio, del polittico un tempo nella celebre raccolta parigina Artaud de Montor, diviso ai giorni nostri tra la National Gallery di Washington e il Musée Benoît-Molin di Chambéry (Marques, figg. 253 s.), attribuito significativamente a Cimabue dal giovane Berenson (1920), con il Cristo benedicente fra i ss. Pietro e Giacomo Maggiore, Giovanni Battista e Orsola (?), quest'ultima nota soltanto attraverso l'incisione pubblicata nel catalogo della collezione francese (1843). Analoghi riflessi cimabueschi si riscontrano nel tabernacolo portatile della Gemäldegalerie di Berlino (Boskovits, 1988), restituito indipendentemente al pittore da Bellosi (1985) e da Tartuferi (1986, p. 277), soprattutto nella Crocifissione dello sportello destro o nella Madonna col Bambino al centro, esemplata quasi alla lettera su quella al centro del dossale di Manfredino da Pistoia nella collezione Acton a Firenze (Tartuferi, La pittura…, 1990, fig. 191), a una data che dovrebbe aggirarsi intorno alla metà del nono decennio. Pressoché coevo è, inoltre, il bel tabernacolo già in collezione Crawford e Balcarres a Londra, già menzionato.
La Tebaide dipinta nella parte centrale dipende con ogni evidenza da un prototipo bizantino, al punto da far pensare a una prima occhiata - come ha osservato giustamente Bellosi (1985) - a un pittore diverso da quello dei laterali, dove al contrario emerge subito con chiarezza il vivace e gustoso linguaggio narrativo tipico di G., così come nel Cristo benedicente fra sei angeli dipinto nel timpano superiore dell'elemento centrale, dal quale traspaiono spiccati accenti cimabueschi.
Tra le opere più alte della fase cimabuesca è da annoverare la splendida cassetta dipinta resa nota da Tartuferi (Per G.: un'aggiunta…, 1994), con dieci figure di sante sui lati e, negli incavi trilobati del coperchio, il Vir dolorum, la Vergine e il S. Giovanni dolenti, nonché S. Elena.
A partire dalla fine del nono decennio, l'artista diviene il principale esponente dei cosiddetti protogiotteschi fiorentini, mutando anche in maniera sensibile i propri accenti stilistici: i personaggi presentano forme più accuratamente tornite, mentre il chiaroscuro si fa più intenso e d'intento palesemente plastico, sebbene altri connotati - per esempio l'impaginazione spaziale e le architetture sullo sfondo - permangono tenacemente aderenti a formule tipicamente duecentesche. Questo momento di transizione si coglie in maniera particolare nell'altro tabernacolo ricostruito da Garrison (1946; 1949, p. 136) la cui parte centrale raffigurante la Madonna con il Bambino tra s. Paolo, una santa e nove storie della Passione di Cristo si conserva nella Christ Church Gallery di Oxford, mentre i laterali (il destro con Una santa e nove storie di Cristo, il sinistro con S. Pietro e nove storie di Cristo) si trovavano un tempo nella collezione Sessa a Milano.
Il progressivo allineamento dell'artista al nuovo linguaggio di matrice giottesca si realizza nell'arco dell'ultimo decennio del secolo XIII nel corso del quale la sua attività è sostenuta da una vitalissima forza creativa. A questo periodo appartengono il dossale della Timken Art Gallery di San Diego, eseguito in collaborazione con il Maestro della Maddalena (Offner), nel quale egli dipinse le dodici Storie della Passione, e la tavola cuspidata del Bodemuseum a Berlino raffigurante la Madonna col Bambino in trono e quattro Storie della Passione di Cristo ai lati (Boskovits, 1976).
La serie di opere riconducibili all'ultimo periodo di attività di G., tra l'ultimo lustro del Duecento e i primi anni del secolo seguente, s'inaugura con la già citata tavola proveniente dal convento di San Gaggio a Firenze, nella quale la struttura del trono su cui siede la Vergine ha un impianto ormai prettamente trecentesco, sottolineato anche dalle copiose decorazioni di gusto cosmatesco. Tuttavia, il vertice qualitativo di questa fase è da individuare nell'altro altarolo portatile già in collezione Agnew a Londra, ma in anni più recenti in collezione privata italiana (Tartuferi, La pittura…, 1990, fig. 222), passato infine a una vendita all'asta della Finarte a Milano (25 nov. 1998, lotto 32).
Il dipinto si segnala per l'intensità cromatica e per la sintesi originalissima tra la cultura duecentesca di fondo e le novità di matrice giottesca, con aspetti stilistici che preludono da vicino ad alcuni protagonisti della scena artistica fiorentina del primissimo Trecento, quali il Maestro della S. Cecilia o Lippo di Benivieni. L'altarolo offre inoltre inequivocabili spunti di raffronto stilistico per confermare nel catalogo di G., secondo un'ulteriore intuizione di Boskovits (1976), gli importanti affreschi superstiti della cappella di S. Giacomo a Castelpulci (Firenze) con Storie di s. Caterina d'Alessandria (per cui si veda Garzelli).
Tra le opere appartenenti alla fase estrema dell'attività di G. occorre ricordare il tabernacolo della Brooks Memorial Art Gallery di Memphis, TN, attribuito a lui da Bellosi (1974), raffigurante nella parte centrale la Madonna col Bambino in trono fra i ss. Pietro e Giovanni Battista, un Santo vescovo con il donatore genuflesso nello sportello sinistro e la Crocifissione nello sportello destro. L'opera presenta evidenti accenti di cultura prototrecentesca, fortemente goticheggianti; tuttavia, il legame di evoluzione stilistica rispetto al tabernacolo ex Agnew appare imprescindibile, e quindi non paiono giustificate le perplessità espresse da Bagemihl (p. 414) circa l'attribuzione dell'opera a Grifo. Anzi, considerando quest'ultimo dipinto, appare del tutto evidente - secondo il parere di chi scrive - l'opportunità di restituire al pittore il tabernacolo del Museo Bandini di Fiesole (Bietti), già avvicinato giustamente al Maestro di San Gaggio da Conti (1983). L'opera documenta la fervida e aggiornata vena creativa di G. anche al termine della sua lunga carriera artistica e ne attesta l'importanza per la formazione di alcuni artisti fiorentini attivi all'inizio del Trecento, quali Pacino di Bonaguida, il Maestro della Cappella Velluti, Iacopo del Casentino.
Fonti e Bibl.: A.F. Artaud de Montor, Peintres primitifs. Collection de tableaux rapportés d'Italie, Paris 1843, pp. 30 s.; R. Davidsohn, Storia di Firenze (1896-1927), VII, Firenze 1965, p. 423; Id., Forschungen zur Geschichte von Florenz, III, Berlin 1901, p. 225; M. Salmi, Spigolature d'arte toscana, in L'Arte, XVI (1913), pp. 209 s.; B. Berenson, A newly discovered Cimabue, in Art in America, VIII (1920), pp. 251-271; R. Van Marle, The development of the Italian schools of painting, III, The Hague 1924, pp. 293 s.; D.E. Colnaghi, A Dictionary of Florentine painters, London 1928, p. 141; N. Ottokar, Pittori e contratti d'apprendimento presso pittori a Firenze alla fine del Dugento, in Rivista d'arte, XIX (1937), p. 57; G. Coor-Achenbach, An early Italian tabernacle, in Gazette des beaux-arts, XXV (1944), pp. 121-152; E.B. Garrison, The Oxford Christ Church Library panel and the Milan Sessa Collection shutters. A tentative reconstruction of a tabernacle and a group of Romanizing Florentine panels, ibid., LXXXVIII (1946), pp. 321-346; R. Longhi, Giudizio sul Duecento, in Proporzioni, II (1948), pp. 19, 47; E.B. Garrison, Italian Romanesque panel painting. An illustrated index, Florence 1949, pp. 27, 136; D.C. Shorr, The Christ Child in devotional images in Italy during the XIVth century, New York 1954, p. 60; L. Marcucci, Gallerie nazionali di Firenze. I dipinti toscani del secolo XIII, Roma 1958, pp. 56 s.; G. Previtali, Giotto e la sua bottega, Milano 1967, pp. 26, 30, 35; I. Hueck, Le matricole dei pittori fiorentini prima e dopo il 1320, in Bollettino d'arte, LVII (1972), pp. 119 s.; L. Bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino 1974, p. 20 n. 15; A. Garzelli, Protogiotteschi ad Assisi e Firenze, in Critica d'arte, XXXIX (1974), 136, pp. 9-30; M. Boskovits, Cimabue e i precursori di Giotto, Firenze 1976, p. 7, nn. 33, 70; A. Conti, I dintorni di Firenze, Firenze 1983, p. 63; L. Bellosi, La pecora di Giotto, Torino 1985, pp. 106 s.; A. Tartuferi, Per il pittore fiorentino Corso di Buono, in Arte cristiana, LXXIII (1985), 710, pp. 322-324; Id., Pittura fiorentina del Duecento, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, Milano 1986, I, p. 277; A. Guerrini, Maestro di San Gaggio, ibid., II, p. 625; L.C. Marques, La peinture du Duecento en Italie centrale, Paris 1987, pp. 201-212; M. Boskovits, Gemäldegalerie Berlin. Frühe italienische Malerei, Berlin 1988, pp. 122-124; A. Tartuferi, Un libro e alcune considerazioni sulla pittura del Duecento in Italia centrale, in Arte cristiana, LXXVI (1988), 729, pp. 437, 442; Id., in Trenta dipinti antichi di collezione privata (catal.), a cura di D. Benati - L. Peruzzi, Crevalcore 1990, n. 1; Id., La pittura a Firenze nel Duecento, Firenze 1990, pp. 61-63, 107-109; D. Parenti, Note in margine a uno studio sul Duecento fiorentino, in Paragone, XLIII (1992), 505-507, pp. 55 s., 58 n. 17; M. Bietti, in Il Museo Bandini a Fiesole, a cura di M. Scudieri, Firenze 1993, pp. 69-71; A. Tartuferi, Per G. di T.:un'aggiunta e alcune conferme, in Paragone, XLV (1994), 529-533, pp. 5-9; Id., in Uffizi e Pitti. I dipinti delle Gallerie fiorentine, a cura di M. Gregori, Udine 1994, pp. 25, 654; L. Bellosi, Cimabue, Milano 1998, pp. 129, 238, 266; R. Bagemihl, Some thoughts about G. di T. of Florence and a little-known panel at Volterra, in Arte cristiana, LXXXVII (1999), 795, pp. 413-426; L. Bellosi, Ricordi di Carlo De Carlo e della sua collezione, in Un tesoro rivelato. Capolavori dalla Collezione Carlo De Carlo (catal.), a cura di M. Scalini - A. Tartuferi, Firenze 2001, p. 20; A. Tartuferi, ibid., p. 44; R. Offner, An early Florentine dossal, Pescia s.d.