GROSSO DELLA ROVERE, Leonardo
Nacque a Savona nel 1463 da Antonio Grosso, notaio savonese poi quasi certamente tesoriere di Perugia, e da Maria Basso, figlia di Giovanni e di Luchina Della Rovere, sorella di Sisto IV. Non era dunque, come vuole un'erronea tradizione, figlio di un'ignota sorella di Sisto IV.
Sembra che al padre del G. si possa fare risalire la prima acquisizione, per adozione di Sisto IV, del cognome Della Rovere da parte della famiglia: un privilegio concesso dal pontefice a diverse famiglie imparentate con la propria. La parentela acquisita con i Della Rovere, dunque con i due pontefici Sisto IV e Giulio II, garantì ai membri di diversi casati (Basso, Giuppo, Grosso, Gara, Franciotti, Vegerio, Riario) una rapida ascesa economica e sociale, che si concretizzò in alleanze matrimoniali, incarichi di governo ecclesiastico e temporale, assegnazione di uffici in Curia, conferimento di benefici, attribuzioni di titoli, nomine cardinalizie, determinando, in particolare sotto Sisto IV, una significativa presenza di liguri nella Roma del tardo Quattrocento.
Il G. e i suoi fratelli non furono esenti da questi vantaggi: furono sposate a membri di prestigiosi casati le sorelle Nicoletta, Luchina e Isabella (non concordano le fonti cronachistiche e genealogiche sull'esistenza di altre tre sorelle: Angeletta, Luchezza e Caterina); il fratello laico Bartolomeo fu governatore provinciale e servitore di fiducia di Giulio II, i fratelli Galeazzo Antonio e Francesco Andrea giunsero all'episcopato: ad Agen il primo, dal 1478 al 1487, a Mende il secondo, dal 1504 al 1524; furono infine cardinali il fratello maggiore Clemente e il G., il cui prestigio, conseguito nel corso di una lunga carriera, non fu eguagliato da alcuno dei fratelli.
Della prima giovinezza del G. non abbiamo notizie, così come sugli studi intrapresi, che dovettero essere giuridici. Il G. fu canonico di S. Pietro in Vaticano e ancora molto giovane beneficiò del conferimento del monastero di S. Giuliano di Spoleto (un'abbazia benedettina nei pressi di Monte Luco); appena ventiduenne divenne, il 9 dic. 1487, sotto il pontificato del genovese Innocenzo VIII (1484-92), vescovo della diocesi di Agen (nella Francia sudoccidentale), subentrando al fratello Galeazzo che l'aveva detenuta fino alla morte. Di Agen il G. fu solo amministratore fino al raggiungimento dell'età canonica, nel 1492, quando diventò vescovo titolare, carica da cui si dimise nel 1518, alla fine della sua carriera, e alla quale gli successe un Antonio Della Rovere non chiaramente identificato.
La chiave di volta nella carriera ecclesiastica del G. fu l'elevazione al pontificato di Giulio II (1° nov. 1503), il quale, pur non avendo seguito le orme nepotistiche dello zio Sisto IV, non trascurò di consolidare il predominio della propria famiglia né di garantirsi dall'interferenza politica del S. Collegio ampliandolo con prelati fedeli o alleati, non di rado suoi conterranei e in alcuni casi suoi nipoti.
Quattro furono i nipoti di Giulio II creati cardinali. Nella prima promozione (1503) Galeotto Franciotti Della Rovere e Clemente, dopo la morte del quale (avvenuta per sospetto avvelenamento nell'agosto 1504), in un infuocato concistoro del 1° dic. 1505, fu scelto il Grosso Della Rovere.
Malgrado il G. non abbia mai eguagliato il prestigio politico e la preminenza a corte ottenuta dal cugino Galeotto (morto nel 1508), prediletto da Giulio II, e malgrado il pontefice non abbia consentito ad alcuno dei suoi nipoti di esercitare un'influenza paragonabile a quella esercitata da un Girolamo Riario con Sisto IV o da un Cesare Borgia con Alessandro VI, il G. ebbe comunque a Roma un ruolo di primo piano. Lo si può riconoscere nelle dignità conferitegli nel corso degli anni, nella rilevanza degli uffici e degli incarichi di governo affidatigli, nelle rendite e nei benefici di cui fu titolare, nella fiducia che lo zio pontefice gli dimostrò nel volerlo suo confessore ed esecutore testamentario.
Cardinale prete dei Dodici Apostoli (ne era stato titolare il fratello Clemente fino alla morte), quindi di S. Susanna, per optare infine per il prestigioso titolo di cardinale di S. Pietro in Vincoli (o S. Eudossia, già di Giulio II fino al 1503, poi di Galeotto Franciotti), aggiunse al vescovato di Agen, dal 1508, quello di Lucca, appena rinunciato dal parente Sisto Gara Della Rovere e ceduto in seguito al cardinale Raffaele Riario. Cumulò nel corso della vita diversi benefici raggiungendo una buona posizione economica. Tra i più significativi l'abbazia di S. Simpliciano a Milano, 2000 ducati di rendita, lasciata nel 1511; S. Lorenzo fuori le Mura, ottenuta sempre nel 1511 in occasione della redistribuzione dei beni del defunto cardinale di Napoli, con 3000 ducati di rendita; il monastero cistercense di S. Maria di Morimondo, o Miramondo, nella diocesi di Milano, conferitogli nel 1513 da papa Leone X, con 2000 ducati di rendita.
La rendita media del G., derivante anche dall'attribuzione di pensioni e dai proventi di uffici di Curia si aggirava mediamente intorno ai 20.000 ducati: tanti, secondo il maestro delle cerimonie Paride Grassi, sembra che egli ne abbia lasciati al momento della morte (poco prima della quale rinunciò ai benefici posseduti); furono invece 16.000, una cifra pur sempre ragguardevole, secondo il Sanuto.
Significativo della fiducia che Giulio II nutriva nei confronti del nipote è il conferimento delle legazioni di Viterbo, di Perugia e di Roma, missioni, in particolare le ultime due, particolarmente delicate. Nel corso della sua marcia del 1506 verso Bologna contro i Bentivoglio, Giulio II affidò al G., che faceva parte del numero dei cardinali al suo seguito (come racconta Paride Grassi, che prese parte a tutta la spedizione), la carica di legato a latere con pieni poteri a Viterbo (2 sett. 1506): con la presenza del nipote il papa intendeva assicurarsi un efficace controllo sulla lotta fra le fazioni cittadine che il legato precedente non era riuscito a dominare e che i decreti di pacificazione e le condanne all'esilio imposti dal pontefice non erano stati sufficienti a sedare.
La legazione a Viterbo fu tuttavia di breve durata. Nel febbraio 1507 il G. era già legato a Perugia, caduta sotto la signoria dei Baglioni e recuperata a fatica dalle forze pontificie, in sostituzione del cardinale Antonio Ferreri (chiamato a Bologna) che non aveva saputo impedire il riorganizzarsi di focolai di ribellione. Accolto in città, secondo le cronache, con grandi onori la sera del 21 febbr. 1506, il G. dovette confrontarsi con una missione non facile: il canonico e cronista orvietano Tommaso di Silvestro racconta che a Orvieto giungevano notizie sulle impiccagioni e defenestrazioni alle quali il G. dovette procedere nel giugno 1508 in seguito a sollevamenti e disordini.
Anche la terza importante legazione affidata al G., quella romana, fu assegnata in un momento critico dell'opera di ripristino del dominio pontificio sulle città ribelli: giunse infatti tra il 1510 e il 1511, quando Giulio II si trovava a Bologna, minacciata dalle truppe francesi schierate con i Bentivoglio, e impegnava i pontifici nel recupero della strategica fortezza di Mirandola.
In anni in cui la partigianeria per la monarchia francese era diffusa anche fra molti membri del S. Collegio (non solo tra i sedici cardinali oltramontani ma anche fra gli italiani) il G. fu uno dei pochi prelati sulla cui fedeltà il pontefice non ebbe a dubitare, insieme, secondo Sanuto, con sei cardinali genovesi. A tal proposito, secondo Verzellino egli avrebbe svolto un ruolo di significativa mediazione tra la Chiesa romana e Venezia, interdetta nel 1509 in seguito al rifiuto di restituire tutte le terre di Romagna sottratte al dominio pontificio, e riaccolta nel grembo della Chiesa con l'assoluzione del 24 ag. 1510.
Nel 1512, ancora una volta, il G. mostrò di appoggiare le scelte del papa, accettando il delicato incarico, rifiutato dal Collegio, di ricevere alle porte di Roma con tutti gli onori Matthäus Lang, cardinale e vescovo di Gurk, nel quale Giulio II vedeva un valido tramite con l'imperatore, di cui Lang era il braccio destro.
Tra gli incarichi più prestigiosi e delicati affidati al G. da Giulio II figura quello di penitenziere maggiore (5000 ducati annui di rendita), di cui il pontefice gratificò il nipote verso la fine del pontificato, con nomina del 4 ott. 1511. Con l'occasione il G. lasciò S. Simpliciano. All'epoca la giurisdizione del tribunale della Penitenzieria non era ancora limitata al foro interno, come avverrà, con una severa riforma, alla metà del secolo.
Fin dal momento della sua apertura, il 10 maggio 1512, il G. fu nel gruppo dei quindici cardinali che presero parte al V concilio Lateranense (1512-17), indetto da Giulio II in contrapposizione al "conciliabolo pisano" organizzato dal re di Francia Luigi XII con la partecipazione dei cardinali scismatici. Dopo la morte del papa, sotto il pontificato di Leone X, il G. fu membro di una delle tre commissioni formate in seno al concilio nell'aprile 1513, la Deputatio pro reformatione Curiae et officialium, istituita per affrontare il delicato tema della riforma della Chiesa.
Da Giulio II il G. aveva avuto il compito di sovrintendere, con l'altro esecutore testamentario del papa, il datario Lorenzo Pucci, al completamento del monumento funebre commissionato nel 1508 a Michelangelo e rimasto incompiuto per l'incarico che l'artista aveva ricevuto allo stesso tempo per il soffitto della cappella Sistina. Il 6 maggio 1513 i due esecutori firmarono con Michelangelo un contratto nel quale si stabilivano anche i termini per il pagamento dei 13.000 ducati restanti sui 16.500 previsti. Incomprensioni e problemi economici impedirono il compimento dell'opera, progettata per la cappella Sistina e ora situata, in forma semplificata e ridotta, in S. Pietro in Vincoli.
La morte di Giulio II (21 febbr. 1513) non fu causa di declino della fortuna del G.: Leone X, eletto anche con il suo voto, gli conferì l'abbazia di Miramondo e lo confermò nella carica di penitenziere, a cui il G. avrebbe rinunciato nel 1517. Nel marzo 1513 fu chiamato inoltre a far parte della commissione sulla partecipazione alla solenne cerimonia del possesso da parte dello scomunicato duca di Ferrara Alfonso I d'Este: la commissione si pronunciò per la sospensione delle censure. Due anni prima, come membro della commissione di sei cardinali incaricati per la prima volta di dirimere la questione del duca ferrarese, il G. era stato l'unico a schierarsi contro l'Este, secondo i voleri del pontefice (che, come è noto, indipendentemente dalle indicazioni della commissione, optò poi per una politica intransigente).
Una situazione difficile, per il G., si presentò al momento della congiura ordita da Alfonso Petrucci, nel 1517, contro Leone X, che vide coinvolto il camerlengo Raffaello Riario, suo parente, cui Petrucci e i suoi seguaci avevano offerto l'elezione a pontefice nel caso fosse riuscito il disegno di assassinare il papa. Il G. scelse di non presenziare al processo, tenutosi il 22 giugno 1517 e conclusosi con la condanna del Riario poi commutata in un'altissima pena pecuniaria.
Ben integrato nell'apparato di potere romano, il G. non perdette però i legami con la patria savonese, della quale tentò, quando possibile, di tutelare gli interessi contro le pretese genovesi soprattutto in materia di gabelle.
Il G. morì il 27 sett. 1520, nella sua abitazione vicino alla chiesa romana di S. Apollinare. Alla veglia, il giorno successivo, furono presenti ventiquattro cardinali, che accompagnarono le spoglie in S. Maria Maggiore dove egli, già arciprete della basilica, fu seppellito.
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