BRIENNE, Gualtieri di
Sesto conte di questo nome, nacque con molta probabilità in Francia, nel feudo avito di Brienne (Aube), nella Champagne, verosimilmente nell'anno 1304 o nell'anno 1305. Infatti il padre aveva contratto matrimonio dopo che la pace di Caltabellotta (31 ag. 1302) lo aveva rimesso in libertà dalla triennale prigionia di guerra in Sicilia e in grado di tornare nelle sue terre di Francia. Un documento del 29 apr. 1319 indica il B. ancora come minorenne. Il padre era Gualtieri V, conte di Brienne e di Lecce, duca d'Atene dal 308; la madre Giovanna de Châtillon, figlia del conte Gualtieri de Porcien e Châtillon, connestabile di Francia per nomina di Filippo IV il Bello.
Dopo la morte di Gualtieri V, che nella battaglia del Cefiso contro la Compagnia catalana aveva perduto con la vita anche il ducato di Atene, la vedova, Giovanna de Châtillon, col figlio bambinetto e la figlia Isabella, dovette fuggire precipitosamente dall'Attica e riparare nei feudi di Terra d'Otranto e a Napoli. Secondo il Davidsohn (Storia diFirenze. IV, p. 1046), il giovane B. fu educato alla corte di Napoli. Da allora quello di duca di Atene fu soltanto un titolo, sul quale qualcuno trovava perfino da sogghignare: "quidam, qui se dicit dux Athenarum" scriveva nel 1326 un informatore al re Giacomo II d'Aragona. Alla famiglia, in Oriente, rimasero solo i possessi di Argo e Nauplia in Morea e qualche terra nell'isola di Cipro; ma del ducato di Atene, conquistato dalla Compagnia catalana e poi passato in possesso degli Aragonesi di Sicilia, la famiglia dei conti di Brienne non tornò più in possesso effettivo, nonostante i vari tentativi da alcuni suoi membri per recuperarlo.
La duchessa madre, Giovanna, cercò di interessare alla riconquista del ducato il papa Clemente V, il re di Napoli, Roberto d'Angiò, e il re di Francia Filippo il Bello. Ne ebbe promesse e scarsi aiuti. Nel novembre del 1312, stando a Napoli, essa aveva istituito tutore dei suoi figli il proprio padre, il connestabile di Francia Gualtieri de Châtillon, che ne aveva dato mandato all'arcivescovo di Napoli, Umberto (A. Duchesne, Histoire de la maison de Chastillon...,Preuves, Paris 1621, p. 212; Gregorovius, Gesch. ... Athen, II, p. 87). La duchessa madre Giovanna non si stancava di chiedere una spedizione armata per rimettere suo figlio nei suoi diritti; ma il papa Clemente V, stretto da Filippo il Bello perché condannasse l'Ordine dei templari, non vedeva di malocchio un rafforzamento momentaneo degli Aragonesi, magari anche ad Atene. Tuttavia, sotto la pressione della duchessa madre Giovanna e di Filippo di Taranto, fratello di re Roberto d'Angiò e, in quanto imperatore-consorte titolare di Costantinopoli, interessato anche lui alle cose d'Oriente, il papa, il 2 maggio 1312, esortò il gran maestro dei giovanniti, dal 1309 stabiliti a Rodi, Folco di Villaret, ad allearsi con la principessa di Acaia, Matilde di Hainaut, per cacciare da Atene la usurpatrice "Societas cathalanorum commorantium in partibus Romaniae". Ma la politica di espansione nell'Egeo che l'Ordine cavalleresco stava conducendo allora lo sconsigliava dal prendere posizione contro i Catalani e contro il re di Sicilia, loro alto sovrano. Speranze erano state poste anche sul progetto di crociata che, per la Pasqua del 1313, avrebbe dovuto unire i re di Francia, di Navarra e d'Inghilterra. Non se ne fece nulla e i Catalani rimasero indisturbati ad Atene.
Con un breve del 14 genn. 1314 il papa si rivolse a Giacomo Il d'Aragona, fratello di Federico III di Sicilia: come sovrano di quei Catalani, il re Giacomo avrebbe dovuto ordinare loro di sgomberare il ducato e restituirlo al legittimo signore. Lo stesso giorno il papa scriveva anche a Niccolò, patriarca latino di Costantinopoli (ma residente a Negroponte, nell'isola di Eubea): il papa era stato sollecitato dal capitano titolare del ducato di Atene, nominato da Gualtieri de Châtillon, perché desse aiuto contro la oppressione dei Catalani, se non restituivano i frutti delle loro rapine e il ducato stesso. Ma il re d'Aragona rispose che egli non aveva alcun potere sulla Compagnia catalana. Morto Clemente V (20 apr. 1314), anche Venezia finì col riconoscere lo stato di fatto ad Atene. Tuttavia, ancora nell'aprile 1318, la duchessa-vedova e suo padre, nell'interesse del minore Gualtieri VI e di Isabella, si rivolsero a Venezia, mandandovi rappresentanti a chiedere aiuto per una loro imminente spedizione contro i Catalani; chiedevano un prestito e navi per il trasporto di truppe a Negroponte e a Nauplia. In caso di successo promettevano alla Repubblica privilegi commerciali e il possesso di tutta l'Eubea. Ma il doge rispose che, secondo dispacci giunti dal bailo veneziano di Negroponte, i vassalli di Argo e di Nauplia (vassalli cioè del B.) si erano accordati con i Catalani, per cui una spedizione colà sarebbe stata un inutile sperpero di danaro.
Secondo il Buchon (Nouvelles recherches, I, p. 31), il tutore e nonno del B., Gualtieri de Châtillon, avrebbe, in un anno non meglio precisato, condotto infelicemente una spedizione contro la Compagnia catalana, ma la notizia non ha alcun fondamento. Ci sono, sì, tre lettere papali degli ultimi mesi di Clemente V, del 14 gennaio 1314 (Reg. Clementis V, nn. 10166, 10167 e 10168), con le quali si autorizza a versare a favore di Gualtieri de Châtillon, che si propone di combattere i Catalani, i redditi provenienti dalla confisca dei beni dei templari già esistenti nel ducato di Atene. Qui potrebbe rientrare anche una notizia, data confusamente dal Caggese (Roberto d'Angiò, II, p. 330), secondo il quale, "poco prima di partire per la Grecia, aveva creduto opportuno il vecchio Gualtieri (ma si deve trattare invece di Gualtieri de Châtillon) permutare con Filippo di Taranto alcuni suoi feudi con territori in partibus Romaniae, per dare consistenza maggiore al suo titolo ducale e alla impresa a cui si accingeva" e ciò con un atto del 4 dic. 1313.Ma re Roberto d'Angiò non volle confermare la permuta, evidentemente nell'interesse del minore Gualtieri: non era il caso di scambiare possessi sicuri con possessi ancora da conquistare.
La spedizione, anche se non compiuta, dovette comportare forti spese e falcidiare le sostanze dei Brienne. Nel 1321, raggiunta la maggiore età, il B. intentò un processo contro la madre, con il fine di non riconoscere i debiti che ella aveva acceso sui beni di famiglia, appunto per sovvenzionare le progettate spedizioni di riconquista del ducato. Ma per sentenza del re Filippo V di Francia, il B. perse il processo: fu obbligato a una transazione, per cui si impegnava a pagare, fino a una concorrenza di 7.000 lire torinesi, i debiti contratti dal padre e dalla madre per recuperare le loro terre d'oltremare; il resto, per un ammontare ignoto, restava a carico della madre, alla quale il B. assicurava un vitalizio sui beni francesi della casata. Negli stessi giorni il duca garantiva una forte rendita alla sorella Isabella, che andava sposa a Gualtieri, signore d'Enghien.
Per ovviare alle continue ristrettezze economiche, il giovane duca pensò anche di fare un buon matrimonio, non fra la nobiltà di Francia, ma fra quella del Regno di Napoli, nel quale è probabile che in quegli anni egli si trattenesse stabilmente. Il Regno di Napoli dava al giovane ambizioso possibilità e occasioni che non poteva offrirgli il feudo di Brienne: di trescare con i principi angioini, tutti, più o meno, impigliati in pretese e ambizioni sul vicino Oriente balcanico, per vedere di realizzare le sue pretese sul ducato paterno. Il suo matrimonio rientra in questa politica. Puntò grosso: sposò sulla fine del 1320 o i primi del 1321 la nipote del re Roberto, Beatrice (non Margherita, come riportano alcuni autori), figlia del fratello del re, Filippo principe di Taranto, già compagno di prigionia in Sicilia del padre del Brienne. Un documento del maggio 1321 lo chiama già "nipote del re". La combinazione matrimoniale era vantaggiosa per le due parti: re Roberto portava alla sua casata le pretese sul ducato di Atene e il B. poteva sperare di assicurarsi un più valido appoggio da parte del re per la realizzazione delle sue pretese.
Divenuto principe-consorte angiomo, non meraviglia che il B., come altri principi angioini in quegli anni, avesse parte nelle cose della Toscana. Firenze, dopo la dura sconfitta toccata ad Altopascio (23 sett. 1325), minacciata sempre più da presso da Castruccio Castracani, signore di Lucca, invocò l'aiuto di re Roberto, in quanto considerato capo e protettore di tutto il guelfismo italiano, e ne elesse il figlio Carlo, duca di Calabria, a signore della città per dieci anni (23 dic. 1325, con decorrenza dal 1º apr. 1326). Egli si fece precedere, come suo vicario, dal B. che nel maggio del 1326 si recò a Firenze, con la moglie angioina e, secondo il Villani, con 400 cavalieri, assoldati per metà da re Roberto, per metà dal Comune di Firenze. Ma i 400 cavalieri indicati dal Villani si riducono, nei documenti contemporanei, a cento cavalieri e 50 fanti.
Nei due mesi e mezzo scarsi di vicariato a Firenze, col titolo di "vicarius et capitaneus ad guerram" il poco più che ventenne B. probabilmente su istruzioni avute da Napoli e col consiglio di due giuristi che gli erano stati affiancati, Giovanni da Giovinazzo "magne regie curie iudex" e Matteo da Lodi "iudex curie Vicarie regni", entrambi "iuris civilis professores, consiliarii, familiares et fideles" di re Roberto e del duca di Calabria - fece presentire quale sarebbe stata la natura della signoria del duca di Calabria: a metà giugno 1326 nominò di suo arbitrio i Priori per il bimestre successivo e soppresse la magistratura del capitano del Popolo: due misure interpretabili soltanto come dettate da sospetti sia verso il gruppo dirigente fiorentino dei popolani grassi, invero mostratisi impari alle esigenze del momento, sia verso il simbolo e il palladio della democrazia fiorentina. Tuttavia, Giovanni Villani, scrivendo non si sa se in questo tempo o a distanza di anni (condannando poi aspramente la signoria del duca d'Atene del 1342-43), esprime un giudizio in sostanza benevolo su questo primo esperimento di governo fiorentino del duca: "seppe reggere la Signoria saviamente, e fu signore savio e di gentile aspetto" (Cron., IX, 351). Non si ha notizia, benché "capitaneus ad guerram", di sue azioni belliche in questi due mesi e mezzo; né se coprisse le funzioni di vicario per qualche tempo anche dopo la venuta del duca di Calabria né quanto si trattenesse a Firenze. È probabile che lasciasse Firenze già nell'agosto del 1326, dato che non figura fra gli alti personaggi che sono testimoni ad un atto importante del 31 ag. 1326 (Bevere, pp. 21-26). Un anno dopo, nell'agosto 1327, cioè mentre il duca di Calabria si tratteneva ancora a Firenze, il B. prese parte alla spedizione militare che il re Roberto mandava, per precauzione, ai confini del Regno, quando Ludovico il Bavaro scese in Italia: presidiò la città di Rieti, luogo strategicamente importante, perché vigilava una delle vie di accesso al reame.
Negli anni successivi il B. si preparò a rivendicare contro i Catalani il ducato d'Atene, da essi tenuto per diritto di conquista, ma, secondo lui, illegittimamente. Per la divisata impresa re Roberto gli misura però gli aiuti: il duca ha progettato di passare il mare per tentare la riconquista nel marzo 1331; il re, con atto del 21 luglio, lo raccomanda a tutti i feudatari che avessero voluto, spontaneamente, accompagnarlo nella spedizione e che in tal modo avrebbero assolto un servizio feudale quale quello dovuto al re; ma non pare che fosse disposto ad arrischiarci nemmeno un soldo. Anche papa Giovanni XXII è disposto a secondare la spedizione: lo raccomanda al patriarca di Costantinopoli, agli arcivescovi di Patrasso e di otranto; concede ai "proficiscentibus ad partes Romanas in auxilium Waltheri ducis Athenarum contra schismatichos invasores et occupatores ducatus sui" le stesse indulgenze che si danno ai crociati in Terrasanta; gli dà il permesso di armare due galere, e perfino di mandare due navi "cum quibusdam mercatoribus ad partes Sarracenorum", probabilmente per lucrarci sopra. Fece di più: con bolla da Avignone del giugno 1330 ordinò al patriarca di Costantinopoli, agli arcivescovi di Patrasso e di Otranto di lanciare la scomunica contro i Catalani, se entro sei mesi non restituivano il ducato di Atene al B., e il 1º luglio 1330 ordinò agli stessi prelati e all'arcivescovo di Corinto di predicare una crociata contro la grande Compagnia dei Catalani. Non nel marzo, ma nell'estate 1331 Gualtieri poté riunire a Brindisi 800 cavalieri francesi e 500 fanti toscani e altre genti d'arme di Puglia. Nell'agosto 1331 sbarcò presso Arta, località veramente molto periferica, se l'obiettivo principale doveva essere Tebe ed Atene, distanti circa duecento chilometri. Non molto poté fare contro i castelli nei quali si rinchiusero i Catalani: un fallimento completo. Vi avrebbe perduto anche l'unico figlio.
Si era indebitato fino al collo in questa impresa sfortunata. Il re Roberto dovette aiutarlo con sussidi straordinari, con la concessione di diritti di mercato nelle sue terre, con la sospensione delle azioni giudiziarie per insolvenza che i creditori avevano intentato contro di lui (Caggese, II, pp. 339-340). Di là dal mare, in "Romania", gli era rimasto solo qualche castello, tenuto da genti sue, in questi anni stremate dalla carestia. Nel 1334 parve che il duca volesse ritentare l'impresa e questa volta d'intesa con la propria suocera, Caterina di Valois, pretendente all'impero di Costantinopoli e rimasta vedova di Filippo principe di Taranto; e così ancora nel 1336. Ma non andò al di là di vaghi progetti senza domani, i quali almeno gli servivano per ottenere facilitazioni dalla Camera regia, per farsi assegnare feudi minori rimasti vacanti e anche per commettere qualche prepotenza sui meno temibili. Alienò anche, in questi anni, il feudo di Castelluccio de' Sauri, troppo lontano dal nucleo centrale delle sue terre nel Leccese.
Fino ad allora pare che il B. si fosse. poco curato dei feudi aviti francesi: di essi si occupava la madre, donna molto pia. Evidentemente il regno di Francia non dava spazio alle sue ambizioni e rivendicazioni quanto il regno di Napoli. Ma quando nell'aprile 1339 si aperse fra Filippo VI di Francia ed Edoardo III d'Inghilterra quel conflitto che prenderà nome di guerra dei Cent'anni, l'animo un po' di avventuriero, sì, ma cavalleresco del duca non fu insensibile ai suoi doveri di vassallo del re di Francia. Nello schieramento francese che, fra il 21 e il 23 sett. 1339, presso Buironfosse, in Piccardia, avrebbe dovuto portare a una battaglia campale, era presente, accanto ai re di Boemia, di Navarra e di Scozia, ai duchi di Normandia, di Borgogna, di Bretagna, di Borbone, di Lorena, anche, ultimo fra i duchi, il duca d'Atene. Ma la battaglia non ci fu, anzi ne seguì una lunga tregua.
Il B. era di nuovo disoccupato e tornava ai suoi disegni orientali. Verso la fine del 1341 è alla corte papale di Avignone per ottenere appoggi a un'altra spedizione nel ducato di Atene da papa Benedetto XII, che tuttavia poco dopo moriva (25 apr. 1342), succedendogli (7 maggio 1342) Clemente VI. Ma gli avvenimenti fiorentini lo sviarono dai suoi progetti.
Il 4 ag. 1341, con la mediazione del marchese Obizzo d'Este, signore di Ferrara, era stato stipulato un accordo, per cui Mastino Della Scala, signore di Verona, Vicenza e Lucca, vendeva alla Signoria di Firenze, per 250.000 fiorini, la città di Lucca e il suo territorio, con tutti i castelli dipendenti, tranne quelli tenuti dal marchese Spinetta Malaspina. Per i Fiorentini era una preda ghiotta: già signori, di fatto, di Arezzo, di Pistoia, di Volterra, con l'acquisto di Lucca avrebbero consolidato la loro posizione egemonica nella Toscana, stringendo da presso Pisa e allungando dei tentacoli verso la Versilia e la Lunigiana. Ma anche i Pisani avevano preso parte alla gara per la vendita di Lucca al miglior offerente; solo che i Fiorentini li avevano preceduti. L'11 ag. 1341 milizie fiorentine prendevano possesso della città. Ma i Pisani erano risoluti a non accettare il fatto compiuto. Già il 22 ag. 1341 Ranieri della Gherardesca di Donoratico "custodie et masnadorum Pisani communis capitaneus generalis", signore di Pisa, insomma, entrava nel territorio lucchese, si impadroniva di vari castelli, poneva l'assedio a Lucca, circondandola con un vallo e bloccandovi la guarnigione fiorentina. Alla metà di settembre (1341) replica dei Fiorentini e dei loro alleati: si attestano sui colli ad oriente di Lucca e riescono a fare entrare nell'Agosta, la fortezza di Lucca, dei rinforzi comandati da Giovanni de' Medici. Un tentativo compiuto dai Fiorentini, il 2 ott. 1341, di rompere il blocco non riesce. Nella primavera del 1342 furono riprese le ostilità dal nuovo capitano dei Fiorentini, Malatesta dei Malatesti di Rimini; ma anch'egli non riuscì a sbloccare la situazione.
A questi combattimenti, dal 9 maggio 1342 in poi, aveva cominciato a prendere parte il Brienne. Ad Avignone, negli ultimi mesi dell'anno precedente (1341), egli era stato avvicinato da mercanti fiorentini ivi residenti, a nome della Balia dei venti, che a Firenze aveva avuto i pieni poteri per la condotta della guerra. Gli fu offerta la carica di capitano generale dei Fiorentini, benché si fosse o si stesse per entrare in trattative per la stessa carica anche con Malatesta dei Malatesti, il quale, infatti, assunse il comando delle forze fiorentine il 1º febbr. 1342, per la durata di sei mesi. Può essere che i mercanti fiorentini avessero agito, almeno in parte, di loro iniziativa o, piuttosto, che le trattative, con il B. e con Malatesta, fossero state condotte parallelamente, data l'urgenza del momento. Una cosa pare certa: che, fino a questo punto, si volesse nel duca d'Atene un capo militare, non un capo politico, non un signore. Avviato da Avignone verso Napoli, Gualtieri passò per Firenze, con un centinaio di suoi cavalieri, e qui accettò formalmente l'incarico militare offertogli, a decorrere dal 1º agosto, data di scadenza dell'ufficio tenuto dal Malatesta. Passò poi nel Reame, a Napoli, ove raccolse altra gente, senza, pare, darne notizia a re Roberto, anzi facendo credere che raccogliesse genti per un altro tentativo sul ducato di Atene. Non pare, tuttavia, verosimile che il re ignorasse questi preparativi e anche il loro vero obiettivo, tanto più che, offrendo il comando militare a un congiunto del re, i Fiorentini miravano a compromettere anche il re e a distoglierlo dalla posizione di disinteresse, in cui si era chiuso di fronte al conflitto tra Firenze e Pisa per Lucca. Tornato con i rinforzi meridionali, il B. prese parte per dieci giorni (9-19 maggio 1342) ai combattimenti sul Serchio contro i Pisani, evidentemente ancora in sott'ordine al capitano generale Malatesta. Vi si fece molto onore, come prode cavaliere, ma i risultati concreti furono nulli: il blocco della città non fu rotto, e il 19 maggio 1342 il capitano generale Malatesta ordinò la ritirata. I Fiorentini chiusi in Lucca erano abbandonati a se stessi; continuarono a resistere per un mese e mezzo ancora. Fu uno smacco enorme per Firenze. Somme ingentissime erano state sprecate inutilmente; la Balia dei venti, espressione del ceto capitalista dirigente, aveva mostrato tutta la sua inettitudine.
Le finanze comunali erano all'asciutto; la crisi finanziaria, da cui erano colpite le principali compagnie bancarie, aveva gettato il panico: i depositanti, fiorentini e stranieri, chiedevano di ritirare i loro depositi. La crisi delle grosse case bancarie coinvolgeva quella dei medi operatori economici e si manifestava in crescente disoccupazione operaia e in un diffuso malcontento contro i responsabili della politica fiorentina, in irritazione per l'orgoglio municipale ferito. L'espediente solito in tali frangenti, l'anticipazione di capitali alle casse comunali attraverso prestiti forzosi (le prestanze) sembrava non realizzabile. Il 22 maggio 1342 il Comune fiorentino rivolgeva un caldo appello a re Roberto perché mandasse rinforzi militari via mare e perché invitasse il duca d'Atene ad accettare la richiesta che il Comune di Firenze gli avrebbe rivolto; un appello, su questo punto, per lo meno superfluo, perché già da due settimane il B. combatteva per i Fiorentini; probabilmente, la Signoria fiorentina intendeva non soltanto ottenere la sanatoria regia per ciò che il duca aveva fatto, ma soprattutto attraverso questo suo congiunto interessare più strettamente il re alle fortune della città.
Prima ancora che giungesse la risposta del re, in adunanza dei Consigli del capitano del popolo e del podestà, tenuti il 31 maggio e il 1º giugno 1342, passò la proposta di conferire al B. il titolo di difensore del Comune di Firenze, di parte guelfa, di conservatore e protettore della città, a partire dal decorso 26 maggio fino al 13 aprile dell'anno venturo (1343); e il titolo di capitano generale della guerra a partire dal 1º ag. successivo (1342), data di scadenza dell'ingaggio di Malatesta, sul conto del quale correvano oscure voci di tradimento. La distinzione fra le due date di decorrenza, 26 maggio e 1º agosto, segna anche la distinzione fra i poteri che il Comune intendeva assegnargli: squisitamente militari dopo il 1º agosto, squisitamente politici interni già da subito. Non era ancora una signoria vera e propria, ciò che risulta, del resto, dal testo del giuramento prestato dal duca il 5 giugno 1342: erano conservate le magistrature consuete, primissima quella dei Priori; tenuta ancora in ufficio perfino la sciagurata Balia dei venti per fare la guerra per Lucca. Ma il 6 luglio 1342 la guarnigione fiorentina di Lucca, abbandonata a se stessa, capitolava e la città passava sotto il dominio pisano. Il fatto suscitò molta commozione a Firenze e furore contro i responsabili, cioè tutto il ceto dirigente fiorentino costituito dall'alta borghesia affaristica. Costoro trovavano comodo di coprirsi sotto il nome del duca e di scaricare su di lui le responsabilità future, fra le quali, inevitabile, quella della pace con Pisa e relativa rinuncia a Lucca. Perciò, con provvisione del 9 e 11 luglio 1342, furono accresciuti i poteri del B., attribuendogli anche le funzioni ordinariamente spettanti al capitano di custodia contro coloro che tramassero per sovvertire e comunque turbare lo Stato fiorentino. Il malcontento popolare cresceva e gli inetti governanti cercavano nel B. un difensore. Le funzioni militari del duca passarono in second'ordine, anche dopo il 1º ag. 1342, quando, scaduta la condotta del Malatesta, ebbe anche i pieni poteri militari. Il sentimento dei ceti più popolari, veramente, avrebbe voluto una ripresa della guerra per Lucca. Ci si aspettava che egli "fiaccasse le corna ai ribaldi Pisani", come si esprimeva il poeta popolano Antonio Pucci.
Ma il B. volse i poteri che gli erano conferiti a tutt'altre mire, ad ampliare e a consolidare la sua autorità sul governo cittadino, innanzitutto nel campo giudiziario con dure sentenze contro i presunti maggiori responsabili dell'infelice esito della guerra per Lucca, con ciò sapendo di venire incontro all'esasperazione delle classi popolari, che reclamavano giustizia, punizioni esemplari. I primi colpiti, con la pena capitale, furono un Guglielmo Altoviti, già capitano fiorentino ad Arezzo, accusato, forse per vendetta privata, di malversazioni nel suo ufficio, e quel Giovanni di Bernardino de' Medici, già capitano dei Fiorentini nella fortezza lucchese dell'Agosta, sospetto di essersi lasciato compiacentemente scappare un nobile aretino della famiglia dei Tarlati di Pietramala, che egli aveva in consegna. Queste misure estreme procurarono al duca facile popolarità: quando cavalcava col suo seguito per la città era acclamato al grido: "Viva il signore!". Non abitava tuttavia, ancora, in Palazzo Vecchio, sede dei Priori, ma presso i frati minori in S. Croce.
Venuta a spirare, probabilmente nell'agosto 1342, la balia conferita ai Venti (contro i quali poi avvierà un'inchiesta per ruberie), il duca si trovò la via spianata anche in questo campo. Ma per conseguire una signoria piena ci voleva il consenso della cittadinanza riunita in parlamento e questo poteva essere convocato solo dai Priori. Ma i Priori in carica riluttavano, mentre a una soluzione dittatoriale spingeva la maggior parte dei membri delle famiglie magnatizie, specie dei Bardi, Frescobaldi, Cavalcanti, Buondelmonti, Adimari, Cavicciuli, Donati, Gianfigliazzi, Tomaquinci, Pazzi "per rompere gli ordini della giustizia che erano sopra i Grandi" (Villani, XII, 3). A questi si univano - mentre erano ordinariamente a loro ostili - gli esponenti delle. grandi compagnie bancarie, del resto tenute anche da magnati, popolani "grassi" come i Peruzzi, gli Acciaiuoli, i Buonaccorsi, i dell'Antella, perché, a mali passi nei loro affari, il duca non li costringesse a soddisfare i loro creditori; ma, anzi, facesse loro accordare una moratoria; e i popolani "minuti" per sete di giustizia e di vendetta contro gli incapaci e i malversatori del danaro pubblico durante la guerra per Lucca. Convergevano dunque a un fine - la signoria intera, illimitata, al duca - motivi molto diversi e anche contraddittori, sostenuti tutti nella speranza che il B., una volta signore, avrebbe risposto alle aspettative. I priori, dopo lunghi conciliaboli notturni con il B., si lasciarono persuadere a convocare il parlamento, ma a patti ben precisi: signoria della durata di un anno e alle stesse condizioni e nei limiti con cui si era esercitata, nel 1326-1327, la signoria di Carlo duca di Calabria.
Ma la mattina dell'8 sett. 1342, quando il parlamento si riunì nella piazza della Signoria, le cose andarono diversamente: il B. si presentò circondato dai suoi armati e da gran parte dei magnati fiorentini, con l'armi sotto le vesti. Uno dei priori, il giudice Francesco Rustichelli, aveva appena cominciato ad esporre alla folla la proposta quando fu interrotto nel parlare; e dalla folla di popolo minuto e di armati prezzolati dai magnati si levò il grido: "Sia la signoria del duca a vita! Sia il duca il nostro signore!" e apertogli compiacentemente il portone di Palazzo Vecchio, il B. vi fu introdotto di peso, mentre i priori erano lasciati a pian terreno, nella camera delle armi. Viene redatto, per mano di notaro, l'atto che proclama il B. signore a vita, con piena balia "quasi una voce" ed il duca dichiara di accettare "humiliter et benigne". Il 10 e l'11 settembre, poi, l'acclamazione a voce di popolo è convalidata dal Consiglio del capitano del Popolo con 192 voti a favore e 7 contro e dal Consiglio del podestà con 158 a favore e 62 contro: numero notevole di oppositori, che forse si spiega col carattere aristocratico-alto borghese del Consiglio del podestà. Mentre in una signoria limitata ad un anno, il consenso poteva essere più generale, intendendosi la signoria come un espediente provvisorio per uscire dalle difficoltà più gravi del momento, la proposta della signoria a vita dovette cogliere di sorpresa gli elementi più riflessivi e meno emotivi e smorzare le illusioni che sembravano diffuse soprattutto, con diverse mire, fra i ceti magnatizi e quelli più popolari, speranzosi che, comunque, il duca avrebbe governato come loro creatura. Il tradizionale, radicale sospetto guelfo contro ogni sorta di signoria non era spento in tutti.
L'ufficio dei Priori non fu soppresso, ma relegato, quasi senza autorità, in una casa privata, mentre il duca si insediava in Palazzo Vecchio. La sua signoria a vita fu riconosciuta, nei seguenti giorni di settembre e nei mesi successivi, anche nelle città che rientravano allora nello Stato fiorentino: Arezzo, Pistoia, Colle Valdelsa, San Gimignano, Volterra.
Una delle prime cure del B. fu di liquidare la questione di Lucca: la pace fu sottoscritta il 9 ott. 1342, ratificata il 13(Mem. e doc. Per la storia di Lucca, I, pp. 338-348). Più tardi, il 6 marzo 1343, il B. la trasformò addirittura in un'alleanza con Pisa-Lucca, impegnandosi a fornire alla "taglia" (lega) 1.200cavalieri, mentre Pisa-Lucca si obbligavano per 800, alleanza che suscitò malumore e sospetto nei guelfi di Firenze e di Toscana piùlegati alla tradizione e memori dei precedenti ghibellini di Pisa. Ai primi di luglio 1343avrebbe, secondo il Villani (XII, 18), stretto una lega con gli Scaligeri; gli Estensi e Taddeo Pepoli, signore di Bologna; ma la cosa non è altrimenti attestata. Si sa, da certe memorie della famiglia Pepoli, che il 18 febbr. 1343, Giacomo, un figlio di Taddeo Pepoli, venne a Firenze e col duca "contrasse non solo lega, ma parentado" D. Velluti, p. 179 n. 5); ma dai dati noti non si riesce ad indovinare quale parentado. Né Siena né Perugia fecero buon viso alle sue proposte di stringere lega con lui, e si mantennero vigilanti. Anche re Roberto non si mostrò entusiasta della fortuna straordinaria del suo vassallo. Informatone dal duca, rispondeva il 22 sett. 1342con una lettera latina (che il Villani, XII, 4, riporta in volgare) nella quale gli ricordava che doveva la signoria non al suoi meriti particolari, ma alla discordia dei Fiorentini e gli raccomandava di governare con giustizia e di non mutare gli ordinamenti fiorentini, deplorando che avesse cacciato i priori dal loro palazzo.
Poco dopo il 20 genn. 1343 Roberto moriva, ciò che inevitabilmente indeboliva la posizione del B. a Firenze. Pare che una diffusa sfiducia circondasse il B. in questa sua avventura fiorentina. Anche l'altro suo signore feudale, il re di Francia Filippo VI, figlio di quel Carlo di Valois, ben noto ai Fiorentini dai tempi di Dante, avrebbe detto in presenza della corte: "Albergé il est le pelerin, mais il y a mauvais ostel" (Villani, XII, 3). Solo il nuovo papa Clemente VI, il 13 genn. 1343, si rallegrava con i Fiorentini per l'elezione del duca.
Il B. vide i pericoli maggiori per il suo dominio nei popolani grassi che avevano avuto il governo della città fino allora e che erano i veri spodestati e a punire i quali, in sostanza, lo aveva chiamato il favore popolare delle classi più basse. Cominciò con l'abolire l'ufficio dei gonfalonieri delle compagnie del Popolo, importante ufficio militare e di polizia politica ad un tempo, una specie di guardia civica, tenuto solitamente da popolani grassi e che poteva riuscirgli pericoloso, dato che egli disponeva di forze proprie non molto numerose (circa 800, cavalieri, ma sparsi anche nel dominio fiorentino), anche perché, avaro com'era, voleva risparmiare sulle spese. Infierisce poi demagogicamente contro quegli elementi grasso-borghesi che si erano compromessi nella guerra di Lucca. Richiamò dal confino a Perugia Naddo di Cenni Rucellai, assicurandogli l'impunità, ma poi lo fece impiccare e intascò i 5.515 fiorini che i mallevadori avevano versato per lui, adducendo che altrettanti il Rucellai ne aveva frodati al Comune nella guerra di Lucca.
Non toccava i magnati, ma nemmeno li favoriva nel suo Consiglio, formato quasi esclusivamente da forestieri. francesi, meridionali, umbri, marchigiani. Tanto meno li favoriva, in quanto erano accresciuti di numero per il rientro, dopo la pace con Pisa, dei fuorusciti, specialmente delle casate dei Bardi, dei Frescobaldi, dei Rossi, dei Pazzi, dei Nerli, e anche di altre casate non magnatizie, imponendo paci "sotto grandissime pene, fortificate poi per riformagioni di comune con altre gravissime pene, e non si truova quasi niuna poi essere, rotta, e chi l'ha rotta n'è stato diserto" commenta il cronista (Velluti, p. 70). È dubbio che avesse revocato veramente gli Ordinamenti di giustizia: l'ipotesi si basa sulla provvisione che li ripristinò, dopo la cacciata del duca; probabilmente, li lasciò inoperanti, non applicandoli rigorosamente. Ma revocati o no, è certo che tenne lontani i magnati, con poche eccezioni, e i popolani grassi dai pubblici uffici, preferendo a loro elementi del popolo minuto. Nei priorati bimestrali che si succedettero fino alla sua cacciata da Firenze non compaiono più esponenti delle ricche casate fiorentine, fino allora predominanti nella più alta magistratura cittadina, ma nomi di oscuri artigiani; fanno eccezione un membro della famiglia dei Velluti, non delle primissime di Oltramo, un dell'Antella, un Acciaiuoli su 35 nomi. Secondo il Villani (Cron., XII, 8) con questi sarebbero stati "mischiati di quegli che i loro antichi erano stati ghibellini", accusa non insolita sotto la penna del cronista guelfo, quando vuole denunciare il salire agli uffici di gente nuova, spesso di origine contadina e soggetta un tempo a signori ghibellini. L'evidente favore dato dal B. alle classi popolari non gli impedì tuttavia di essere duro anche con loro, se avessero osato dargli ombra.
Su questa linea di politica popolare, il fatto più importante e che toccava più nel vivo gli interessi dei gruppi affaristici industriali e commerciali fiorentini fu l'aver consentito che i gruppi di lavoranti soggetti all'arte della Lana (tintori, saponai, ceneraioli, robbiaioli, cimatori, ecc.) ai quali l'Arte aveva sempre vietato di costituire delle organizzazioni di mestiere a sé, formassero una loro associazione distinta, con la quale potessero difendersi dalle esose imposizioni e dalle dure, spietate misure disciplinari dell'arte della Lana, cioè dei grassi popolani capitalisti datori di lavoro. Il 23 novembre il B. accolse una serie di rimostranze e rivendicazioni dei tintori e dei saponai contro i lanaioli (cioè i datori di lavoro), disponendo che fossero retti da tre consoli da loro eletti (vale a dire che si staccassero dall'arte della Lana e costituissero un'Arte a sé): "sint unum et idem corpus, universitas et collegium". L'arte della Lana dovette rassegnarsi: con deliberazione del 26 apr. 1343 consentì che i sottoposti all'Arte (cioè quelli ora organizzati nella nuova arte dei Tintori, Saponai, ecc.) potessero comprare e vendere direttamente ritagli di panni e disporre, tranne per casi di furto e di baratteria, che i sottoposti all'Arte fossero sottratti alla giurisdizione arbitraria del terribile ufficiale forestiero dell'Arte e giudicati, invece, dai consoli dell'Arte. Istituì anche un nuovo ufficio a protezione delle classi popolari col nome di Avvocato dei poveri, del quale si ha notizia solo attraverso il cronista D. Velluti (p. 162) che ne fu il primo ed ultimo titolare.
I popolani grassi erano quelli che più erano colpiti dalle imposizioni fiscali del duca. Fece fare un nuovo estimo che gli portò 80.000 fiorini. Impose prestiti forzosi in un momento delicato di congiuntura economica; sottrasse i redditi delle gabelle a quei ricchi cittadini che avevano anticipato grosse somme al Comune per un totale di 350.000 fiorini durante la guerra di Lucca e che si venivano rimborsando del prestito fatto con gli introiti delle gabelle. Il duca si appropriò degli introiti di queste gabelle, promettendo di rimborsare gli usufruttuari delle gabelle creditori del Comune con la cessione di altre gabelle, purché non superassero all'anno il 7% delle somme prestate, evidentemente un interesse troppo basso per gli ingordi prestatori fiorentini. Nei dieci mesi e mezzo della sua signoria, il B., soltanto da Firenze e contado, senza contare le altre città e terre soggette, avrebbe tratto, secondo il Villani, quasi 400.000 fiorini, dei quali - tolte le spese - ben 200.000 avrebbe tenuto per sé, mandandoli nelle sue terre di Puglia e di Francia. La somma, se vera, è altissima, toccando le vette della massima capacità tributaria di Firenze in un anno. A parte le somme che avrebbe distratto per suo utile personale, il grosso delle spese da lui fatte a Firenze consisteva non tanto nell'assoldare truppe - di solito la spesa maggiore nei Comuni italiani di questi tempi - perché su questo punto era piuttosto tirchio; ma in costruzioni pubbliche e principalmente in fortificazioni non tanto contro nemici esterni, quanto piuttosto per soffocare sul nascere interne ribellioni. Castruccio Castracani aveva fatto scuola a Lucca con la costruzione dell'Agosta. Così sulla piazza della Signoria intendeva elevare una vera e propria fortezza, ciò che Palazzo Vecchio propriamente non era. Progettò anche di costruire castelli a San Casciano e a Capolona.
Alla pressione tributaria del B., che trovava un espediente anche nel commutare in forti pene pecuniarie pene ben più gravi, a vita e al bando, erano da aggiungere le malversazioni dei suoi dipendenti, molti dei quali francesi. Si erano fatti una brutta fama specialmente il vicario e podestà, un perugino della nobile famiglia dei Baglioni, e il suo braccio destro, Guglielmo d'Assisi, il cui fratello, vescovo di Assisi, era poi il cancelliere del duca, e venale anche lui; e pure umbro, come i precedenti, era il giudice Simone da Norcia, che avrebbe dovuto controllare anche l'amministrazione del Comune; era così corrotto che lo stesso duca dovette cassare alcune sue sentenze. Il B. governava dispoticamente, radunando di rado o mai i consigli del Comune: si ha notizia, molto lacunosa del resto, soltanto di quello dell'11 apr. 1343, il quale, sotto la pressione del duca, e non certo di propria spontanea iniziativa, chiedeva in nome del Comune di Firenze a papa Clemente VI che investisse il B. della provincia di Romagna. La richiesta, che il papa respinse, è probabilmente da collegare con la stretta amicizia del B. con Taddeo Pepoli signore di Bologna. Stranamente in questo consiglio, che enumera ben 226 nomi, non figurano nomi del popolo minuto, di quel bon peuple che il duca aveva sempre in bocca e che patentemente favoriva. Ma, evidentemente, per fare presa sul papa di Avignone, non ci si poteva presentare come esponenti della volontà dei "minuti", bensì di coloro che specialmente ad Avignone, in corte papale, erano considerati i veri rappresentanti della città di Firenze. Tranne che in questa occasione, il B. si era circondato di un suo consiglio ristretto, composto di forestieri, anche della sua contea di Lecce, quale il vescovo Giovanni; di Fiorentini non c'era che un Cerettieri, membro malfamato della illustre famiglia dei Visdomini.
Dopo dieci mesi la signoria del B. aveva dato tutto quello che di positivo aveva potuto dare: soprattutto la pace con Pisa, che la grassa borghesia che aveva condotto la guerra insipientemente non sapeva concludere, se non riconoscendo il fallimento della propria politica; e questo poté fare il B., che non ne era responsabile. Ma raggiunto ciò, esaurita la principale sua funzione, il duca diventava non solo superfluo agli occhi del tradizionale ceto dirigente fiorentino, ma molesto, indisponente, intollerabile. In realtà, la signoria del B. era stata concepita, dai proponenti del gruppo compromesso nella guerra di Lucca, come una soluzione provvisoria, contingente; solo le mire rivendicative dei magnati e il favore popolare ne avevano fatto un governo a vita.
Indipendentemente e all'insaputa l'una dell'altra si formarono tre congiure: una, di ispirazione e partecipazione eminentemente, magnatizia, col vescovo Angelo Acciaiuoli ed esponenti delle famiglie Bardi, Rossi, Frescobaldi, ma anche col concorso di ricche famiglie popolane, Altoviti, Magalotti, Strozzi; una seconda, con membri di altre famiglie magnatizie (Donati, Pazzi) e popolani grassi (Cavicciuli e Albizzi); e una terza principalmente grasso-borghese (Medici, Rucellai, Bordoni, Aldobrandini ma anche Adimari, magnati). Ma non si possono caratterizzare socialmente le tre congiure se non nel senso che non vi parteciparono elementi delle classi medie e inferiori. Le tre congiure, ignorandosi a vicenda, tentarono approcci anche al di fuori, con Senesi, Pisani, Perugini, con alcuni dei conti Guidi, e progettarono vari piani per togliere il duca di mezzo; ma il B. era sospettoso e, mutando all'ultimo momento i movimenti della sua giornata, scombinava i piani dei congiurati. La terza congiura che sembra la meglio organizzata e la più efficiente fu anche quella che il duca scoperse per la denuncia di Francesco Brunelleschi, non congiurato, ma che ne aveva avuto confidenza da uno dei congiurati. Fatti degli arresti il 18 luglio 1343, il B. ebbe la conferma della terza congiura e ne fece tradurre in Palazzo Vecchio il capo, Antonio di Baldinaccio degli Adimari. Questo bastò per porre lo scompiglio fra i partecipanti delle tre congiure, che si credettero scoperti: molti fuggirono. Il B., sospettando l'ampiezza della congiura, non osò mandare a morte i compromessi che già aveva in mano, o, piuttosto, pensò di accrescere la retata, convocando in Palazzo Vecchio per consiglio gli esponenti delle più grandi e ricche casate fiorentine e una volta avutili raccolti, di troncare con un taglio solo la congiura. Almeno, questo il piano attribuitogli dal Villani (XII, 16). Ma questa convocazione insolita in Palazzo Vecchio mise in sospetto i congiurati di tutte e tre le congiure e diede loro l'occasione di scoprirsi reciprocamente e di sentirsi assai più forti di quanto, isolatamente, ognuno dei tre gruppi pensasse. Il timore delle vendette del duca li fece alleati.
Il 26 luglio 1341 provocata ad arte una zuffa fra soldati, la popolazione si armò secondo era solita, contrada per contrada, e alzò barricate, specialmente nel sesto di Oltrarno. Gli armati del duca furono colti di sorpresa nei loro alloggiamenti sparsi nella città; e solo pochi, circa 300, poterono riunirsi in piazza della Signoria a difesa del duca. Ma anche altri, fra quelli che più avevano goduto i favori del B., ignari della congiura, accorsero in sua difesa: alcuni dei Buondelmonti, alcuni degli Acciaiuoli (nonostante che il loro congiunto, il vescovo, fosse fra i congiurati), alcuni dei Cavalcanti, dei Peruzzi, dei della Antella e "certi scardassieri e alcuni beccai, gridando: Viva il signore lo duca!" (Villani, XII, 17). Ma vistisi in pochi o ripiegarono o addirittura fecero causa comune con i rivoltosi. Il B., stretto in Palazzo Vecchio, vi ritenne i priori, pensando di farsene uno scudo, insieme con quei pochi congiurati che aveva potuto avere in mano. Ma la popolazione in armi chiuse tutti gli accessi alla piazza ed ebbe presto ragione degli armati del duca, sicché costui, sbarrate le porte, rimase bloccato in Palazzo Vecchio, mentre la folla in armi dava l'assalto al palazzo del podestà, dove il podestà Baglioni fu salvato dalla protezione degli Albizzi, abitanti li presso. Riunitisi con quelli di Oltrarno, gli armati che bloccavano Palazzo Vecchio erano un migliaio di gente a cavallo e un diecimila a piedi. La gente minuta stava a vedere, senza prendere le parti del duca. Nella notte fra il 27 e il 28 giunsero loro rinforzi senesi, 300 cavalieri e 4.000 balestrieri, e altri soccorsi ancora, anche di gente della campagna. La partita non era ancora decisa, quando il 28 luglio nel duomo si tenne un grande parlamento, che nominava il governo provvisorio che doveva sostituire quello del duca, non ancora deposto, però: un governo di quattordici cittadini, sette magnati e sette popolani (non però di gente minuta) con balia fino al 1º ott. 1343. Continuavano intanto le trattative fra il B. e i rappresentanti degli insorti. Finalmente il 1º agosto il B. cedette, rinunciando ad ogni potere sulla città e sulle terre soggette. Per sottrarlo al furore popolare, fu trattenuto ancora alcuni giorni nel palazzo; poi, nella notte fra il 5 e il 6 agosto, fu scortato fino al castello di Poppi dei conti Guidi nel Casentino, dove il conte Simone lo costrinse a rinnovare l'atto di rinuncia. Il castello di Poppi non era dominio fiorentino; così si dava l'apparenza di atto scevro da ogni costrizione o intimidazione a quello sottoscritto a Firenze il 1º agosto, che poteva essere impugnato come sottoscritto sotto l'impero della forza.
Il B. fu bene accolto a Bologna da Taddeo Pepoli, ciò che provocò le rimostranze, dei Fiorentini e qualche nuvola nei rapporti fra le due città. Di lì passò a Venezia e poi, per mare, in Puglia, lasciando, secondo il Villani (XII, 17), molto malumore fra i suoi, non avendo pagato loro gli stipendi. Recatosi a Napoli, sperava di trovare appoggio per le sue rivendicazioni contro il Comune fiorentino, nel senso di un indennizzo adeguato ai cessati introiti che la signoria a vita gli aveva assicurato. Dapprima la regina Giovanna I mostrò di interessarsi alla sfortuna del B., intercedendo per lui presso il Comune. Ma il Comune, a contrastare le manovre del B., mandò a Napoli un'ambasceria, la quale, mercé il concittadino Niccolò Acciaiuoli, già potente a corte, poté ottenere che le proteste del duca fossero di fatto lasciate cadere. Allora passò in Francia, sperando nell'appoggio del papa Clemente VI e del re Filippo VI. Ma anche ad Avignone fu preceduto dai Fiorentini, i quali, fino dal 20 ag. 1343, avevano presentato le cose come loro piaceva, cercando soprattutto di discolpare il vescovo Angelo Acciaiuoli per avere capeggiato una delle congiure contro il duca. Nel marzo 1344 nuova ambasceria, questa volta col vescovo Acciaiuoli, che ebbe buone accoglienze e anche l'appoggio di diversi cardinali. Il papa si mostrò arrendevole e disposto a combinare un compromesso. Ma il B., visto che alla Curia trovava ostacoli, si rivolse al re di Francia, che ne prese le difese, scrivendo, il 19 sett. 1344, una lettera alla Signoria e chiedendo l'invio a lui di un'ambasceria e inviando poi egli stesso, nel febbraio 1345, due suoi emissari a Firenze. Nel frattempo (11 dic. 1344) la Signoria di Firenze aveva proceduto a un atto che, in definitiva, suonava sfida anche al re di Francia: per ritorsione, aveva messo una taglia di ben 10.000 fiorini sulla testa dei Brienne. Alle richieste del re di Francia la Signoria rispose infine con l'invio di emissari suoi, che non furono trovati degni di essere ricevuti dal re, perché non muniti di pieni poteri. Le trattative giunsero in un vicolo cieco; sicché il B. ottenne dal re (febbraio 1346) che gli concedesse il diritto di rappresaglia contro i Fiorentini nel regno di Francia, se entro il mese di maggio (1346) non fosse stato soddisfatto nelle sue pretese di indennizzo. La minaccia era grave. La Signoria propose di demandare la questione a un giudizio arbitrale. Non se ne fece nulla. Col 1º maggio 1346 furono applicate in Francia le rappresaglie minacciate. Non è detto quale fosse la somma pretesa dal duca: "infinita, quantità di moneta" dice il Villani (XII, 57). Né si sa se e quanta parte delle somme estorte per rappresaglia ai Fiorentini residenti in Francia finissero nelle tasche del Brienne. Il papa Clemente VI invano intervenne a favore dei Fiorentini. Le rappresaglie furono tolte solo nell'agosto 1351 dal successore di Filippo VI, Giovanni II. Con ciò erano finite, dopo otto anni, le diatribe fra Firenze e il Brienne.
Nel 1352 il B. tornò in Italia, probabilmente con la seconda moglie, Giovanna di Brienne d'Eu. Nei torbidi, in cui viveva in quegli anni il Regno di Napoli, egli correva il rischio di perdere i suoi feudi, perché su questi aveva posti gli occhi il potente Filippo de la Rath, conte di Caserta, figlio di quel Diego de la Rath, uomo d'arme catalano, che aveva raggiunto le più alte cariche sotto Roberto d'Angiò; il quale Filippo de la Rath era sobillato, pare, contro il B. da Luigi principe di Taranto, cognato del duca e dal già onnipotente siniscalco, il fiorentino Niccolò Acciaiuoli. Il B., che era giunto dalla Francia con una scorta di cavalieri, difese vigorosamente i suoi feudi in Terra d'Otranto e nel maggio 1352 strinse i suoi nemici in Taranto; ma, non aveva i mezzi per conquistare una fortezza munitissima, quale era Taranto allora. Si volse allora contro Brindisi, dove imperversava un vero masnadiere, Filippo della Ripa, che aveva espulso dalla città la fazione rivale dei Cavalieri, perseguendoli con enormi atrocità. Ma il della Ripa, chiuso in Brindisi senza via di salvezza, ebbe l'idea di convocare gli abitanti e di convincerli ad arrendersi non al duca d'Atene, ma al cognato, il principe Roberto di Taranto, fratello di Luigi. Fra i due fratelli non correva buon sangue; il B. si appoggiava piuttosto a Roberto che a Luigi, che era divenuto re-consorte della regina Giovanna. Tuttavia ottenne che i due fratelli facessero guerra a Filippo de la Rath (estate 1353); ma fu un fallimento, ché anzi il conte di Caserta si riprese e scorrazzò a suo agio per la Terra di Lavoro, fino alle porte di Napoli. Disperato della situazione del Regno, nel 1355 il B. lasciò la Puglia, dopo avere fondato in questi anni (1352) a Lecce il convento e la chiesa, poi basilica, di S. Croce, ricostruita nei secc. XVI-XVII in stile barocco.
Tornato in Francia nei suoi feudi aviti, trovò il regno immerso in uno dei momenti più difficili della guerra contro gli Inglesi. Il re Giovanni II convocò gli Stati generali (1355), nei quali il B. fu l'oratore della nobiltà. L'anno dopo, 6 maggio 1356, era nominato connestabile di Francia e come tale cadeva da prode nella battaglia di Poitiers (19 sett. 1356). Il Villani parla della sua morte senza rancore; ma il Boccaccio (De casibus virorum illustrium, lib. IX) lo fa morire per la freccia di un arciere fiorentino combattente nelle file inglesi, mentre tentava ignominiosamente di salvarsi con la fuga. Giovanni Villani (XII, 8), che lo conosceva bene, così lo descrive nel fisico, dopo averlo maltrattato nel morale: "piccoletto di persona e brutto e barbacino e parca meglio greco che francese, sagace e malizioso molto".
Nell'insieme, una figura storica di non grandissimo rilievo, uno dei tanti, mezzo cavalieri e mezzo avventurieri, che formicolavano, con grandi ambizioni e scarsi risultati, attorno alle spoglie dell'Impero latino d'Oriente, dopo che questo cadde, nel 1261, se non fosse stata la straordinaria fortuna che l'aveva portato alla signoria di Firenze, la città più ricca d'Europa in quel tempo, che egli non ebbe altro pensiero che di mungere quanto meglio poteva, suscitando ad un tempo l'ammirazione e l'invidia del mondo cavalleresco a cui apparteneva. La base contraddittoria, magnatizia-popolare su cui si fondava il suo governo non poteva durare a lungo: la ricchezza di Firenze, anche se momentaneamente compromessa dalla crisi delle compagnie bancarie, era pur sempre dovuta a quella classe di capitalisti, industriali e mercanti, che il duca aveva voluto estromettere dal governo. Né i magnati né tanto meno i "minuti" avevano le idee, la capacità, lo spirito di intraprendenza per sostituirli, come mostrerà, venticinque anni dopo, il tumulto dei Ciompi.
I contemporanei, Giovanni e Matteo Villani, Marchionne di Coppo Stefani, il Boccaccio, danno già una interpretazione della figura del B., quale tiranno giustamente sbalzato di seggio, che rimarrà nella storiografia fiorentina e non fiorentina, senza attenuanti, benché una ce ne fosse - Giovanni Villani vi accenna - ed era che il tiranno in casa ce l'avevano voluto i Fiorentini stessi. Il sentimento popolare verso il tiranno caduto è espresso da Antonio Pucci e da altri poeti popolari: maestro Paolo dell'Abbaco, Saviozzo da Siena, ecc. Dai contemporanei l'opinione vulgata sul duca è passata al Machiavelli, che gli dedica ben cinque capitoli del libro II delle Storie fiorentine (e un cenno nei Discorsi, libro III, cap. VI a proposito del modo errato tenuto dal duca nel soffocare la congiura) ed è giunta sostanzialmente fino ai nostri giorni. È significativo che al principio del granducato mediceo, spente le libertà democratiche fiorentine, un padre camaldolese, Silvano Razzi (Vite diquattro uomini illustri Firenze 1580), collochi accanto a Farinata degli Uberti, a Salvestro de' Medici e a Cosimo il Vecchio anche il duca d'Atene. Nell'800 risorgimentale la figura del B. è stata resa popolare dalla diffusissima Storia delle repubbliche italiane del Sismondi, dalle vivaci scene romanzate del Tommaseo (1837) e soprattutto dal celebre quadro di Stefano Ussi (1860).
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