GUALFREDO
Nacque verso la metà del secolo XI da una famiglia della città o del contado senese.
La notizia che lo vuole "natione Longobardus" (Annales Senenses) non può essere certamente interpretata nel senso che fosse originario della Lombardia. Appena più persuasiva l'ipotesi che lo si potesse definire "longobardo" in quanto di famiglia aristocratica. Uno dei testimoni escussi nel 1177-80 nell'ambito della lite tra i vescovi di Arezzo e Siena per il possesso di alcune pievi riferisce che G. fu ospitato davanti alla pieve di S. Maria in Cosona da un "miles consanguineus eius" di nome "Cillus […] patronus ipsius plebis et indigena" (Documenti, ed. Pasqui, p. 530). Possiamo quindi supporre che anche G. fosse originario della zona o, quanto meno, del Senese.
La tradizione secondo la quale divenne vescovo di Siena sin dal 1084 (1085 se si suppone l'adozione dello stile fiorentino), pur non suffragata dalle fonti pervenute, è accolta da Davidsohn (p. 408) e si fonda sull'ultima attestazione del vescovo Rodolfo, predecessore immediato di G. sulla cattedra senese.
Nel primo periodo del suo episcopato, in piena lotta per le investiture, G. intervenne nel dibattito con alcuni scritti. Nel componimento in versi leonini De utroque apostolico, redatto intorno al 1092 (Dolcini, p. 15), mette in scena un dialogo tra il papa Urbano II e l'antipapa Clemente III di parte imperiale (Wiberto arcivescovo di Ravenna). L'autore si presenta come il difensore di Urbano e propone come giudici per risolvere la contesa Ranieri, vescovo di Firenze, Costantino, vescovo di Arezzo, e il vescovo di Todi, mentre la parte wibertista si affida al canonista Bruno di Segni, antico maestro di Urbano, e al magister Ugo di Volterra. G., per favorire l'accordo tra le parti, chiede di aggiungere il senese Rogerio, il canonista Pietro, arciprete di Siena, il vescovo di Bagnorea e il maestro bolognese di diritto Pepo, fissando la data della disputa, che dovrebbe tenersi a Roma, per il giorno dell'Ascensione.
L'opera di G. è andata perduta ma sopravvive attraverso il riassunto compiuto dall'umanista senese Sigismondo Tizio nelle sue Historiae Senenses (Biblioteca apost. Vaticana, Chig., G.I.31, cc. 299v-300). La redazione proposta da Tizio è stata edita da E. Dümmler in Mon. Germ. Hist., Libelli de lite, III, Hannoverae 1897, pp. 733 s., nonché da P. Fiorelli, Clarum Bononensium lumen, in Per Francesco Calasso…, Roma 1978, pp. 433 s. Nel momento in cui Tizio approntava le sue Historiae il De utroque apostolico era conservato presso la Biblioteca capitolare del duomo di Siena insieme con altri scritti dello stesso G., tra i quali un altro testo poetico sulla prima crociata e sul ritrovamento della santa lancia. Alla medesima silloge dovevano appartenere altre opere perdute di G.: le non meglio precisate Laudes Urbis Romae; un opuscolo De anulo et baculo; un'opera De sacramento corporis et sanguinis Christi, a cui si aggiungevano un trattato De christiana militia e un Rationale di tema liturgico. Si ottiene così la figura di un prelato assai colto e bene addentro alle principali questioni agitate negli ambienti culturalmente più vivaci del periodo.
In seguito G. compare infatti ai sinodi lateranensi del 23 marzo 1112 e dell'8 marzo 1116, entrambi presieduti dal papa Pasquale II, dove furono affrontati e discussi i rapporti fra il pontefice e l'imperatore Enrico V.
Le fasi successive della vita di G. si inseriscono in un clima politico e spirituale assai mutato, nel quale, con il procedere del XII secolo, il confronto tra Papato e Impero cedeva il passo alle sempre più forti spinte municipalistiche, di cui i vescovi si fecero interpreti sia sul piano politico, sia su quello strettamente religioso. Il 6 febbr. 1108 G. procedette alla solenne traslazione delle reliquie di s. Ansano dalla chiesa eretta a Dozana sul luogo presunto del martirio alla cattedrale della città.
La flebile resistenza opposta dagli Aretini e prontamente sbaragliata dai cavalieri senesi al seguito della processione costituisce un indizio inequivocabile del significato di questa traslazione, nella quale il contenuto religioso si congiungeva con il tentativo di saldare i legami interni alla cittadinanza in opposizione alla vicina città di Arezzo, con la quale Siena combatteva una secolare disputa sui confini delle rispettive diocesi.
È del tutto privo di fondamento quanto affermato dal presbitero Ildebrando di Monte San Savino nel 1177-80 (Documenti, ed. Pasqui, p. 532), secondo il quale Callisto II di ritorno dalla Francia, quando era ancora cardinale, fu accolto con grandi onori a Siena e promise il proprio appoggio nella vertenza contro Arezzo. In realtà quando Callisto II giunse in Italia dalla Francia era già stato eletto e consacrato papa e inoltre nel suo viaggio non passò da Siena, ma seguì la direttrice Pisa, Volterra, Roselle.
Maggiore attenzione merita la testimonianza di Oliverio de Malcena (ibid., p. 526), il quale affermò che quando era vescovo di Arezzo Guido Buccatorta "papa tenuit concilium Romae cum ipso Gualfredo et aliis episcopis" e che, approfittando del fatto che il presule aretino non era presente a quell'assise, G. chiese a Callisto II di essere investito delle pievi contese. Infatti nel marzo del 1123 G. partecipò al primo concilio Lateranense, nel corso del quale la lotta per le investiture si concluse definitivamente con la ratifica da parte papale del concordato di Worms. Proprio in quell'occasione G. riaccese la vertenza, sopita da diversi decenni, circa il possesso di diciotto pievi, che costituivano quasi la metà del territorio diocesano di Arezzo. Callisto II convocò per il successivo 18 novembre le parti in causa, che effettivamente convennero in quello stesso mese davanti al papa, il quale affidò al cardinale Gionata e al suddiacono Riccardo il compito di raccogliere dichiarazioni giurate relative alla questione.
Si situa verosimilmente in questa fase della vertenza la proposta del vescovo di Arezzo Guido a G. di risolvere la questione con un'ordalia: in prima battuta propose di gettarsi entrambi nel Tevere facendo prevalere chi fosse sopravvissuto all'impresa; quindi gli propose di digiunare vestiti di un cilicio all'interno della basilica lateranense e di far prevalere colui davanti al quale si fossero spalancate le porte della chiesa.
Nella prima risposta di G. ("Nolo sic mori") si può leggere in filigrana il rifiuto dei giudizi di Dio proprio di una parte non piccola dei riformatori ecclesiastici più moderati, che proponeva di risolvere i conflitti ricorrendo al diritto canonico e non alle ordalie, considerate un'invenzione popolare. Analogamente, nel rifiuto della seconda proposta di ordalia si intravede il divario tra i vescovi provenienti dagli ambienti monastico-eremitici come Guido di Arezzo, già priore di Camaldoli, e quelli di estrazione chiericale e urbana come G., estranei alle pratiche ascetico-penitenziali e portatori di una cultura e di una spiritualità del tutto diverse.
Callisto II il 30 marzo 1124 inviò il cardinale diacono Goizone e il già citato suddiacono Riccardo a investire G. delle diciotto pievi contese, nel cui possesso lo confermò il giorno successivo. Giunto a Siena accompagnato dai vescovi Ildebrando di Pistoia e Goffredo di Firenze, la domenica di Pentecoste (25 maggio 1124) G. celebrò il proprio successo mostrando ai fedeli una croce nera donatagli da Callisto II quale segno dell'investitura ottenuta.
Cominciò da quel momento il tentativo di imporre i propri pievani nelle 18 chiese sottratte al vescovo di Arezzo, in una delle quali insediò il nipote Oliverio. L'operazione procedette con esiti alterni, più spedita laddove i fautori di Siena erano più numerosi, decisamente ostacolata da taluni pievani più legati al vescovo di Arezzo e sostenuti dalle popolazioni della pieve stessa.
Uno dei testimoni escussi nel 1177-80 riferisce che, nel sermone tenuto in occasione della presa di possesso della pieve di Corsignano, G., balbuziente, scatenò l'ilarità dei fedeli, mentre cercava di giustificare la propria azione col desiderio di far coincidere i confini della diocesi con quelli del comitato di Siena.
La forte intenzionalità politica sottesa al recupero delle pievi contese con Arezzo è confermata dal fatto che in due circostanze G. fu accompagnato a Roma prima dai "boni homines", quindi dai consoli della città. Questi ultimi reagirono minacciando la distruzione delle pievi quando papa Onorio II ribaltò la sentenza del proprio predecessore restituendo al vescovo di Arezzo le chiese oggetto della vertenza, a seguito di un dibattimento nel quale entrambe le parti avevano fatto largamente ricorso alle auctoritates del diritto romano (5 maggio 1125). In quella occasione G. scrisse un componimento in versi di cui resta soltanto un distico amaramente autobiografico: "Nuper in hoc aula fueram qui carior ambra / nescio qua causa sum factus vilior alga" (Documenti, ed. Pasqui, p. 528).
Come la sentenza di Callisto II non aveva indotto automaticamente i pievani delle chiese contese e i loro sottoposti a sottomettersi al vescovo di Siena, così, nonostante il provvedimento di Onorio II, G. conservò discreti margini di intervento, la cui ampiezza dipese dalla convenienza dei residenti delle singole pievi nella scelta dell'uno o dell'altro partito in ordine a fattori politici o economici. Da alcune testimonianze raccolte nel 1177-80, infatti, risulta con chiarezza che G. detenne per diversi anni alcune delle pievi contese e che le perdette definitivamente solo quando i cives di Siena imposero due tasse che colpivano indiscriminatamente i contadini residenti nelle zone di recente acquisizione (la zappatica e la bovaria). La giustificazione addotta a sostegno di queste imposte fu la necessità di ricavare il denaro per riscattare i beni della Chiesa senese che G. aveva impegnato per sostenere la causa contro il vescovo di Arezzo, ma in realtà le autorità laiche del nascente Comune senese, d'accordo col vescovo, cercavano di estendere il pieno controllo politico ed economico della città sulle zone di recente acquisite. Non a caso le principali stirpi signorili della zona, gli Scialenghi e i Berardenghi, che in un primo tempo avevano assecondato le iniziative antiaretine di G., ritirarono il proprio appoggio appunto quando i Senesi imposero nuove tasse.
G. continuò a frequentare la Curia pontificia anche dopo la sentenza a lui sfavorevole di Onorio II. Lo troviamo infatti tra i sottoscrittori del documento emanato dal pontefice per il vescovo Ruggero di Pisa (21 luglio 1126). Successivamente G. si impegnò con il presbitero Rolando a non molestarlo nel possesso della chiesa di S. Petronilla "in capite burgi civitatis Sene" e a non alienarne i beni. Gli unici due elementi della datatio cronica sono il millesimo (1127) e parte di quella che doveva essere l'indizione (-xta e quindi sexta). La discordanza tra millesimo e indizione, se spiegata con l'adozione dell'indizione anticipata, consente di collocare il documento tra l'8 settembre e il 31 dic. 1127, cosa che contraddice la data di morte di G. fornita dagli Annales Senenses (24 luglio 1127). Quest'ultima notizia viene tuttavia accolta unanimemente dagli studiosi sia perché è coerente con le altre indicazioni fornite dalla fonte annalistica, sia perché la datazione del documento privato ora menzionato è del tutto ipotetica.
Fonti e Bibl.: Annales Senenses, a cura di J.F. Böhmer, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, XIX, Hannoverae 1866, p. 225; LeLiber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, p. 371; Documenti per la storia della città di Arezzo nel Medioevo, a cura di U. Pasqui, I, Firenze 1899, pp. 431-434, 438-442, 519-573; P.F. Kehr, Italia pontificia, III, Etruria, Berolini 1908, pp. 152-155, 202 s.; Regestum Senense, a cura di F. Schneider, Roma 1911, pp. LXXXVII s., 64; B. Benvoglienti, Trattato de l'origine et accrescimento de la città di Siena, Roma 1571, passim; F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra, III, Venetiis 1718, coll. 540-543; V. Lusini, I confini storici del vescovado di Siena, Siena 1901 (estratto dal Bull. senese di storia patria, V, VII-VIII [1898, 1900-01]), passim; E. Besta, Il diritto romano nella contesa tra i vescovi di Siena e d'Arezzo, in Arch. stor. italiano, s. 5, XXXVII (1906), pp. 61-92; G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsitaliens unter den sächsischen und salischen Kaisern, Berlin 1913, p. 223; R. Davidsohn, Storia di Firenze, I, Firenze 1956, pp. 408 s., 524, 593-599, 604; C. Dolcini, Velut aurora surgente. Pepo, il vescovo Pietro e l'origine dello Studium bolognese, Roma 1987, adind.; J.-P. Delumeau, Arezzo. Espace et sociétés. 715-1215, Rome 1996, ad indicem.