GROSOLANO (Grossolano)
Non si hanno notizie sicure su G. prima della sua nomina a vescovo di Savona nel 1098. La sua conoscenza del greco e il nome "Crisolao", con cui è indicato nell'epitaffio, spinsero L.A. Muratori a ipotizzarne un'origine calabrese, ma O. Masnovo ne ha confermato la nascita in area lombarda e l'autenticità del nome, che non farebbe perciò riferimento al suo aspetto dimesso. Per Masnovo "Chrysolaus" indicherebbe piuttosto la frequentazione delle scuole parmensi, presso le quali G. avrebbe appreso la lingua greca e la teologia.
Nessun elemento documenta invece il prenome Pietro e la sua presunta parentela con la contessa Matilde di Canossa (Masnovo, pp. 1-3; Argelati, col. 712). Oltre al luogo preciso, è oscura anche la data di nascita: essendo stato eletto vescovo nel 1098 e prevedendo le norme canoniche un'età minima di 30 anni per la carica, non si potrebbe andare oltre il 1068, come datazione più recente. G. però muore nel 1117, quindi sembra possibile collocarne la nascita intorno alla metà del secolo XI. Vani sono pure i tentativi di indagarne il periodo giovanile e la formazione ecclesiastica.
È invece chiaro il suo rapporto con la riforma, diffusasi ampiamente in Lombardia durante il papato di Urbano II. Egli dovette forse aderire in giovane età al variegato movimento eremitico - condivisibili, in tal senso, le osservazioni di P. Zerbi, che confutano anche la sua appartenenza a Vallombrosa - e, dopo l'incertezza iniziale, divenne canonico regolare essendo entrato a far parte di una piccola comunità, sita presso Ferrania (non lontano da Savona, ma compresa nella circoscrizione diocesana di Alba). Di essa risulta essere stato a capo quando, nella primavera del 1098, venne raggiunto da una legazione dell'arcivescovo milanese Anselmo di Bovisio, diretta a Savona per presiedere alla scelta del nuovo vescovo. G. era allora preposito della canonica intitolata a S. Maria, ai Ss. Apostoli Pietro e Paolo e a S. Nicola di Ferrania, dove rimase almeno fino al 21 genn. 1100, come conferma un documento di esenzione dal pagamento di pedaggi concesso dal marchese Bonifacio del Vasto. In ogni caso, l'incontro con i due messi non fu casuale, come sembrerebbe invece suggerire il racconto di Landolfo iuniore (Landolfo di S. Paolo). Militavano infatti nello schieramento riformatore tanto i due inviati, quanto Anselmo: dunque la scelta di G. quale nuovo presule della città ligure va inserita in un preciso piano - volto a contrastare la minacciosa presenza imperiale nell'area - di cui lo stesso canonico doveva essere a conoscenza e al quale non poteva certo essere estraneo il potente marchese aleramico.
Secondo Landolfo G. avrebbe seguito, subito dopo l'elezione, i due inviati a Milano, dove sarebbe stato consacrato dai vescovi di Genova, Torino e Brescia e dove avrebbe ricevuto contestualmente il vicariato dell'arcidiocesi milanese. Egli ricopriva certamente tali cariche il 15 luglio 1100 quando sottoscrisse, subito dopo l'arcivescovo Anselmo, il documento istitutivo della festa del S. Sepolcro. Al contrario, risulta essere frutto di una probabile interpolazione successiva la sottoscrizione che lo registra ancora soltanto vescovo di Savona, e come tale confuso con gli altri sottoscrittori, nel privilegio del 9 apr. 1098, concesso da Anselmo alla chiesa di S. Vittore di Varese. Ciò trova conferma anche nel fatto che G. non partecipò all'importante sinodo milanese del 5-7 apr. 1098, la qual cosa sarebbe inspiegabile se la nomina a vicario coincidesse con la consacrazione. Si deve ritenere perciò che l'ordinazione episcopale, come ha proposto convincentemente Lucioni, debba essere posta nei primi mesi del 1100. Tale datazione si armonizza con la presenza a Milano in quell'anno dei due vescovi Airaldo di Genova e Arimanno di Brescia, con l'attestazione di G. nella canonica di Ferrania, di cui era preposito ancora il 21 genn. 1100, e soprattutto con la narrazione di Landolfo iuniore.
L'incarico di vicario invece era formalmente collegato all'imminente partenza di Anselmo per la crociata, avvenuta il 13 sett. 1100, sebbene in realtà avesse motivazioni più importanti. La politica decisamente filoromana dell'arcivescovo gli aveva attirato l'ostilità di coloro che, non pregiudizialmente contrari alla riforma, volevano tuttavia salvaguardare i tradizionali privilegi della sede ambrosiana. Il suo allontanamento da Milano per un'impresa "santa" e la sua sostituzione con G., fedele a Roma, ma non altrettanto compromesso, costituivano pertanto un modo equilibrato per soddisfare tutte le esigenze, tanto più che G. seppe presto guadagnarsi la stima di molti per il suo ascetismo e, presumibilmente, per un'accorta politica di mediazione tra i due schieramenti. Egli non poté tuttavia evitare il formarsi di un'opposizione, i cui principali rappresentanti erano il vecchio patarino prete Liprando e il primicerio Andrea, esponenti il primo della più stretta riforma gregoriana, che egli sentiva tradita dalla politica dei successivi pontefici, mentre il secondo dell'autonomia ambrosiana.
Nel 1102 giunse in città la notizia che Anselmo era morto a Costantinopoli; G. convocò allora l'assemblea del clero e del popolo per procedere alla nomina del nuovo metropolita; ma, alle candidature di Landolfo da Baggio e di Landolfo da Vergiate, proposte dal primicerio, egli si oppose in quanto entrambi erano assenti, avendo accompagnato Anselmo in Oriente. Il suo atto, in verità, faceva parte di un piano accuratamente preparato: infatti, subito dopo l'abate di S. Dionigi propose come arcivescovo proprio G., raccogliendo ampie adesioni tra la folla. Anche Roma appare coinvolta nell'iniziativa, come fa supporre l'invio del pallio a Milano non appena giunse la richiesta, mentre fu del tutto ignorata quella, di poco successiva, della delegazione inviata su suggerimento di Liprando per chiedere a Pasquale II di differire la conferma del presule. Le minacciose grida contro gli oppositori di G., che accolsero l'arrivo del cardinale Bernardo degli Uberti recante il pallio, erano in ogni caso il segno di una opposizione non domata. A peggiorare il clima provvide lo stesso G., il quale varò subito severe misure, volte a stroncare la resistenza degli avversari, contribuendo così a esasperare ulteriormente gli animi.
Ancora una volta, fu soprattutto Liprando a confrontarsi con lui: dopo alcuni scontri, infatti, l'annuncio di un sinodo provinciale, convocato da G. per denunciare e punire i suoi nemici, spinse il patarino ad accusarlo pubblicamente di simonia e a offrirsi di confermare questo mediante la prova del fuoco. L'arcivescovo ignorò inizialmente la sfida: nel sinodo, apertosi nel marzo del 1103, furono scomunicati il primicerio e altri nemici, ma Pasquale II annullò le sentenze, dimostrando così le preoccupazioni di Roma per il deteriorarsi della situazione. Né servì a G. impedire lo svolgimento dell'ordalia, perché il popolo reagì violentemente: a questo punto, anche su pressione dei rappresentanti del Comune, G. acconsentì alla prova, ma in termini tali da far ricadere la responsabilità della decisione completamente su Liprando: né lui, né i suoi suffraganei, del resto, assistettero all'ordalia, in evidente segno di disapprovazione. Questa si svolse il 25 marzo presso S. Ambrogio, dopo un ultimo drammatico confronto tra i due avversari: Liprando uscì apparentemente indenne dal fuoco e G., che aspettava presso S. Giovanni in Conca, partì immediatamente per Roma, dove l'accoglienza onorevole e gli attestati di stima ricevuti fecero subito intendere quali fossero le intenzioni del papa. Nel frattempo, i suoi sostenitori milanesi avevano messo in discussione la legittimità e l'esito dell'ordalia, generando nuovi tumulti in città.
Attraverso la mediazione di Landolfo da Vergiate, inviato a Milano come legato papale, la questione fu affrontata e risolta nel sinodo romano del marzo 1105. Pasquale II volle discutere soltanto dell'ordalia, a proposito della quale Liprando non poté ovviamente giurare di esservi stato costretto da Grosolano. Sull'innocenza di quest'ultimo, inoltre, si pronunciò il vescovo lodigiano Arderico, mentre Landolfo da Vergiate, contrariamente alle aspettative degli "ambrosiani", si mantenne neutrale. G. ottenne così dal papa la conferma della sua carica e poté tornare a Milano.
Qui, tuttavia, si trovò davanti a una situazione imprevista, giacché il gruppo dirigente del Comune gli impedì di rientrare in possesso dei castelli e del palazzo arcivescovili. Questo nuovo orientamento si giustificava con la certezza che la piena restaurazione del vescovo avrebbe riacceso gli animi e limitato nuovamente l'autonomia, che il potere civile si era nel frattempo conquistata. La legittimità di G. non era invece messa in discussione, e fu probabilmente questo motivo a far desistere Pasquale II dall'inviare a Milano Landolfo da Baggio come nuovo legato.
La presenza di G., del resto, era anche funzionale alla politica milanese nei confronti della vicina Lodi, il cui vescovo, dai tempi di Ariberto d'Intimiano, era vincolato al metropolita da legami di natura non solo religiosa, ma anche politica, agevolmente sfruttabili per controllare la città rivale. Quando però, nel 1107, i Lodigiani si ribellarono al loro vescovo Arderico e avviarono il conflitto con Milano si provvide ad allontanare G. da Milano, insieme con alcuni dei suoi più tenaci oppositori, essendo necessaria l'unità di tutti i cittadini nello sforzo bellico. Agli inizi del 1110 la situazione si complicò ulteriormente, a seguito dell'imminente discesa in Italia dell'imperatore Enrico V. Si profilava un nuovo scontro tra Papato e Impero, al quale Milano intendeva se possibile rimanere estranea; ciò sarebbe stato evidentemente impraticabile se G. fosse stato presente nella sua sede metropolitana, dal momento che tradizionalmente il re tedesco veniva incoronato re d'Italia dall'arcivescovo di Milano prima di recarsi a Roma. Per superare il problema G. fu allora invitato a intraprendere un pellegrinaggio a Gerusalemme, nominando però prima, come suo vicario, proprio Arderico, una persona di cui egli poteva fidarsi e altresì utile al Comune nella guerra contro Lodi.
G. partì in aprile e rimase assente dall'Italia per circa tre anni. Non è possibile ricostruire il suo itinerario in Oriente; la sua presenza è attestata però con sicurezza a Costantinopoli nel 1112, dove discusse, alla presenza dell'imperatore Alessio Comneno, con il monaco Giovanni Phurnes sulla delicata questione del "Filioque". Se questo possa collocarsi all'interno di una più ampia missione diplomatica papale, volta a ristabilire rapporti col sovrano bizantino in funzione antienriciana, è ipotesi plausibile ma non dimostrabile. Di sicuro G. approfittò del viaggio anche per soddisfare i suoi interessi culturali e religiosi, senza dimenticare che a Costantinopoli era sepolto il suo predecessore.
Tornato a Milano nell'agosto del 1113, G. si trovò di fronte a una situazione assai difficile. Durante la sua assenza, infatti, il Comune aveva assunto il pieno controllo della città, rafforzandosi nel prestigio grazie alla distruzione di Lodi, avvenuta nel 1111. A questo punto occorreva un arcivescovo disposto ad accettare il ruolo dominante assunto dalle autorità cittadine e a collaborare con esse; doveva inoltre essere gradito sia a Roma, sia alla corrente "ambrosiana". Tali caratteristiche escludevano G. - tra l'altro estraneo, per la sua origine, alla società milanese e quindi ai suoi interessi -, perciò la sua deposizione divenne inevitabile: il 1° genn. 1112 una commissione speciale, nominata e presieduta da Arderico da Carimate - il quale negli anni precedenti aveva favorito l'ascesa nella Chiesa milanese di alcuni nemici di G. -, dichiarò illegittima l'elezione dell'ex vicario e indicò Giordano da Clivio come suo successore. Il fatto che questi fosse stato sostenitore di G. e l'inutile opposizione contro la sua nomina da parte di antichi avversari del deposto arcivescovo, quale il primicerio Andrea, sottolineano il carattere "comunale" del nuovo metropolita. Anche il papa dette il suo assenso all'operazione, inviando il pallio, ma chiedendo altresì un giuramento di fedeltà, che Giordano ritardò fino al 6 dicembre. Il sacrificio di G., specialmente dopo l'umiliazione subita da Pasquale II nel 1111, e in vista dell'imminente reazione al pravilegium estortogli da Enrico V in quella occasione, era a quel punto ormai inevitabile.
Tuttavia la presenza di due presuli entrambi dotati di pallio, e di conseguenza legittimi, fece divampare un sanguinoso scontro in città, mentre G., insediatosi a S. Vittore, e Giordano si scambiavano reciproche accuse di tradimento e di simonia. Accortosi di non disporre più di appoggi sufficienti - il racconto malevolo di Landolfo iuniore, secondo cui avrebbe percepito una somma di denaro per il suo ritiro, appare poco credibile -, G. preferì allora riparare nel monastero vallombrosano di S. Marco, presso Piacenza, dove ritrovò l'amico Arderico di Lodi, anch'egli ormai inviso ai suoi concittadini e inutile per la politica milanese.
Le sue speranze erano ora riposte sul deferimento a Roma della questione, una soluzione suggerita da Anselmo della Pusterla durante la lotta, ma inizialmente rifiutata da Giordano. Quest'ultimo l'accettò soltanto quando fu chiaro che la scelta di Pasquale II si sarebbe risolta in suo favore: il sinodo romano si aprì, infatti, il 6 marzo 1116, nell'imminenza di una nuova discesa in Italia di Enrico V, dunque in un momento in cui il papa necessitava di alleati sicuri. Non a caso Giordano prese posto alla destra del pontefice - mentre G. venne relegato tra i vescovi - né è meno significativa la decisione di far precedere, il giorno 10, la soluzione della questione milanese dalla condanna del pravilegium.
La conclusione era scontata: alle proteste di G., Pasquale II rispose nominando una commissione di cardinali per verificare se la sua elezione avesse violato i canoni, i quali sancirono il divieto di trasferire un vescovo da una sede a un'altra senza valido motivo. La commissione lavorò per tutta la durata del concilio: l'11 marzo G. si gettò ai piedi del papa affidandosi alla sua autorità, in un gesto di evidente sottomissione. L'elezione fu infatti giudicata - ma si trattava di una chiara forzatura giuridica - contra canones e G. venne perciò restituito alle sede savonese. Egli non se la sentì, tuttavia, di assumere nuovamente un simile incarico, e ottenne il permesso di ritirarsi nel monastero romano di S. Saba, una concessione che voleva in qualche modo fare ammenda di una sentenza chiaramente "politica".
Qui G. morì e fu sepolto il 6 ag. 1117.
G. ha lasciato diversi scritti, i quali attestano la sua buona cultura teologica e una discreta formazione letteraria. Il più importante è il Sermo ad imperatorem de processione Spiritus Sancti contra Graecos, composto, probabilmente in greco, durante la sua permanenza a Costantinopoli e diretto all'imperatore Alessio Comneno. Il testo, preceduto da otto esametri presumibilmente posteriori - che accennano, infatti, al problema discusso nel concilio del 1116 -, difende la duplice processione dello Spirito dalle altre Persone della Trinità, un argomento teologico che opponeva, dal secolo IX, le due Chiese. G. lo svolge sia attraverso l'esegesi biblica, sia mediante considerazioni razionali, riflesso evidente delle aperture in tale direzione della cultura del tempo, ormai prossima all'esperienza dialettica di Abelardo. Composto invece durante la permanenza a S. Saba è il Sermo de capitulo monachorum, in cui tratta dell'importanza del "capitolo delle colpe", paragonato al sinedrio che giudicò Cristo e, quindi, veicolo per l'esercizio dell'umiltà, dote principale del monaco. Tipologicamente, inoltre, il capitolo anticipa il giorno del Giudizio, quando Dio chiederà conto dei peccati degli uomini.
Al periodo arcivescovile va riferita l'Epistula, un salvacondotto rilasciato a un fedele al quale G. aveva imposto un pellegrinaggio a Santiago de Compostela, per espiare l'assassinio della matrigna. Infine, sulla base di considerazioni di natura stilistica, M. Ferrari ha ventilato l'attribuzione a G. di due testi poetici. Si tratta, in primo luogo, di una Fabula allegorica, incompleta e dalla datazione incerta (i 168 versi andrebbero comunque collocati in occasione di uno dei due allontanamenti di G. dalla città), nella quale il popolo milanese viene rimproverato per avere allontanato il suo pastore, voluto da Dio per condurlo alla salvezza. L'altro testo è un Epitaffio premesso alla Vita Paulae di Girolamo, tradito da un codice praghese contenente anche il sermone sullo Spirito Santo.
Le opere di G. sono state pubblicate da A. Amelli, Due sermoni inediti di Pietro Grosolano arcivescovo di Milano, Milano-Firenze 1933, con breve prefazione. Il sermone sul capitolo è stato ripubblicato da J. Leclercq, Le sermon de Grossolano sur le chapitre monastique, in Analecta monastica. Textes et études sur la vie des moines au Moyen Âge, a cura di M.-M. Lebreton - J. Leclercq - C.H. Talbot, Roma 1955, pp. 138-144 (trad. ital. in Id., Momenti e figure di storia monastica italiana, a cura di V. Cattana, Cesena 1993, pp. 410-414). I testi poetici, compreso il prologo al sermone sullo Spirito, si leggono invece in M. Ferrari, Produzione libraria e biblioteche a Milano nei secoli XI e XII, in Atti dell'XI Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Milano… 1987, II, Spoleto 1989, pp. 728-733.
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