GROTTAFERRATA
Cittadina del Lazio situata a S-E di Roma sulle pendici settentrionali dei colli Albani, G. si sviluppò intorno al centro monastico basiliano fondato dai ss. Nilo e Bartolomeo intorno al 1004 (v. Basiliani).L'abbazia prese il nome di G. da un ambiente chiamato crypta ferrata (probabile cella sepolcrale di età tardorepubblicana munita di inferriate, che nell'Alto Medioevo fu consacrata al culto cristiano; Ponti, Passamonti, 1939, pp. 34-35), presso il quale, intorno al 1004, il conte Gregorio I di Tuscolo offrì a Nilo di Rossano Calabro (910-1004), sfuggito dalla Calabria per le incursioni saracene, il terreno necessario per la costruzione del cenobio in cui trasferirsi con i suoi monaci (Rocchi, 1893, pp. 14-15). Dedicata a Maria, nel 1024 la chiesa fu consacrata da papa Giovanni XIX (1024-1032); a partire dal 1037 l'abbazia fu sotto la protezione papale.Documento del primitivo assetto romanico della chiesa, oggi all'interno nascosto dalla ristrutturazione del cardinale Guadagni (1754), è la coeva descrizione dei lavori settecenteschi del padre basiliano Filippo Vitale, che tanto si oppose ai nuovi lavori (Zander, 1953). L'interno dell'antico edificio, a tre navate, era spartito da due file di otto colonne scanalate di spoglio - oggi racchiuse nei pilastri settecenteschi e interrate di cm. 50 ca. sotto l'attuale livello pavimentale - che reggevano archi a tutto sesto; aveva tetto a capriate lignee a due spioventi nella navata centrale, affiancata dalle due laterali più basse. All'esterno, le mura perimetrali inferiormente sono in opera quadrata e reticolata; vi si aprono quattro finestre per lato, di cui due trasformate a sesto acuto nei lavori per il primo giubileo e due a tutto sesto, chiuse da lastre marmoree di restauro.La parte superiore del corpo centrale, in opera listata a blocchetti di peperino e laterizio, con finestre a tutto sesto chiuse da lastre marmoree, è circondata sui quattro lati da un motivo ad archetti pensili ancora romanico; una cornice terminale a denti di sega concludeva a questo livello la primitiva costruzione.Corrisponde all'elevazione gotica della navata, variamente assegnata al 1272 o al 1282 (Andaloro, 1983, pp. 255-256; Pace, 1987, pp. 74-75), il coronamento ad archetti pensili acuti, originariamente intonacati e decorati a fasce rosse; tracce sono ancora visibili nel fianco destro e nella zona absidale (D'Onofrio, Pietrangeli, 1970, p. 210; Andaloro, 1983, p. 256, n. 29; Pace, 1987, p. 75, n. 67). All'esterno, sul lato destro, impostato sulla prima delle due celle della crypta ferrata, si eleva il campanile (ricostruito nell'aspetto medievale da Pietro Guidi nel 1912), del tipo diffuso a Roma durante il sec. 12° con cornici in laterizio e marmo bianco, trifore e dischi in paste vitree colorate; in origine il campanile era concluso da un sesto piano di trifore e da una cuspide con quattro piccole piramidi angolari (Rossi, 1905, p. 25; D'Onofrio, Pietrangeli, 1970, pp. 210-211). La chiesa era preceduta da un portico, che nel 1929-1930 è stato ripristinato secondo le originarie proporzioni emerse dai coevi saggi di scavo (Guidi, 1930, p. 27; D'Onofrio, Pietrangeli, 1970, p. 209), dopo che in un rimaneggiamento del 1843 voluto dal cardinale Mattei il nartece era stato elevato con gusto neogotico, fino a nascondere la facciata, e destinato a cappella parrocchiale per il rito latino (Rossi, 1905, p. 13; D'Onofrio, Pietrangeli, 1970, pp. 204, 209). Nel corso dello stesso restauro furono anche rimosse le sovrastrutture quattrocentesche volute dal cardinale Giuliano Della Rovere e venne ricostruita la decorazione della facciata.Nel 1272, al tempo dell'abate Ilario, fu ristrutturato il sacello dei Ss. Adriano e Natalia, costruito dall'abate Bartolomeo e ingrandito dall'abate Nicola II nel 1131, che nel 1608 il cardinale Odoardo Farnese riedificò completamente, dedicando la nuova cappella ai ss. Nilo e Bartolomeo; al 1282 (Andaloro, 1983, pp. 255-256, n. 28) risalgono invece l'innalzamento della navata e un restauro della chiesa, comprendente anche il pavimento cosmatesco, conservato ancora oggi nella zona del presbiterio e nella navata centrale. L'elevazione è contraddistinta da arcatelle a sesto acuto e cornicette a denti di sega. Le due grandi finestre laterali archiacute della navata centrale (resti della vetrata della bifora destra con una figura di santo sono conservati nel Mus. dell'abbazia), aperte a innalzamento avvenuto, risalgono, con il ciborio, l'altare, l'ambone e il rosone centrale - i cui resti sono visibili nella loggia Farnesiana nei pressi della chiesa insieme a due lastre inedite, ornate da un fregio con protome bovina centrale affiancata da due teste leonine ai lati, che Silvestro (in corso di stampa) ipotizza essere le cimase dei due ingressi che probabilmente fiancheggiavano la porta speciosa -, ai lavori fatti eseguire dai Conti di Segni, legati a Bonifacio VIII, per il giubileo del 1300, relativi anche all'apertura della porta santa nella navata destra (D'Onofrio, Pietrangeli, 1970, p. 210; Andaloro, 1983, pp. 259-260). Alla stessa epoca probabilmente risalgono i frammenti del sepolcro già ritenuto di papa Benedetto IX, morto nel 1055 ca. (Devoti, 1988, pp. 135-138; Aloisi, Luciani, 1992, pp. 106-108). Nel 1577 il cardinale Alessandro Farnese costruì una nuova abside, rinnovò gli altari e sostituì l'antico soffitto a capriate con l'attuale a cassettoni (Rocchi, 1884, p. 66), nascondendo alla vista gli affreschi duecenteschi che decoravano le pareti della navata centrale e l'arco trionfale. Nel 1904, in occasione del nono centenario della fondazione della basilica, fu resa visibile parte della decorazione verso l'arco absidale grazie all'asportazione delle prime file del cassettonato (Toesca, 1904); negli anni Settanta gli affreschi della navata furono in parte staccati e trasferiti nel Mus. dell'abbazia, con grave perdita del secondo strato eseguito a secco (Pace, 1987, p. 69).La chiesa è introdotta dal nartece, in parte rimaneggiato, in cui Andaloro (1983, pp. 266-268; 1989, pp. 14, 19; 1990, p. 335) individua, nell'insieme di porta, portale e mosaico, un "nucleo visivo e semantico di grande pregnanza, di rara coesione", inalterato rispetto alla fase che lo ha prodotto ante 1161.Il portale marmoreo, noto come porta speciosa, è decorato da girali vegetali - abitati da figure umane e animali - e da una cornice a palmette, colorata con paste vitree disposte in fasce anche sotto l'architrave recante tre protomi ferine a tutto tondo con ruolo apotropaico, probabile sostegno dell'asta di un tendaggio (Aloisi, Luciani, 1992, pp. 103-104). L'insieme è stato confrontato con il portale centrale a racemi del duomo di Salerno (fine del sec. 11°) per le sensibili affinità di programmatico intento classicheggiante con opere romane coeve, come il portale del transetto settentrionale di S. Maria in Trastevere e il gradino di S. Giovanni a Porta Latina (Pace, 1987, pp. 50-52), o con avori bizantini costantinopolitani (Andaloro, 1983, pp. 266-269; 1990, p. 338). Interessante è il confronto con il portale centrale della chiesa abbaziale di Montecassino per l'omogeneità di fabbricazione e decorazione, esente dall'uso di spolia, che induce a vedere nel portale di G. "l'attuazione di un programma iconografico in linea con i principi in voga nei paesi latini, ma reso attraverso formule derivate dall'arte bizantina" (Silvestro, in corso di stampa). L'architrave reca un'iscrizione in lettere capitali greche con un testo di Teodoro Studita che prepara l'animo dei fedeli all'incontro con il Cristo giudice: "O voi che entrate nella casa di Dio, lasciate al di fuori l'ebbrezza delle sollecitudini terrene, perché là troviate propizio il Giudice eterno" (Kominis, 1959), esortazione legata alle parole di Gv. (10, 9), riportate in lettere greche nella soprastante Déesis: "Io sono la porta. Chi passerà per me sarà salvo" (Andaloro, 1989, p. 14; 1990, p. 338); il cammino verso la redenzione era sottolineato anche dalla "ascesa nel senso di sacralità delle figure che si incontrano dal basso verso l'alto" negli stipiti del portale, figure peraltro tratte dal repertorio delle costellazioni, dai bestiari e dalle coeve opere enciclopediche (Silvestro, in corso di stampa).Il nartece accoglie anche l'antico fonte battesimale, forse in origine nella cappella di S. Nilo (D'Onofrio, Pietrangeli, 1970, p. 211; Parlato, Romano, 1992, p. 360), costituito da un'urna cilindrica in marmo provvista di coperchio, che reca un bassorilievo continuo rappresentante una figura virile nell'atto di versare acqua nel mare popolato di pesci e due putti - seduti su una curiosa rappresentazione di rocce da cui lateralmente entrano ed escono i flutti marini, con un'emblematica porta riquadrata - che pescano nello stesso mare nel quale, dall'alto di una colonna, si tuffa un terzo putto. Si è voluta ravvisare l'allusione al toponimico dell'abbazia nella raffigurazione della 'grotta ferrata' sopra cui siedono i due pescatori (Danbolt, 1978; Pace, 1987, pp. 53-54). L'intento naturalistico nella resa delle varietà di pesci - il paesaggio marino presenta analogie con quello affrescato nella chiesa inferiore di S. Clemente a Roma - e la simbologia, in cui è stato colto il legame di battesimo e morte, per il tipo dell'urna cineraria, cristianamente connessi all'idea di nascita alla vita eterna (Parlato, Romano, 1992, p. 360), riconducono la scultura in un ambito che sembra influenzato dal repertorio funerario pagano.Analogie tra il portale e il fonte battesimale di G. e la scultura pugliese dell'inizio del sec. 12°, in particolare nella resa della figura umana, confermano l'ipotesi di associare i pezzi del portale e del fonte e spingono verso una datazione intorno al 1100 (Rossi, 1905, p. 15; Pace, 1987, p. 52).Nel nartece sono ancora da ricordare le ante lignee del portale abbaziale, che presentano il motivo tardoantico di croci e racemi vegetali simile a quello della porta di Oderisio nella cattedrale di Troia del 1119 (Andaloro, 1990, pp. 338-340). La parte inferiore è un'aggiunta del 1739, necessaria per l'adattamento al nuovo livello pavimentale più basso (Rocchi, 1884, p. 47). Andaloro (1990) ritiene la varietà delle combinazioni ornamentali vegetali e geometriche delle cornici marmoree, riferibili a più mani, un elemento in dialogo con l'assenza di immagini nei pannelli lignei, a conferma dell'organicità del processo ideativo del portale. Strettamente connesso al portale marmoreo (Andaloro, 1983, pp. 267-269; 1989, pp. 14-19), probabilmente da ricondurre alla medesima committenza (Pace, 1987, p. 61) e all'ambito artistico meridionale o costantinopolitano (Andaloro, 1989, p. 18), è il mosaico sovrastante, che rappresenta la Déesis, dove compare una caratterizzata figura di monaco che la tradizione identifica con il fondatore s. Bartolomeo (Pace, 1987, p. 58), ma nel quale si è anche voluto riconoscere l'abate Nicola II in veste di donatore, collegando all'identificazione la datazione del mosaico al 1131 (Danbolt, 1978, pp. 150-155; Andaloro, 1983, pp. 266-269), o addirittura il papa Benedetto IX, che venne sepolto nell'abbazia (Ladner, 1984, pp. 99-105; Andaloro, 1989, p. 14; Aloisi, Luciani, 1992, p. 104). Iconografia tipicamente bizantina, la Déesis raramente è proposta sopra l'ingresso della chiesa in una relazione simbolica e consapevole, a G. convincentemente completata dalla presenza dell'epigrafe di Teodoro Studita sull'architrave (Andaloro, 1989, pp. 14-17; 1990, p. 338; Silvestro, in corso di stampa).La navata centrale della chiesa conserva tuttora un importante ciclo decorativo, musivo e pittorico, quest'ultimo in parte ancora nascosto dal cinquecentesco soffitto a cassettoni. Sull'arco absidale è raffigurata, a mosaico, la Pentecoste con i dodici apostoli, identificati dai nomi scritti in greco, seduti in trono ai due lati di un trono centrale vuoto - in parte rifatto in un restauro del 1857 - con sottostante agnello clipeato (D'Onofrio, Pietrangeli, 1970, p. 214; Andaloro, 1983, pp. 269-270). Tutta la raffigurazione è sovrastata da un grande menisco stellato da cui scendono dodici raggi che terminano con una fiammella sulla testa di ciascun apostolo. L'insolita rappresentazione di questo tema sull'arco absidale è da riconnettere alla raffigurazione del Giudizio universale (ora perduto ma testimoniato da Filippo Vitale) nella controfacciata, trovando così spiegazione nella traduzione di un'iconografia tipicamente bizantina in una struttura basilicale latina (Andaloro, 1983, pp. 270-272, ne coglie il parallelismo con le cupole est e ovest di S. Marco a Venezia). Negli stessi anni anche nell'abside innocenziana di S. Pietro in Vaticano si trovava l'associazione del trono dell'Etimasia all'agnello derivata dal mosaico paleocristiano (Pace, 1987, pp. 62-63). Riconosciuta già da Demus (1949, pp. 453-454) la vicinanza del mosaico vaticano con quelli monrealesi, più recentemente è stata definita la relazione che lega Monreale con S. Pietro e G. in un comune linguaggio stilistico, tecnico e iconografico, prima diffusione di una koinè bizantina di stampo siciliano in ambito romano: mentre Pace (1987, p. 63) spiega con il cantiere vaticano la presenza di mosaicisti siciliani a G., Iacobini (1989, p. 123; 1991, p. 245) ipotizza nella Pentecoste criptense, più vitale, la premessa necessaria dell'abside petriana, diventata già più statica traduzione dei modelli bizantini, legando comunque sempre alla figura di Innocenzo III (1198-1216) la venuta a Roma di maestri monrealesi. Alla stessa epoca dovevano risalire le pitture della controfacciata e del bema, nonché il primo registro con il ciclo bizantino delle Feste, connotato poi come Storie del Nuovo Testamento con l'aggiunta del sovrastante ciclo veterotestamentario (Andaloro, 1983, p. 271).Nell'ultimo ventennio del Duecento fu decorata ad affresco la nuova sopraelevazione della navata centrale: sull'arco, sopra il mosaico con la Pentecoste, al centro, entro una mandorla a fasce rosse, bianche e verdi, l'Eterno in trono tiene in grembo Cristo con la colomba dello Spirito Santo, dalla quale si dipartono dodici raggi verso gli apostoli del sottostante mosaico, che vanno a ricongiungersi alle dodici lingue di fuoco. Ai lati della Trinità sono schiere di angeli e agli estremi due figure di profeti, Davide a destra e Isaia a sinistra, accompagnati da scritte in greco. La decorazione proseguiva sulle pareti della navata - nascosta poi dal soffitto cinquecentesco - con il ciclo del Vecchio Testamento nel registro più alto (rimangono le Storie di Mosè della parete sinistra: Roveto ardente, Trasformazione della verga in serpente, Disputa dei maghi, Piaga del sangue, Piaga delle mosche, Piaga della grandine con strage dei primogeniti, Vocazione di Mosè, Passaggio del mar Rosso) e con quello neotestamentario, distrutto nel sec. 18°, nel registro sottostante (Andaloro, 1983, p. 256; Pace, 1987, p. 68).Gli affreschi veterotestamentari presentano una duplice redazione pittorica, di cui la prima a fresco e la seconda, sovrastante, a secco, che ne ripete l'iconografia aggiornandone lo stile. La sequenza iconografica generale - modificata qua e là nella realizzazione di singoli episodi - sembra rifarsi alla redazione precavalliniana dell'analogo ciclo della navata di S. Paolo f.l.m. (Andaloro, 1983, p. 258). Pace (1986), ipotizzando un'interruzione dei lavori dopo l'esecuzione del primo registro, giustificava la necessità di un aggiornamento stilistico di questa zona - realizzato a secco - con quella delle storie del Nuovo Testamento, pertinenti alla nuova fase decorativa. Andaloro (1983, pp. 255-256) ha fissato su base documentaria al 1282 la data della sopraelevazione della navata, risalente al 1272 per Matthiae (1970, pp. 17-18) e al 1242 per Bertelli (1970, p. 98). Tale data deve ritenersi termine post quem per la realizzazione degli affreschi del primo strato, stilisticamente attardati rispetto a quelli di S. Pietro in Vineis ad Anagni (1256 ca.) e replicati dallo stesso frescante criptense, in una maniera più aggiornata, nel 1291 nella chiesa di S. Maria ad Amaseno (prov. Frosinone). La redazione del secondo strato è da collocare in un momento anteriore all'apertura delle bifore, in occasione del giubileo del 1300, poiché in prossimità dell'apertura di una bifora si intervenne con il rattoppo a fresco della figura del Mago della disputa. Matthiae (1970, p. 24) e Wollesen (1981, pp. 72-76) giudicano tale redazione dei primissimi anni ottanta del sec. 13°, cogliendone i referenti stilistici rispettivamente in Pietro Cavallini e negli affreschi romani del Sancta Sanctorum, mentre altri la pongono agli ultimi anni del secolo, riscontrandone la vicinanza con le Storie di Giacobbe nel sottotetto di S. Cecilia in Trastevere a Roma (Bertelli, 1970, p. 94). Concordemente nella seconda redazione è da riconoscere l'aggiornamento stilistico del primo intervento sulle novità romane di impronta paleologa, più consone alla liturgia greca del cenobio (Andaloro, 1983, pp. 261-265, 272; 1989, pp. 19-23; Nimmo, 1983; Aggiornamento scientifico, 1988, pp. 314-322).Dal nartece proviene anche l'icona dell'Odighítria, dal 1665 racchiusa tra i due angeli dell'altare barberiniano a destra del bema, che nel 1462 il cardinale Bessarione, commendatario dell'abbazia, aveva trovato ancora protetta dagli sportelli che raffigurano un'Annunciazione sul recto e i santi fondatori dell'abbazia, Nilo e Bartolomeo, sul verso (Mus. dell'abbazia; Brugnoli Pace, 1968, p. 8). Secondo la tradizione, questa icona, venerata un tempo in una chiesa di Tuscolo e poi a Roma, fu donata all'abbazia nel 1230 da papa Gregorio IX (Paribeni, 1930, p. 29; Ponti, Passamonti, 1939, p. 69; Devoti, 1988, pp. 142-143). Pace (1987, pp. 64-66) individua per l'icona riscontri con opere siculo-bizantine e ne indica la possibile provenienza cipriota, da connettere alla circolazione di tali oggetti nell'ambito delle crociate. Ritenuta da Garrison (1949, n. 87) di cultura campana e della seconda metà del Duecento, l'icona è messa da Andaloro (1983, p. 272, n. 199) in collegamento con la decorazione pittorica pertinente alla sopraelevazione, a cui sono sicuramente riconnessi gli sportelli con l'Annunciazione, di solito datati alla fine del sec. 13° (Brugnoli Pace, 1968) e messi a confronto con la seconda redazione degli affreschi criptensi della navata da Bertelli (1970, p. 94), che ritiene questo intervento opera di un maestro cavalliniano. Andaloro (1983, pp. 262-265) ha chiarito a riguardo l'identità di mano tra l'Annunciazione degli sportelli e la seconda redazione, romana e paleologa, degli affreschi criptensi, secondo un'arte venata dal moderno stile bizantino.
Bibl.:
Fonti inedite. - Luca Eugumeno, Vita di San Bartolomeo, Grottaferrata, Bibl. dell'abbazia, B. beta. III. (ante 1105); Filippo Vitale, Memorie della restaurazione della Venerabile Chiesa di S. Maria di Grottaferrata fatta per ordine della chiara memoria del Cardinale Guadagni Abbate commendatario di quest' insigne Abbadia, Grottaferrata, Bibl. dell'abbazia, Zd. XLIII (ms. del 1754-1756).
Fonti edite. - G. Sciommari, Note ed osservazioni istoriche spettanti all'insigne basilica di Grottaferrata ed alla vita, che si propone, di S. Bartolomeo IV abate tradotta e raccolta da un antico codice greco, Roma 1728; Il diario scritto dal Padre Filippo Vitale durante la trasformazione subita dalla chiesa di S. Maria di Grottaferrata nel 1754, Bollettino della Badia greca di Grottaferrata, n.s., 9, 1955, pp. 71-82, 93-103; 11, 1957, pp. 51-64, 107-114. A. Kominis, Osservazioni sugli epigrammi di Teodoro Studita, ivi, 13, 1959, pp. 155-157.
Letteratura critica. - A. Rocchi, La badia di S. Maria di Grottaferrata, Roma 1884 (19042); id., De coenobio Cryptoferratensi eiusque bibliotheca et codicibus praesertim Graecis commentarii, Frascati 1893; P. Toesca, Notizie della Badia di Grottaferrata, L'Arte 7, 1904, pp. 317-323; A. Rossi, Il cenobio basiliano di Grottaferrata, Roma 1905; P. Guidi, Il restauro del campanile della Badia di Grottaferrata, Roma 1911; id., Vicende della chiesa e del campanile di Grottaferrata, BArte, 1914, pp. 196-212; J. Garber, Wirkungen der frühchristlichen Gemäldezyklen der alten Peters- und Pauls-Basiliken in Rom, Berlin-Wien 1918, tav. 28; Toesca, Medioevo, 1927, pp. 674, 860; P. Guidi, La basilica, in La Badia greca di Grottaferrata nel settimo centenario della traslazione del quadro prodigioso di Maria Santissima dalla città di Tuscolo, Roma 1930, pp. 24-28; R. Paribeni, Il quadro della Vergine, ivi, pp. 29-30; E. Ponti, F. Passamonti, Storia e storie di Grottaferrata, Roma 1939; O. Demus, The Mosaics of Norman Sicily, London 1949; E.B. Garrison, Italian Romanesque Panel Painting, Firenze 1949, n. 87; G. Zander, La chiesa medioevale della Badia di Grottaferrata e la sua trasformazione del 1754, in un manoscritto criptense inedito del padre Filippo Vitale, Palladio, n.s., 3, 1953, pp. 120-132; M. Bonicatti, Aspetti dell'industria libraria medio-bizantina negli ''scriptoria'' italogreci e considerazioni su alcuni manoscritti criptensi miniati, "Atti del 3° Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Benevento e altrove 1956", Spoleto 1959, pp. 341-364; G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, II, Roma 1966; W. Oakeshott, Die Mosaiken von Rom vom dritten bis zum vierzehnten Jahrhundert, Wien 1967 (trad. it. I mosaici di Roma, Milano 1967); M.V. Brugnoli Pace, L'icona dell'Annunciazione, in Catalogo della Mostra delle Opere restaurate nel 1967 dalla Soprintendenza alle Gallerie di Roma, Roma 1968, pp. 8-9; G. 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