Abstract
Si procede all’analisi giuridica, sotto il profilo tributario, del fenomeno dei “gruppi” di imprese, quale mutevole forma di organizzazione imprenditoriale, caratterizzata dall’azione coordinata di una pluralità di soggetti autonomi, diretta alla realizzazione di un comune obiettivo strategico che, ai fini tributari, ha assunto per la prima volta rilevanza negli articoli 117 e seguenti del d.P.R. 22.12.1986, come modificato dal d.lgs. 12.12.2003, n. 344, attraverso l’introduzione della disciplina sulla tassazione consolidata di gruppo.
Il fenomeno in questione coinvolge problemi e tocca interessi che riguardano settori molto lontani e non omogenei degli ordinamenti (Jagaer, G.B., I «gruppi» tra diritto interno e prospettive comunitarie, in Giur. comm., 1980, I, 923 ss.; Petriccione, R.M., Gruppi di Società, in Dig. comm., VI, Torino, 1991, 433).
Tra questi non poteva sfuggire quello connesso alla politica economica del legislatore fiscale. In particolare, volendo procedere ad un inquadramento del fenomeno dei “gruppi” d’imprese nell’ambito del diritto tributario, il primo aspetto con il quale occorre necessariamente confrontarsi è quello relativo alla soggettività (v. Soggettività tributaria).
La soggettività, invero, è categoria ideale del diritto, che si radica e si esaurisce nella legittimazione alle conseguenze giuridiche, ovvero nella legittimazione di un centro d’imputazione a divenire titolare di situazioni qualificate, funzionali a interessi preordinati, riflessi nel fatto causale di quelle medesime situazioni (sul punto Falzea, A., Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939). Ragionando in questi termini, risulta chiaro che anche il diritto tributario, al pari degli altri rami del diritto, in linea di principio, potrebbe riferire situazioni giuridiche ad entità dotate di autonomia patrimoniale non qualificabili come soggetti giuridici in altri settori dell’ordinamento (Giovannini, A., Gruppo di società e capacità contributiva, in Perrone, L.–Berliri, C., Diritto tributario e corte costituzionale, Napoli, 2006, 217; Id., Personalità dell’imposizione e consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., 2006, III, 649) (cfr. Cass. civ., 18.4.1983, n. 2646).
L’assunto trova puntuale riscontro anche nella disciplina di cui al t.u. delle imposte sui redditi (d.P.R. 22.12.1986, n. 917), laddove il vigente art. 73, co. 2, in un’ottica di completamento e chiusura del sistema – analogamente al previgente art. 87, co. 2, del “vecchio” t.u. delle imposte sui redditi che individuava i soggetti passivi dell’IRPEG – estende la soggettività passiva dell’imposta sul reddito delle società, oltre ai soggetti espressamente elencati nel primo comma, anche a « ... le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto d’imposta si verifica in modo unitario e autonomo».
Sia bene inteso, l’estensione della soggettività non autorizza a concludere che la disciplina dell’IRES, o più in generale il diritto tributario, impieghi una nozione propria di “soggettività”, autonoma rispetto a quella desumibile dal diritto comune. Invero, come autorevolmente osservato, essa rappresenta lo strumento tecnico scelto dal legislatore per estendere le disposizioni previste per le persone giuridiche anche a quelle figure che tali non sono, ma che non sarebbe lecito mandare “esenti” (Micheli, G.A., Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riv. dir. fin., 1977, I, 436). Più precisamente, secondo notazione diffusa in dottrina, la soggettivazione ai fini impositivi interviene secondo un procedimento di costruzione della norma che antepone la fissazione del fatto tassabile rispetto all’identificazione del suo centro autonomo di imputazione. Il legislatore tributario, pertanto, oltre ad assumere figure già previste in diritto privato o pubblico, ricondurrebbe il presupposto d’imposta a figure non tipizzate nell’ambito del diritto comune, assegnando ad esse una capacità giuridica speciale − una capacità di diritto tributario − ancorata appunto, nella sua radice principale, all’attitudine alla contribuzione (sul punto, Lavagna, C., Teoria dei soggetti e diritto tributario, in Riv. dir. fin., 1961, I, 8 ss.; Micheli, G.A., Soggettività tributaria e categorie civilistiche, cit., 419 ss.).
A diverse conclusioni, invero, giunge la più recente dottrina che, alla luce dell’evoluzione teorica su personalità e soggettività in ambito comune, assume tale attitudine alla contribuzione (i.e. capacità contributiva) non già come elemento costitutivo della soggettività tributaria, bensì come requisito legittimante il prelievo. Come elemento, cioè, che solo in questo senso reagisce nella sfera giuridica della figura potenzialmente idonea a realizzare il presupposto d’imposta (Giovannini, A., Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, 21 ss.; Gallo, F., I soggetti del Libro I del codice civile e l’Irpeg: problematiche e possibili evoluzioni, in Riv. dir. trib., 1993, 345 ss.; Id., La soggettività tributaria ai fini IRPEG, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, 663 ss.).
Non essendo questa la sede per affrontare una compiuta analisi della disposizione richiamata, né tantomeno del rapporto tra capacità giuridica e capacità contributiva, dal momento che è alle “altre organizzazioni” di cui al citato comma 2 dell’art. 73 TUIR che i gruppi potrebbero eventualmente attagliarsi, basti qui far presente che la verifica della sussistenza dei requisiti indicati dalla richiamata norma è condizione necessaria affinché possa riconoscersi al “gruppo” la soggettività di diritto tributario.
In ambito giuridico, si osserva, l’organizzazione può rilevare come elemento costitutivo integrante categorie giuridiche complesse, oppure come elemento suscettibile di rappresentare autonoma categoria giuridica, ovvero centro autonomo di imputazione di diritti ed obblighi.
Ai fini che qui interessa, avendo riguardo della finalità della norma in parola, si ritiene che la locuzione “altre organizzazioni” sia indicativa di una categoria giuridica dotata del carattere dell’autosufficienza, centro autonomo di riferimento di situazioni giuridiche, dotato di autonoma capacità contributiva. Siffatta “organizzazione”, tuttavia, per poter essere qualificata come soggetto passivo d’imposta, non deve essere riconducibile alle figure già individuate nel primo comma, né deve costituire un loro segmento o una loro articolazione operativa.
Segnatamente, il co. 2 dell’art. 73, prevede che il presupposto d’imposta si verifichi rispetto a tali “organizzazioni” “in modo unitario ed autonomo”. L’espressione è ambigua, ma, privilegiando il contesto nel quale è inserita, si può ritenere che: il termine “unitario” vada riferito esclusivamente al presupposto, indicando il modo di aggregarsi delle sue diverse componenti; mentre il termine “autonomo” possa riguardare anche il soggetto che dovrebbe costituirne il centro d’imputazione, ribadendone il requisito essenziale della “indipendenza” (sul punto Zizzo, G., L’imposta sul reddito delle società, in Falsitta, G., Manuale di diritto tributario, pt. spec., Padova, 2010, 255 ss.; Schiavolin, R., I soggetti passivi, in Imposta sul reddito delle persone giuridiche, Giur. sist. dir. trib., diretta da F. Tesauro, Torino, 1996, 50 ss.; Laroma Jezzi, P., Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, Milano, 2006, 335; Tabellini, P.M., Gruppi di società nel diritto tributario, in Dig. comm., VI, Torino, 1991, 444).
Rationae materiae, il presupposto d’imposta è fissato dall’art. 72 TUIR nel possesso del reddito, concetto che si risolve, secondo consolidata dottrina, nella titolarità giuridica dello stesso (reddito), ovvero nella titolarità dell’attività o cespite dal quale esso scaturisce (sul punto Miccinesi, M., L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 93).
L’ordinamento tributario, invero, non fornisce alcun dato utile in tal senso, il che porta a doversi affidare ai principi immanenti nell’ambito del diritto comune. Laddove, l’impostazione assolutamente prevalente in dottrina (Salandra, V., Il processo Vivante per la riforma delle società anonime e le società di partecipazione, in Riv. dir. comm., 1934, I, 747 ss.: «l’unità del gruppo essendo costituita esclusivamente da legami interni è una unità economica, non una unità giuridica e non ha estrinsecazione di fronte a terzi»), e condivisa in giurisprudenza (v., fra le tante, Cass., 9.6.1989, n. 2819; Cass., 8.7.1988, n. 4523; Cass., 17.6.1988, n. 4142; Cass., 2.2.1988, n. 957; Cass., 23.11.1987, n. 1987, n. 8659; Cass. 13.6.1986, n. 3945; Cass., 14.1.1986, n. 167; Cass., 2.12.1985, n. 6023; Cass., 18.12.1982, n. 7005; Cass., 28.1.1981, n. 650), vede la figura del “gruppo” non idonea a fungere da centro di imputazione dell’attività d’impresa.
Più precisamente, il centro d’imputazione di un’attività imprenditoriale, e dunque centro di riferimento della capacità contributiva, è, di norma, un soggetto – persona fisica, o persona giuridica, o ente collettivo non personificato –; ma si è osservato, può essere lo stesso (e il solo) patrimonio imprenditoriale (Oppo, G., Realtà giuridica globale dell’impresa nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 1976, I, 591 ss.). Ora, si consideri che il “gruppo” d’imprese (inteso come aggregazione di soggetti che esercitano attività imprenditoriale, legati da un rapporto di controllo, le cui attività sono dirette unitariamente verso un comune obiettivo) non è soggetto che si sovrappone ai soggetti in cui si articola, non è centro d’imputazione di situazioni soggettive attive o passive, non è punto di riferimento di un patrimonio autonomo. Benché, infatti, la legge imponga talvolta di considerare unitariamente il “gruppo” e benché certe statuizioni normative siano ad esso riferite, non vi è mai personificazione o soggettivazione, né considerazione unitaria di un unico patrimonio; pertanto, non è al “gruppo” che può essere imputata la qualità d’imprenditore. D’altra parte, la riprova sta nel fatto che ad esso non si applica lo statuto dell’imprenditore (sul punto Scognamiglio, G., “Gruppo” e “controllo”: tipologia dei gruppi di imprese, in Autonomia e coordinamento nella disciplina dei gruppi di società, Torino, 1996, 51 ss.).
Conclusione, peraltro, confermata dal legislatore della riforma del diritto societario, laddove all’art. 2497 c.c. ha prescritto per i soggetti che esercitano “attività di direzione e coordinamento” l’obbligo di agire «nel rispetto dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime», distinguendo una responsabilità “da attività di direzione e coordinamento” in capo agli amministratori della capogruppo (rectius della “controllante”) e una responsabilità degli amministratori delle singole società aggregate (rectius delle “controllate”) per l’esercizio dell’attività d’impresa da quest’ultime svolta (Dami, F., I gruppi di imprese nell’imposizione sui redditi, Firenze, 2006, 44; Id., I rapporti di gruppo nel diritto tributario, Milano, 2011, 38).
Sotto un profilo metodologico, l’analisi giuscommercialistica che ruota intorno al rapporto tra “controllo” e “gruppo” contribuisce a fare comprendere meglio la fisionomia propria della figura anche nel contesto tributario.
In diritto tributario i rapporti di “gruppo” sono stati studiati in dottrina, attraverso raffinati percorsi giuridici – si pensi a coloro che li hanno esplorati ruotando intorno alla riconducibilità o meno del “gruppo” alla categoria dei soggetti “atipici” di cui al previgente art. 87, co. 2, TUIR (sul punto, Gallo, F., I gruppi di imprese e Fisco, in AA.VV., Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, 580 ss.; Giovannini, A., I gruppi di società, in AA.VV., Imposta sul reddito delle persone giuridiche. Imposta locale sui redditi, in Giur. sist. dir. trib., diretta da F. Tesauro, Torino, 1996, 122 ss.; Uckmar, V., “Gruppi” e disciplina fiscale, in I gruppi di società. Atti del convegno internazionale di studi, Venezia 16-17-18 novembre 1995, Milano, 1996, III, 2237 ss.; Tabellini, P., I gruppi quali nuovi soggetti passivi dell'Irpeg, in AA.VV., Il reddito d'impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, 677 ss.; Lovisolo, A., Gruppi di imprese e imposizione tributaria, Padova, 1985, 174 ss.) – per arrivare a confermare la prospettiva critica che il legislatore non ha mai portato a totale compimento lo sforzo di risolvere in maniera sistematica la fisiologica doppia imposizione economica che emerge quando due o più società sono tra loro vincolate da un rapporto di colleganza, costringendo i “veri” gruppi a camaleontiche geometrie al fine di evitare i distorsivi effetti fiscali che la loro naturale conformazione avrebbe comportato.
Tale osservazione deve essere intesa nella accezione non solo limitata alla classica doppia imposizione economica dei dividendi, di fonte domestica e internazionale, bensì ricomprensiva di quei fenomeni, definibili come disarmonie impositive, che l’assenza di una normativa di “gruppo” ha contribuito a far proliferare in un contesto nel quale la fisionomia dell’economia italiana era in rapido mutamento.
Ci si riferisce, ad esempio, alle “disarmonie impositive” legate ai fenomeni di riorganizzazione societaria, quali ad esempio, i conferimenti infrasocietari di beni in natura, che per lungo tempo sono stati assimilati all’atto giuridico di cessione-realizzo, foriero di una neutralità fiscale intesa solo in senso economico (all’imposizione in capo alla conferente corrispondono maggiori ammortamenti realizzati dalla conferitaria) invece che all’atto giuridico di trasferimento destinazione, foriero di una neutralità fiscale intesa in senso giuridico.
In questi casi, il controllo è tendenzialmente interpretato dalla dottrina nella sua massima estensione al fine di pervenire al risultato di evitare nella maniera più efficace possibile la doppia imposizione economica. Quanto maggiore è il perimetro tracciato dalla relazione di controllo per individuare i confini del “gruppo”, tanto di più si risolverà il fenomeno della doppia imposizione.
Per contro, il legislatore tributario, ispirato dalla preoccupazione di sostenere un elevato gettito erariale e di prevenire comportamenti elusivi, ha sempre affrontato i rapporti di “gruppo” con l’idea di evitare, in maniera sempre più efficace e sistematica, il fenomeno della doppia non imposizione. In tal senso, adottando anch’esso delle nozioni di controllo molto elastiche per raggiungere l’obiettivo opposto: tanto maggiore è il perimetro tracciato dalla relazione di controllo per individuare i confini del “gruppo”, tanto di più si risolverà il fenomeno della doppia non imposizione.
Nel rinviare alle specifiche voci per approfondimenti ulteriori, qui si sottolinea che ci si riferisce principalmente a quella serie di interventi normativi di profilo internazionale che, partendo dalla disciplina sui prezzi di trasferimento infra-gruppo, si è poi sviluppata lungo l’arco dei novanta, in coincidenza con la caduta delle barriere valutarie, ricomprendendo la disciplina contro l’uso dei paradisi fiscali che si basava sulla indeducibilità dei costi derivanti da operazioni infra-gruppo con società offshore, la disciplina dei dividendi provenienti dai paradisi fiscali, fino alla Controlled Foreign Companies Legislation (sul punto, Maisto G., Il transfer price nel diritto tributario interno ed internazionale, Padova, 1985; Cordeiro Guerra, R., Prime osservazioni sul regime fiscale delle operazioni concluse con società domiciliate in paesi o territori a bassa fiscalità, in Riv. dir. trib., 1992, I, 307 ss.; Garbarino, C., Transfer price, in Digesto, vol. XVI, 1999, Cordeiro Guerra, R., La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., 2000, I, 428 ss.; Marino, G., I «paradisi fiscali»: problematiche e prospettive, in Corso di diritto tributario internazionale coordinato da V. Uckmar, Padova, 1999, 582 ss.; Maisto, G., Il regime di imputazione dei redditi delle imprese estere partecipate, in Riv. dir. trib., 2000, IV, 39 ss.).
Ma una analoga preoccupazione, invero, si riscontra dietro alla disciplina antielusiva prevista in tema di riporto delle perdite consistente nella volontà di colpire una manifestazione pratica del “commercio delle bare fiscali”, fondata sull’acquisizione del controllo di una società dotata di perdite fiscalmente riportabili, con lo scopo di conferirvi attività profittevoli, di modo da compensare le perdite dell’ex bara con gli utili dell’attività profittevole (sul punto, Montalenti, P., Operazioni intragruppo e vantaggi compensativi: l’evoluzione giurisprudenziale, in Giur. comm., 1999, 2318 ss.; Carpentieri, C., La compensazione infragruppo dei crediti fiscali come legittimo riconoscimento del gruppo societario, in Rass. trib., 2001, 409 ss.).
In questi casi il controllo è andato via via configurandosi in una più ampia accezione (si pensi alla indeducibilità dei costi che prima riguardava i rapporti infra-gruppo con società offshore, ora addirittura riguarda tutti i rapporti con società offshore), ma allo scopo opposto di prevenire la doppia non imposizione. Quanto maggiore è il perimetro tracciato dalla relazione di controllo per individuare i confini del gruppo, tanto di più si risolverà il fenomeno della doppia non imposizione.
L’unica eccezione, che conferma la regola, è rappresentata dalla dichiarazione dell’IVA operata congiuntamente da società appartenenti ad un “gruppo”. Più in particolare, l’art. 73, ultimo comma, d.P.R. 26.10.1972, n. 633, ha introdotto nell’ordinamento tributario il regime della c.d. “liquidazione IVA di gruppo”, conferendo al Ministero delle finanze il potere di disporre con propri decreti le modalità di presentazione della dichiarazione IVA e di liquidazione complessiva del tributo da parte delle società legate da uno specifico rapporto di controllo (sul punto, Ficari, V., Liquidazione congiunta IVA di gruppo ex art. 73 DPR 633 e rilevanza del gruppo di società, in Riv. dir. trib, 1992, I, 154 ss.).
Può affermarsi, dunque, che la considerazione del fenomeno del “gruppo” – e quindi del controllo – in ambito tributario, almeno fino alla riforma fiscale del 2003, risulta assimilabile a quella risultante negli altri settori del diritto, assumendo rilevanza, a volte per ragioni di perequazione ed a volte per ragioni di contrasto alle “elusione” fiscale, solo come presupposto per l’applicazione di regole particolari connesse a differenti ipotesi di relazioni di controllo, in specie societario (così Uckmar, V., “Gruppi” e disciplina fiscale, op. cit., 2240).
In attuazione dell’art. 4, l. 7.4.2003, n. 80 (Legge delega per la riforma del sistema tributario statale), il d.lgs. 12.12.2003, n. 344, ha introdotto un sistema di tassazione su base “consolidata” di cui agli artt. da 117 a 129 TUIR, per la parte “nazionale”, e agli artt. da 130 a 142 TUIR, per la parte “mondiale”, concretizzando il naturale riconoscimento fiscale del “gruppo” di imprese e uniformando il nostro ordinamento a quelli più efficienti in essere nei Paesi membri dell’Unione europea. Il “gruppo”, infatti, recita la Relazione accompagnatoria al decreto legislativo di attuazione, costituisce ormai da molto tempo un fenomeno di notevole rilevanza, sia al livello nazionale che internazionale, che l’ordinamento italiano, contrariamente agli altri sistemi fiscali più evoluti, ha faticato a riconoscere. Gli aspetti salienti della nuova disciplina, che si riferisce ai criteri direttivi indicati nelle lett. da a) ad o) del comma 1, art. 4, d.lgs. n. 344/2003, riguardano: 1) la tassazione consolidata a livello di “gruppo”, sia a livello nazionale che a livello mondiale; 2) il nuovo regime dei dividendi e delle plus/minusvalenze realizzate su cessioni di partecipazioni; 3) l'introduzione di norme finalizzate al contrasto della sottocapitalizzazione delle imprese; 4) l'introduzione di un’aliquota d’imposta unica, con la conseguente eliminazione della DIT e dell’imposta sostitutiva sulle operazioni straordinarie d’impresa; 5) il regime di “trasparenza” per le società di capitali (Marino, G., Contributo allo studio dei rapporti di gruppo attraverso le relazioni di controllo, in Riv. dir. trib., 2004, I, 574; Id., La relazione di controllo nel diritto tributario: Aspetti interdisciplinari, Padova, 2008, 260).
Senza la pretesa di analizzare nel dettaglio i contenuti della riforma, in termini generali, può dirsi che il punto qualificante dell’intervento sia stato il rovesciamento dei criteri di fondo di tassazione societaria. Nello specifico, con il recepimento della participation exemption che si sostanzia nella esenzione delle plusvalenze realizzate relativamente a partecipazioni in società con o senza personalità giuridica, sia residenti che non residenti, al verificarsi di specifiche condizioni – accompagnato dalla esclusione dal concorso alla formazione del reddito imponibile del 95 per cento degli utili distribuiti da società con personalità giuridica, sia residenti che non residenti nel territorio dello Stato – si è passati da un modello di tassazione basato sulla rilevanza reddituale dei proventi e degli oneri connessi alle partecipazioni ad una nuova forma di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze impostata sulla irrilevanza fiscale dei componenti reddituali generati dal possesso di partecipazioni immobilizzate e contestuale eliminazione del credito d’imposta. (Fantozzi, A., La nuova disciplina IRES: i rapporti di gruppo, in Riv. dir. trib., 2004, I, 497).
In tale prospettiva, come si legge nella Relazione al decreto legislativo, si osserva che l’introduzione del “consolidato fiscale” si è resa necessaria per consentire l’indiretta deducibilità delle minusvalenze patrimoniali relative alle partecipazioni attraverso l’immediata utilizzazione delle perdite fiscali registrate dalle società partecipanti al consolidato, nonché per la detassazione dei dividendi anche per quel 5 per cento che altrimenti sarebbe stato imponibile (sul punto, Greggi, M., La fiscalità dei gruppi di società: profili tributari italiani e comparati, in Rass. trib., 2002, 1953 ss.; Fantozzi, A., La nuova disciplina IRES, cit., 496 ss.; Stevanato, D., Il consolidato fiscale nella delega per la riforma tributaria: profili problematici e prospettive d’attuazione, in Rass. trib., 2004, 1187 ss.; Procopio, M., Imposta sul reddito: luci ed ombre, in Rass. trib., 2004, 1991 ss.; Zizzo, G., Osservazioni in tema di consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., 2004, I, 929 ss.; Ficari, V., Gruppo d’imprese e consolidato fiscale all’indomani della riforma tributaria, in Rass. trib., 2005, 1587 ss.).
Quanto al dato positivo, la riforma introduce due sistemi di tassazione differenti: l’uno di consolidamento domestico e l’altro di consolidamento mondiale.
Più in particolare, il “consolidato nazionale” è un modello di tassazione facoltativo, il quale deve necessariamente essere esercitato congiuntamente dalle società o enti – indicati all’art. 117 TUIR – che intendono aderire al regime, solo in qualità di “controllante” o di “controllata”, e che comporta la determinazione di un reddito complessivo globale corrispondente alla somma algebrica dei redditi netti delle singole articolazioni soggettive del “gruppo”, da considerare per intero indipendentemente dalla quota di partecipazione riferibile alla “controllante”, alla quale compete il riporto a nuovo delle eventuali perdite risultanti dalla predetta sommatoria e la liquidazione dell’unica imposta e dell’unica eccedenza. Per la nozione di controllo, l’art. 117 TUIR rinvia, sia all’art. 2359, co. 1, n.1, c.c., ove il concetto si risolve nella facoltà di disporre della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, sia ai requisiti di cui al successivo art. 120 TUIR, ai sensi del quale, si considerano controllate le società per razioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata, partecipate in misura superiore al 50 per cento, sia per quanto concerne il capitale, sia per quanto concerne gli utili di bilancio (sul punto Fantozzi, A., op cit., 500).
Diversamente, il “consolidato mondiale”, disciplinato dagli artt. da 130 a 142 TUIR, si risolve in un sistema opzionale di tassazione per “trasparenza” di un unico soggetto giuridico, la “controllante” residente, alla quale vengono imputati, in misura proporzionale alla partecipazione al capitale sociale, i risultati conseguiti all’estero dalle società controllate ivi residenti (Procopio, M., Imposta sul reddito: luci ed ombre, cit., 1994).
I presupposti operativi, più stringenti rispetto al modello “nazionale”, sono: la durata dell’opzione, la necessità di includere nel perimetro tutte le controllate (cd. “all in, all out”), nonché l’obbligo di “nazionalizzare” i redditi derivanti dalle “consolidate” estere . Anche in questo caso, il requisito del controllo di diritto, previsto dalla disciplina con il rinvio all’art. 2359, co. 1, n. 1, c.c., è rinforzato dai requisiti di cui all’art. 133 TUIR, che prevede che possano accedere al regime le “partecipate” qualificate con soglia del 50 per cento, senza ulteriori requisiti di unitarietà organizzativa o di integrazione di attività, nonché come “consolidante” le società o enti i cui titoli siano quotati in mercati regolamentati, le cui partecipazioni siano detenute da un soggetto residente di natura non societaria ai sensi dell’art. 130, co. 2, TUIR (sul punto, Belluzzo, L.-Lenti, E., I regimi domestici di consolidamento fiscale alla luce del caso “MARKS & SPENCER”, in Fisco, 2006, 1527 ss.).
Dalla disciplina positiva delineata, dunque, riesce evidente che il testo unico consideri l’unitarietà economica del “gruppo” d’imprese non allo scopo di “cancellare” i singoli soggetti partecipanti alla catena di controllo e di sostituire loro con un nuovo e diverso soggetto giuridico, ma al fine esclusivo di determinare un risultato economico reddituale sintetico, espressione della unitaria capacità economica determinata dal rapporto di “controllo” o , per meglio dire, in funzione della capacità economica che si ritiene di poter qualificare come unitaria in ragione dei rapporti partecipativi (Fantozzi, A., op. cit., 489 ss.; Miccinesi, M.-Dami, F., Il consolidato mondiale nella riforma del sistema fiscale statale, in La nuova imposta sul reddito delle società, a cura di R. Esposito e F. Paparella, Napoli, 58 ss.; Giovannini, A., Gruppo di società e capacità contributiva, cit., 218; Id., Personalità dell’imposizione e consolidato nazionale, cit., 650 ss.).
L’art. 118 TUIR detta lo schema attuativo del prelievo, prevedendo che «gli obblighi di versamento a saldo ed in acconto», riferiti al reddito globale corrispondente alla somma algebrica dei redditi complessivi netti delle società rientranti nel perimetro di consolidamento, «competono esclusivamente alla controllante». Quanto alla responsabilità, in forza del vigente art. 127 TUIR, la “controllante” è fiscalmente responsabile, oltre che per gli adempimenti relativi alla determinazione del reddito globale, per la maggiore imposta accertata riferita al reddito risultante dalla dichiarazione di “consolidamento”, nonché per le somme dovute a seguito dell’attività di liquidazione ex art. 36-bis e del controllo ex art. 36-ter del d.P.R. 29.9.1973, n. 600 riferita alle dichiarazioni di ciascuna società partecipante al consolidato. Da parte loro, le società partecipate sono solidalmente responsabili con la “controllante” per l’imposta accertata riferita al reddito complessivo da questa dichiarato in conseguenza della rettifica operata sul proprio reddito imponibile, e per le maggiori somme dovute a seguito dell’attività di liquidazione e controllo ex artt. 36-bis e 36-ter della legge sull’accertamento, in conseguenza della rettifiche operate sulla propria dichiarazione. Ai sensi del comma 4 del citato art. 127 TUIR, «l’eventuale rivalsa della società o ente controllante nei confronti delle società controllate perde efficacia qualora il soggetto controllante ometta di trasmettere alla società controllata copia degli atti e dei provvedimenti entro il ventesimo giorno successivo alla notifica ricevuta anche in qualità di domiciliatario … ».
Dalla lettura prima facie del richiamato art. 118 TUIR, escludendo che l’adempimento delle obbligazioni tributarie cui è tenuta la controllante possa correlarsi ad una capacità contributiva propria, sembra che il rapporto tra “controllante” e “controllata” sia riconducibile al meccanismo della “sostituzione d'imposta”, ex art. 64, co.1, d.P.R. n. 600/1973, laddove la prima è obbligata al pagamento dell’imposta in luogo della seconda per fatti a quest’ultima riferibili, in quanto riconducibili alla sua quota parte di imponibile unitario (sul punto, Versiglioni, M., Indeterminazione e determinabilità della soggettività passiva del “consolidato nazionale”, in Riv. dir. trib., 2005, I, 398; Padovani, F., Consolidato fiscale nazionale: riflessioni in tema di attuazione del rapporto obbligatorio d'imposta, in Riv. dir. trib., 2010, I, 1197 ss.).
Secondo l’insegnamento della dottrina, tuttavia, la “sostituzione” postula in primis l’esistenza dell’obbligo ex lege di adempimento della prestazione tributaria, un rapporto di debito/credito tra sostituito e sostituto in grado di assicurare a quest’ultimo i mezzi occorrenti a far fronte alla propria obbligazione, nonché il correlato diritto/dovere di rivalsa del “sostituto” nei confronti del “sostituito”, come disposto dal citato art. 64, co. 1, d.P.R. n. 600/1973 (sul punto, Parlato, A., Il responsabile d’imposta, Milano, 1963, 46 ss.; Id., Il responsabile ed il sostituto d’imposta, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, II, Il rapporto giuridico tributario, Padova, 1994, 407).
Nella fattispecie considerata, invero, accade che, per un verso, la rivalsa viene prevista solo in forma facoltativa (rectius “eventuale”) e, per l’altro, neppure è immediatamente ravvisabile un rapporto di “provvista” vero e proprio tra “controllante-sostituto” e “controllata-sostituita”. Così, partendo da questa ricostruzione, e valorizzando il dato positivo desumibile dall’art. 127 TUIR, la dottrina maggioritaria riconduce il rapporto “controllante-controllata” allo schema della “responsabilità d’imposta”, ex art. 64, co. 3, d.P.R. n. 600/1973, in quanto, sebbene l’obbligo per la controllante di procedere al versamento unitario dell’imposta discende da una norma (i.e. art. 118 TUIR), questa ultima troverebbe applicazione in ragione di un atto volontario dei soggetti coinvolti nel prelievo, espresso mediante l’esercizio dell’opzione (sul punto, Dami, F., I gruppi di imprese, cit., 184 ss., Id, I rapporti di gruppo, cit., 194 ss.).
A ben vedere, si tratta di un’impostazione non pienamente condivisa; invero, altra parte della dottrina, valorizzando il rapporto di “controllo”, e la situazione di potere che ne deriva, ritiene, di fatto, assicurati alla “controllante-sostituto” i mezzi per far fronte all’obbligazione tributaria, laddove il termine “eventuale”, utilizzato dal legislatore per qualificare il rapporto di rivalsa tra “controllante” e “controllata”, sarebbe inteso nel senso di “spettante solo in alcune delle ipotesi in cui la controllata è obbligata al pagamento”. Alla stregua di tale ipotesi, dunque, l’obbligo tributario della capogruppo è compatibile con lo schema della “sostituzione d’imposta”, in quanto la disciplina del diritto di rivalsa non sarebbe contenuta nel testo unico, bensì nella disposizione di carattere generale di cui al richiamato art. 64 d.P.R. n. 600/73 (sul punto, Fransoni, G., Osservazioni in tema di responsabilità e rivalsa nella disciplina del consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., 2004, I, 520 ss., Padovani, F., Consolidato fiscale nazionale, cit., 1197 ss.).
L’evoluzione dei “gruppi” d’imprese in contesti multinazionali risente dell’applicazione del diritto europeo, ove si rivela costante la volontà del legislatore di promuovere lo sviluppo delle imprese multinazionali europee attraverso misure volte a rendere effettivo il principio della libertà di stabilimento sancito dagli artt. 49 (ex art. 43 TCE) e 54 (ex art. 48 TCE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Ingrao, G., In tema di tassazione dei gruppi di imprese ex D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, istitutivo dell’Ires, in Rass. trib., 2004, 537 ss.).
Nonostante la rilevanza del fenomeno, tuttavia, anche in tale contesto il dato positivo registrabile è piuttosto modesto, risolvendosi in una serie di interventi diretti a regolare solo taluni effetti generati da situazioni di controllo (societario) tra imprese operanti a livello europeo.
Volendo sintetizzare, in quest’ambito, il rapporto di controllo, che rappresenta l’essenza dei gruppi multinazionali, ha una duplice valenza: i) in una prospettiva dinamica-propulsiva, il controllo societario è considerato un importante strumento di investimento e di pianificazione dei rischi imprenditoriali, è quindi promosso e tutelato in quanto veicolo di internazionalizzazione delle attività economiche e di integrazione del mercato comune; ii) in una prospettiva statica-limitativa, l’esercizio del controllo – il quale rappresenta una delle forme di espressione della libertà di stabilimento tutelata dall’art. 54 TFUE – è dissuaso nella misura in cui vi sia sottesa la funzione di eludere le norme tributarie nazionali; in questo senso sono particolarmente significative le sentenze della Corte di Giustizia nelle quali si afferma che l’esercizio delle libertà fondamentali, ivi inclusa quella di stabilimento, non può essere finalizzato a scopi abusivi (sul punto, Marino, G., La relazione di controllo nel diritto tributario, cit., passim).
Sotto il primo profilo, a livello normativo occorre in primo luogo segnalare le direttive n. 90/435 e n. 2003/49, concernenti, rispettivamente, il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di dividendi tra società figlie e società madri residenti all’interno dell’Unione, ed il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e royalty infragruppo.
Con l’obiettivo di neutralizzare la variabile fiscale rispetto alle scelte di circolazione della ricchezza e di allocazione e condivisione del know-how d’impresa, il legislatore europeo, con il primo dei menzionati interventi normativi ha stabilito l’esenzione dei dividendi da ritenute nello Stato della fonte − ossia lo Stato nel quale risiede la società figlia − e, del pari, l’esenzione degli stessi (o, in alternativa, la concessione di un foreign tax credit) nello Stato di residenza della società controllante, eliminando così la doppia imposizione giuridica ed economica sugli utili di “gruppo”; con la direttiva n. 2003/49, il Consiglio ha poi stabilito che i pagamenti di interessi e canoni infragruppo, debbano essere immuni da qualsiasi imposizione nello Stato di origine dei pagamenti (i.e. lo Stato in cui è residente la società o localizzata la stabile organizzazione pagatrice dell’interesse o delle royalty), intendendo contrastare del pari la doppia imposizione giuridica gravante su tali forme di pagamenti.
Le misure normative suddette, insieme con la direttiva n. 90/434 relativa al regime fiscale comune sulle operazioni transfrontaliere di impresa, contribuiscono positivamente al rafforzamento dei gruppi d’imprese ed alla attenuazione dei fenomeni di duplice o plurima imposizione internazionale, i quali colpiscono in particolare la società controllante capogruppo su cui la ricchezza di “gruppo” si “patrimonializza”.
Nello stesso senso devono essere lette le misure di contrasto alla doppia imposizione in ipotesi di transfer pricing; ove il legislatore europeo – consapevole del rischio di doppia imposizione che rettifiche unilaterali dei prezzi di trasferimento, al valore normale, comportano sui gruppi multinazionali – ha previsto con la Convenzione n. 90/436 l’attivazione di procedure amichevoli tra le Autorità fiscali degli Stati membri, volte a ripristinare la simmetria costi-ricavi tra imprese appartenenti alla medesima entità economica (Marino, G., Relazioni di controllo e attività d'impresa, cit., 851 ss.).
Oltre alle menzionate esperienze normative, la Corte di Giustizia ha precisato che rientrano nell’ambito applicativo delle disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento le disposizioni nazionali che si applicano alla detenzione di partecipazioni di controllo, vale a dire quelle partecipazioni che attribuiscono una sicura influenza al soggetto che le detiene (cfr. ex multis C. giust, 18.07.2007, C-231/05, Oy AA).
La Corte ha altresì evidenziato che la libertà di stabilimento comprende il diritto per le società costituite a norma delle leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale nel territorio dell’Unione, di svolgere liberamente la loro attività d’impresa attraverso una società controllata, una succursale o un’agenzia localizzate in uno Stato membro diverso da quello in cui è situata la predetta sede (cfr. ex multis C. giust., 12.9.2006, C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas; C. giust., 23.2.2006, C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation).
Nella giurisprudenza comunitaria la tutela della libertà di stabilimento assume diverse fisionomie: da un lato, gli artt. 49 (ex art. 43 TCE) e 54 (ex art. 48 TCE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea impediscono che lo Stato di origine intralci lo stabilimento in un altro Stato membro di un proprio cittadino o di una società costituita secondo la propria normativa (cfr. ex multis C. giust., 6.12.2007, C-298/05, Columbus Container Services); dall’altro, la libertà di stabilimento mira ad assicurare il beneficio del trattamento nazionale dello Stato membro ospitante, vietando ogni discriminazione fondata sul luogo della sede della società (cfr. ex multis C. giust., 23.2.2006, C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation).
In linea di principio, quindi, le disposizioni fiscali degli Stati membri non possono determinare improprie restrizioni al diritto di stabilimento delle imprese, ivi incluse le restrizioni agli investimenti partecipativi in società controllate, nella duplice accezione che: i) sono vietate tutte quelle norme fiscali nazionali di ostacolo alla detenzione di partecipazioni di controllo in società localizzate in Stati membri diversi da quello di origine; ii) sono parimenti vietate quelle misure applicate dalla legislazione di uno Stato membro che introducono, relativamente alle partecipazioni di controllo detenute in società ivi residenti, un trattamento fiscale discriminatorio sulla base della nazionalità dell’impresa controllante.
Orbene, da tutto ciò discende che, generalmente, i “gruppi” d’imprese e le relazioni di controllo che ne individuano il perimetro, sono promossi e tutelati nell’ambito dell’ordinamento europeo, anche laddove la complessiva strutturazione del “gruppo” sia pianificata per ottenere vantaggi di natura fiscale, i quali possono giustificare la dislocazione di alcune delle imprese ad esso afferenti − quali ad esempio la holding, la tesoreria (cash-pooler) o società di trading − in Stati membri che presentano una pressione fiscale più contenuta. Difatti l’ordinamento europeo tollera le fisiologiche asimmetrie tra (aliquote impositive nei diversi) Stati membri, nell’ambito dell’imposizione diretta, ma non ammette che la presenza di tali asimmetrie possa legittimare − ad opera degli stessi Stati membri − una limitazione alla libertà di stabilimento o una discriminazione vietata nei confronti degli operatori economici comunitari.
Il secondo profilo che qui interessa affrontare riguarda l’impiego strumentale e artificioso della relazione di controllo, ovverosia come mezzo per eludere o evadere il presupposto impositivo nazionale beneficiando artificiosamente degli spazi di libertà e tutela concessi dall’appartenenza all’ordinamento europeo.
Ed infatti, la presenza di un rapporto di controllo può consentire illeciti arbitraggi sulla base imponibile di “gruppo”, finalizzati a distogliere utili dagli ordinamenti tributari in cui la tassazione è più elevata per dirottarli verso quelli in cui la pressione fiscale è più bassa, anche attraverso l’interposizione di società partecipate estere alle quali imputare attività produttive di cd. passive income (dividendi, interessi, canoni). Sul punto, è opportuno evidenziare che le frodi tributarie e le forme di pianificazione fiscale aggressiva, altrimenti conosciute come “BEPS” (i.e. “base erosion and profit shift”), poste in essere da gruppi societari multinazionali, si stima erodano, ogni anno, nella sola UE circa 1.000 miliardi di euro di base imponibile. In particolare, secondo quanto emerso in sede OCSE, gli ordinamenti nazionali non sono stati in grado di seguire i significativi cambiamenti che hanno interessato, soprattutto negli ultimi anni, i diversi settori economici, in quanto essenzialmente espressione di un cd. “economic environment” caratterizzato da uno scarso livello di “integrazione economica transfrontaliera” (sul punto, OECD Report on “Addressing Base Erosion and Shif” del 12 febbraio 2013).
Senza dubbio, norme interne di contrasto all’utilizzo delle cosiddette società controllate e collegate estere sono utili per evitare che, mediante l’imputazione a tali società, redditi “privi di collegamento economico” con il territorio di uno Stato siano ivi assoggettati ad imposizione, per sfuggire invece da tassazione nello Stato di residenza della società controllante (sul punto, Maisto, G.-Pistone, P., A European Model for Member States' Legislation on the Taxation of Controlled Foreign Subsidiaries (CFCs), Part I e II, in European Taxation, 2008, nn. 10-11).
Si pensi, ad esempio, alla norma di contrasto alle “estero-vestizioni” di cui all’art. 73, co. 5-bis, TUIR. Segnatamente, la citata disposizione – introdotta dall’art. 35, co. 13, del d. l. n. 4.7.2006, n. 223, convertito nella l. 4.8.2006, n. 248 – configura una presunzione relativa di residenza delle società (o enti) che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’art. 2359, primo comma, c.c., nei soggetti (residenti) di cui alle lettere a) e b), co. 1, del richiamato articolo 73, se gestite o controllate (ex art. 2359, primo comma, c.c.), anche indirettamente, da parte di soggetti d’imposta italiani. Di guisa che – in applicazione del principio di tassazione nel Paese della “sede di direzione effettiva” o “place of effective management” (concetto introdotto a livello OCSE, quale criterio idoneo a dirimere i casi di doppia residenza dei soggetti diversi dalle persone fisiche) – i redditi conseguiti dal soggetto “estero-vestito” saranno assoggettati a tassazione in Italia secondo il modello “world wide” (sul punto Marino, G., Esterovestizione ed esterocertificazione: due faccie della stressa medaglia, in Rass. trib., 2012, 1016 ss.).
Tuttavia, anche l’impiego da parte degli Stati membri delle predette norme antiabuso deve misurarsi con il rispetto dei principi (i.e. di mutuo riconoscimento, affidamento e proporzionalità) e delle libertà fondamentali dell’ordinamento europeo. A tale riguardo, in particolare, la Corte di giustizia ha avuto modo di precisare che: le restrizioni alla libertà di stabilimento sono giustificabili se e nella misura in cui riguardano specificamente costruzioni di puro artificio, il cui unico fine è ottenere un vantaggio fiscale, e non per impedire l’esercizio effettivo di attività economiche in altri Stati (anche se la collocazione in tali Stati è correlata con l’acquisizione di vantaggi fiscali); il principio di proporzionalità deve essere rispettato anche nell’ambito della prova, con particolare riferimento alle presunzioni di residenza, il cui ambito applicativo non può eccedere il fine di contrasto delle costruzioni prive di effettività economica (cfr. ex multis C. giust., 13.12.2005, C-446/03, Marks & Spencer; C. giust., 12.9.2006, C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas).
Ne consegue che la libertà di stabilimento resta, in via di principio, impregiudicata anche a fronte di ipotesi in cui dalla complessiva architettura del “gruppo” derivino vantaggi fiscali; solo nei casi in cui il “gruppo” si serva di strutture puramente fittizie, prive quindi di qualsiasi substrato economico, si può attribuire alla società controllante un esercizio abusivo della libertà di stabilimento, “sospendendo” nei suoi riguardi l’applicazione delle libertà fondamentali (su questo profilo, Stevanato, D., Libertà di stabilimento e consolidato fiscale “europeo”, in Corr. trib., Milano, 2005, 289 ss.).
Alla luce di tutto quanto fin qui esposto, si possono trarre alcune conclusioni circa la considerazione dei rapporti di controllo nell’ambito dell’ordinamento tributario europeo.
Geometrie di “gruppo” congegnate per fini di massimizzazione del risparmio fiscale non sono di per sé incompatibili con il diritto comunitario ed anzi la libertà di stabilimento deve essere tutelata in via pressoché assoluta, non tollerando restrizioni se non nelle ipotesi in cui i soggetti, per il tramite dei quali tale libertà è esercitata, abbiano carattere meramente fittizio o artificioso.
Sicché, in linea di principio, la libertà delle imprese prevale sull’interesse fiscale degli Stati membri, che rispetto ad essa assume una dimensione recessiva; ciò vale anche nell’applicazione di clausole antielusive − siano esse di carattere generale o speciale − nei singoli ordinamenti nazionali, le quali non possono pregiudicare il libero esercizio dei diritti di matrice comunitaria salvi i casi di sostanza economica inesistente o impalpabile. In tutte le altre ipotesi, la libertà delle imprese e dei gruppi europei deve essere salvaguardata (cfr. ex multis C. giust., 13.12.2005, C-446/03, Marks & Spencer; C. giust., 18.7.2007, C-231/05, Oy AA; C. giust., 27.11.2008, C-418/07, Papillon; C. giust., 15.05.2008, C-414/06, Lidl Belgium).
Artt. 113-142, d.P.R. 22.12.1986, n. 917.
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