GUARIENTO di Arpo
Sono assai scarse le notizie sulla vita di questo pittore, originario di Padova, la cui attività è documentata a partire dal quarto decennio del XIV secolo.
Il primo documento che lo riguarda è del 9 luglio 1338, quando fu presente a una riunione del capitolo degli eremitani (Flores d'Arcais, 1996, p. 130). Nel documento, conservato presso l'Archivio di Stato di Padova e già noto da tempo (Moschini, 1826, p. 16; Flores d'Arcais, 1965, p. 50), sono ricordati elementi di primaria importanza, come il fatto che G. è dichiarato nativo di Padova. Dell'artista è resa nota, qui, anche la paternità dal momento che egli è ricordato come figlio del fu Arpo. Inoltre, è interessante notare che G. risiedeva in piazza dei Legni, corrispondente all'attuale piazza Cavour, sita a non grande distanza dal duomo (Padova. Case e palazzi…, pp. 22 s.); e in più di un documento, G. viene detto abitante a Padova, in contrada del duomo (Flores d'Arcais, 1965, p. 50). Sebbene assai poco sia rimasto della Padova duecentesca, è sopravvissuta una casa torre proprio all'angolo di piazza Cavour con via S. Andrea (ibid.), databile verso gli anni Ottanta del XIII secolo e poi, successivamente sopraelevata, perfettamente compatibile con l'arco cronologico percorso dalla vita del pittore. È impossibile dimostrare che quella sia la casa di G., tuttavia è importante notare che nella zona in questione dovettero sorgere alcuni dei fondachi dei panni che costituivano l'ossatura dell'economia padovana (L. Rizzoli, L'università della lana, in Boll. del Museo civico di Padova, III [1927], p. 180; S. Bettini - G. Lorenzoni - L. Puppi, Padova. Ritratto di una città, Vicenza 1973, p. 113), pertanto l'area urbanistica nella quale risiedeva G. doveva essere caratterizzata da questo tipo di attività tenuto in gran pregio. Poiché in un documento dell'8 giugno 1354, nel quale G. stipulava un atto di acquisto di terre nella zona di villa Baone, il padre dell'artista, Arpo, è ricordato con l'appellativo di "dominus", titolo che conferisce alla famiglia del pittore la realtà di uno stato sociale piuttosto agiato (Flores d'Arcais, 1965, p. 51), è possibile ipotizzare che l'ambiente di provenienza di G. fosse legato all'arte della lana.
Al contrario, recentemente, F. Flores d'Arcais (1996, p. 130) ha avanzato l'idea che G. sia nato a Piove di Sacco, sempre nel Padovano. L'ipotesi viene proposta in relazione alla vendita da parte del pittore, documentata il 3 ott. 1352, di terre e di una casa site in quella località (Flores d'Arcais, 1965, p. 51). Tuttavia, il fatto che l'artista nella gran parte dei documenti sia ricordato come "de contrata Domi" e mai si faccia riferimento alcuno a un'origine diversa da quella della città di Padova, lascia piuttosto aperte due possibilità: che il contratto di vendita riguardi beni legati alle origini più antiche della famiglia, oppure che si tratti di possedimenti acquisiti dal pittore nel corso della sua carriera.
Per quanto riguarda la data di nascita non si hanno documenti di alcun genere; e la sua collocazione intorno al 1310, in genere accolta da tutti gli studiosi (Thieme - Becker), è semplicemente basata sul computo a ritroso dell'età in virtù del titolo di "magister" con cui G. viene fregiato nel documento del 1338. G. doveva perciò a quell'epoca essere un artista formato e, per conseguenza, almeno quasi trentenne. Tuttavia, nulla vieta che G. fosse addirittura più anziano, si ponga, di dieci anni. Uno spostamento all'indietro di dieci anni della data di nascita, infatti, si sposerebbe assai bene con la presenza a Padova di due significativi esponenti della pittura riminese della prima generazione: quel Giuliano e quel Pietro da Rimini che intorno al 1324 lavorarono nella chiesa degli eremitani, dove avrebbe poi operato G., il cui ambito stilistico di riferimento fu evidentemente quello giottesco, mediato verosimilmente attraverso un apprendistato di bottega. D'altro canto, dalla sua prima opera nota, la Crocestazionale del Museo civico di Bassano del Grappa, G. pare titolare di uno stile ampiamente formato e di grande qualità, che riprende, nell'impostazione monumentale e nella solidità plastica, quello di Giotto.
L'opera, firmata alla base della croce, è accompagnata da una scritta dedicatoria nei confronti della committente Maria dei Buvolini, la quale s'ispirava ("emulatrix") a Gesù in quanto modello morale e religioso. Gli studi sulla famiglia bassanese dei Buvolini hanno indicato come probabile data per l'opera il 1332 e non più il 1340 (Flores d'Arcais, 1996, p. 130; Il Museo civico di Bassano del Grappa, 1978, p. 67).Tuttavia, proprio alla luce di questa nuova datazione appare sempre più difficile individuare nel 1310 la data di nascita di G., che avrebbe così realizzato la croce all'età di soli ventidue anni. Più consona alla maturità dimostrata sarebbe, invece, un'età di trentadue anni, che farebbe anticipare la data di nascita al 1300.
Il già ricordato documento del 1338 lascia supporre un'attività connessa, in quel periodo, alla committenza degli eremitani. È possibile che G. stesse lavorando magari a un'opera minore, per esempio l'Annunciazione, distrutta con i bombardamenti del 1944, oppure le Storie dei santi, di cui sono rimasti lacerti affrescati nei sottarchi della seconda cappella di destra della chiesa degli eremitani, come del resto prudentemente propone F. Flores d'Arcais (1965, pp. 60 s.).
Tuttavia, l'opera capitale di questa prima fase del percorso pittorico di G. è da individuare nel Polittico dell'Incoronazione, conservato a Pasadena (Norton Simon Museum).
La pulitura della tavola eseguita intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento ha permesso di rimuovere la scritta ottocentesca ed evidenziare quella originaria, sita alla base della tavola centrale, che reca la data, 1344, e il nome del committente, l'arciprete di Piove di Sacco, Alberto (Flores d'Arcais, 1965, p. 75; Id., 1996, p. 130).
L'opera mostra con grande evidenza la consapevolezza di una scelta stilistica di marca giottesca, che si esplicita nella ripresa del modello del crocifisso padovano o riminese del fiorentino e nell'impiego di architetture dal solido impianto prospettico. Il polittico, con al centro l'Incoronazione della Vergine e sulla cimasa soprastante la Crocifissione, ha per tema le storie di Cristo e della Vergine. Al di là della cesura costituita dalla scena centrale dell'Incoronazione e della Crocifissione che divide l'Annunciazione, dipinta nelle due cimase laterali, il verso di lettura rimane quello tipico da sinistra verso destra. Così, a sinistra si trovano la Natività e l'Adorazione dei magi; mentre, a destra, sullo stesso registro G. ha dipinto la Presentazione di Gesù al tempio affiancata, con un grande salto temporale, alla Lavanda dei piedi. Sul secondo registro, a sinistra, sono il Bacio di Giuda e la Flagellazione; a destra la Deposizione e la Discesa al limbo. Nel terzo registro, infine, si aprono le scene del Noli me tangere e dell'Ascensione a sinistra; mentre a destra si trovano quelle della Pentecoste e del Giudizio universale. Come è già stato rilevato (Flores d'Arcais, 1965, p. 17), se l'iconografia del polittico è di sicura derivazione giottesca, alcune delle storiette fanno rilevare una vicinanza stilistica con Pietro da Rimini (D. Benati, Pietro da Rimini, in Enc. dell'arte medievale, IX, Roma 1998, p. 409) e ripropongono così la problematica della formazione di Guariento.
Per il resto, il catalogo delle opere di G. risulta tuttora condizionato dalla scarsità di documenti, che obbliga ad adottare una metodologia legata eminentemente al metro stilistico per ricostruire il corpus e la successione cronologica. In particolare, l'autografia della Croce stazionale della chiesa di S. Francesco a Bassano del Grappa, dopo la pulitura del 1965, può considerarsi senz'altro acquisita. I confronti con la menzionata Croce dipinta per la famiglia Buvolini e con l'altra conservata al Fogg Art Museum di Cambridge (MA) non paiono lasciare adito a dubbi. Tuttavia, rivelano una chiara derivazione dai modelli giotteschi (per esempio la Croce stazionale dei Musei civici di Padova) che depone per una cronologia vicina alla metà degli anni Trenta del XIV secolo, anche in virtù della riveduta datazione della Croce Buvolini.
Quasi certamente databile al 1351, invece, è la scena dell'Incoronazione della Vergine cui si affiancano le figure, verosimilmente, dei due committenti inginocchiati.
Proveniente dalla chiesa di S. Agostino a Padova, l'opera è quanto rimane della distrutta tomba di Giacomo da Carrara, signore della città dal 1345 al 1350; il monumento fu ricostruito nella chiesa degli eremitani, dopo la distruzione della sede originaria nel 1820. Sulla parete inquadrata dall'arco, si scorgono gli affreschi attributi a G. da Michiel (p. 80). Accettata da tutta la critica, l'attribuzione gode di chiari riscontri stilistici con i rovinatissimi affreschi del Paradiso del palazzo ducale di Venezia, su cui si tornerà più avanti. Tuttavia, la datazione della tomba carrarese è assai precedente, come chiarisce un documento, già pubblicato da Biscaro, dove un pagamento ad Andriolo de' Santi il 26 febbr. 1351 ingiungeva di ultimare la sepolture per l'aprile seguente "sub poena sol. centum denar. parv.". Nondimeno, i riscontri stilistici indicano già contatti con la cultura artistica veneziana, oltre a una conoscenza delle soluzioni stilistiche comuni nella valle dell'Adige. Per questo motivo si colloca prima della realizzazione dell'affresco della tomba e prima del 1348, anno dal quale G. risulta stabilmente a Padova, la stesura del distrutto ciclo di affreschi della chiesa di S. Domenico a Bolzano (Flores d'Arcais, 1965, p. 23).
Per motivi stilistici successive alla decorazione della tomba di Giacomo da Carrara, le celeberrime tavolette con le Gerarchie angeliche (Padova, Musei civici), le cui misure si aggirano, in media, intorno al metro d'altezza e ai 60 cm di larghezza, sono da collocarsi intorno alla metà degli anni Cinquanta del Trecento.
L'insieme proviene, infatti, dalla cappella della reggia carrarese (attuale sede dell'Accademia patavina), ultimata nel 1345. Si è anche pensato che la decorazione potesse essere stata realizzata in occasione della visita di Carlo IV di Lussemburgo, che giunse a Padova nel 1354 e che quindi potrebbe costituire un terminus ante quem (Gasparotto, pp. 100 s.).
L'ipotesi cronologica è compatibile con i mosaici del battistero di Venezia, realizzati fra il 1344 e il 1354, sotto il dogato di Andrea Dandolo, quando la Serenissima si rivolse con decisione verso Terraferma (sul significato dei mosaici: T. Verdon, Il battistero: arte e teologia, in La basilica di S. Marco. Arte e simbologia, Venezia 1993, pp. 73-88). Il legame tra i quadri delle Gerarchie angeliche e i mosaici veneziani, però, va ben al di là di una semplice congruenza stilistica e cronologica, in quanto, verosimilmente questi ultimi furono il modello iconografico di riferimento. In particolare, a differenza di quanto sostenuto da F. Flores d'Arcais (1965, p. 6), il ciclo di G. non è mutilo della gerarchia dei serafini; ma nelle Gerarchie angeliche di G. l'iconografia prescelta, diversa dalla descrizione di Isaia (6, 1-4), è perfettamente compatibile con il mosaico veneziano. I serafini del battistero sono infatti angeli con due sole ali seduti su un basso sedile di pietra, che tengono uno scettro in mano e della cui identità non si può dubitare perché un cartiglio la dichiara senza incertezze (M. Bussagli, Storia degli angeli. Racconto di immaginie di idee, Milano 1991, pp. 292-295). Inoltre, anche le altre iconografie coincidono perfettamente con il modello veneziano. L'unica reale differenza è che la gerarchia dei principati in armi, da G. è rappresentata in piedi; mentre quella del battistero veneziano mostra l'angelo seduto. La decorazione della cappella della reggia carrarese si completava, nel soffitto, con le tavole, pure conservate nei Musei civici di Padova, che mostrano il busto del Redentore, la Vergine con il Bambino e il S. Matteo (unico superstite della serie), e poi, alle pareti, con una serie di affreschi, sempre di G., di cui rimangono oggi ampi lacerti, restaurati fra il 1964 e il 1965. Non si è certi tuttavia sul numero delle tavole che dovevano comporre la decorazione del soffitto visto che, oltre al corpus dei Musei padovani, alcune si trovano in collezioni private e altre nel Museo statale di arte medievale e moderna di Arezzo. Alle pareti della ex cappella, sopra una zoccolatura a finti archetti e a finta cornice architettonica, stanno, disposte su due registri, scene tratte esclusivamente dall'Antico Testamento e disposte a narrazione continua. Nella fascia superiore compaiono Noè benedetto dal Signore, L'ebbrezza di Noè, I tre angeli e Abramo sotto la quercia di Mambre, L'incendio di Gomorra, La moglie di Lot diventa statua di sale, Il sacrificio d'Isacco, Beniamino annuncia a Giacobbe la morte di Giuseppe, Giuseppe venduto. Nella fascia inferiore si hanno Un guerriero, Iocheheb e Mosè fermati dalla guardia del faraone, Ezechiele e il carro di fuoco, I tre fanciulli nella fornace, I tre fanciulli salvati dall'angelo, Giuditta uccide Oloferne. Si aggiungano poi due frammenti staccati con la Creazione di Adamo ed Eva e Giuseppe davanti al faraone. Un'idea di come dovesse apparire la cappella nel suo stato originario ci viene dalla più volte edita Descrizione delle pitture, sculture e architetturedi Padova (Padova 1765, p. 292) di G.B. Rossetti, che vide l'ambiente prima della sua quasi completa distruzione.
Entrato anche nell'orbita delle committenze della Serenissima, G. fu chiamato nel 1361 a realizzare la tomba del doge Giovanni Dolfin (1356-61) nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. Purtroppo dell'opera non rimangono che frammenti pittorici quali le figurette allegoriche a monocromo che rappresentano le virtù, come la Fortezza, angeli e un nervoso serto di fiori (Flores d'Arcais, 1965, p. 28). Documentato a Padova già nel 1364 (ibid., p. 51), G. doveva già attendere all'altra grande opera che segnò la sua carriera: gli affreschi dell'abside e del presbiterio del complesso degli eremitani, cui collaborò anche il pittore Nicoletto Semeticolo che aveva accompagnato il maestro dopo il soggiorno veneziano (Coletti, 1930, pp. 323-380).
Andati completamente distrutti nel bombardamento del 1944, gli affreschi dell'abside sopravvivono soltanto nelle antiche fotografie della Soprintendenza, sufficienti però a documentare l'accentuato goticismo dell'artista, che qui dipinse il Giudizio universale. Nel presbiterio, invece, egli realizzò due cicli pittorici dedicati alle Storie di s. Agostino e alle Storie di s. Filippo. Raccordato da uno zoccolo in monocromo e finto marmo che ospita anche le raffigurazioni dei Pianeti affiancate da personaggi che non incarnano, come vorrebbe F. Flores d'Arcais (1996, p. 132), le Sette età dell'uomo, ma i figli dei pianeti, nell'aspetto femminile e maschile secondo un pensiero assai diffuso nel tardo Medioevo e nel primo Rinascimento (F. Saxl, La fede negli astri, Torino 1985, pp. 274-279). Il ciclo si avvantaggia di un impianto scenografico di grande respiro, caratterizzato dalla presenza di architetture monumentali che rendono tali anche i personaggi che le popolano. Il Martirio di s. Filippo, invece, sposta la soluzione compositiva sull'imponenza della grande croce centrale che accoglie il santo completamente vestito dalla tunica e pronto a essere lapidato. Le rocce laterali ne amplificano la monumentalità, che contrasta con le figure degli sgherri che raccolgono i sassi ai piedi della croce.
Non troppo distante da questo torno di tempo si colloca il trittico con la Crocifissione e quattro santi (collezione privata: Flores d'Arcais, 1965, fig. 21), che, nella elegante cornice originale, rivela già un mutamento di gusto proiettato verso il gotico e quindi lascia propendere per una datazione al terzo quarto del XIV secolo (ibid., p. 59). Le particolari soluzioni adottate per la resa del panneggio, oltre all'uso di una nuova calligrafia delle scritte (ben diversa dall'onciale adoperata in precedenza), confermano questa vicinanza al gotico che ritorna pure in altre opere della seconda metà del secolo, a cominciare dalla Madonna in trono con Bambino conservata nel Courtauld Institute of art di Londra e dalla tavola con il medesimo soggetto, arricchito però dalla presenza del committente in preghiera, che si trova negli Staatliche Museen di Berlino (ibid., p. 56).
Per entrambe le tempere, impreziosite dalla presenza dei troni cosmateschi su cui siede la Vergine, si avanza una datazione intorno al sesto decennio del XIV secolo e, in ogni modo, precedente il secondo viaggio di G. a Venezia. A questo medesimo periodo appartiene la Madonna con il Bambino del Metropolitan Museum di New York, che sposa, sul fondo oro, un tratto calligrafico di grande eleganza che evidenzia la vocazione cortese dell'ultima fase dell'opera di Guariento. Bisogna poi ricordare lo smembrato dittico con la Madonna e quattro santi, in deposito presso la S.H. Kress Foundation di New York, ma di proprietà del North Carolina Museum of art di Raleigh, e la Crocifissione della Pinacoteca nazionale di Ferrara. Entrambe le tavolette sono caratterizzate da colori bruni e da vivaci effetti luministici che sono una novità nell'opera di G. (Flores d'Arcais, 1996, p. 132).
L'ultima impresa di rilievo giunta fino a noi è il grande affresco per la sala del Maggior Consiglio nel palazzo ducale di Venezia voluta dal doge Marco Corner (1365-68) che commissionò l'opera. Il ciclo pittorico, andato quasi completamente distrutto nell'incendio del 1577, rappresenta il Paradiso; ma i resti che se ne sono conservati permettono una lettura pressoché completa dell'insieme, anche grazie alla tavola attribuita a Iacobello Del Fiore che restituisce la scena centrale dell'Incoronazione della Vergine (Venezia, Gallerie dell'Accademia).
L'impianto è piuttosto complesso e riprende, nella disposizione di Maria e del Cristo sul trono, il già ricordato affresco per la tomba di Giacomo da Carrara con ulteriori accenti goticistici. Qui, però, la base del trono è occupata da figure di angeli musicanti e salmodianti seduti a loro volta su piccoli scranni che del trono divino costituiscono appunto il suppedaneo. L'affresco, tuttavia, si estende soprattutto lungo l'asse orizzontale dal momento che intorno al trono si affastellano i cori angelici delle gerarchie celesti per i quali G. dovette sfruttare l'esperienza della grande decorazione del soffitto della reggia carrarese a Padova. Purtroppo, lo stato frammentario dell'opera impedisce un'analisi iconografica soddisfacente. L'affresco è stato successivamente staccato e collocato nella sala dell'Armamento del medesimo palazzo ducale.
Nel 1367, come attesta un documento del 31 dicembre, G. era a Padova, dove è possibile che fosse ancora attivo nella reggia carrarese (Flores d'Arcais, 1996, p. 132).
Non si conosce l'esatta data della sua morte, sicuramente avvenuta prima del 22 sett. 1370 (Id., 1965, p. 52). A quest'epoca è infatti documentato un contenzioso fra gli eredi di G. e il governo veneziano, relativo ai sovvenzionamenti ricevuti dal pittore per il pagamento di due garzoni quando stava affrescando il Paradiso in palazzo ducale (B. Cecchetti, La vita dei Veneziani nel '300, in Archivio veneto, XXVIII [1884], pp. 13 s.).
Fonti e Bibl.: M.A. Michiel, Notizia di opere del disegno, a cura di G. Morelli - G. Frizzoni, Bologna 1884, p. 80; A. Schiavon, G., pittore padovano del secolo XIV, in Archivio veneto, XXXV (1888), pp. 303-319; G. Biscaro, Le tombe di Ubertino e Jacopo da Carrara, in L'Arte, II (1899), pp. 88-97; A. Moschetti, La prima revisione delle pitture in Padova e nel territorio, in Boll. del Museo civico di Padova, IV (1901), pp. 30-45, 141-143; Id., Il "Paradiso" del G. nel palazzo ducale, ibid., VII (1904), pp. 394-397; H. Semper, Ein Freskobild angeblich des G. im Ferdinandeum zu Innsbruck, ibid., X (1907), pp. 89-104; L. Coletti, Studi di pittura del Trecento a Padova, I, G. e Semitecolo, in Rivista d'arte, XII (1930), pp. 323-380; L. Grossato, Il Museo civico di Padova. Dipinti e sculture dal XIV al XIX secolo, Venezia 1957, pp. 77-89; R. Longhi, G.: un'opera difficile, in Paragone, VIII (1957), 91, pp. 37-40; F. Flores d'Arcais, Tipologia dell'architettura padovana medievale. Elementi decorativi e descrittivi, in Padova e la sua provincia, VIII (1962), 9, pp. 9-14; Id., G., Venezia 1965; C. Gasparotto, La reggia dei da Carrara, il palazzo di Ubertino e le nuove stanze dell'Accademia patavina, in Atti e memorie dell'Accademia patavina di scienze lettere ed arti, LXXIX (1966-67), pp. 71-116; Da Giotto al Mantegna (catal., Padova), a cura di E. Grossato, Milano 1974, pp. 60, 65, 76; Padova. Case e palazzi, a cura di L. Puppi - F. Zuliani, Vicenza 1977, pp. 22 s.; Il Museo civico di Bassano del Grappa, a cura di L. Magagnato - B. Passamani, Vicenza 1978, ad ind.; U. Franzoni, Storia e leggenda del palazzo ducale di Venezia, Verona 1982, p. 221; Da Giotto al tardogotico (catal., Padova), Roma 1989; I. Hueck, Der Besuch Karls IV in Padua und die Bilder G.s aus der Kapelle der Carraresen, in Umeni, n.s., XLI (1993), pp. 63-75; Id., Proposte per l'assetto originario delle tavole del G. nell'ex cappella carrarese di Padova, in Attorno a Giusto de' Menabuoi. Atti… Padova 1990, Treviso 1994, pp. 83-96; E. Concina, Le chiese di Venezia. L'arte e la storia, Udine 1995, pp. 168-189; F. Flores d'Arcais, in Enc. dell'arte medievale, VII, Roma 1996, pp. 130-135; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XV, pp. 172 s.