Gruppi di interesse e di pressione
Nel linguaggio delle scienze sociali è possibile individuare due accezioni fondamentali della parola 'gruppo'. Per la prima, di carattere generale, è gruppo ogni insieme umano diverso dal sistema sociale globale e dal sistema politico globale. In altri termini, gruppo è ogni aggregato, volontario o naturale, che si colloca tra l'individuo e la società globale, se parliamo in chiave prevalentemente sociale, o tra l'individuo e l'organizzazione politica centrale (nel mondo moderno, solitamente lo Stato), se parliamo in chiave prevalentemente politica. Per tale accezione, gruppo è sia la famiglia sia il partito, sia la classe sia l'associazione culturale, sia la confessione religiosa sia il circolo sportivo, sia il sindacato sia la comunità locale, sia l'azienda e l'organizzazione economica sia l'etnia.
A tale nozione generalissima, pure significativa per varie ragioni, tra l'altro in quanto evidenzia che tre sono i livelli rilevanti di analisi per le scienze sociali (individui, gruppi intermedi in senso lato, sistema globale, sociale o politico), si affianca, e per certi aspetti si contrappone, una nozione più specifica, quella che rinvia alle dizioni di 'gruppo d'interesse' e 'gruppo di pressione': questi sono, dunque, una species del genus 'gruppo', e la loro definizione ha tra l'altro lo scopo di distinguere tra i vari aggregati che si pongono in posizione intermedia nel continuum individuo-gruppo-sistema globale. Va peraltro da sé, come vedremo, che esistono zone di interazione problematica e aree di sovrapposizione tra la nozione generale e la nozione specifica di gruppo.
La questione dei gruppi diviene, oltre che socialmente e politicamente, anche teoricamente rilevante, mano a mano che viene emergendo e sviluppandosi un moto di affrancamento e distinzione degli individui dalla polis, e più latamente dalla comunità politica. Finché il singolo è tutto concluso nel dominio politico, non c'è riconoscimento per ogni altra aggregazione che non sia la polis, e questa deve necessariamente considerare in maniera negativa, come fazione, ogni tentativo di accorpamento entro la comunità. Tale situazione viene trasformandosi progressivamente in virtù di un lungo processo di autonomia delle dimensioni religiosa ed economica rispetto alla dimensione politica. Possiamo individuare un momento forte di tale sviluppo nel Medioevo cattolico: questa stagione della storia umana, infatti, per un verso istituzionalizza la distinzione tra potere spirituale e potere temporale, cioè tra potere religioso e potere politico, per un secondo verso registra, nella città mercantile, la nascita dell'homo oeconomicus nella sua autonomia categoriale e funzionale rispetto all'homo politicus (v. Fisichella, 1990).
Sottolineare che il rilievo anche teorico del gruppo presuppone l'autonomia tendenziale del sistema culturale (religione inclusa) e del sistema economico, rispetto al sistema politico, significa richiamare un contesto pluralistico, e difatti tanto la group theory of politics quanto la più specifica analisi dei gruppi d'interesse e di pressione s'iscrivono in prima istanza, fatti salvi i tentativi di estendere l'applicazione di tali nozioni ad altri ambienti, entro un quadro sociopolitico interpretato in termini di pluralismo, il quale a livello politico si esprime, nonché ampiamente s'identifica e si 'perfeziona', con la forma democratico-competitiva di reggimento pubblico, fermo restando che il pluralismo democratico è diverso dal pluralismo medievale, essenzialmente organico.
Accantonando temporaneamente la molteplicità dei problemi teorici che saranno affrontati nelle pagine successive, sotto il profilo storico i gruppi d'interesse e di pressione sono geneticamente correlati per un verso all'emergere della società capitalista e al successivo interventismo della 'mano pubblica' nei processi economici, per un secondo verso alla rivendicazione e all'affermazione della libertà di associazione, per un terzo verso alle vicende della cittadinanza politica e in particolare all'espansione del suffragio: e va da sé che queste tre condizioni spesso si presentano in tempi e in sequenze diversi nelle singole nazioni.
Anche se l'esistenza di 'cricche' e 'camarille' di postulanti appartenenti a vari ceti è documentata nelle esperienze dell'assolutismo regio, ove tali aggregazioni operavano tra l'altro attraverso la 'petizione', tuttavia il sistema economico di mercato, nella cornice della proclamata autonomia della società civile rispetto allo Stato, dunque in un arco storico che prende le mosse dalla seconda metà del XVIII secolo, rappresenta il luogo temporale a partire dal quale la questione dei gruppi d'interesse e di pressione diviene significativa. Senza dubbio, le difficoltà di affermare la libertà di associazione non rinviano soltanto alla persistenza dell'eredità assolutista, ma anche (come vedremo presto) alla diffidenza di un versante robusto della teoria democratica verso le 'fazioni' e verso il risorgere possibile di assetti organizzativi di tipo corporativo, nonché ai timori delle classi dirigenti nei confronti delle spinte sociopolitiche del nascente proletariato urbano industriale. Dalla francese Loi Le Chapelier del 1791 alla legislazione britannica del 1799 contro l'associazionismo di mestiere e 'sedizioso' e alla ostilità dei 'padri fondatori' nordamericani verso le fazioni, le resistenze allo sviluppo di un sistema di gruppi sono forti, ma non ne impediscono l'emergenza.
Così, molti studiosi ritengono che il 1789 vada considerato l'anno di nascita del lobbismo nordamericano che, fin dalla promulgazione della prima legge doganale, si pose come scopo d'influenzare il Congresso. Gli interessi cominciarono a organizzarsi all'inizio del XIX secolo: un esempio è dato dalla Philadelphia Society for the Promotion of National Industry, guidata da Alexander Hamilton, e già questo fatto lascia indovinare quanto forte fosse la sua influenza. Il periodo classico del lobbismo negli Stati Uniti, comunque, è stato quello della costruzione delle ferrovie. In Gran Bretagna, revocata per la prima volta con il Trade union act del 1825 la precedente normativa restrittiva, non fu più proibita qualsiasi associazione di lavoratori dipendenti in quanto tali, bensì furono soltanto vietate determinate pratiche come quelle di costringere o indurre qualcuno a far parte di un club o di una associazione, o a contribuire a un qualche fondo comune. Sta di fatto che di volta in volta il cartismo, il movimento liberoscambista per la revoca della legge sul grano, i movimenti per la riforma del Parlamento e per l'ampliamento del suffragio hanno agito nella storia inglese come potenti gruppi di pressione, conseguendo molti obiettivi politici e sociali. Quanto alla Germania, la stagione guglielmina ha registrato un'influenza assai pesante degli interessi industriali sulle scelte dell'apparato statale (v. Beyme, 1969, pp. 20-25).
Dopo questo rapido excursus storico, riprendiamo il discorso teorico per sottolineare che il radicamento pluralistico sopra richiamato deve peraltro confrontarsi con una molteplicità di problemi, che possono essere riassunti come segue.Il primo problema riguarda un'antinomia presente nella 'democrazia dei moderni' in tema di interesse generale. Infatti, mentre la visione pluralistica del bonum commune assume che quest'ultimo possa derivare, e in concreto spesso discende, dall'interazione dei gruppi, i quali perciò partecipano sia alla piena realizzazione dell'individuo - arricchito dall'integrazione nella famiglia, nella categoria professionale, nella confessione religiosa, nella comunità territoriale - sia alla formazione del bene comune, una seconda visione (legata a certi presupposti della 'democrazia degli antichi') giudica gli interessi dei gruppi e delle 'associazioni particolari' come altrettanti ostacoli e pericoli per l'interesse generale, per la sua emergenza e corretta gestione, per un sano e armonico rapporto tra cittadini e sistema politico globale. Pur con un diverso atteggiamento nei confronti della rappresentanza politica, e pur se l'uno sottolinea piuttosto il concetto di "volontà di tutti" mentre l'altro insiste sulla nozione di "volontà generale", Emmanuel-Joseph Sieyès e Jean-Jacques Rousseau hanno una posizione centrale in questo filone, assai influente soprattutto nell'evoluzione delle democrazie politiche nell'Europa continentale. Non a caso, perciò, l'insistenza sui gruppi in sede di scienza politica riguarda primariamente la cultura anglosassone, specie nordamericana, pur se anche in tale ambiente (che è il luogo ove si afferma il paradigma pluralistico della group theory) non mancano richiami, in alcuni versanti della dottrina, a una visione del gruppo come fazione i cui interessi particolari interferiscono negativamente con l'interesse generale. In breve, l'antinomia testé richiamata è sovente all'origine di una conflittualità circa il ruolo dei gruppi nella democrazia moderna e circa il loro rapporto con il 'bene comune'.
Un secondo problema riguarda la possibilità di estendere i concetti di gruppo e di gruppo d'interesse o di pressione a esperienze non democratiche. Specie a partire dagli anni settanta, si propone una letteratura che parla di un 'sistema di gruppi d'interesse' con riferimento all'Unione Sovietica (v. Skilling e Griffiths, 1971), e anche di gruppi di pressione (v. Fagiolo, 1977). E più in generale si pone il quesito se i gruppi siano compatibili de facto con forme autoritarie o totalitarie di organizzazione del potere politico.
Circa i regimi autoritari, pur non presentando caratteri di pluralismo politico, essi tuttavia coesistono con forme di pluralismo sociale, in quanto vi permane una linea di demarcazione tra politica e 'mercato' (economico, culturale), e dunque una misura di autonomia del sistema sociale rispetto al sistema politico. In questo senso, ed entro i limiti indicati, sia i gruppi in genere, sia più specificamente i gruppi d'interesse e di pressione hanno, almeno di fatto e pur se non garantiti secondo le medesime modalità che operano nel quadro democratico-competitivo, uno spazio e un ruolo almeno parzialmente autonomi, potendo altresì dispiegare in molte circostanze un'influenza significativa sotto il profilo quantitativo e qualitativo, anche sul piano politico. Si pensi, ad esempio, ai rapporti tra regimi autoritari e confessioni religiose, gruppi economici, organizzazioni sociali, con i rispettivi interessi.
Diverso è il discorso per quanto riguarda i regimi totalitari, nei quali si realizza un'integrale politicizzazione dell'esperienza individuale e collettiva, con il rifiuto de iure e de facto dell'autonomia della dimensione sociale e con il monopolio delle arene decisionali rivendicato dal partito unico rivoluzionario. Qui, dunque, si esprime un antipluralismo tendenzialmente radicale, che se non esclude elementi fattuali di conflitto (presenti in ogni realtà sociopolitica), esclude però il riconoscimento di ogni assetto pluralistico tanto del sistema politico quanto del sistema sociale (v. Fisichella, 1992²).
Ciò significa che nelle fasi esplicitamente totalitarie è difficile interpretare i sistemi politici in chiave d'interazione tra i gruppi. E comunque si tenga presente che, anche quando, per esempio a proposito dell'esperienza sovietica, si evoca un sistema di gruppi d'interesse, in concreto questi richiamano essenzialmente gli apparatchiki, gli ufficiali delle forze armate e della polizia, i managers industriali, gli economisti (inclusi pianificatori e statistici), gli scrittori, gli avvocati: in sostanza, tutte categorie riconducibili agli assetti di regime, alla sua economia-non-economica (tale perché priva di autonomia rispetto al potere politico e al partito unico che lo monopolizza), ai suoi meccanismi di persuasione, con l'unica parziale eccezione degli avvocati, il cui ruolo però è modesto nella sostanziale assenza di un diritto privato e nell'incertezza e imprevedibilità in sede di applicazione del diritto penale. Si tratta perciò di aggregazioni interne all'apparato statale, civile e militare, e al partito unico, le quali, nelle pieghe del dinamismo di regime, possono certamente perseguire - solitamente in maniera informale - un qualche loro interesse, ma in una cornice che comunque permane esplicitamente antipluralistica.
Un terzo problema prende le mosse dal quesito se i gruppi si riscontrino soltanto nelle società capitalistiche, con la loro economia di concorrenza. È evidente che in un'economia collettivistica, ove è stata anche formalmente abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, non può aversi un gruppo che esprime gli interessi dell'imprenditoria libera. Può esistere, però, un gruppo che difende gli interessi della tecno-burocrazia produttiva, dei managers industriali, così come può aversi un gruppo che interpreta gli orientamenti degli ingegneri, fautori dell'industria pesante, e un gruppo che interpreta gli orientamenti dei cibernetici, fautori di una produzione di consumo: ciò può verificarsi, per esempio, in un regime autoritario post-totalitario (v. Linz, 1975) che erediti dalla precedente fase politica un'economia collettivistica.
Più in generale, e con più pertinente valenza teorica, emerge l'interrogativo circa la compatibilità tra interpretazione classista (marxista) dei rapporti sociali e interpretazione che muova dai gruppi d'interesse e di pressione. Qui la stessa dottrina d'ispirazione marxista ha riconosciuto che vanno rifiutate le 'concezioni semplicistiche' fondate su un esclusivo dualismo di classe. Pur essendo la differenziazione dicotomica della società un fatto di rilievo essenziale, ciò non toglie che sia poco realistico negare l'importanza dell'articolazione del sistema sociale in gruppi d'interesse, "sebbene tra questi alcuni si formino nel quadro di una classe o di uno strato particolari, e altri invece si costituiscano raggruppando nel loro seno rappresentanti di classi o strati diversi". Qui la conclusione del ragionamento è che il vero "pane quotidiano di coloro che analizzano i processi sociali" è rappresentato dai conflitti fra gli interessi di gruppo, se e finché le tensioni di classe non assumano forma acuta e profonda: solo in tale contesto, infatti, si ripropone in forma esplicita la dicotomia classista (v. Ehrlich, 1972, p. 287, e 1967, tr. it., pp. 12-13).
Un ulteriore aspetto problematico riguarda la contrapposizione di un diverso paradigma al paradigma pluralistico, lungamente giudicato 'pregiudiziale', soprattutto dalla dottrina nordamericana, nello studio dei gruppi. Viceversa, più recentemente è stato proposto il concetto idealtipico di neocorporativismo (o corporatismo, corporativismo liberale, corporativismo societario, per distinguerlo dal 'corporativismo di Stato', con connotati autoritari), il quale viene presentato come alternativo alla nozione di pluralismo sulla base di alcuni elementi distintivi. In questa chiave, pur avendo in comune numerosi presupposti (importanza crescente di unità associative formali di rappresentanza; persistenza ed espansione di interessi funzionalmente differenziati e potenzialmente in conflitto; ruolo rapidamente crescente del personale amministrativo stabile, dell'informazione specializzata, di capacità tecniche e, di conseguenza, dell'oligarchia consolidata; declino dell'importanza della rappresentanza territoriale e individuale; tendenza secolare verso l'espansione dell'ambito della politica pubblica e verso l'interpenetrazione dei campi decisionali privato e pubblico), tuttavia, malgrado questa vasta area di accordo reciproco, il neocorporativismo si differenzia marcatamente dal pluralismo come qualità di risposta a queste caratteristiche della vita politica e sociale contemporanea.
Nell'accezione riassuntiva che viene proposta dai teorici del neocorporativismo, il pluralismo "può essere definito come un sistema di rappresentanza degli interessi nel quale le unità costitutive sono organizzate in un numero non specificato di categorie multiple, volontarie, in competizione tra loro, non ordinate gerarchicamente e autodeterminate (relativamente al tipo o all'ambito dell'interesse), che non sono autorizzate in maniera particolare, riconosciute, sussidiate, create o altrimenti controllate nella selezione della leadership e nell'articolazione degli interessi da parte dello Stato e che non esercitano il monopolio dell'attività di rappresentanza all'interno delle rispettive categorie" (v. Schmitter, 1974; tr. it., p. 55). Quanto al paradigma presentato in alternativa, "potremmo definire un sistema completamente 'corporativizzato' in base alle seguenti caratteristiche: le organizzazioni d'interesse sono ampiamente cooptate nel processo decisionale del governo (costituito dalla rappresentanza nei comitati consultivi, dalle procedure di remiss, dalla Vernehmlassung o consultazione e da altri strumenti appropriati); grandi organizzazioni di interesse (in particolare sindacati) sono fortemente legate ai partiti politici (cumulo dei ruoli, ecc.) e prendono parte alla formazione delle politiche in una sorta di reparto funzionale del lavoro; molte organizzazioni d'interesse sono strutturate gerarchicamente e l'appartenenza tende a essere obbligatoria; le categorie occupazionali sono rappresentate da organizzazioni non competitive che si riuniscono in monopolio; le relazioni industriali sono caratterizzate da forte concertazione delle associazioni dei lavoratori e delle associazioni degli impiegati con il governo (ciò implica che tali associazioni si astengano dall'uso insistente dello sciopero e delle altre tattiche conflittuali)" (v. Lehmbruch, 1982; tr. it., p. 13).
Si discute in dottrina se effettivamente pluralismo e neocorporativismo siano due paradigmi antitetici, o non vadano piuttosto considerati "i due poli di un continuum lungo il quale collocare le esperienze storiche di varie società" (v. Maraffi, 1981, p. 32), soprattutto nella transizione dal liberalismo al postliberalismo, con la crescita del ruolo dello Stato nei processi economici e sociali, ma nello stesso tempo con la delega statale di funzioni pubbliche a grandi organizzazioni private (imprenditoriali, di lavoro dipendente), senza il cui apporto il sistema di governo non riuscirebbe a sviluppare il complesso delle politiche pubbliche, specie in materia di redditi e di programmazione.
Ciò che si può rilevare è comunque questo dato: pur nella varietà delle opinioni in proposito, e pur se le categorie operative di concertazione e di pressione non vanno considerate monopolio esclusivo rispettivamente del neocorporativismo e del pluralismo, rimane che in prevalenza, nella dottrina neocorporativa, con riferimento al primo paradigma si parla appunto di 'concertazione', intendendosi con tale espressione che gli interessi toccati, in qualsiasi modo organizzati, entrano a far parte del processo politico decisionale come negoziatori riconosciuti e indispensabili, e vengono resi corresponsabili (e a volte completamente responsabili) per l'attuazione delle decisioni politiche, che di conseguenza assumono una qualità tipicamente semipubblica o parastatale. Con riferimento al paradigma pluralistico, si parla invece piuttosto di 'pressione', nel senso che gli interessi in causa rimangono essenzialmente al di fuori del processo politico, in qualità di consulenti o parti rispetto ai problemi in gioco, e l'applicazione ha luogo esclusivamente sotto la responsabilità delle pubbliche autorità, per quanto anch'esse nel corso della loro attività possano essere influenzate dagli interventi autonomi degli interessi organizzati (v. Schmitter, 1982).
La tematica dei gruppi e i quesiti sul loro ruolo nella società e nella politica pongono dunque, come si è appena visto, una molteplicità significativa di problemi concettuali, primari o indotti, e rinviano a scenari che possono essere anche assai diversificati. Ciò richiama alla ribalta la questione definitoria, alla quale si è già fatto cenno nel cap. 1. Qui il riferimento canonico iniziale è all'opera di Arthur F. Bentley, The process of government: a study of social pressures, pubblicato nel 1908. Per tale autore, partecipe della rivolta contro il formalismo che caratterizzava il pensiero nordamericano dell'epoca, il termine 'gruppo' designa una determinata porzione di uomini di una società, "considerata comunque non come una massa fisica distaccata da altre masse di uomini, ma come un'attività di massa, che non preclude agli uomini che vi partecipano di partecipare allo stesso modo a molte altre attività di gruppo" (v. Bentley, 1908; tr. it., p. 259).
In questo contesto, gruppo e attività di gruppo sono termini equivalenti, con una differenza soltanto di tono, utile meramente per chiarezza di espressione. D'altro canto, non vi è gruppo senza un proprio interesse. Anzi, un interesse, nell'accezione proposta da Bentley, è l'equivalente di un gruppo: il gruppo e l'interesse non sono separati. Essi sono una cosa sola, cioè molti uomini legati insieme in o da una certa attività, talché ne deriva un'identificazione di fondo tra gruppo, attività e interesse (v. Buttà, 1983, p. XXIV), il quale ultimo non è affatto ristretto al suo connotato economico, ma è esteso a indicare tutti i gruppi che partecipano al processo sociale in vista del perseguimento di una qualunque finalità empirica, nell'assunzione che il grande compito di ogni studio sociale sia l'analisi di tali gruppi, talché quando i gruppi sono adeguatamente definiti ogni cosa è definita.
Dopo Arthur Bentley, e dopo una lunga parentesi durante la quale gli studiosi preferiscono sviluppare la ricerca sui gruppi a un livello e con riferimenti assai più concreti e specifici (v. Odegard, 1928; v. Herring, 1929; v. Schattschneider, 1935; v. Garceau, 1941), la group theory of politics viene riproposta nella sua versione 'ortodossa' da David B. Truman con il lavoro del 1951, The governmental process. Anche se non ama definire, questo autore non manca di dare una sua definizione del concetto di gruppo d'interesse. "Nell'accezione qui adottata, 'gruppo d'interesse' si riferisce a ogni gruppo che, sulla base di uno o più atteggiamenti condivisi, reclama da altri gruppi della società l'instaurazione, il mantenimento o l'accrescimento di forme di comportamento che sono in relazione con gli atteggiamenti condivisi". Quanto a questi ultimi, si tratta di atteggiamenti "nei confronti di ciò che è necessario, o è desiderato, in una determinata situazione, i quali sono rilevabili sotto forma di domande o rivendicazioni da altri gruppi della società". In definitiva, il gruppo d'interesse è visto come "un gruppo di atteggiamenti condivisi che porta avanti certe rivendicazioni rispetto ad altri gruppi della società" (v. Truman, 1951, pp. 33-34, 37).
Al contrario di Bentley e Truman, che considerano il gruppo d'interesse una categoria a raggio onnicomprensivo e dunque ad alto livello di astrazione, includente specificamente il partito politico, altri autori rifiutano esplicitamente le massime 'semplicistiche' della group theory, guardando invece al concetto di gruppo d'interesse come "strumento analitico", come "sistema per descrivere alcuni aspetti del processo politico, ma non tutti". Così, Joseph La Palombara, nella sua ricerca sui gruppi d'interesse in Italia, parte dalla seguente definizione: "Il gruppo d'interesse è un aggregato di individui interagenti, che manifestano dei desideri coscienti riguardanti la gerarchizzazione dei valori". L'interesse, che viene visto come l'elemento essenziale della nozione, si ha allorché si manifesta "un desiderio cosciente che l'indirizzo politico, o l'allocazione autoritativa dei valori (authoritative allocation of values), muova in una particolare direzione, generale o specifica". Tale direzione può andare sia verso modificazioni nel sistema di stratificazione sociale - e allora si avranno spostamenti nella scala dei valori - sia verso operazioni di mantenimento della struttura sociopolitica. "L'interesse di un gruppo può essere benissimo (e in effetti spesso è) quello di conservare la configurazione esistente dell'indirizzo politico generale" (v. La Palombara, 1964; tr. it., pp. 24-28).
In parte simile l'impostazione di Jean Meynaud, per il quale l'espressione 'gruppo di pressione' evoca "le lotte intraprese per rendere le decisioni dei poteri pubblici conformi agli interessi o alle idee di una qualunque categoria sociale". Elemento discriminante per l'identificazione di un gruppo è la presenza presso gli interessati della "volontà di influenzare" le decisioni dei poteri pubblici. Allorché tale volontà si manifesta, l'organismo che la esprime si qualifica come gruppo di pressione (v. Meynaud, 1960, pp. 5-7). Su questo punto Meynaud e La Palombara sembrano dissentire: per il secondo, infatti, non è per nulla "implicito nella definizione se il gruppo di interesse cerchi effettivamente di comunicare i suoi desideri ad altri e, in caso affermativo, in che modo questa comunicazione di richieste abbia luogo" (v. La Palombara, 1964; tr. it., p. 28).
Come emerge dallo sviluppo del tema qui affrontato, finora sono stati individuati i tre concetti di gruppo, gruppo d'interesse e gruppo di pressione. Si può aggiungere che spesso, sia in dottrina sia nella pubblicistica, si parla anche di lobby, come sinonimo di gruppo d'interesse o di pressione. Su questo punto Lester W. Milbrath avverte che il lobbying (letteralmente, l'azione di muoversi nei corridoi, nelle anticamere) va inteso opportunamente più come un processo - più precisamente, come un processo di comunicazione mediante il quale i lobbyists tentano di persuadere il personale pubblico ad accettare i desideri dei loro clienti in ordine ai programmi politici (v. Milbrath, 1968, p. 442) - che come un'organizzazione, più o meno formalizzata e stabile. In questa impostazione, dunque, il fenomeno della comunicazione è centrale, a differenza della posizione di La Palombara precedentemente richiamata.
A sua volta, rivisitando criticamente il lavoro di Truman, il contributo di J. David Greenstone individua le categorie di gruppo sociale (classi, razze, osservanze religiose, occupazioni professionali), gruppo d'interesse (nel senso già prospettato da Truman), gruppo d'interesse politico (tale se e quando riceve o invia richieste a istituzioni di governo), infine gruppo istituzionalizzato (corti di giustizia, assemblee legislative, esecutivi, altre istituzioni politiche) (v. Greenstone, 1975, pp. 264-265).
La dilatazione del concetto di gruppo, che in talune interpretazioni giunge a includere in tale classe concettuale non soltanto il partito politico ma finanche la magistratura, la rappresentanza politica, il governo, richiama all'esigenza di fissare 'confini' tipologici. Certamente, è possibile che un'aggregazione di magistrati si costituisca in gruppo di pressione per ottenere talune (poche o molte) decisioni da parte di altri organi dell'amministrazione pubblica, o anche per esercitare un qualche controllo sull'amministrazione della giustizia nel suo complesso. È possibile e anzi probabile che in seno alla burocrazia statale e parastatale fioriscano gruppi di pressione. Ci sono senza dubbio parlamentari dei quali si può dire che operano come una lobby. Ma ciò non può significare accogliere un'operazione di riduttivismo che riconduca ogni realtà dell'esperienza collettiva all'unità basica del gruppo, dissolvendo in essa le proprietà categoriali (nonché le rispettive referenze strutturali e funzionali) delle altre nozioni politiche e sociali. Così si fa di ogni erba un fascio, che oltre tutto non accrescerebbe i vantaggi del sapere scientifico, che lavora sulle distinzioni, sia pure (si può aggiungere) all'interno di grandi 'visioni del mondo', almeno vocazionalmente sintetiche. In tale quadro, dire ad esempio che il parlamento è un gruppo (di persone interagenti) non aggiunge molto alla comprensione delle peculiarità di tale istituzione rispetto alle altre strutture politiche e sociali, se non introduciamo un corposo bagaglio di elementi ulteriori, i quali sono poi proprio i fattori e le proprietà che fanno tutta la differenza. Anche per un'esigenza di chiarificazione lessicale, la quale suggerisce di non utilizzare più parole per dire la stessa cosa, occorre perciò distinguere e, per cominciare, bisogna vedere se le nozioni di gruppo d'interesse e di gruppo di pressione sono perfettamente sinonime, sovrapponibili e intercambiabili.
Sotto questo profilo iniziale, va sottolineato che un gruppo di pressione è sempre un gruppo d'interesse, ma un gruppo d'interesse non sempre diviene un gruppo di pressione. Per cogliere tale specificità, vale risalire all'autonomia tendenziale, richiamata nel cap. 2, di sistema politico da una parte e di sistema sociale (nelle sue due dimensioni di fondo, culturale ed economica) dall'altra. In questa chiave il gruppo d'interesse è un attore del sistema sociale, che in tale sede svolge la funzione precipuamente di articolazione degli interessi (peraltro come tale espletabile anche nell'arena politica), vale a dire l'azione di conferire razionalità, congruenza, immagine, viabilità alle domande di quanti condividono un determinato atteggiamento di fronte e nei confronti di altri attori del sistema sociale. Poiché il sistema sociale include sia il subsistema economico sia il subsistema culturale, possono esservi gruppi che si muovono nel primo contesto, perseguendo, in via esclusiva o preminente, interessi strettamente economici, e gruppi che promuovono - esclusivamente o preminentemente - valori: in questo secondo caso si parla anche di gruppo promotore (promotional group). Un'associazione di industriali è un gruppo del primo tipo, una lega pro o contro il divorzio è un gruppo del secondo tipo. Nell'un caso e nell'altro non è necessario identificare il gruppo con un interesse 'privato' o 'sezionale': è possibile (l'accertamento del grado di probabilità è questione empirica) che un gruppo persegua anche un pubblico interesse.
Come è evidente, da tale accezione emerge che le realtà più propizie all'esistenza e all'azione dei gruppi d'interesse economico e assiologico sono quelle caratterizzate da autonomia del sistema sociale, nel quale ultimo i gruppi si confrontano in base alle regole che sono proprie del sistema stesso e delle sue componenti. Tuttavia, al gruppo d'interesse può non bastare l'impegno nel sistema sociale. Può necessitargli, per la difesa e per l'espansione delle sue domande e delle sue rivendicazioni, l'accesso all'arena politica. È questo passaggio che fa del gruppo d'interesse un gruppo di pressione. Dunque, un gruppo d'interesse diviene gruppo di pressione allorché si porta nell'arena politica e opera come attore politico. Finché il gruppo si muove nelle dimensioni (sociali, economiche, culturali) del non politico, esso rimane gruppo di interesse e va classificato come tale. Se e quando entra in politica, e finché vi permane (poiché può anche uscirne, una volta che giudichi conseguito il suo scopo), diviene gruppo di pressione.
Che la dizione 'interesse' evochi, a esser puntuali, la motivazione o la finalità (perché il gruppo opera), laddove con 'pressione' si guarda al modo, alla modalità operativa, con cui tali finalità sono perseguite (come il gruppo opera), è vero, fermo restando che la motivazione/finalità può essere di tipo economico oppure di tipo assiologico, simbolico, culturale. Ma il discorso merita poi di essere ulteriormente approfondito, in una cornice di teoria più articolata del sistema sociale e politico. Vale allora chiedersi perché il gruppo d'interesse, che in prima istanza è attore del sistema sociale (mentre il partito è in prima istanza attore del sistema politico), entra in politica. Non può limitarsi a difendere i suoi interessi nell'arena sociale, economica, culturale? Senza dubbio, maggiore è la persistenza di aree non politiche di esperienza individuale e collettiva, minori sono l'esigenza e la tentazione del gruppo di attivarsi per ottenere certi comportamenti del potere politico. Più la dimensione politica rispetta l'autonomia delle dimensioni non politiche, meno i gruppi sono indotti a operare sui centri potestativi politici, formali e non formali, perché siano prese, o evitate, certe decisioni. Infatti, se il sistema economico (o culturale) è autonomo, tende a cercare e trovare in se stesso le regole della sua dinamica funzionale.
Viceversa, più emerge un problema d'interdipendenza e interpenetrazione tra arene politica, economica, culturale, in particolare più si accentua l'interventismo pubblico in tutti i settori e livelli della vita individuale e sociale, più si espande la dimensione politica, più cresce la ramificazione normativa e regolamentare della 'mano pubblica', più tutto ciò induce i gruppi ad ampliare il loro ruolo politico per ottenere certi comportamenti del potere politico. Se le interferenze di quest'ultimo fossero minori, o ridotte, i gruppi sarebbero maggiormente, o prevalentemente, motivati a limitare la propria azione entro l'ambito del mercato economico e/o culturale. Al contrario, più la scena si 'pubblicizza' e si 'politicizza', più il gruppo è indotto a operare in chiave politica. E, va da sé, a un certo punto s'innesta quasi automaticamente un effetto di rimbalzo: allorché il gruppo avverte l''ineluttabilità' dell'espansione pubblica e dell'espansionismo politico, cerca di trarne profitto in termini d'interessi sezionali. Visto che deve vivere e agire su questo palcoscenico, s'industria a metterne a frutto tendenze e tratti caratteristici. Di qui la richiesta di pratiche protezionistiche, l'insistenza per ottenere dallo Stato provvidenze di ogni genere (salvataggi di aziende 'decotte', fiscalizzazioni di oneri sociali, provvedimenti legislativi di favore, esenzioni, e così via), con conseguenti gravami per la 'mano pubblica'.
È stato obiettato che la forte interpenetrazione e interdipendenza tra area economica e area politica fa venir meno nelle società complesse del nostro tempo i confini tra le due arene, che perciò attenuano progressivamente le loro identità specifiche (v. Pasquino, 1983). In queste condizioni, come sarebbe possibile continuare a parlare, sia pure in termini tendenziali, di un'autonomia reciproca delle dimensioni politica, economica, culturale? E ciò non farebbe cadere, per conseguenza, l'intera distinzione qui prospettata, tra gruppo d'interesse come attore del sistema sociale e gruppo di pressione come attore del sistema politico? La replica può essere duplice. Sotto un primo profilo, l'osservazione di fatto relativa all'interpenetrazione tra area economica e area politica non fa venir meno la necessità di mantenere la distinzione teorica tra le due aree, distinzione che conferma sul piano scientifico la sua validità analitica: infatti, come possiamo parlare d'interpenetrazione, se non partiamo dall'idea dell'autonomia? In secondo luogo, se non postulassimo una condizione tendenziale di autonomia rispettiva delle sfere economica, politica, culturale, non potremmo neppure misurare e cogliere empiricamente di quanto e con quale intensità e su quale versante e in quale direzione si è verificata interpenetrazione tra le due aree, poiché ci mancherebbe il termine di partenza. E non potremmo perciò neppure constatare il peso politico dei gruppi d'interesse.
Il dibattito sul significato da attribuire alla nozione di pressione trova la sua risposta più convincente nella posizione di Samuel E. Finer: pressione è l'applicazione di una sanzione, o la minaccia di applicarla, qualora una richiesta non venga accolta (v. Finer, 1958, p. 118). Su tale base, possiamo allora definire il gruppo di pressione come l''agenzia politica' che mira a ottenere una decisione politica assunta da terzi attraverso comportamenti che prevedano, quantomeno in ultima istanza, l'applicazione di una sanzione. Questa può prendere corpo in numerosi modi. Appoggiare con i propri voti un partito, salvo minacciare di sospendere - o infine sospendere proprio - tale apporto consensuale quando la forza politica desse segno di cambiare atteggiamento, vuol dire configurare una situazione di pressione e di relativa sanzione. Sospendere o interrompere il sostegno finanziario a un partito; corrompere un uomo politico (e poi minacciarlo, se recalcitrasse di fronte a certe richieste del gruppo, di fare emergere la situazione compromettente); partecipare all'elaborazione di un programma governativo di politica economica, salvo ritirarsi dall'impresa o lasciarne inapplicate le direttive per la parte di competenza del gruppo; il rifiuto collettivo di pagare tasse e imposte; la promozione di referendum; la 'fabbricazione' artificiale di crisi borsistiche o finanziarie: queste sono altrettante modalità di pressione, e dunque di sanzione, minacciata o attuata.
Questa casistica - mentre sottolinea che la sanzione può avere carattere elettorale, finanziario, sociale, può comportare implicazioni giudiziarie, di politica economica, e così via - suggerisce anzitutto con evidenza che qui non siamo in presenza della nozione giuridica di sanzione, ma di un concetto di tipo politico. In pari tempo mette in rilievo che esistono forme di pressione giuridicamente lecite e altre illecite. Un ulteriore elemento che si ricava è quello che conduce alla distinzione tra azione diretta e azione indiretta. Si ha la prima quando la pressione viene esercitata in via immediata sulle strutture dalle quali ci si attende la decisione desiderata: esse sono le strutture istituzionali formali (governo, parlamento, magistratura, pubblica amministrazione) o informali (partiti) preposte di diritto, e soprattutto di fatto, all'assunzione della decisione stessa. Si ha viceversa azione indiretta quando la pressione non viene esercitata direttamente e immediatamente, ma attraverso l'opinione pubblica, mediante la sua sollecitazione con funzione d'influenza su coloro cui spetta prendere la decisione. In ordine al ricorso all'opinione pubblica non tutti i gruppi si trovano nelle medesime condizioni. Per fare un solo esempio, è più probabile che nella sua attività un gruppo economico utilizzi lo strumento finanziario e che un promotional group utilizzi invece il richiamo all'opinione pubblica. Correlativamente, il primo preferirà piuttosto il riserbo, il secondo l'azione allo scoperto, il primo solleciterà piuttosto il giudizio dei competenti, il secondo i sentimenti delle masse. In generale, l'azione dei gruppi è, tra l'altro, condizionata dalle risorse di cui dispongono, e queste possono essere di vario genere. Se vogliamo limitarci a richiamarne due tra le principali, basta ricordare che ci sono risorse di tipo finanziario e risorse di tipo simbolico. Di solito i gruppi che fanno capo a interessi economici dispongono del primo tipo di risorse, che tendono a usare in via primaria. In alcuni casi ciò consente loro di controllare anche strumenti di comunicazione di massa, i quali sono potenzialmente un significativo mezzo di pressione.
Tuttavia, quando pure si verifica questa ipotesi, non è poi detto che i gruppi in questione siano eo ipso in grado di ricorrere all'opinione pubblica per il perseguimento dei loro obiettivi. Le risorse finanziarie e il controllo dei mass media possono rivelarsi insufficienti. Se vuole avere prospettive di successo, infatti, il richiamo all'opinione pubblica esige che il gruppo disponga di adeguate risorse simboliche. Più specificamente, è necessario che nella società esista un atteggiamento psicologico-culturale di segno positivo rispetto agli interessi che il gruppo persegue. È necessario che il gruppo possa spendere un'immagine accettabile e benevolmente valutata dall'opinione pubblica. Negli Stati Uniti d'America, ad esempio, gli interessi economici hanno tradizionalmente fruito di una immagine relativamente (e comparativamente) positiva. Diversa è la situazione per altri paesi, nel corso del tempo: la diffusione di una cultura politica e sociale di stampo marxista o populista tende a penalizzare i gruppi 'capitalistici'. Si tenga peraltro presente che l'influenza dei mass media può contribuire a modificare certe tendenze culturali, e quindi gruppi economici in grado di procurarsi strumenti del genere possono in stagioni più o meno brevi operare anche sull'opinione pubblica e al suo cospetto. È regola costante, comunque, che il gruppo tenda a trasferire il conflitto o la questione di cui è protagonista, o in cui è coinvolto, nella sede più favorevole. Se il gruppo ha uno scarso accesso all'opinione pubblica, si sforzerà di mantenere il conflitto in una sede più riservata, e viceversa. In questo secondo caso, cioè quando "vengono fatti tentativi di coinvolgere il grosso pubblico", Elmer E. Schattschneider parla di "socializzazione del conflitto" (v. Schattschneider, 1972, p. 85).
Sebbene la pressione sia la modalità di azione specifica del gruppo, ciò non significa che esso operi solo attraverso la pressione. Il gruppo può svolgere la sua funzione di articolazione elaborando e trasmettendo ai centri decisionali pubblici una documentazione, relativa ai problemi in gioco, completa e accurata. Può sviluppare un'azione negoziale, sollevare problemi di costi, ecc., anche senza il supporto di una manovra pressoria. Robert H. Salisbury individua tra i modi di interazione del gruppo il lobbying (che può essere condotto su base altamente professionale), la mobilitazione del pubblico (in fase elettorale o anche interelettorale), la ricerca di forme di rappresentanza, de iure o de facto, nel processo decisionale e nel sistema di autorità, la sponsorizzazione di candidature alle cariche pubbliche, la consultazione, l'inserimento del gruppo in un contesto stabile di relazioni politiche facenti capo a una qualche più ampia unità del sistema politico, solitamente un partito, infine anche un certo tipo di rapporto con l'opposizione (v. Salisbury, 1975, pp. 206-218).
Accanto alle modalità d'interazione, vanno altresì considerate le funzioni del sistema politico che i gruppi di pressione sono in grado di esercitare, condividendole spesso con altri attori politici (v. Almond e Powell, 1966 e 1978²). Si è già detto della funzione di articolazione degli interessi, tipica del gruppo. Ma nell'arena politica i gruppi possono anche espletare la funzione di aggregazione degli interessi, considerata da Almond e Powell tipica (pur se non esclusiva) del partito, consistente nella conversione delle domande in scelte politiche alternative, mediante l'elaborazione di una qualche piattaforma politica generale: ad esempio, una grande corporation o un'associazione imprenditoriale possono svolgere la funzione aggregante, elaborando vere e proprie piattaforme che affrontano non solo problemi di programmazione degli strumenti e del personale, ma questioni di politica legislativa, fiscale, sanitaria, edilizia, previdenziale, territoriale, dei trasporti e finanche internazionale. Inoltre, un gruppo può svolgere la funzione di socializzazione politica, consistente nella diffusione dei modelli culturali, promuovendo o la difesa dei valori esistenti (gruppo di orientamento conservatore) o il loro mutamento (gruppo orientato all'innovazione). E un gruppo di pressione può essere un significativo canale di reclutamento politico: si pensi, soprattutto in un certo periodo del secondo dopoguerra, al ruolo della Federazione Universitaria Cattolica Italiana come vivaio di una parte non indifferente della classe dirigente del Partito democratico-cristiano.In sintesi, la pressione non è l'unica performance del gruppo. Ciò detto, quel che distingue tipologicamente l'azione politica del gruppo rispetto a quella di altri attori politici è appunto la pressione. In particolare, mentre il partito s'impegna per conquistare il potere politico e gestirlo in prima persona, il gruppo attiva la spinta pressoria per ottenere certe decisioni del potere politico. Fermo restando che, se può conseguire analogo risultato senza ricorrere alla pressione, è probabile che il gruppo farà a meno di giocare tale carta. D'altra parte, va aggiunto che non sempre un gruppo è nelle condizioni di utilizzare tutti i metodi di azione teoricamente disponibili: talora alcuni di questi metodi sono resi impraticabili da una sorta di veto sociale, connesso o alla moralità pubblica (atteggiamento più o meno disincantato nei confronti della corruzione) o a circostanze particolari della comunità nazionale (difficilmente in certi paesi, in periodi bellici o di emergenza, sarebbero ammessi scioperi senza una forte reazione).
Sotto il profilo strutturale, la varietà dei gruppi d'interesse e di pressione può essere assai vasta. Una classificazione a quattro voci include i gruppi d'interesse anomici (folle e rivolte disorganizzate, espressioni più o meno spontanee di protesta che crescono velocemente e, di norma, altrettanto velocemente rientrano), i gruppi d'interesse non associativi (caratterizzati anch'essi dall'assenza di una organizzazione specializzata, differiscono da quelli anomici perché si basano su interessi comunemente percepiti di razza, religione, lingua, regione, occupazione o forse legami di sangue e di discendenza, talché presentano rispetto ai primi una maggiore continuità nel tempo), i gruppi d'interesse istituzionali (quelli che operano all'interno di organizzazioni quali i partiti, le corporazioni, i corpi legislativi, le forze armate, le burocrazie e le chiese), infine i gruppi di pressione associativi, strutture specializzate per l'articolazione degli interessi che sono specificamente designate a rappresentare gli obiettivi di un aggregato particolare: le loro organizzazioni comprendono un personale a tempo pieno, ruoli interni diversificati e procedure ordinarie per la formulazione degli interessi e delle domande (v. Almond e Powell, 1978²; tr. it., pp. 246-252).
Anche se discutibile, da tale classificazione emerge che i gruppi possono avere uno sviluppo e una consistenza organizzativi assai differenziati, sia sul piano orizzontale che su quello verticale. In questa seconda veste, possiamo ipotizzare una linea di comando interna su base oligarchica, oppure stratarchica (la nozione di stratarchia, formulata soprattutto con riferimento ai partiti nordamericani, è estensibile ai gruppi: assume come caratteristica generale la proliferazione del gruppo dirigente, invece della sua concentrazione, e la diffusione del potere e del suo esercizio, talché esistono degli "strati di comando" che operano con un grado d'indipendenza variabile, ma sempre considerevole: v. Eldersveld, 1972, pp. 91-98), oppure democratica, oppure infine anarchica, se applichiamo ai gruppi la suggestione, riferita da Mojsej Ostrogorskij a taluni partiti tra la fine del secolo scorso e l'inizio del XX secolo, di una dissoluzione del loro sistema di potere interno, per scissioni, lotte intestine, manovre prodotte dalla caduta dell'ispirazione che aveva guidato la nascita dell'organizzazione (v. Ostrogorskij, 1903).
In chiave orizzontale, il rilievo iniziale riguarda l'attitudine 'mimetica' dei gruppi, nel senso che questi tendono solitamente ad assumere connotati strutturali che riproducono quelli delle agenzie politiche sulle quali intendono esercitare pressione, per cui, se il potere decisionale effettivo è accentrato, avremo gruppi a struttura accentrata, se è decentrato, come nei sistemi federali, avremo gruppi a struttura decentrata.
Significativi sul piano organizzativo sono altresì gli aspetti relativi all'ampiezza dei gruppi (il ruolo dei membri e dei capi può variare in tale contesto), alle relazioni di controllo tra leaders e seguaci, ai tipi di membership (chi può farne parte, gratuità o meno della partecipazione, adesione individuale o per affiliazione categoriale), ai tipi di leadership (l'organizzatore come imprenditore, che promuove l'organizzazione e tende a emulare in un certo gruppo altri che hanno avuto successo in circostanze analoghe o paragonabili; l'organizzatore che diviene leader in virtù del suo impegno precedente nel gruppo; l'organizzatore come proiezione di un segmento sociale o di una base espressiva ben delimitati). Un ulteriore elemento da mettere in conto, anche per la sua incidenza sul piano strutturale, riguarda la regolamentazione legislativa dei gruppi e delle loro attività. Ci sono paesi nei quali tale strada è stata intrapresa da decenni, altri ove poco o nulla è stato fatto in merito. Tra questi ultimi figura l'Italia; negli Stati Uniti, invece (ove la parola lobby è usata per la prima volta all'inizio del XIX secolo per designare quanti cercavano di ottenere favori e a tal fine avevano l'abitudine di ritrovarsi nella lobby del Campidoglio dello Stato di New York, ad Albany), già nel 1938 il Foreign agents registration act prescrive che chiunque rappresenti un governo straniero o interessi di altri paesi negli Stati Uniti deve registrarsi presso il Ministero della Giustizia. Del 1946 è il Lobbying act: prevede che chiunque venga assunto allo scopo di fare lobbying presso il Congresso sia tenuto a registrarsi presso la Camera o il Senato, a presentare trimestralmente una dichiarazione dei redditi, descrivendo, peraltro in termini molto generici, quali sono gli interessi da lui rappresentati. Questi rapporti vanno pubblicati trimestralmente. Infine l'Ethics in government act, emanato nel 1978, vieta agli ex membri dell'esecutivo di rappresentare chiunque di fronte al loro ex ufficio per un anno dopo che hanno lasciato l'incarico (v. Freiberg, 1990).
Altre due prospettive di analisi vale la pena di segnalare in merito a questioni organizzative. Si è detto che l'interpretazione prevalente considera il gruppo di pressione essenzialmente come un'unità che si costituisce e opera preminentemente in una logica di input, cioè per inviare domande ad altri soggetti del sistema politico. Tuttavia il gruppo può essere esaminato in una logica di output, come effetto e risultato di condizioni politiche e trasformazioni sociali. Un'iniziale indicazione in proposito sottolinea il ruolo dell'industrializzazione e della crescita industriale come situazione che ha dato luogo alla presentazione e all'affermazione dei gruppi d'interesse e di pressione (v. Rose, 1954). Si può aggiungere che la fase postindustriale, caratterizzata dal ruolo viepiù decrescente della dicotomia classista e da una forte moltiplicazione dei ruoli sociali, costituisce un ulteriore fattore di espansione del sistema dei gruppi.Passando poi alla dimensione più strettamente politica, è stato rilevato che un sistema partitico 'debole' produce, o almeno facilita, un 'forte' sistema di gruppi di pressione (v. Zeigler, 1971). Un secondo approccio di analisi investe i contesti bipartitico e pluripartitico. Ad avviso di una scuola di pensiero, il bipartitismo incoraggia la formazione dei gruppi di pressione in quanto i partiti, necessitando di appelli generalizzati e generalizzanti, non potrebbero senza il rischio di alti costi identificarsi con interessi settoriali (v. Key, 1964⁵). Una tesi alternativa sostiene, viceversa, che proprio per ottenere una molteplicità di apporti, i partiti tendono a includere segmenti e varietà d'interessi, anche se evitano una troppo stretta identificazione organizzativa e culturale, laddove nei sistemi pluripartitici accade invece che qualche partito sia esso stesso un vero e proprio gruppo di pressione (v. Eckstein e Apter, 1963).
Quest'ultimo rilievo consente d'introdurre alcune ulteriori osservazioni e precisazioni sui rapporti tra il gruppo e le altre unità fondamentali del sistema politico: partito, sindacato, movimento. In primo luogo, sappiamo che non di rado all'origine dei partiti possono esservi uno o più gruppi di pressione: gruppi promotori, come la Fabian Society, che ha avuto un ruolo significativo nel sorgere del laburismo britannico; associazioni di agricoltori, che più di una volta hanno promosso partiti agrari. In secondo luogo, un gruppo di pressione può trasformarsi esso stesso in partito politico. In Italia, nel secondo dopoguerra, i radicali nascono piuttosto come gruppo di pressione e solo in un secondo tempo, allorché scendono nell'agone elettorale, si trasformano funzionalmente in partito. Vale comunque ribadire che, a differenza di altri attori politici, e in specie dei partiti, i gruppi di pressione non aspirano, finché rimangono ciò che sono, a occupare e gestire in prima persona il potere politico, ma a premere su altri soggetti perché sia assunta (o evitata) una qualche decisione (e va da sé che l'incidenza ponderale di tale pressione può essere anche assai alta, ciò che comunque va accertato empiricamente). Inoltre, un partito può diventare, o ritornare a essere, un gruppo di pressione, ritirandosi dalla competizione elettorale (essenziale per una definizione funzionale del partito): sembra questa la conclusione della parabola dei radicali italiani tra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta. Se ne deduce, come conseguenza di tale premessa definitoria e funzionale, che una cosa è concorrere in prima persona nella competizione elettorale per la conquista dei seggi delle assemblee rappresentative o comunque delle cariche elettive: e questo è ruolo specifico del partito. Altra cosa è influenzare la competizione elettorale, ciò che i gruppi di pressione - ma non soltanto essi - fanno spesso, e talora con risultati assai significativi dal loro punto di vista (v. Fisichella, 1972 e 1988).
Per quanto riguarda poi il sindacato, rispetto alla sua natura si confrontano due tesi. Per la prima, "i sindacati fanno parte dell'universo dei gruppi di pressione" (v. Finer, 1976, p. 58), talché non si pone la questione di una loro autonomia categoriale. Per la seconda tesi, invece, "le organizzazioni sindacali non possono più essere studiate alla stregua di gruppi di pressione. Troppe sono le caratteristiche che fanno del sindacato un attore politico che opera con una logica diversa da quella dei gruppi di pressione. Mentre infatti il gruppo di pressione cerca di ottenere agevolazioni ai propri aderenti influenzando la produzione legislativa tramite pressioni sul governo e sul parlamento, il sindacato entra ormai direttamente nel sistema politico come soggetto primario di azione politica", soprattutto in sede di politica dei redditi e di programmazione economica (v. Zannoni, 1973, p. 125).
È fuori dubbio che una serie di fattori - dalla presenza nella 'triangolazione' neocorporativa alla contrattazione collettiva e alla gestione del contratto, dal coinvolgimento nella programmazione economica alla politica dei redditi - fanno del sindacato un importante soggetto politico. Anche il gruppo di pressione, però, è un attore del sistema politico, e allora, sotto questo profilo, non esiste alcuna differenza risolutiva. Approfondendo, possiamo comunque affermare che il sindacato è anche un gruppo di pressione: come tale, opera, svolge le funzioni e presenta tratti strutturali riconducibili alla categoria del gruppo di pressione. Tuttavia, il sindacato non è soltanto un gruppo di pressione: è, insieme, qualcos'altro, ed è questo quid aggiuntivo che induce a riconoscere autonomia categoriale alla nozione di sindacato.
Tale quid aggiuntivo non è la maggior forza, o la maggiore intensità dell'influenza che il sindacato è in grado di esprimere. Sotto questo profilo, un gruppo di pressione, o un sindacato in quanto esercita pressione, possono avere un'influenza più incisiva e una forza d'urto superiore a quelle del sindacato nella sua veste di attore categorialmente distinto dalla pressione.Il fattore categorialmente risolutivo nella determinazione della specificità del sindacato rispetto al gruppo di pressione (o se si vuole del sindacato che va oltre la mera connotazione in termini di pressione, che pure anch'essa gli appartiene) è il differente riconoscimento, di diritto o di fatto, è il diverso atteggiamento che il sistema politico e in particolare i suoi soggetti istituzionali (nei regimi democratici, governo e rappresentanza politica) hanno rispettivamente nei confronti del sindacato e nei confronti del gruppo di pressione, al primo conferendo un ruolo non concesso e riconosciuto invece al secondo.
Non è sempre stato così, ed è esistito anzi un primo periodo nella storia del sindacato in cui questo era guardato con grande sospetto, quando non sottoposto a varie restrizioni legali, da parte del sistema politico e dei suoi settori dirigenti. Quando ciò è avvenuto, e più in generale tutte le volte in cui nel sistema politico si afferma un atteggiamento di (comparativamente) minore gradimento e/o di ridotta competenza funzionale per il sindacato, si può dire che questo è indotto a operare essenzialmente, o prevalentemente, come un gruppo di pressione. Quando, invece, gli si conferisce una più piena e specifica competenza funzionale, in virtù del gioco dei rapporti politici e delle trasformazioni nella cultura sociopolitica, allora il sindacato si delinea tipologicamente come agenzia autonoma rispetto alla categoria della pressione. In altri termini, il sindacato sta e opera, per così dire, a due livelli (e ciò comporta un'esigenza di dinamismo definizionale): fino a una certa soglia funzionale, esso rientra nel contesto concettuale e operativo del gruppo di pressione. Oltre una certa soglia funzionale, quando il sistema politico in pari tempo gli conferisce e gli riconosce un diverso status funzionale, il sindacato si stacca dalla categoria di gruppo di pressione e fa parte a sé.
Venendo infine ai rapporti tra le nozioni di movimento e di gruppo, è possibile cogliere anche per il primo una duplice dimensione: quella nella quale predomina l'elemento culturale, il fattore mobilitazionale e motivazionale di base, prevalentemente magmatico e fluido, e quella mediante la quale il movimento si articola nella società. In tale secondo caso, alla matrice culturale del movimento si rifanno spesso aggregazioni che assumono connotati di gruppi di pressione. Ad esempio, è stato messo in evidenza che il movimento femminista del nostro tempo, come tale caratterizzato culturalmente da una misura significativa di fluidità e mobilità, si articola poi in una vasta molteplicità di gruppi interrelati, ma sostanzialmente indipendenti, prodotti per proliferazione dall'interazione tra l'incentivo ideologico che alimenta il movimento nel suo complesso e le plurime ragioni individuali che stanno alla base della scelta di partecipare al movimento (v. Lockwood Carden, 1978). Riassuntivamente, anche il movimento può essere visto come una realtà a due livelli, uno informale, magmatico, indefinito strutturalmente, ove predomina l'elemento culturale, e uno costituito da una molteplicità di associazioni e gruppi, sovente operanti come gruppi di pressione, sulla cui nascita, composizione e funzionamento influiscono, accanto all'adesione generale alle idealità del movimento, anche spinte riferibili a incentivi individuali: per riprendere il caso del movimento femminista, questo si articola in gruppi i cui membri sono orientati piuttosto a occuparsi di questioni inerenti il diritto di famiglia, gruppi i cui membri preferiscono puntare sul tema dell'aborto, gruppi orientati a intervenire sulla legislazione relativa al periodo della gestazione, e così via. Le preferenze individuali, a questo livello, hanno un ruolo significativo, mentre il collegamento tra i gruppi è assicurato dall'adesione alle finalità generali del movimento.
Come si vede, dunque, i nessi tra le unità fondamentali del sistema politico (gruppo di pressione, partito, movimento, sindacato) sono rilevanti, sia sotto il profilo genetico, sia sotto il profilo struttural-funzionale, fermo restando che tali nessi non possono significare e giustificare confusione concettuale, trattandosi di quattro categorie distinte. E ciò vale ribadire anche nella fase presente, nella quale le prospettive internazionali, sovranazionali e transnazionali della vita politica, economica e sociale assumono peso crescente, portando anche per i gruppi a una internazionalizzazione che la letteratura ha iniziato a indagare fin dagli anni sessanta, e che ora merita approfondimenti, soprattutto in sede di ricerca empirica. (V. anche Partiti politici e sistemi di partito).
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